L'epigramma, il mimo, il teatro
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Uno degli sviluppi più fecondi della letteratura ellenistica si ha nella grande diffusione dell’epigramma, sorta di agile e versatile “contenitore” poetico che finisce per sostituirsi alla poesia lirica raggiungendo vertici di grande raffinatezza ed efficacia. Se i generi teatrali tradizionali risultano confinati in una dimensione erudita, quadretti di vita quotidiana irrompono invece nel mimo letterario.
L’età ellenistica, come si è accennato, vede la prosecuzione di molti generi poetici tradizionali, per quanto spesso profondamente innovati e ibridati. L’epica e la poesia didascalica hanno una loro tradizione che continua per tutta l’età imperiale. Altre forme espressive, invece, finiscono per eclissarsi completamente: è il caso, com’è stato spesso notato, della poesia lirica, penalizzata dalla scissione avvenuta tra poesia e musica e della sempre più carente comprensione delle complesse strutture metriche. Lo spazio dei componimenti simposiali, delle riflessioni d’amore, dell’invettiva finisce dunque per divenire appannaggio di un genere, come quello dell’epigramma, che per la forma semplice e la relativa brevità si presta egregiamente a veicolare immagini folgoranti e contenuti icastici e brillanti. Naturalmente rimangono in vita, pur se in forme spesso artificiali, anche le forme tradizionali di questo genere nato originariamente per essere graffito o scritto su superfici e oggetti: e dunque continuano a essere coltivati l’epigramma funerario e quello votivo.
Direttamente connessa al grande sviluppo di questo genere è anche la nascita di una nuova forma letteraria, quella dell’antologia (etimologicamente, “raccolta di fiori”). La prima, intitolata Stephanos (“ghirlanda”), è allestita nel I secolo a.C. da Meleagro di Gadara, che raccoglie e ordina tematicamente gli epigrammi dei grandi del passato (anche dei poeti lirici, come Simonide), quelli dei contemporanei e naturalmente anche i propri, in una sorta di competizione ideale dove lo stesso Meleagro, comparendo in ultima posizione, ottiene in un certo senso l’“ultima parola” e dunque la vittoria. La forma dell’antologia riscuote un notevole successo e finisce per essere cruciale per la trasmissione degli epigrammi dell’antichità. Nuove antologie sono allestite, tra l’altro, da Filippo di Tessalonica nel I secolo e da Agazia nel VI secolo. Più tardi, a Costantinopoli, Costantino Cefala raccoglie tutti gli epigrammi che può trovare, a partire dalle raccolte letterarie e dalle iscrizioni.
Da questa silloge viene a sua volta ricavata, alla fine del X secolo, la grande raccolta nota come Antologia Palatina, dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg in cui, nel Seicento, è individuato il manoscritto che la conserva. È divisa in 15 libri, organizzati su base tematica, che nelle edizioni moderne vengono integrati con un sedicesimo libro, la cosiddetta Appendix Planudea, contenente i componimenti (poco meno di 400) presenti solo nella raccolta curata dal monaco bizantino Massimo Planude, che evidentemente ha accesso a materiale non confluito nel manoscritto di Heidelberg.
Scorrendo gli oltre 4000 epigrammi dell’Antologia Palatina, è possibile farsi un’idea dello sviluppo di questo genere letterario, per il quale possono essere fatti alcuni grandi nomi che spesso vengono raggruppati in “scuole”, anche se questo termine non deve far pensare a divisioni troppo nette e schematiche.
Alla cosiddetta scuola peloponnesiaca, caratterizzata dall’attenzione per la natura e dallo stile tumido e sovrabbondante, appartengono per esempio due donne, Anite di Tegea e Nosside di Locri, nell’attuale Calabria, e soprattutto Leonida di Taranto, autore di grande importanza che si cimenta in particolare nell’epigramma votivo e in quello sepolcrale, anche fittizio. Una lingua composita ed esuberante accompagna questi “quadretti”, molto variati e caratterizzati anche da spunti estrosi: notevole, ad esempio, l’epigramma dedicato al marinaio divorato da uno squalo o l’epitafio per la tomba di una cavalletta canterina.
Leonida di Taranto
In memoria di Tarsi di Carmide
In memoria di Tarsi di Carmide
Sono in terra e in mare sepolto: la strana ventura
l’ebbe Tarsi di Carmide dai fati.
Ché mi tuffai sul peso d’un’àncora prensile, al fondo
calandomi nell’acqua del mar Ionio:
la districai; ma dal fondo tornando a galla a fatica,
ormai protese ai marinai le braccia,
fui divorato: uno squalo feroce su me si diresse,
e fino all’ombelico m’inghiottì.
Trassero allora di me la metà quei marittimi, inerte
peso; l’altra metà la ruppe il mostro.
Furono i miseri resti di Tarsi su questa riviera
sepolti, amico. In patria non tornai.
in Antologia Palatina, a cura di F.M. Pontani , Torino, Einaudi, 1979
La cosiddetta scuola ionico-alessandrina, nella quale possono essere inclusi anche Callimaco e Teocrito, si caratterizza invece per una maggiore sobrietà espressiva, accompagnata però dalla ricerca della pointe, la “frecciata” fulminante, e dell’aprosdoketon (“sorpresa”), il colpo d’ala inaspettato, spesso ironico, che rovescia la situazione e le aspettative del lettore. Tra i suoi rappresentanti si possono fare i nomi di Asclepiade di Samo, uno dei nemici letterari di Callimaco, e Posidippo di Pella. Di quest’ultimo nel 2001 è stata pubblicata una raccolta (forse curata dall’autore stesso), contenente oltre 100 componimenti finora ignoti (che si vanno a sommare a quelli tramandati nell’Antologia Palatina), recuperata a partire dal cartonnage, la cartapesta, con cui era stato fabbricato l’involucro di una mummia egiziana. Questa silloge è organizzata tematicamente, con sezioni che solo in alcuni casi rimandano a scansioni tradizionali (epigrammi votivi e sepolcrali): si segnalano in particolare le parti Sulle corse dei cavalli e quella Sulle pietre, con alcune descrizioni (ekphraseis) di gemme incise che costituiscono una delle acquisizioni più pregevoli presenti nel “nuovo” Posidippo.
Alla più tarda scuola fenicia, caratterizzata dall’elaborazione retorica finalizzata a creare effetti di pathos, spesso applicati nella trattazione di tematiche amorose, appartengono il già citato Meleagro e Filodemo di Gadara da identificare con il filosofo epicureo attivo in Italia presso Calpurnio Pisone.
L’epigramma, peraltro, continua ad essere praticato per tutta l’età imperiale, fino all’epoca tardo antica e bizantina, dove conosce un’ultima fioritura con Pallada e, al tempo di Giustiniano, con Paolo Silenziario e Agazia. Tra gli autori più originali occorre senz’altro segnalare Stratone di Sardi, che si dedica a componimenti sull’amore pederotico. Il dodicesimo libro dell’Antologia Palatina, nel quale sono confluiti, testimonia un estro che, pur compiacendosi di dettagli maliziosi, se non propriamente osceni, riesce spesso a suscitare il divertimento del lettore con giochi di parole, motti di spirito, immagini efficacissime e sovente geniali.
Stratone di Sardi
Sull’amore
Se ti faccio torto baciandoti, se pensi che sia una violenza,
puniscimi con la stessa violenza: anche tu dammi un bacio.
Appoggi al muro, Ciri, i tuoi splendidi fianchi:
perché provocare la pietra? Non può farci niente!
Se anche voglio passare oltre, quando incontro un bel ragazzo,
passo oltre, ma appena dopo mi volto indietro.
in Antologia Palatina, Epigrammi erotici, a cura di G. Paduano, Milano, BUR, 1994
Nell’età ellenistica continua ad essere coltivato anche il mimo, elevato a letteratura già da Sofrone. Anche alcuni dei componimenti di Teocrito possono rientrare nella categoria del mimo, in particolare il bellissimo idillio II (Le incantatrici), dove Simeta, aiutata da una schiava, prepara un filtro magico nel tentativo di placare le proprie pene d’amore e conquistare l’amore del giovane Delfi di Mindo, e l’idillio XV, Le siracusane, che descrive l’ammirazione di due donne siciliane di fronte alle bellezze di Alessandria e al fasto di una cerimonia in onore di Adone. Tra gli esponenti di questo genere letterario, alcune citazioni antiche riferivano anche il nome di Eroda, che Plinio il Giovane assimilava addirittura a Callimaco. Nel 1891 è stato rinvenuto un papiro contenente otto mimiambi (mimi in metro giambico) di questo poeta (l’ultimo peraltro molto lacunoso).
Questi componimenti, con l’eccezione dell’ultimo, che riguarda una complessa e non del tutto chiara allegoria poetica (forse vi compare il personaggio di Ipponatte, riconosciuto come caposcuola al quale Eroda si ispira), hanno un’ambientazione popolare. Tra i protagonisti, una mezzana che cerca di corrompere una giovane sposa; un maestro che cerca di punire un allievo indisciplinato; due amiche che si recano al tempio di Asclepio; una donna matura che vuole punire il proprio schiavo e amante; altre amiche che disquisiscono dei pregi di un fallo di cuoio. Nonostante le tematiche che spesso arrivano a toccare argomenti pruriginosi, Eroda si mantiene misuratissimo, e gli spunti apparentemente grossolani e umoristici, a differenza che in mimi più autenticamente “popolari” conservati in altri papiri, si dissolvono in un’impalpabile ironia. Impossibile parlare, come pure in passato è stato fatto, di lui come di un poeta “realistico”, testimone della vita quotidiana delle classi subalterne: si tratta in realtà di un autore estremamente dotto, le cui ricostruzioni di vita popolare risultano assai artificiose e intessute di richiami letterari che solo un pubblico colto può decifrare e apprezzare.
Alessandro Magno, nel corso delle sue campagne, fa allestire rappresentazioni teatrali di gusto tragico, e anche sotto i suoi successori la tragedia continua ad essere scritta e recitata. In epoca ellenistica sono particolarmente diffuse le riprese delle tragedie antiche, in particolare di quelle di Euripide; in questo periodo tra l’altro si diffonde l’usanza di far recitare gli attori su una pedana rialzata, antenata del nostro palcoscenico.
Ad Alessandria, in particolare, sono attivi sette poeti tragici, collettivamente noti come la “Pleiade”, dei quali peraltro non resta quasi niente. Ad uno di essi, Licofrone di Calcide, è tradizionalmente attribuito (anche se sono numerosi i dissensi tra gli studiosi moderni) un lungo monologo in trimetri giambici, l’Alessandra. Si tratta del racconto (rhesis) di un servitore, che espone a Priamo le profezie della figlia Alessandra (Cassandra) in occasione della partenza di Paride per Sparta; l’opera gode di grande fortuna in età bizantina per la fitta rete di oscure allusioni erudite che la pervade, tra le quali emergono anche riferimenti (secondo alcuni interpolati) alla crescente potenza romana, nello spirito degli oracoli attribuiti alla Sibilla. Il modulo tragico, in particolare quello euripideo, viene peraltro adattato anche a culture differenti da quella greca. Alla fine del II secolo a.C. è attivo Ezechiele, autore di origine ebraica che compone un’interessante tragedia intitolata Exagoge, di cui restano consistenti frammenti, dedicata alla fuga degli Israeliti dall’Egitto.