L’elettrotecnica fino alla Grande guerra
Gli inizi
La comunità scientifica italiana nel campo delle scienze fisiche attorno alla metà dell’Ottocento era marginale, più vicina a quella di Paesi come la Spagna che non a quelle di Francia e Inghilterra. Tuttavia, pur entro limiti angusti, gli studi di elettricità e di magnetismo godevano da noi di una particolare popolarità. La celeberrima disputa d’inizio secolo tra Alessandro Volta (1745-1827) e Luigi Galvani (1737-1798) sull’elettricità animale aveva attirato l’attenzione internazionale sull’Italia e questo aveva orientato la maggior parte dei non numerosi cultori di scienze fisiche della penisola verso i fenomeni elettrici e magnetici. La produzione scientifica non disprezzabile raggiunse anche livelli notevoli, come nel caso di Carlo Matteucci (1811-1868), e si legò a una rete presente in tutto il Paese di amatori, dilettanti, artigiani, inventori che fu all’origine di svariate proposte di applicazioni elettriche e magnetiche.
Solo tenendo conto di questo operare diffuso anche in ambienti lontani dal mondo accademico si può spiegare la presenza non trascurabile dell’Italia in alcune importanti manifestazioni internazionali. Per es., alla grande Esposizione di elettricità di Parigi del 1881, quando ancora l’industria elettrica in Italia doveva nascere, nella classifica per numero di espositori l’Italia risultava sorprendentemente quinta a quota 81, dietro a Francia, Belgio, Germania, Inghilterra, ma davanti agli Stati Uniti e a Paesi che si stavano avviando a divenire grandi potenze in campo elettrotecnico, come l’Austria, la Svizzera, l’Ungheria, anche se, certo, questo gruppo non piccolo di elettricisti italici non brillava per la qualità delle proposte.
Il risultato senza dubbio più rilevante nel campo delle applicazioni elettriche che scaturì dall’attività degli sperimentatori italiani prima degli anni Ottanta del 19° sec. fu il cosiddetto anello di Pacinotti. Antonio Pacinotti (1841-1912) era figlio di Luigi Pacinotti (1807-1891), uno dei fisici che avevano fondato nell’Università di Pisa la prima scuola italiana di fisica. Il giovane Pacinotti, nel corso di tentativi di costruzione di un galvanometro, concepì e realizzò attorno al 1860 un anello di materiale magnetico avvolto da un circuito induttore chiuso. Questo dispositivo rappresentava la soluzione, scientifica e tecnica, che permetteva la costruzione di un apparecchio capace di fornire corrente continua senza bisogno di ricorrere a un organo separato di commutazione, organo che rappresentava, per i suoi svariati difetti, il maggior ostacolo all’applicazione pratica delle macchine generatrici di corrente.
La scoperta era decisiva per le sorti delle applicazioni elettriche e Pacinotti ne fu ben conscio, tentando, senza riuscirci, di avviare una produzione industriale. Nel 1869 un tecnico belga che operava a Parigi, Zénobe Théophile Gramme (1826-1901), brevettò una macchina generatrice in cui l’anello di Pacinotti era il componente fondamentale. Gramme divenne rapidamente uno dei principali costruttori di macchine elettriche del mondo. Seguì una lunga disputa circa i meriti di Gramme e di Pacinotti: quest’ultimo alla fine ricevette il riconoscimento dovutogli da parte della comunità scientifica internazionale, ma i vantaggi economici furono tutti del tecnico belga.
La vicenda di Pacinotti dimostra come in Italia, attorno al 1870, a un non trascurabile interesse per l’elettricità e per le sue applicazioni pratiche presente in ambienti scientifici e amatoriali non corrispondesse un adeguato tessuto produttivo in grado di offrire sbocchi concreti a idee e progetti. Tuttavia, nel corso di questo decennio vi furono alcune modeste iniziative legate alla diffusione del servizio telegrafico di Stato e all’illuminazione. Nel 1876 lo stabilimento milanese Tecnomasio, diretto da Bartolomeo Cabella (1847-1907), realizzò le prime esperienze di illuminazione elettrica pubblica in piazza del Duomo. L’anno successivo cominciò le pubblicazioni la prima rivista italiana dedicata alle applicazioni dell’elettricità, «L’elettricista», edita a Firenze e diretta da Lamberto Cappanera. A essa diedero il loro contributo fisici importanti come Giovanni Cantoni, Angelo Secchi, Augusto Righi.
La rivista di Cappanera era evidentemente un’impresa prematura e l’ambiente cui essa si rivolgeva era troppo ristretto se nel giro di due anni la pubblicazione dovette modificare orientamento e denominazione: nel 1879 cambiò infatti il nome in «La natura» e allargò il proprio programma a tutte le scienze fisiche e naturali.
La svolta dell’Esposizione di Parigi
L’Esposizione internazionale di elettricità che si tenne a Parigi nel 1881 rappresentò un evento importantissimo per le vicende dell’elettrotecnica in Italia, così come, del resto, per quelle di tutta l’Europa. Fu in questa occasione che venne lanciato il sistema di illuminazione di Thomas A. Edison (1847-1931), che colpì particolarmente Giuseppe Colombo (1836-1921), tecnico-imprenditore lombardo, il quale si fece promotore delle iniziative che diedero origine, di lì a poco, alla nascita della Edison di Milano, cioè alla nascita di una vera e propria industria elettrica in Italia.
La figura di Edison non godeva di buona fama e dalle pagine de «L’elettricista» prima della grande esposizione erano stati sferrati duri attacchi. La rivista aveva poi dedicato un articolo alla mostra parigina senza neppure menzionare Edison. Altri osservatori parlarono di Edison, ma non del suo sistema di illuminazione, bensì del suo fonografo.
Lo stesso Galileo Ferraris (1847-1897), destinato di lì a poco a meritarsi la fama di grande elettrotecnico, fu molto cauto a proposito del sistema Edison nell’ampia relazione che elaborò per conto del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Ferraris, dopo essersi laureato in ingegneria civile a Torino, era diventato dottore aggregato alla facoltà di Scienze fisiche, matematiche e naturali, sempre a Torino, occupandosi di strumenti diottrici. Solamente nel 1878 iniziò lo studio delle applicazioni elettriche. L’anno successivo tenne un ciclo di conferenze sull’illuminazione elettrica, esprimendo un grande scetticismo, soprattutto a proposito delle sorti future dell’illuminazione domestica. Quanto vide a Parigi gli fece mutare in parte le proprie opinioni. Espresse, infatti, grande ammirazione per la macchina generatrice di Edison, mentre non lo convinse il sistema di distribuzione dell’energia elettrica dell’americano, affidato al controllo umano e perciò soggetto a errori e disattenzioni.
Dunque, allorquando Colombo e i suoi compagni di cordata lombardi presero la decisione di lanciarsi nel campo della produzione di energia elettrica con il sistema Edison, i pareri di quei pochi italiani che si occupavano di elettrotecnica non furono certamente entusiasti, né sulle prospettive di diffusione della luce elettrica né, tantomeno, sul sistema Edison. Anche per questo motivo la scelta di Colombo e dei suoi soci appare coraggiosa e lungimirante.
La nascita dell’industria elettrica e Galileo Ferraris
L’entrata in funzione della storica centrale Edison di via Santa Radegonda a Milano nel 1883 segnò l’avvio di un periodo caratterizzato da un proliferare diffuso di iniziative nel campo della produzione dell’energia elettrica, che riflettevano lo stato di una tecnologia in vorticoso mutamento. La tecnica italiana partecipò in misura rilevante a questo processo di innovazione soprattutto grazie all’opera di Ferraris. Il suo primo importante contributo riguarda il trasformatore, la nuova macchina che Lucien Gaulard e John Gibbs presentarono all’Esposizione internazionale di elettricità di Torino del 1884. La mostra convinse Ferraris delle grandi possibilità di sviluppo industriale delle applicazioni elettriche. Fu colpito, in particolare, dal trasformatore, per il funzionamento del quale non esisteva alcuna teoria. Messosi a studiare la questione, alla fine del 1884 Ferraris presentò una spiegazione teorica pressoché definitiva dei principi del suo funzionamento. Ai fini del calcolo del rendimento della macchina, egli elaborò l’importantissima espressione moderna della potenza elettrica in corrente alternata.
L’anno successivo, effettuò la sua scoperta di maggior rilievo, ovverosia il motore a campo rotante. Lo studioso italiano realizzò un prototipo, ma non prese alcun brevetto e solo nel 1888 si decise a pubblicare una memoria in merito. Il motore di Ferraris rappresentava un enorme passo avanti nel campo dell’elettrotecnica perché forniva una soluzione per molti versi ottimale al problema della trasformazione dell’energia elettrica alternata in energia meccanica e, nel giro di pochi anni, si rivelò decisivo non solo per le sorti della disputa tra l’uso della corrente alternata o continua, ma anche per l’estensione dell’impiego dell’elettricità come forza motrice in una misura imprevedibile in precedenza.
Ferraris non sfruttò in alcun modo l’importanza economica della propria invenzione, e si ripeté così, anche in questo caso, quanto era già successo a Pacinotti. Quest’ultimo, però, era ben conscio del valore pratico della sua scoperta e si impegnò per sfruttarla, senza riuscirci, mentre Ferraris si astenne da qualsiasi iniziativa di tipo industriale, non solo per una sincera visione della scienza quale impresa nobilmente disinteressata alla ricchezza, ma anche per la convinzione che il suo motore avesse un interesse limitato alla strumentazione di laboratorio e non fosse suscettibile di importanti impieghi industriali.
Oltre a quelli di Ferraris, altri contributi italiani si possono segnalare nel tumultuoso processo innovativo degli anni Ottanta, sopra tutti i brevetti sulla dinamo ottenuti da Cabella in collaborazione con Leopoldo Emanueli. Questi contributi non possono comunque nascondere una situazione complessiva dell’elettrotecnica italiana degli anni Ottanta che era nel suo insieme fortemente arretrata rispetto all’estero. È vero che si ebbero da noi molte realizzazioni pionieristiche, ma queste furono eseguite, per la parte elettrica, sotto la direzione di tecnici stranieri, con l’importazione, nella maggior parte dei casi, di tutto il materiale elettrico occorrente. Così, la centrale milanese fu tra le prime d’Europa, ma essa venne realizzata con l’acquisizione di tutto il materiale dalla Edison americana e il montaggio avvenne sotto la direzione di un tecnico statunitense. A Tivoli, nel 1886, si ebbe il primo impianto al mondo utilizzante il sistema di distribuzione Gaulard con trasformatori in serie, ma tutto fu realizzato a opera dello stesso Gaulard. Nel 1889 entrò in funzione il pionieristico impianto del Gorzene in corrente continua con sistema Thury, ma fu proprio René Thury a reggere le fila dell’impresa.
Certamente la realizzazione di tali impianti d’avanguardia rappresentò un’importante esperienza formativa per molti nostri tecnici che vi parteciparono in posizione subalterna. Questo lavoro di preparazione sul campo di quei tecnici indispensabili allo sviluppo indipendente di un’industria elettrotecnica nazionale fu affiancato da alcune iniziative istituzionali, i cui tempi e le cui forme confermano però l’arretratezza complessiva italiana.
Mentre in altri Paesi negli anni Ottanta si inaugurarono lauree in ingegneria elettrotecnica, in Italia si assisteva solamente a iniziative molto limitate su basi volontaristiche con protagonisti docenti isolati che cominciarono a inserire nei propri corsi elementi di elettrotecnica. Nel 1887 vi fu la prima iniziativa destinata a sfociare in una struttura organizzativa stabile. L’industriale farmaceutico Carlo Erba (1811-1888) fece una donazione di 400.000 lire al Politecnico di Milano per la fondazione di una «scuola speciale». L’Istituzione elettrotecnica Carlo Erba (IECE) cominciò la sua attività nell’anno scolastico 1887-88, ammettendo dodici allievi ingegneri dell’ultimo anno a seguire due corsi, uno sulla dinamo, tenuto da Rinaldo Ferrini, di due ore settimanali, e l’altro di misure elettriche, di quattro ore, affidato a Luigi Zunini, già assistente presso il prestigioso Istituto Montefiore di Liegi. L’IECE non svolgeva assolutamente attività di ricerca accanto a quella didattica e per le proprie esigenze finanziarie poteva far affidamento soltanto sulla donazione del proprio mecenate.
Nel 1888 venne istituzionalizzato il corso di elettrotecnica che Ferraris teneva presso il Museo industriale di Torino, così che Torino venne ad affiancare Milano quale centro di formazione per gli elettrotecnici, con un numero di allievi che andò rapidamente crescendo, mentre quelli ammessi all’IECE rimasero pochissimi. In questi anni si venne costituendo, per ampliamenti successivi, un laboratorio elettrico della marina militare a La Spezia, diretto da Luigi Pasqualini. Questi era un fisico che, laureatosi a Padova, nel 1884 divenne consulente della marina, impiantando il laboratorio di La Spezia. Nel 1892 Pasqualini ideò un dispositivo per le prove sulle macchine elettriche, il ‘freno Pasqualini’, destinato ad avere grandissima diffusione. Nel suo laboratorio si formarono molti elettrotecnici di valore. Da Milano, Torino e La Spezia uscirono pressoché tutti gli elettrotecnici che costituirono il personale tecnico-amministrativo dell’industria elettrotecnica italiana. In genere, la loro formazione era completata con la frequentazione di scuole straniere, in particolar modo dell’Istituto Montefiore.
La pubblicistica degli anni Ottanta, rispetto al decennio precedente, offre l’immagine di una certa dinamicità, ma con limiti fortissimi. Vi furono opere di larghissima divulgazione, pubblicate anche a dispense, che volevano soddisfare la curiosità del grande pubblico attorno alle nuove ‘meraviglie dell’elettricità’ e vi furono anche i primi manuali che avevano intenti di formazione scientifico-tecnica. Questi manuali, tuttavia, non si discostavano molto dai libri con intenti dichiaratamente divulgativi. Il fatto è che i loro autori non erano tecnici specializzati e, più in generale, in Italia, con l’eccezione di Ferraris, non esistevano studiosi specializzati in elettrotecnica. Coloro che studiavano problemi elettrotecnici erano per lo più fisici che si stavano riciclando nella nuova disciplina. Caratteristici sono i libri di Rinaldo Ferrini (1831-1908), il più prolifico tra gli autori sull’argomento. L’assenza di attenzioni per gli aspetti più teorici, con la conseguente riduzione del discorso a un livello concettualmente povero di pratica d’officina, era giustificata con dichiarazioni (poco fondate) circa lo stato arretrato dell’elettrotecnica in tutto il mondo, che rendeva inutile ogni teoria.
Continuava a mancare un periodico specializzato, anche se nel 1882 era stato fondato a Milano il settimanale illustrato «L’elettricista», bollettino destinato a una larghissima divulgazione. Molto attivi su questo periodico erano docenti di fisica nelle scuole secondarie milanesi, sopra tutti Alessandro Volta, nipote del grande omonimo, e Francesco Grassi. Questo gruppo nel 1888 diede vita a un’associazione, la Società italiana di elettricità, destinata a favorire gli studi e le applicazioni elettriche. Dopo cinque anni di attività grama, tra l’indifferenza generale l’associazione si sciolse.
Gli anni Novanta: le linee di trasmissione
Nell’ultimo decennio del secolo prese avvio una nuova fase della vita dell’industria elettrica caratterizzata dalle nuove possibilità aperte dal trasporto a distanza dell’energia elettrica. Negli anni Ottanta le opinioni dei tecnici italiani sulle potenzialità del trasporto dell’energia erano pessimiste. In brevissimo tempo, però, l’evoluzione vertiginosa della tecnica dischiuse prospettive favorevolissime, evidenziate clamorosamente all’Esposizione di Francoforte del 1891, che fu anche un personale trionfo di Ferraris, riconosciuto tra i maggiori elettrotecnici del mondo.
Si inaugurò così l’era del trasporto a distanza, quindi quella dello sfruttamento dell’energia idraulica, l’era delle dighe e delle linee elettriche che attraversavano pianure e montagne, l’era dell’impiego sempre crescente dell’energia elettrica come forza motrice, oltre che come fonte di luce. Di questa nuova congiuntura seppe valersi l’industria nazionale: superato rapidamente il periodo di difficoltà finanziarie che l’aveva afflitta, anche in connessione con i clamorosi scandali bancari di fine secolo, entrò in una fase di grande slancio che, nel giro di non molti anni, la portò a divenire uno dei settori dominanti dell’economia nazionale.
Gli impianti costruiti negli anni Novanta rappresentarono un salto di qualità per la tecnica italiana: se in precedenza vi era stata una sostanziale subordinazione all’ingegneristica straniera, lo scorcio del secolo vide i nostri tecnici acquisire una grande autonomia nello studio e nella realizzazione degli impianti. Continuò a risultare molto forte la dipendenza dall’estero nel campo delle macchine elettriche, ma si affermò un’originale scuola italiana nel settore delle linee di trasmissione. I principali tra i primi impianti idroelettrici che allora furono realizzati sono rimasti nella leggenda degli elettrotecnici italiani, quello Paderno-Milano sopra tutti.
A prima vista può apparire sorprendente, alla luce del quadro non certo roseo descritto in precedenza, scoprire i tecnici italiani capaci di realizzazioni tanto evolute, ma una breve considerazione delle modalità seguite nell’ideazione degli impianti chiarisce come sia stato possibile raggiungere risultati tanto elevati. Ad esempio (ma è l’esempio più importante), ciò che caratterizzò l’impianto Paderno-Milano fu la tensione di partenza della linea, fissata a 13.500 volt, elevatissima per l’epoca, visto che impianti d’avanguardia come quello di Heidelberg non raggiungevano i 6000 volt. Simile valore poneva una serie di problemi costruttivi e impiantistici completamente nuovi e dunque la sua scelta doveva essere frutto di attento studio. La documentazione in merito non è univoca, ma pare che la storia sia andata nel modo seguente.
Il progetto iniziale fu elaborato da Charles Brown, il grande costruttore svizzero che poi realizzò i generatori di Paderno; Ferraris esaminò il progetto, diede alcuni suggerimenti e poi lo approvò nel dicembre del 1894. Nel 1895 venne assunto dalla Edison Guido Semenza (1868-1929), un giovane elettrotecnico laureatosi l’anno prima all’Istituto Montefiore, cui fu affidato il compito di studiare i dettagli del progetto.
I particolari costruttivi della linea non erano certo di poco conto, in quanto la sua lunghezza (32.785 m) e l’elevata tensione aprivano questioni interamente nuove per la stabilità meccanica, l’isolamento e la protezione dalle scariche atmosferiche, vero flagello per le prime linee elettriche. La stabilità meccanica impose di usare, per la prima volta in Europa, solo pali di ferro. I problemi di isolamento e di protezione, che venivano ingigantiti dall’uso del ferro, furono affrontati da Semenza in un modo che non richiese grandi studi. Erano in uso, all’inizio degli anni Novanta, due tipi di isolatori: quello americano, a campana allargata con nucleo centrale di vetro o di porcellana dura, e quello a ombrello multiplo, completamente di porcellana. Semenza disegnò una variante del tipo a ombrello, ma nessuno studio lo spinse a preferire questo tipo all’altro. Poiché la linea era prevista doppia, per garantire la continuità del servizio si decise di adottare il tipo americano su una linea e il tipo ‘Paderno’ sull’altra e di stare poi a vedere. Lo stesso metodo fortemente pragmatico fu impiegato per la soluzione del problema della protezione della linea dai fulmini. Incerto tra i due sistemi maggiormente in uso, quello fondato sullo scaricatore Wurtz e quello che impiegava lo scaricatore Wirt, Semenza decise di provarli entrambi, l’uno su una linea, l’altro sull’altra, nella fiducia che il tempo avrebbe portato consiglio. Nella costruzione dell’impianto di Paderno (ma le stesse considerazioni potrebbero farsi per altri grandi impianti, quale quello Tivoli-Roma) l’elettrotecnica italiana appare in una fase di crescita, senza però aver raggiunto elevati livelli: essa cominciava ad acquisire capacità autonome, ma erano pur sempre capacità che non potevano fare a meno della tutela della tecnica estera.
La storia dei primi grandi impianti idroelettrici mostra che i miglioramenti dell’elettrotecnica italiana di questi anni non costituirono un’incomprensibile frattura con il passato prossimo, che essi non implicarono salti bruschi nelle competenze teoriche, anzi avvennero sotto la tutela della tecnica straniera, in forza della pratica, dell’intuizione e del buon senso più che della matematica o del laboratorio. Comunque, i miglioramenti vi furono. Lo sviluppo industriale fiorente richiedeva un sempre maggior numero di tecnici, stimolava la crescita delle competenze e favoriva il diffondersi e l’approfondirsi delle conoscenze.
La stampa periodica ebbe finalmente la sua prima rivista di buon livello con la fondazione, nel 1892, del mensile «L’elettricista», pubblicato a Roma sotto la direzione di un comitato formato da Fedele Cardarelli, Italo Brunelli e Angelo Banti. Sulle pagine di questo periodico fecero la loro comparsa i primi studi di quegli elettrotecnici che avrebbero rappresentato la ricerca scientifica italiana dopo Ferraris, la cui morte avvenne nel 1897. Scrissero qui Guido Grassi, che insegnava a Napoli, Moisè Ascoli, professore di fisica tecnologica alla Scuola di applicazione di Roma, con i suoi allievi destinati a un importante avvenire, Ferdinando Lori e Giovanni Giorgi, Luigi Lombardi, che veniva dal Politecnico di Zurigo, l’assistente prediletto di Ferraris, Riccardo Arnò, Emanuele Jona, direttore del laboratorio della Pirelli, Giuseppe Sartori, giovane ingegnere milanese che il consiglio dell’illustre Colombo aveva mandato a Trieste a servire il governo austriaco, ma anche a studiare da vicino la grande elettrotecnica ungherese.
Ciò che caratterizza questa produzione scientifica è la sua scarsa dinamicità. Ogni studioso sembrava concentrato su un singolo problema, manteneva una visione parziale dell’elettrotecnica, senza peraltro dare, nell’area ristretta studiata, lavori destinati a lasciare una grande impronta.
Nel 1891 iniziò una discreta fioritura di libri con la comparsa di due trattati, dedicati a operai e tecnici, che avranno una vita editoriale fortunatissima: Il montatore elettricista di Edoardo Barni e Impianti di illuminazione elettrica di Emilio Piazzoli. Meno successo ebbe invece un coevo Manuale dell’elettricista, destinato agli stessi fruitori, scritto da due autori conosciutissimi come Ferrini e Colombo. A questi manuali, che perseguivano intenti di formazione professionale di tecnici impegnati nel montaggio e nella manutenzione di impianti di distribuzione della luce, ne seguirono altri che li imitavano, ma ricca fu anche la pubblicistica che guardava a un pubblico desideroso di essere informato, magari con opere iconograficamente preziose vendute a dispense, dei più recenti progressi dell’elettricità, oppure dei fondamenti di questa nuova e fascinosa branca del sapere e della tecnologia, l’elettrotecnica.
Attorno alla metà degli anni Novanta cominciarono però a comparire anche i primi trattati destinati agli studi di livello universitario o comunque rivolti a tecnici con un non elementare livello di preparazione scientifica, segnatamente due manuali generali: quello di Giulio Tolomei e Gaetano Vassalli e quello (più teorico) di Ascoli. Decisamente superiore a questi due lavori fu comunque l’opera Trasmissione elettrica del lavoro meccanico (1894) di Sartori: pur dedicata al tema della trasmissione dell’energia, essa è in realtà un trattato quasi completo di elettrotecnica che, sia pure in forma sintetica e pur mantenendo sempre un livello di trattazione teorica elevato, con ampio e sistematico uso della matematica, affronta il tema delle macchine generatrici, quello delle macchine utilizzatrici e dei sistemi di distribuzione. È da notare che Sartori manifesta una propensione a negare l’utilità dell’impiego dei trasformatori nelle centrali generatrici del tutto in linea con quella che presiedeva al progetto dell’impianto di Paderno e che si incarnerà nel grande impianto del Kerka che Sartori realizzerà di lì a poco tempo.
Dal punto di vista dell’organizzazione della ricerca, l’evento senza dubbio più significativo degli anni Novanta fu la fondazione dell’Associazione elettrotecnica italiana (AEI). Con la nascita di quest’associazione si venne a formare una struttura che consentiva uno scambio costante di informazioni e opinioni, un dibattito teorico tendenzialmente collegato ai più vitali interessi industriali, una sede di pubblicazione per studi di ampiezza e profondità tali da non trovare spazio su «L’elettricista» o su altre riviste di minor conto che erano sorte o andavano sorgendo a cavallo tra i due secoli, come «L’energia elettrica» o «L’elettricità», un legame, infine, tra università e mondo del lavoro.
La decisione di fondare un’associazione tra tutti coloro che, in varie forme, si occupavano di elettrotecnica in Italia fu presa il 7 agosto 1896 in una riunione di partecipanti al Congresso internazionale di elettricità di Ginevra. Da questa riunione sortì una commissione, formata da esponenti dell’università, dell’industria e degli studi professionali, incaricata di studiare uno statuto. Nella commissione si manifestarono due tendenze. Una, capeggiata da Raffaele Pinna, era a favore di un tipo di associazione unica con sede stabile; l’altra, sostenuta da Alessandro Panzarasa, era per un’associazione formata da più sezioni autonome. Fu scelta la proposta di Panzarasa, che prevedeva un consiglio generale eletto dalle sezioni e guidato da un presidente generale rinnovabile ogni tre anni, con una sede itinerante di triennio in triennio al seguito del presidente. Lo statuto fu votato a Milano il 27 dicembre 1896 in un’assemblea generale in cui intervennero oltre centoventi persone. Il numero elevato dei partecipanti dimostra quanto fossero cresciute le forze tecniche, culturali e industriali connesse con il campo delle applicazioni elettriche e quanto fosse sentita l’esigenza di un organismo che potesse armonizzarle e coordinarle.
Alla direzione della nuova associazione venne eletto un gruppo che rappresentava quasi pariteticamente mondo del lavoro e università. Ferraris era presidente generale, ma la sua morte, avvenuta il 7 febbraio 1897, costrinse a rivedere l’organigramma e presidente divenne Colombo. La sede dell’AEI venne stabilita dunque a Milano.
Le prime sezioni costituite furono quelle di Torino, Milano, Genova, Roma, Napoli e Palermo. La loro composizione rifletteva abbastanza fedelmente lo stato dell’industria elettrica. La sezione milanese era di gran lunga la più numerosa, con 153 soci individuali e 25 soci collettivi, cifre che rappresentavano più di un terzo del totale dei soci, che era di 466. La dirigenza delle sezioni era in prevalenza composta da esponenti dell’industria ove questa era sviluppata, come a Milano (qui era presidente Giovanni Battista Pirelli), mentre prevalevano i docenti universitari ove l’industria era asfittica, come a Napoli o a Roma, che ebbero come primo presidente Grassi e Ascoli, o i professori delle scuole secondarie ove mancavano sia le industrie sia la ricerca.
Nei suoi primissimi anni di vita l’attività dell’AEI fu soprattutto dedicata alla promozione degli studi, con le discussioni tecnico-scientifiche che si tenevano nelle varie sezioni e nella riunione annuale, e con la pubblicazione degli Atti della Associazione elettrotecnica italiana, ma sin dall’inizio ampio spazio ebbero le problematiche legislative ed economiche e, soprattutto, le riunioni annuali divennero occasione di dibattiti di schietta politica economica. L’AEI si venne così rapidamente configurando quale organo di incentivazione degli studi elettrotecnici e quale strumento di pressione politica degli industriali elettrici. Si trattava di un’arma indispensabile per affrontare le sfide del nuovo secolo.
Nordisti e sudisti
Dopo la morte di Ferraris, l’Italia non ebbe più uno studioso a lui paragonabile, tuttavia il complesso delle ricerche compiute in campo elettrotecnico, pur senza raggiungere vette eccelse, crebbe sensibilmente in quantità e in qualità.
Gli stimoli che provenivano da un’industria che andava espandendosi con sempre maggiore rapidità e che chiedeva forza lavoro a tutti i livelli di preparazione, ponendo al contempo problemi sempre nuovi, e le occasioni di continuo confronto e di informazione che consentiva l’AEI furono alla base di questa crescita, che invece non si può dire sia stata influenzata da rilevanti progressi nel campo dell’organizzazione della ricerca.
L’evento più significativo nella storia delle strutture universitarie in campo elettrotecnico fu rappresentato dal passaggio a una nuova sede, più ampia della precedente, dell’Istituto Carlo Erba, avvenuto nel 1904. Questo fatto non fu però dovuto a un interesse dell’industria per l’incremento della ricerca universitaria, né tantomeno a un analogo interesse del ministero della Pubblica Istruzione; esso fu piuttosto il risultato di un’iniziativa rivolta alla formazione di operai qualificati che, su stimolo di Cesare Saldini, vide la Società Umanitaria di Milano istituire la Scuola-laboratorio di elettrotecnica per operai. In alcuni locali dell’edificio di questa nuova scuola (eretto su un’area che faceva parte del parco della Villa Reale concessa appositamente dal re) trovò ospitalità l’Istituto Carlo Erba, il quale ebbe qui nuovi spazi e, con l’aiuto di un finanziamento di 5000 lire proveniente ancora una volta dalla famiglia Erba, attrezzò un laboratorio un poco più fornito di quello vecchio, nel quale si cominciò ad affiancare alla didattica e all’attività di controllo una modesta attività di ricerca.
Nelle istituzioni universitarie si poteva fare solo ricerca teorica o ricerca sperimentale, legata alla teoria, che implicasse la disponibilità unicamente di strumenti di laboratorio tradizionali, di libri e riviste, ma la ricerca sperimentale con risvolti tecnologici doveva essere compiuta nelle industrie o nei cantieri. Laddove questi non esistevano, o erano scarsi, la ricerca doveva rifugiarsi nella pura teoria. A Milano o a Torino, infatti, nelle sezioni dell’AEI si discuteva di problemi strettamente legati alla pratica, mentre a Roma, Napoli o Palermo venivano affrontate questioni teoriche anche assai elevate. Nel giro di pochi anni, con il progredire lungo tutta la penisola delle iniziative industriali, questa differenza tenderà ad affievolirsi, ma attorno al 1900 era ancora abbastanza chiara.
L’esempio più illustre di studio teorico svolto da un appartenente alla sezione romana, che un milanese ben difficilmente avrebbe avuto interesse ad affrontare, è rappresentato dall’opera di Giovanni Giorgi (1871-1950) sulle unità di misura. Il problema della scelta di opportune unità di misura elettriche fu molto dibattuto negli anni Novanta, in particolare al congresso tenutosi a Chicago nel 1893. La scelta delle unità di misura elettriche coinvolgeva, naturalmente, il problema del rapporto tra queste unità e quelle accettate come fondamentali dalla scienza nel suo complesso, problema che sollevava non poche difficoltà.
Nel 1901 Giorgi presentò alla sezione romana dell’AEI il suo celebre sistema di unità di misura nel quale, ripristinando come fondamentali quelle unità che costituivano la base del sistema metrico decimale, riconoscendo esplicitamente che i fenomeni elettrici non hanno carattere meccanico (ammissione, questa, che molti non erano certo disposti a fare) e che è quindi giustificato ammettere come fondamentale una quarta dimensione oltre a quelle meccaniche di lunghezza, tempo, massa, si giungeva a un sistema pratico e assoluto al contempo che eliminava molte difficoltà presenti nel sistema CGS (Centimetro, Grammo, Secondo) elettromagnetico. Giorgi ripeté la propria comunicazione l’anno successivo alla riunione della Società italiana di fisica, la quale nominò, congiuntamente con l’AEI, una commissione che propagandò all’estero la proposta di Giorgi, la quale fu accolta internazionalmente al grande Congresso di elettricità di St. Louis nel 1904.
Altro grande lavoro teorico presentato alla sezione romana fu la teoria del colpo d’ariete di Lorenzo Allievi (1856-1941), milanese laureatosi a Roma. Dal punto di vista idraulico, uno dei più spinosi problemi che ponevano le nuove, sempre più ardite centrali idroelettriche era rappresentato dagli effetti che sulle condotte forzate avevano le variazioni dell’efflusso dell’acqua causate dagli interventi di regolazione delle turbine. Questi effetti rischiavano di essere devastanti, soprattutto in conseguenza di variazioni brusche di regime. Le teorie idrauliche di inizio Novecento sapevano trattare il caso di regime stazionario, ma per il regime variabile esistevano solo metodi di calcolo approssimati e limitati a casi speciali. Allievi riuscì nel 1903 a dare un metodo di soluzione generale e rigoroso del problema. La sua memoria, la prima che egli pubblicava sull’argomento, si presenta miracolosamente già compiuta. La teoria sarà raffinata nei dettagli dieci anni dopo, ma rimarrà, nella sostanza, definitiva.
Sempre a Roma, Ascoli organizzò vari cicli di conferenze sui fondamenti dell’elettromagnetismo, tenute da alcuni tra i nostri maggiori fisici, come Quirino Majorana (1871-1957), e molto spazio trovarono i fisici anche nella sezione di Palermo, con Damiano Macaluso (1845-1932), Michele Cantone (1857-1932) e, soprattutto, il giovane Orso Mario Corbino (1876-1937), il fisico italiano che, all’inizio del nuovo secolo, più si interessò alle applicazioni dell’elettricità.
Se nel Centro-Sud d’Italia venivano affrontate molte questioni teoriche, a Milano e a Torino, e in tono minore a Genova, si respirava un’altra atmosfera, più ricca di elementi scaturiti dai bisogni della pratica industriale. Tra gli svariati problemi che poneva la sempre più rapida crescita dell’industria elettrica, quello di maggior rilevanza economica era il problema della tariffazione nel suo aspetto scientifico, cioè il problema della misura della potenza consumata dagli utenti. La questione non era semplice, poiché metteva in gioco svariati interrogativi circa quel che dovesse intendersi per potenza attiva, quanto incidesse sui costi di gestione la potenza non utilizzabile dall’utente, ma comunque presente in linea, cioè la potenza reattiva, quali gli accorgimenti da adottare per la sua limitazione, quale il modo di ripartire quei costi tra imprese produttrici di energia e utenti, quali gli apparecchi utili per la misurazione delle diverse potenze. L’attenzione per queste problematiche andrà continuamente crescendo nel tempo, ma già al termine degli anni Novanta Arnò, l’allievo di Ferraris, si occupò a fondo dell’argomento, concentrandosi in particolare sulla misura delle differenze di fase.
Svariatissimi erano comunque i temi connessi alla produzione industriale di cui cominciavano a occuparsi con rigore scientifico gli elettrotecnici ‘nordisti’, anche senza raggiungere, per il momento, risultati di grande rilievo, né dando origine a una pubblicistica molto vasta: calcolo delle linee, loro protezione e isolamento, marcia in parallelo di due alternatori, isolamento dei cavi, elettrificazione delle ferrovie furono i temi più studiati. Certamente la suddivisione Sud-Nord degli studiosi non va presa troppo rigidamente, ma essa è comunque ben visibile. Con il crescere delle iniziative in campo elettrico, che nel periodo giolittiano arrivarono a investire anche il Meridione, questa differenza sfumò progressivamente, ma certo non scomparve e allo scoppio della guerra era ancora evidente.
Anche i dati sui brevetti industriali in campo elettrotecnico confermano questa distinzione: i brevetti registrati in Italia tra il 1895 e il 1914 ebbero la loro massima concentrazione nelle aree metropolitane del Nord (Milano ebbe la quota massima del 33,4%, Torino ebbe il 10,3% e Genova il 7,9%), mentre a Roma andò il 21,2% del totale solo perché molte aziende, specialmente filiali di imprese estere, avevano la sede sociale nella capitale e dunque qui veniva rilasciato l’attestato, anche se l’effettiva dimora dell’impresa era altrove.
Un discorso a parte merita il settore delle macchine elettriche, che era industrialmente assai depresso tanto al Nord quanto al Sud, anche se quel poco che si faceva, lo si faceva vicino a Torino e a Milano. Sui nostri mercati netto era il predominio dell’industria straniera, quella tedesca in particolare. Nel 1898 esistevano in Italia 1864 generatori di fabbricazione italiana contro 176 generatori provenienti dall’estero, ma questi ultimi erogavano una potenza complessiva di 66.420 kW, contro i 20.150 spettanti ai generatori nazionali, il che significa che le macchine di fabbricazione straniera erano di gran lunga più potenti delle nostre.
Con l’inizio del nuovo secolo vi fu qualche progresso nel settore delle grandi macchine, per es. con l’inizio dell’attività in questo campo dell’Ansaldo, grazie all’opera direttiva di Pescetto, e furono realizzati i primi grandi impianti interamente italiani, come quelli del Brembo e del Ticino, ma la situazione rimase al fondo immutata, anzi semmai peggiorò leggermente: nel decennio 1898-1908 i generatori elettrici italiani attivati furono 2624, per una potenza complessiva di 130.805 kW, di contro a una potenza complessiva di 305.128 kW prodotta da 3329 macchine di provenienza estera. Aumentò molto il peso dell’industria tedesca, anche per il grande prestigio di cui godevano le norme sull’ordinazione e il collaudo delle macchine elettriche elaborate dal Verband Deutscher Elektrotechniker (VDE), le quali presentavano vari aspetti che favorivano i produttori tedeschi rispetto agli altri concorrenti. Queste norme operavano come criteri selettivi al momento dell’acquisto di una macchina ed erano assai più efficaci della detenzione di un brevetto. L’importanza sul piano economico di queste norme diverrà chiara solo durante la guerra e si avrà allora una decisa campagna per sostituire le norme del VDE con quelle elaborate dall’AEI.
La situazione non florida nel settore delle macchine elettriche ebbe chiari riflessi nel campo della ricerca. Morto Ferraris, il nostro maggiore studioso di macchine divenne Grassi, che aveva preso il posto di Ferraris a Torino e che nel 1900 divenne presidente dell’AEI. All’iniziativa di Grassi si deve l’istituzione, avvenuta nel 1900, della prima cattedra italiana di costruzioni elettromeccaniche, presso il Politecnico di Torino, affidata a Ettore Morelli, che aveva fatto una vasta esperienza negli Stati Uniti. Sempre a Grassi si deve il primo manuale italiano di livello universitario circa le macchine elettriche (Corso di elettrotecnica), il cui primo volume comparve nel 1904, seguito da un secondo volume nel 1906. Questo testo fu adottato praticamente in tutte le scuole di ingegneria italiane. Esso possiede un’indubbia chiarezza, conseguita al prezzo di una trattazione sovente piuttosto elementare, ma per vastità e per approfondimento non può pretendere di stare alla pari con manuali stranieri coevi. Uno dei migliori tra questi, il testo di Gisbert Kapp, era stato tempestivamente tradotto in italiano a opera di due ingegneri della Casa Ganz di Budapest, Riccardo Luzzati e Ugo Russi, ma non aveva avuto fortuna.
Al di là dell’opera di Grassi, va segnalato che i primissimi anni del Novecento conobbero una discreta fioritura di testi manualistici che si occupavano, completamente o solo in parte, di macchine elettriche. Sopra tutti va menzionato il manuale di Sartori, La tecnica delle correnti alternate (1903), il cui secondo volume (il primo è destinato ai capi-operai) si pone per il rigore della trattazione e la profondità analitica a un livello superiore rispetto al testo di Grassi.
Nei primissimi anni del Novecento gli studi italiani di elettrotecnica avevano superato il periodo iniziale caratterizzato dalla presenza di una figura di grande spicco, ma sostanzialmente isolata, qual era stato Ferraris, ed erano entrati in una nuova fase in cui, grazie alla spinta dei problemi posti dal fiorente sviluppo industriale e alle opportunità offerte dall’organizzazione dell’AEI, nonché da alcuni lievi progressi avvenuti nel campo dell’istruzione superiore, una pluralità di ricercatori era ormai in grado di produrre risultati scientifici dignitosi riguardanti uno spettro non eccessivamente ristretto di problematiche.
La collocazione internazionale della ricerca italiana in quegli anni può essere illustrata dalla nostra partecipazione all’importantissimo Congresso internazionale di elettricità che si tenne a St. Louis nel 1904, già citato. Dei Paesi più importanti in campo elettrotecnico (Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, Austria-Ungheria) furono invitati cinque delegati e l’Italia fu considerata una potenza di seconda linea, con tre delegati, al pari di Belgio, Russia e Svizzera, ma davanti a tanti altri Paesi che ebbero due o un solo invitato. Nel complesso, i partecipanti italiani al convegno furono ben 66, a indicare un sensibilissimo interesse da parte dei nostri tecnici e studiosi a tenersi scientificamente aggiornati.
Di particolare rilievo e ben apprezzato nel corso della discussione, fu l’intervento di Jona, che presentò i risultati di una ricerca svolta all’interno della Pirelli sui cavi con isolamento formato da strati di materiali diversi. Jona si era avvalso della collaborazione del grande fisico matematico Tullio Levi-Civita (1873-1941) per il calcolo della distribuzione del potenziale. Da questa ricerca nascerà il cavo graduato.
L’immagine che emerse da questo congresso dell’Italia elettrotecnica fu quella di un Paese che già si era conquistato una considerazione internazionale, se non di primissimo piano, certo non di retroguardia, e che era proteso a mantenere e a migliorare la propria cultura tecnico-scientifica attraverso un contatto puntuale con la ricerca degli Stati più avanzati.
Verso la guerra
Il decennio che precedette la guerra mondiale fu un periodo di grande espansione produttiva e di costante ampliamento e approfondimento della ricerca italiana in campo elettrotecnico. Parallelamente alla progettazione e alla realizzazione di impianti sempre più potenti e posti a distanze sempre maggiori dai centri di utilizzazione i nostri tecnici diedero vita a studi e ricerche su un ventaglio sempre più ampio di tematiche, con una ricchezza costantemente crescente di cognizioni teoriche. Comunque, l’impressione complessiva che si trae dallo studio di questo periodo è che il ritmo di sviluppo della ricerca sia stato più lento di quello dell’industria, che l’Italia sia cresciuta, dal punto di vista elettrotecnico, più economicamente che non scientificamente, seppure entrambi gli aspetti della storia italiana abbiano vissuto un momento di grande dinamismo.
L’AEI, per la verità, attraversò un momento di difficoltà, con calo degli iscritti in molte sezioni e rallentamento dell’attività complessiva, a seguito dell’azione intrapresa nel 1906 da Jona, divenuto in quell’anno presidente, al fine di cambiare parte dello statuto e far diventare Milano la sede centrale permanente dell’associazione, invece di mantenere, com’era stato sino ad allora, una sede itinerante di triennio in triennio. Questa iniziativa parve a molti un colpo di mano dei milanesi e sorsero attriti che generarono non poche difficoltà. L’idea di Jona fu comunque realizzata, l’associazione cominciò a riprendersi e fu in grado di organizzare a Torino nel 1911 un importante Congresso internazionale delle applicazioni elettriche che segnò la definitiva consacrazione dell’Italia in campo internazionale quale membro, sia pure non di primissimo rango, del gruppo di Paesi più avanzati.
Nel 1911 fu fondata una nuova rivista specializzata, «L’industria elettrica», bollettino ufficiale dell’Associazione fra esercenti imprese elettriche in Italia, dedita prevalentemente ai risvolti giuridici ed economici dell’industria elettrica, ma con qualche attenzione verso gli aspetti tecnico-scientifici. Crebbe con continuità la mole degli Atti dell’Associazione elettrotecnica italiana fino a che, nel 1914, essi vennero trasformati in una vera e propria rivista, «L’elettrotecnica». Principale promotore della fondazione del nuovo periodico, destinato a diventare, nel giro di pochi anni, una delle più prestigiose riviste scientifiche italiane, fu Ferdinando Lori (1869-1947) che, nel triennio 1912-14, fu presidente dell’AEI. Scopo di Lori fu quello di rendere più frequente la pubblicazione delle ricerche degli elettrotecnici italiani e di introdurre, accanto agli atti e ai verbali dell’AEI, un giornale che offrisse ai lettori italiani un «mezzo di conoscere rapidamente e succintamente tutto il movimento scientifico nel ramo di studi che coltivano e quello tecnico relativo all’attività in cui si svolge il loro lavoro», dunque una rivista al contempo scientifica e di aggiornamento, obiettivo, questo, che si può dire venne subito raggiunto.
Senza dubbio l’argomento più studiato in questo decennio furono le linee. Fu questo il riflesso di un’attività progettistica e di cantiere che portò a realizzazioni di altissimo livello, quali, per es., la linea Grosotto-Milano degli impianti AEM in Valtellina, linea che, oltre alla lunghezza veramente grande, comportava tratti in alta montagna, i quali posero problemi del tutto nuovi, soprattutto per il carico di neve e ghiaccio. Della stabilità meccanica, delle perdite di potenza e delle cadute di tensione delle linee si occuparono Gino Rebora, Semenza, Giacinto Motta, Ulisse Del Buono, Renzo Norsa, e sull’argomento fu pubblicata, da Italo Brunelli, una monografia assai ampia e approfondita, sia pure di interesse prevalentemente pratico-applicativo e con forti attenzioni per la telegrafia (Brunelli era ispettore generale del ministero delle Poste e Telegrafi).
L’elevato livello raggiunto in Italia dagli studi su questi argomenti è comunque meglio testimoniato, piuttosto che dal pur valido libro di Brunelli, dalle dispense non pubblicate ricavate dalle lezioni tenute da Giacinto Motta (1870-1943), progettista e direttore della linea Grosotto-Milano e futuro presidente della Edison, presso il Politecnico di Milano. La profondità dell’analisi, l’ampiezza dei temi affrontati, il rigore metodologico, l’elevata matematizzazione, talune soluzioni originali di problemi inerenti l’ottimizzazione economica del progetto di una linea e la sua stabilità meccanica, fanno di questo documento una testimonianza vivissima della vasta cultura e della perspicacia dei nostri migliori progettisti.
Del resto, l’attenzione dedicata alle linee di trasmissione è perfettamente comprensibile visto il loro elevato costo che, con l’aumentare delle distanze di trasmissione, era ormai divenuto una voce rilevantissima dell’investimento necessario alla costruzione di un impianto, così come il problema della protezione delle linee dalle sovratensioni di origine esterna e interna e dalle scariche verso terra era divenuto il problema principale per la continuità del servizio. Il problema della protezione delle linee ricevette attenzioni pari, se non superiori, a quello del loro calcolo meccanico ed elettrico: Semenza, Vallauri, Pizzuti, Ferrari, Campos, Carpat, Gola, Barassi scrissero varie memorie e Piazzoli pubblicò una monografia che rappresenta, proprio in quanto monografia di notevole mole e di elevato livello scientifico dedicata a un tema specifico, una notevole rarità nella pubblicistica elettrotecnica italiana del periodo. Tra i risultati ottenuti da queste ricerche vanno ricordati il sistema di protezione dalle scariche atmosferiche di sottostazioni e cabine fondato sulla gabbia di Faraday di Semenza e il sistema di smorzamento delle sovratensioni, basato sulle caratteristiche elettriche della linea, ideato da Campos.
Il continuo espandersi del consumo di energia per uso industriale pose in primissimo piano la questione economica della tariffazione degli utilizzatori che, a differenza dei carichi-luce, erano assai sfasati e dunque mettevano in gioco un’elevata potenza reattiva.
Di come si potesse e dovesse limitare questa potenza, come si dovessero ripartire i suoi costi tra produttori e utenti, come se ne dovesse tener conto nelle misurazioni, di tutto ciò si discusse con grande ampiezza, proseguendo del resto un dibattito che si era già avviato negli ultimi anni dell’Ottocento. I più notevoli interventi furono quelli di Arnò che, dopo aver abbandonato l’elettrotecnica per qualche anno, tornò a occuparsene affrontando la questione di grande attualità ed elaborando un metodo di misurazione della potenza che teneva conto dell’andamento temporale dello sfasamento dei carichi, e di Angelo Barbagelata, che propose nel 1908 il suo classico metodo per la misurazione delle potenze in un sistema trifase.
A far da contorno a questi due contributi vanno registrati altri interventi sul tema dei metodi di misurazione relativi agli impianti (Dino Nobili, Campos, Alberto Dina), mentre meno numerosi furono gli studi sugli strumenti elettrici, cosa spiegabile con la scarsa attività industriale nel campo della strumentazione, ove la nostra maggiore impresa, la CGS (Centimetro, Grammo, Secondo) di Camillo Olivetti, attraversò nei primi anni del secolo momenti difficili. A un tecnico della CGS, Vittorio Arcioni, si deve il più significativo contributo nella strumentistica: il progetto di un wattmetro termico che ebbe vasta applicazione. Al nome di Arcioni si può affiancare quello di un altro ingegnere della CGS, Gino Campos. Scarsi furono i trattati di misure elettriche, e nessuno di grande valore: Carlo Montù pubblicò in due volumi le lezioni che egli impartiva alla Scuola di applicazione di Napoli, e Nobili, altro tecnico legato alla CGS, redasse un volume di livello un po’ meno che universitario. Questa esigua pubblicistica non significa però che l’insegnamento universitario fosse di mediocre valore: le dispense litografate del corso di misure elettriche tenuto a Milano da Zunini testimoniano l’alto livello dell’insegnamento che si praticava, almeno nell’istituzione lombarda.
Il grande sviluppo degli impianti idroelettrici, che vide le imprese italiane compiere realizzazioni di primissimo ordine, fu accompagnato da una ricca messe di studi che rientravano nei settori tradizionali dell’ingegneria civile e dell’idraulica, ma i grandi impianti che imbrigliavano e regolavano i corsi d’acqua ponevano anche problemi che erano sì, in ultima analisi, idraulici o di scienza delle costruzioni, ma che scaturivano da questioni squisitamente elettrotecniche, quali l’utilizzo massimo della portata d’acqua rispetto a un carico elettrico variabile, o la regolazione dell’afflusso dalle condotte forzate. Colui che più di ogni altro intese indirizzare i criteri dei progettisti italiani verso lo sfruttamento razionale delle nostre acque, con l’uso di serbatoi e con il coordinamento degli impieghi dei bacini montani, fu il già citato Luigi Zunini, il quale però non volle affiancare la sua intensissima attività di progettista e direttore dei lavori di costruzione di impianti idraulici (nonché di docente del Politecnico) a quella di pubblicista, che fu quasi nulla. Per avere notizie sulla sua attività ci si deve rivolgere alle pubblicazioni scientifiche dei suoi allievi, come quelle di Gaetano Ganassini, che fu a sua volta un grande protagonista nell’ideazione degli impianti idroelettrici, o di altri professionisti e studiosi, come Panzarasa e Anfossi. Delle condotte forzate e dell’influenza su esse della regolazione delle turbine si occuparono Allievi, che completò la propria teoria del colpo d’ariete, Giorgi, Rebora, mentre nel campo delle turbine va ricordata l’attività di Giuseppe Belluzzo, un pioniere, in Italia, particolarmente per le turbine a vapore.
Alcune problematiche che in precedenza erano state trascurate cominciarono a essere studiate, allargando così la gamma di interessi dei nostri studiosi. Fu questo il caso della fotometria, con i lavori di Bordoni, Crippa, Mantica, Amerio, Corbino, Pasqualini, Grassi, Rumi; della standardizzazione con Lombardi, Lori, e poi con la fondazione nel 1910 del Comitato elettrotecnico italiano, che cominciò a occuparsi metodicamente del problema sotto la presidenza di Lombardi; dell’organizzazione di centrali e stazioni con Ponti, Caminati, Marro, Soleri; e infine della trazione ferroviaria.
Anche gli studi sulle macchine elettriche si arricchirono di nuovi contributi. Seppure la nostra industria in questo settore, come detto, non fece grandi passi in avanti, qualche progresso, sia pure modesto, vi fu, come attestò la grande Esposizione di Torino del 1911, e come confermò un non esaltante, ma sensibile, incremento delle ricerche. Se è vero che Grassi, il nostro maggiore studioso di macchine d’inizio secolo, smise di occuparsi dell’argomento, va tenuto presente che di macchine (particolarmente dei materiali magnetici) cominciò a occuparsi attivamente Giancarlo Vallauri, destinato a diventare uno dei più grandi nomi dell’elettrotecnica italiana, e con lui il suo maestro e suocero Lombardi, e poi Donati, Morelli, Semenza, Piola e Sartori, il quale ultimo nel 1913 iniziò le proprie ricerche sui motori asincroni che si concluderanno nel dopoguerra con l’ideazione di un nuovo importante tipo di motore asincrono autocompensato.
Sulle macchine vi fu una discreta produzione manualistica, non solo rappresentata da testi generali di elettrotecnica che contenevano vari capitoli dedicati alle macchine elettriche, come fu, per es., il testo di Lombardi Lezioni di elettrotecnica del 1907 (pubblicato in seconda edizione ampliata nel 1913 con il titolo Corso teorico-pratico di elettrotecnica), che venne a proporre un’alternativa, come manuale universitario, al Corso di elettrotecnica di Grassi, oppure testi di minor successo, quali quelli di De Maria, ma anche testi di livello universitario (o quasi) che, per la prima volta, erano dedicati esclusivamente alle macchine elettriche.
Tra questi ultimi spiccano La pratica di costruzioni elettromeccaniche (1909) di Giulio Pardini e, soprattutto, i due volumi di Morelli, il primo titolare italiano di una cattedra dedicata alle macchine elettriche, Costruzioni elettromeccaniche, del 1913. Se il testo di Pardini si rivolgeva ai tecnici professionisti, che hanno solo «fugaci momenti» da dedicare allo studio, per fornir loro «quella sola parte di nozioni pratiche, sicure, di immediata applicazione che possa servire di guida nei quesiti più correnti» e non si discostava mai dalla buona divulgazione, quello di Morelli è più ambizioso e presenta un piano originale di esposizione della materia, «corrispondente all’ordine stesso di idee che ordinariamente segue il costruttore dal giorno in cui riceve una ordinazione, o sta per progettare una nuova serie di macchine, a quello in cui eseguisce la consegna». Nonostante Morelli si proponga di sviluppare «quanto all’ingegnere costruttore elettromeccanico occorre di fare effettivamente nell’Ufficio progetti e nell’officina», la sua trattazione rimane sempre a un livello teorico più che dignitoso, pur se non paragonabile a quello dei maggiori manuali tedeschi o francesi, e ciò fa di quest’opera il primo trattato italiano di macchine elettriche.
Quanto appena detto non deve comunque indurre a una valutazione troppo ottimistica degli studi italiani sulle costruzioni elettromeccaniche: questo era un argomento che continuava a essere sottovalutato nelle scuole di ingegneria rispetto ad altri, quali le linee di trasmissione o le misure di potenza, e nel 1922 Barbagelata, presentando al lettore la prima edizione del suo trattato sulle macchine elettriche, lamentava che il corso di macchine da lui tenuto da dieci anni presso il Politecnico milanese non avesse proprie esercitazioni «cosicché quel minimo di prove di laboratorio indispensabile si effettua sottraendo una parte del tempo destinato alle esercitazioni di misure. Stando così le cose non era e non è evidentemente possibile un vero corso di costruzioni elettromeccaniche».
In conclusione, alla vigilia della Grande guerra la ricerca italiana si era irrobustita, ampliata, stava affrontando uno spettro sempre più vasto di temi e problemi, certamente privilegiando alcune questioni e mettendone in sott’ordine altre, ma sempre, o quasi sempre, in risposta a specifiche esigenze dell’apparato industriale. Questa crescita era avvenuta senza rilevanti miglioramenti nell’organizzazione della ricerca: gli insegnamenti universitari non erano aumentati sensibilmente di numero, non erano stati fondati nuovi istituti di ricerca e in quelli esistenti i finanziamenti non erano aumentati, anche perché l’industria non era stata per nulla generosa. È quest’ultimo un punto che va messo in rilievo: la Edison fino allo scoppio della guerra non diede aiuti finanziari all’IECE, anche se molti dei maggiori nomi della Edison erano anche docenti del Politecnico, segno evidente, questo, di come la ricerca necessaria all’industria veniva fatta al di fuori dell’università, nei cantieri, nelle officine, negli studi professionali, in qualche raro caso, come alla Pirelli, in laboratori industriali, mentre agli istituti di istruzione superiore si affidava quasi esclusivamente il compito didattico di formare le nuove leve di ingegneri.
Si trattava di una ricerca scientifica che, per quanto cresciuta, per quanto capace di raggiungere alcuni buoni risultati, non poteva essere considerata complessivamente alla pari con quella dei maggiori Paesi industrializzati, anche se non era tra le ultime. Un’indicazione quantitativa circa lo stato della nostra ricerca elettrotecnica, che suffraga le impressioni qualitative di cui si è detto, può essere tratta dal più autorevole bollettino internazionale, «Science abstracts», la cui sezione dedicata all’ingegneria elettrotecnica era compilata con la collaborazione dell’AEI e dunque non può essere sospettata di trascuratezza nei confronti degli italiani. La percentuale dei lavori italiani sul totale dei lavori qui segnalati si aggira negli anni precedenti il conflitto mondiale attorno all’1%: precisamente, 1,5% nel 1911, 1,4% nel 1912, 1,5% nel 1913 e 0,92% nel 1914. Questi dati sarebbero destinati a ridursi ulteriormente se si defalcassero quei lavori che, pur compresi nella sezione dell’elettrotecnica, erano in realtà di elettrofisica o di radiotecnica.
Se si pensa che in quello stesso periodo l’Italia era, per potenza elettrica installata, presumibilmente il sesto o il settimo Paese del mondo e per la sola potenza idroelettrica addirittura il terzo, i dati sopra riportati indicano come, pur con tutti i suoi indubbi progressi, l’attività di ricerca scientifica aveva avuto un ritmo di sviluppo meno rapido di quello dell’industria elettrica. È notorio che nei Paesi più avanzati l’industria elettrica ebbe con la ricerca scientifica rapporti molto stretti, soprattutto dopo il 1890; tuttavia, se il caso della Francia dimostra che un’elevatissima produzione scientifica non era di per sé condizione sufficiente per garantire un grande sviluppo industriale, quello dell’Italia sta a indicare che nel settore elettrotecnico un’attività di ricerca molto importante per quantità e qualità non era neppure condizione necessaria per un’attività economica che, pur non essendo tra le primissime, era comunque rigogliosa. L’industria elettrica italiana seppe avanzare più con il pragmatismo, con l’imitazione o l’importazione di quel che veniva fatto altrove, piuttosto che con uno sforzo di ricerca originale intenso, dispiegato su un’ampia gamma di problemi. Sicuramente questa industria fu, tra tutte le italiane, quella che maggiori stimoli diede alla ricerca scientifica e maggiori aiuti ebbe da essa, ma questo è vero anche perché gli altri settori industriali, da quello meccanico a quello chimico, a quello siderurgico, a quello tessile, fino alla Prima guerra mondiale intrattennero con la scienza rapporti pressoché nulli. Grazie all’intreccio tra scienza e attività economica che si era venuto formando, la fiducia nel valore sociale e produttivo della ricerca scientifica aveva cominciato ad affermarsi, prima che in altri gruppi industriali, proprio tra gli elettrici, che saranno, dopo l’inizio delle ostilità, i principali promotori di iniziative tese a rivitalizzare la scienza italiana. Tuttavia, la forza con la quale quest’idea era presente ancora non era intensa, proprio perché l’industria elettrica italiana era cresciuta con il supporto di un lavoro di ricerca scientifica che non era stato decisivo.
Simile sviluppo di un ramo industriale quasi-gigante che si appoggiava sulle spalle di una ricerca scientifica quasi-nana pagava il prezzo di una dipendenza dall’estero in taluni settori strategici, come quello delle macchine, che più di altri richiedevano un forte supporto scientifico. Per il momento questa situazione poteva essere mascherata con il ricorso all’importazione, ma la guerra metterà a nudo questa dipendenza e, di riflesso, porrà in evidenza la necessità di potenziare la nostra attività scientifica. Gli elettrotecnici saranno, anche per questo motivo, in primissima fila nello schieramento di coloro che chiederanno un più intimo rapporto tra ricerca scientifica e attività economica, un ‘riavvicinamento della scienza alla vita’.
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