Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel XIII e XIV secolo la produzione epica vive una dialettica fra permanenza (metro, temi “forti”, principi compositivi) e rinnovamento (maggior spazio dato a temi romanzeschi o cortesi); i testi sono molto numerosi, sempre più complessi, spesso organizzati in cicli, mentre i manoscritti diventano più ricchi e lussuosi. L’epica approderà così alla stampa e godrà, ben più dei romanzi arturiani, di grande diffusione popolare fino all’Ottocento.
L’epica nei secoli XIII e XIV è caratterizzata da grande continuità così come da profonde trasformazioni, nel senso che tendenze presenti già nel XII secolo trovano ora più complesso e pieno sviluppo, giungendo a risultati anche molto lontani dal punto di partenza.
Questi testi, spesso per il tramite delle prosificazioni del Quattrocento (famose quelle alla corte dei Duchi di Borgogna), arrivano alla stampa, ai libri degli ambulanti del XIX secolo ed entrano nel patrimonio popolare, sia francese (Les quatre fils Aymon, Huon de Bordeaux, Ogier) che spagnolo (Romancero) e italiano (attraverso il poema cavalleresco sino ai maggi e al teatro dei pupi).
Le coordinate entro le quali conviene impostare la descrizione del fenomeno epico sono l’esplosione demografica, la ciclizzazione, l’apertura a temi e forme romanzesche.
Il Duecento è in generale, per le letterature volgari, un secolo di enorme forza propulsiva: aumenta il numero dei testi, nascono nuovi generi, cresce vertiginosamente il numero dei manoscritti prodotti; il Trecento, al confronto, è un secolo di assestamento, ma non certo di quiescenza.
Ricchezza demografica significa anzitutto che un testo epico fa parte di un sistema in cui sono via via più numerosi altri “fratelli”, e si mette in relazione con loro (fenomeno della ciclizzazione); allo stesso tempo, esso entra in contatto fecondo con altri generi (soprattutto il romanzo).
Entrambi i fenomeni si possono interpretare sia da un punto di vista “genetico” che di “storia della tradizione” (traiamo l’esemplificazione dalle chansons oitaniche, cioè della Francia del Nord).
“Geneticamente” si osserva spesso che una canzone viene composta pensando a una prospettiva ciclica, come introduzione o complemento ad altre canzoni già esistenti, da cui riprende personaggi e situazioni: ad esempio testi come Les enfances Guillaume e Les enfances Vivien raccontano infanzia (donde il titolo), adolescenza e prime prove del futuro eroe; testi come Hervis de Metz narrano invece le gesta del padre di Garin, protagonista della canzone Garin de Loherenc (in epica, fu detto con formula felice, “i figli generano i padri”); i Moniages (“monacazioni”), invece, sono dedicati alle ultime tappe della vita dell’eroe, che termina i suoi giorni come monaco (Moniages Guillaume, Moniages Rainouart). Appaiono sempre più massicciamente temi solo accennati nelle canzoni più antiche: l’amore (si definisce il topos della bella saracena che presa da passione per un paladino si converte al cristianesimo), il meraviglioso bretone (fate, filtri magici), credenze folkloriche vicine a quelle dei racconti popolari (ad esempio il tema tipico di alcune enfances: l’eroe nasce in esilio e viene allevato in un ambiente sociale che non è il suo – come quello mercantile – ma segue il richiamo del sangue e finisce poi con l’essere riconosciuto grazie al suo valore), una maggiore attenzione al mondo cortese e ai suoi riti, il gusto didattico o enciclopedico, il tono moralistico; a ben guardare, anche la ciclizzazione risponde a un gusto romanzesco, quello di narrare la biografia dell’eroe dalla nascita alla morte (estraneo alla tradizione epica più antica, concentrata su una tranche altamente significativa della sua vita).
Allo stesso modo, ma sul piano stavolta non della composizione, sono sempre più frequenti i manoscritti ciclici, in cui copisti o rimaneggiatori riuniscono insieme a posteriori canzoni originariamente senza alcun legame, talora giustapponendole, talora armonizzandole fra loro con ritocchi, soppressioni, aggiunte di varia portata; analogamente, per quel che pertiene ai rapporti con il romanzo, sono sempre più numerosi i manoscritti in cui si fiancheggiano chansons de geste, romanzi, testi di narrativa breve, cronache ecc., a dimostrazione di un pubblico sostanzialmente omogeneo per generi diversi.
L’epica oitanica nel Duecento è molto ricca, in sostanziale continuità con il secolo precedente (molte canzoni sono tradizionalmente datate XII-XIII secolo), e costituisce un eccellente laboratorio di verifica delle tendenze sopra accennate, in cui oggi non scorgiamo più i segni di una degenerazione rispetto a una primitiva purezza (mai esistita), quanto piuttosto della vitalità di un genere che ha saputo trasformarsi senza perdere la propria identità. Non che si debba sfociare in un revisionismo totale: le canzoni tendono mediamente a divenire più lunghe, complesse, e soprattutto nel XIV secolo non mancano esempi di testi in cui la moltiplicazione di personaggi ed episodi dà l’idea di un affastellamento per nulla sorvegliato: ma importa sempre distinguere le opere mediocri da quelle che obbediscono a un’estetica mutata.
Il periodo che comprende il XIII e il XIV secolo è l’età ciclica, compilativa ed “enciclopedica” per eccellenza, e non solo nell’epica: un nucleo ciclico si riconosce facilmente anche nel XII secolo, ma ora il fenomeno diventa imponente per numero di canzoni coinvolte e complessità dei meccanismi di scrittura: basti pensare appunto al ciclo di Guillaume d’Orange (che arriva a più di 20 di testi, quasi tutti presenti nei manoscritti più ricchi), al ciclo dei Lorenesi (quattro canzoni), oppure a cicli più tardi come quello di Huon de Bordeaux o Renaut de Montauban.
Non è possibile qui fare un elenco delle canzoni più famose o rappresentative del rinnovamento e arricchimento del genere epico: ricorderemo il ciclo di Huon de Bordeaux per gli elementi favolosi (e la comparsa non episodica di un personaggio arturiano, la fata Morgana), gli elementi parodici dei Moniages (l’eroe fra i monaci si caratterizza per robusto appetito e atteggiamenti poco penitenziali) oppure la parodia scatologica del geniale Audigier, eroe del “basso corporeo”.
Una caratteristica macroscopica del corpus oitanico è data dai rifacimenti di chansons preesistenti, sia nel XIII che nei secoli successivi: accanto al Roland assonanzato, abbiamo le versioni rimate; testi in décasyllabes vengono rifatti in alessandrini (molte canzoni sono coinvolte, come Ami e Amile, Girart de Roussillon, canzoni del ciclo della crociata ecc.). Non si tratta solo di aggiornamento metrico, ma anche di trasformazioni più profonde: per esempio, la scena rapida ed intensa di Alda la bella, promessa di Roland, che alla notizia della morte dell’amato decide che la vita non vale più la pena di essere vissuta e muore a sua volta (per un supremo sforzo di concentrazione e annullamento delle energie vitali), viene amplificata nei testi rimati.
La cornice (battaglie, opposizione noi/gli altri, virtù guerriere) e la struttura in lasse rende sempre riconoscibile un testo epico, che anzi esibisce, ancora nelle canzoni composte nel XIV secolo, arcaismi “di genere”; inoltre le chansons mantengono sempre quel legame con la “verità storica” che le caratterizza dall’origine: anche i testi puramente fittizi rivendicano questo statuto e ancora alla fine del Trecento, per celebrare le gesta di Bertran du Guesclin, conestabile di Francia, il troviere Cuvelier sceglie la forma della chanson de geste anziché quella della cronaca o del racconto biografico.
La stessa dialettica fra permanenza e innovazione si riconosce anche a livello formale: se il principio della lassa di décasyllabes o alessandrini rimane intatto, le lasse possono diventare organismi molto diversi, per lunghezza, dinamiche interne, struttura; compare inoltre un artificio del tutto nuovo, il vers orphelin (un versetto esasillabico finale, orfanello perché dalla rima irrelata).
Caratterizzata dalla presenza di corpora tutto sommato modesti e di datazione spinosa, l’epica occitanica e castigliana ci pone di fronte a un groviglio di tradizione ristretta, manoscritti tardi, rifacimenti tardivi, difficoltà di stabilire i rapporti fra le tradizioni epiche e i testi epici che oggi possediamo, massiccia influenza francese. Per l’epica occitanica ricordiamo la Guerra de Navarra della fine del XIII secolo, che ha un andamento cronachistico e rivitalizza le potenzialità dell’epica come discorso “sul presente”, e due poemetti rolandiani copiati ancora alla fine del XIV secolo (ma non sappiamo se si tratta di prove di vitalità o recuperi antiquari). L’epica castigliana vigoreggia nei rifacimenti (il Poema di Fernán González è tarda rielaborazione, a fini propagandistici, di un testo anteriore) ma viene letteralmente fagocitata dai testi cronachistici in prosa del Due-Trecento (e anche oltre), ponendo i prevedibili e spesso insolubili problemi di ordine storico-filologico.
Il Nibelungenlied messo su pergamena all’inizio del Duecento inaugura un secolo di straordinaria ricchezza: i cicli dei Nibelunghi, il Kudrun, l’affollato ciclo di Dietrich (Teodorico il Grande), nei quali si suole ripartire la materia tedesca, hanno propaggini numerose anche nel XIV secolo e, d’altro canto, sono spesso in rapporto con testi e/o canti dei secoli precedenti (ad esempio l’Hildebrandslied è il primo testo a parlare della leggenda di Teodorico). Nei primi decenni del XIII secolo Snorri Sturluson compone la sua saga, che raccoglie saghe reali islandesi (di cui abbiamo qualche esempio anche nel XII secolo e che, ovviamente, riposano su leggende anteriori), genere che nel corso del secolo arriverà a contare numerosi testi in prosa, spesso organizzati ciclicamente (ricordiamo solo la duecentesca Karlamagnús saga, di interesse rolandiano).
L’Italia del Nord-Est fin dal XIII secolo è permeabile alle letterature d’oltralpe, in particolare alla poesia trobadorica, al punto che alcuni trovatori di lingua madre italiana scelgono la lingua d’oc (cioè l’occitano) per i loro componimenti (ad esempio Sordello); con un décalage di qualche decennio, e con culmine nella prima metà del XIV secolo, il fenomeno si verifica anche in rapporto alla lingua francese: fin dal XIII secolo abbiamo un buon numero di testi francesi copiati in Italia (chansons de geste, romanzi in prosa, testi didattici ecc.), ma l’area veneta si specializza in una produzione letteraria epica in cui non solo assistiamo a un progressivo affrancamento dai modelli oitanici, ma anche alla creazione di una lingua letteraria speciale chiamata franco-veneto.
L’etichetta suscita parecchie discussioni: si tratta di una koiné sovraregionale, di base francese con numerose interferenze (a livello lessicale, fonetico) con i dialetti veneti (non sempre facilmente distinguibili) e tratti latineggianti e anche toscani. La letterarietà del franco-veneto è in ogni modo confermata dalla sua sostanziale omogeneità (a prescindere dal dialetto dell’autore), anche se evidentemente è sempre in bilico fra prestigio della tradizione (francese) e necessità di comunicazione (sappiamo da tradizione indiretta che anche questi testi erano cantati nelle piazze e nelle corti). Dalle copie nord-orientali di testi francesi con leggera coloritura dialettale (ad esempio il codice V7 del Roland), passiamo a codici maggiormente audaci e “misti” dal punto di vista linguistico o caratterizzati da rimaneggiamenti più consistenti (ad esempio il famoso manoscritto marciano della Geste francor), fino a opere originali come l’Entrée d’Espagne, composta nei primi decenni del XIV secolo da un anonimo padovano, che racconta appunto l’entrata in Spagna dell’esercito di Carlo Magno – dunque i prodromi della disfatta di Roncisvalle – ed è un testo fondamentale per le varie Spagne tre-quattrocentesche e, di qui, per il poema cavalleresco italiano di Boiardo e Ariosto. Altrove i risultati sono di livello inferiore: ricordiamo solo Niccolò da Verona (autore di una continuazione dell’Entrée, della Pharsale – rifacimento dei Faits des Romains – e di un poemetto religioso, la Passion) e Niccolò da Casola (autore della Guerra d’Attila).