L’‘epoca’ di Costantino e il Tardoantico
La questione costantiniana si pose nella stessa età di Costantino. Se ci si riferisce al problema classico, oggi largamente superato, della sincerità e della coerenza religiosa di quel sovrano1, esso non risale soltanto al suo biografo Eusebio, che troppo spesso assunse il ruolo di un solista mascherato da seconda voce ed evitò di storicizzare la lunga conversione del suo eroe, di seguirne esplicitamente la maturazione, di rendere la complessità – personale e politica – del suo rapporto con le religioni tradizionali, ricorrendo quando necessario a omissioni e falsificazioni. Già lo stesso Costantino mostrò di avere del problema una chiara consapevolezza, che si può individuare anche in alcuni tentativi di normalizzare il suo percorso nella nuova fede. Questo emerge in primo luogo dalla volontà di proporre un’immagine innocente e incontaminata della sua esperienza a fianco del grande persecutore Diocleziano. La si percepisce in un editto del 324 trasmesso da Eusebio:
A quel tempo si diffuse la voce che dalle profondità di una tenebrosa spelonca, e non certo dal cielo, Apollo avesse vaticinato che i giusti che vivevano sulla terra gli impedivano di profetizzare il vero e che questo era il motivo per cui gli oracoli pronunciati dai tripodi risultavano falsi. La sacerdotessa del dio, con le chiome sciolte in segno di lutto, squassata dal furore profetico, si disperava per questo disastro che si era abbattuto sull’umanità. Ma vediamo a quale esito portò tutto questo. A quell’epoca, quando ero ancora molto giovane2, ricordo esattamente di aver udito in che modo, e con quale vivo interesse, colui che ancora deteneva la più alta autorità tra gli imperatori romani3, personaggio misero, misero nel vero senso della parola, la cui mente era preda dell’inganno e dell’errore, si andasse informando presso gli uomini del suo seguito su chi mai fossero i ‘giusti’ che vivevano sulla terra, e ricordo che uno dei suoi sacrificatori nel rispondere disse che si trattava senza dubbio dei cristiani. Quegli ingoiò la risposta come fosse stato miele e rivolse contro l’intemerata religione le stesse armi che si usano nella repressione dei crimini. Immediatamente preparò editti sanguinari, scritti, per così dire, con penne omicide, e ordinò ai giudici di adibire tutta la sagacia del loro ingegno nella ricerca di supplizi sempre più nuovi4.
In un racconto come questo si apprezza tutta l’efficacia del linguaggio obliquo, quando è ben elaborato. L’io narrante non precisa che cosa egli avesse fatto per impedire, vanificare, addolcire la persecuzione, e non accenna nemmeno alla prospettiva, teoricamente possibile, di un martirio causato da un’esplicita obiezione di coscienza. Il narratore si colloca invece, con una ricercata naturalezza, nella posizione di un semplice spettatore che aveva osservato quei fatti, si allontana dalla scena dove si era svolta l’azione e si colloca in mezzo al pubblico. L’identificazione emotiva e sentimentale con i destinatari del discorso cancella la distanza cronologica e lascia intendere che a parlare sia lo stesso Costantino di vent’anni prima, un po’ più vecchio, molto più potente5.
Costantino, nel testo eusebiano, dice che allora egli era un pais, un «ragazzo», un «fanciullo». Eusebio volge in greco il latino del sovrano6, lasciando adito alla deduzione che Costantino si qualificasse come puer. Poiché Costantino nel 303 non era affatto un puer, questo piccolo problema filologico si è ingigantito, è entrato nel cuore della questione costantiniana e ha spinto Henri Grégoire a sostenere, in un celebre lavoro, che Eusebio non fosse l’autore della Vita Constantini nella sua forma attuale7. Oggi vediamo le cose in modo radicalmente diverso e ci domandiamo piuttosto quale fosse il rapporto tra il latino di Costantino e il greco di Eusebio e quale il motivo della forzatura (di entrambi, del solo Eusebio) insita nel termine pais. Sembrerebbe evidente che, in questo come in altri casi, Eusebio sia stato più spregiudicato del suo protagonista; in un altro passo della Vita egli afferma che nel 303 Costantino era ancora «un ragazzo [pais] tenero con una barba appena incipiente»8. Sullo sfondo di questa affermazione sta uno dei grandi temi della Vita Constantini, ovvero l’assimilazione tra l’esperienza del sovrano cresciuto in mezzo ai tiranni persecutori e quella di Mosè9. Si possono formulare varie ipotesi10, ma sembra evidente che sia l’imperatore sia il suo biografo avessero un preciso interesse a esagerare la giovane età di Costantino in quelle lontane circostanze, perché ciò contribuiva a cancellare la responsabilità morale del suo coinvolgimento nella persecuzione11. Entrambi comprendevano che per ottenere un’immagine del cristianesimo costantiniano armonica, indiscutibile, priva di crepe e di lacune, era necessario anzitutto appiattire la cronologia, comprimere la storia, affrontare e risolvere, nei limiti del possibile, quella che già appariva come ‘la questione costantiniana’.
Una chiara nozione di ‘epoca costantiniana’ si deve ancora una volta allo stesso Costantino. Nella celebre lettera inviata dall’imperatore, sempre nel 324, ai provinciali d’Oriente, che Eusebio cita testualmente da un esemplare indirizzato ai provinciali di Palestina12, Costantino riassume, in un’ampia prospettiva, la storia dei rapporti tra i perseguitati, i persecutori e il «sommo Dio». Da questa storia egli ricava una costante, che assume ai suoi occhi il valore di una legge storica. Il documento è celebre, ma merita di essere riletto:
Chi ripercorra con la mente i tempi che vanno dalle origini fino ai nostri giorni e si soffermi a considerare quanti eventi siano accaduti, constaterebbe che tutti coloro che hanno impostato le loro azioni su fondamenta di giustizia e di bontà hanno anche condotto le loro iniziative a un esito felice, come quando da una buona radice si ottiene un dolce frutto, mentre quelli che hanno commesso azioni ingiuste o si sono scagliati con furia dissennata contro l’Onnipotente o non hanno provato un solo sentimento di pietà verso il genere umano, e hanno anzi osato causare esili, privazioni di diritti, confische, stragi e compiere molti altri crimini di tal fatta, senza mai pentirsi né volgere al bene la loro mente, anche loro hanno ricevuto una degna ricompensa. Simili conseguenze non potrebbero accadere senza un motivo, senza una ragione13.
Ripensando ai frangenti nei quali si era concretizzata la sua ascesa al potere, Costantino drammatizzava la gravità della crisi allora vissuta dall’Impero, attribuendo a essa una dimensione catastrofica, al fine di ingigantire il significato della scelta compiuta dal Signore come rimedio ai mali universali:
Dal momento che il genere umano era oppresso da un’empietà così grave e profonda, e che la cosa pubblica correva il rischio di essere annientata da una sorta di morbo pestilenziale, e aveva enorme bisogno di una terapia salvifica, quale medicina escogitò la divinità, quale soluzione a quelle spaventose sciagure? Questa deve essere necessariamente ritenuta come la divinità, l’unica che realmente esista e che detenga un potere che duri in eterno. Non è certo vanagloria se chi riconosce i benefici ricevuti da Dio ne parla con toni solenni. Egli stesso ha ricercato il mio servizio e lo ha giudicato adatto ai suoi fini. Io, infatti, cominciando dal mare che si estende dalla parte dei Britanni e da quelle regioni sulle quali una forza superiore ha stabilito che il sole tramonti, ho scacciato e disperso tutti i mali che ci dominavano, affinché il genere umano, istruito dalla mia devota sottomissione, restaurasse l’osservanza della santissima Legge, e affinché, al tempo stesso, la fede quanto mai benedetta potesse crescere sotto la guida dell’Onnipotente. Non potrei mai disconoscere il debito di gratitudine per questo compito altissimo, convinto come sono che mi sia stato concesso come un dono14.
L’elezione di Costantino corrispondeva a un disegno provvidenziale, che in questo passaggio della lettera è caratterizzato in armonia con l’ordine naturale e cosmico: il riferimento alle «regioni sulle quali una forza superiore ha stabilito che il sole tramonti», dove Costantino era stato acclamato imperatore, qualifica, infatti, come un’alba l’inizio del suo potere e della sua lotta per la salvezza del mondo.
Simili enunciazioni avevano alle spalle una tradizione più che millenaria. Per restare nell’ambito della storia greco-romana, le ritroviamo formulate all’inizio dei regni dei sovrani ellenistici, nelle attese e nelle promesse di alcuni leader politici della tarda repubblica dotati di quella particolare virtù che era la felicitas imperatoria (celebre il ritratto ciceroniano di Pompeo, più meritevole di altri di ricevere il comando nella guerra mitridatica perché nel suo, come in altri rari casi, «ad amplitudinem et ad gloriam et ad res magnas bene gerendas divinitus adiuncta fortuna»15), nell’atmosfera epocale dell’età di Augusto e poi in coincidenza con gli esordi di alcuni imperatori romani. La formulazione più completa e suggestiva si deve a Plinio il Giovane, con la valorizzazione della formula felicitas temporum riferita all’avvento di Traiano (anche se anticipata dal buon governo di Nerva). Essa poteva essere intesa in senso largo, come fortuna e benessere che si riversavano sul mondo romano. La sua accezione più forte riguardava tuttavia l’ambito politico, mentre quella più ristretta legava l’indulgentia del principe alla bona conscientia dei sudditi: «felicitas temporum, quae bonam conscientiam civium tuorum ad usum indulgentiae tuae provocat et attollit»16. Fondamentale restava tuttavia l’origine prima del potere, che derivava direttamente dalla divinità. Lo stesso Plinio, nel Panegirico, dichiarava, con parole di grande effetto ed eleganza, che il suo principe non era stato prescelto da una qualche forza occulta e casuale, ma dal preciso e manifesto volere di Giove: «Non enim occulta potestate fatorum, sed a Iove ipso coram ac palam repertus est»17.
Elementi significativi di questa ideologia permangono senza dubbio nella rappresentazione del potere di Costantino, per come fu formulata dallo stesso imperatore e valorizzata da Eusebio. Si è ritenuto che questa coincidenza tra l’antica tradizione romana e la retorica costantiniana fosse tale che i destinatari del suo messaggio dovessero necessariamente coincidere con la comunità che si riconosceva nella Chiesa18. Non c’è dubbio, tuttavia, che il fatto che in un editto l’imperatore parli di Dio e di ciò che Dio desidera possa essere considerato un tratto tipico della tarda antichità19. Ma c’è molto di più: nella lettera di Costantino, infatti, le vecchie immagini e i vecchi pensieri risultano inseriti in una dimensione e in una sensibilità diverse, che li trasfigurano e li convertono in una percezione epocale. C’è una differenza radicale tra il qualificare il proprio regno come coincidente con una felicitas temporum fondata sul pieno gradimento del nuovo imperatore da parte degli dei (o sulla particolare protezione di un dio fra i tanti), e il formulare una simmetria tra la propria assunzione al trono e una drammatica rivoluzione superna. L’ascesa di Costantino, infatti, non è presentata semplicemente, alla maniera di Traiano, come un evento che segna la manifestazione del favore divino, ma come la proiezione politica di una vittoria celeste, che rivelava al mondo l’esistenza di un solo dio, la sua identità, la natura demoniaca dei vecchi dei. Mentre la felicitas temporum tradizionale era direttamente collegata al regno di un imperatore e aveva termine con la salus del sovrano20, la rivoluzione celeste coincidente con l’epoca costantiniana era rappresentata dallo stesso Costantino come un’acquisizione per l’eternità. Il problema della successione dinastica, che Costantino impostò in modo nuovo, elaborando – principalmente sul modello biblico – una concezione patrimoniale della trasmissione del potere, aveva certo una grande importanza: il trionfo del nuovo Dio non dissolveva d’un colpo le insidie contingenti della politica e l’umana contesa per il primato, e lo stesso Eusebio ebbe la preoccupazione di ribadire che, pur dopo la morte, Costantino continuava a regnare «vivo in potenza», e a esercitare la sua autorità sui Romani, «proprio come se fosse risorto»21. Ma indipendentemente dalle conferme o dalle smentite che simili affermazioni avrebbero potuto ricevere, restava il carattere indiscutibile dell’essenza illimitata della felicitas temporum costantiniana.
L’affermazione fondamentale della lettera ai provinciali d’Oriente coincide dunque con la frase «Questa deve essere necessariamente ritenuta come la divinità, l’unica che realmente esista e che detenga un potere che duri in eterno». Il dominio degli dei tradizionali, al contrario, non aveva avuto un carattere eterno: era ormai manifesto che esso era stato abbattuto perché non si trattava di autentiche divinità, ma di demoni. L’epoca di Costantino, vista da Costantino, è il primo frammento di una nuova eternità, destinata a concludersi soltanto con la fine dei tempi.
Naturalmente non va trascurato il fatto che la prospettiva di Costantino era pur sempre di tipo politico-religioso. La grande riflessione cristiana sulle epoche del mondo avrebbe avuto orizzonti più ampi. Si pensi, per un esempio indicativo e destinato a grande fortuna, alla «sesta età» di Agostino, epoca del Cristo e della Chiesa, iniziata con la nascita stessa di Cristo22. Nei secoli successivi, la dialettica tra queste prospettive può essere apprezzata sul lunghissimo periodo: soltanto con Bossuet la periodizzazione agostiniana sarà complicata fino a raddoppiarsi nel numero delle epoche e potrà allora includere, dopo l’epoca iniziata dalla nascita di Cristo, quella di Costantino e della pace della Chiesa. Mescolando personaggi ed eventi della storia sacra (per esempio Adamo, Noè, Salomone, Carlo Magno) ed eventi della storia profana (per esempio la caduta di Troia, la fondazione di Roma, la vittoria di Roma su Cartagine), Bossuet costruiva una storia che si distaccava dal modello teocentrico. Per questo si è potuto giustamente affermare che la sua opera testimonia, «all’insaputa dell’autore, di una crisi della cronosofia cristiana»23. Oggi, come vedremo, il problema è piuttosto quello di collocare l’epoca di Costantino dentro una periodizzazione che non si limiti a quella riguardante unicamente la storia del cristianesimo.
La nozione di epoca, se associata al nome di un imperatore, ha quasi sempre un’accezione debole. Quando diciamo per esempio ‘epoca’ di Tiberio, di Vespasiano, di Antonino Pio o di Aureliano, ci riferiamo semplicemente al periodo in cui gli imperatori regnarono. Questi o altri prìncipi possono pur aver compiuto qualche azione memorabile e il loro governo può apparire segnato da caratteristiche originali, ma simili constatazioni non comportano affatto l’attribuzione, alla loro epoca, di un valore «epocale».
In altri casi, il senso appare meno debole. Questo accade quando il regno di un imperatore coincide con processi di trasformazione che coinvolgono la totalità o settori importanti della società, i quali assumono ai nostri occhi un carattere periodizzante. L’espressione ‘epoca di Marco Aurelio’ indica per l’appunto uno di questi momenti, poiché si collega alla diffusa convinzione che alcuni fenomeni verificatisi in questo periodo – in primo luogo la cosiddetta «peste antonina»24 – abbiano determinato un nuovo corso della storia imperiale. Nell’esempio in questione, tuttavia, appare chiaro che le accelerazioni della storia, i grandi mutamenti, i coinvolgimenti globali non siano sono determinati dall’azione di un singolo imperatore, ma che quest’ultimo li ha piuttosto subiti, senza poter dare una risposta caratterizzante in senso epocale. In positivo, si ricorda che Marco Aurelio combatté personalmente per fronteggiare le prime grandi invasioni germaniche, che coltivò la filosofia, che è rimasto nella storia della cultura mondiale per le sue Meditazioni, in negativo che compromise la stabilità del potere designando come successore il figlio Commodo25. Ma nessuno potrebbe mai sostenere che egli sia stato un protagonista ‘epocale’.
Ci sono infine casi in cui la Kaisergeschichte dialoga in modo più serrato e incisivo con i grandi processi evolutivi, la biografia aggancia la storia plurale, la figura di un imperatore appare interpretare in modo creativo gli orientamenti generali. Allora la nozione di epoca, associata al nome di un principe, assume il suo significato più profondo, quello che ci autorizza appunto a parlare di ‘epoca di Augusto’ o di ‘epoca di Costantino’, nella convinzione che – pur escludendo ovviamente la concezione titanica di un individuo che da solo cambia il mondo – la visione e l’opera di un singolo, determinate, influenzate, persino costrette dalle trasformazioni di una comunità e dalle sue esigenze, contengano tuttavia un carattere originale, destinato a incidere non solo dentro il tempo limitato di un’esistenza individuale, ma ben oltre, per la durata di molte generazioni. Né l’epoca di Augusto né quella di Costantino si sono concluse con la morte dei due protagonisti.
Alcune lingue moderne possiedono un sinonimo di ‘epoca’ che sembra adattarsi a rendere quest’ultima accezione: per esempio l’italiano, inglese e spagnolo ‘era’, o il francese ‘ère’. Questo termine richiama la trasformazione delle periodizzazioni in cronologie, ovvero il grandioso significato di ‘era’ quale determinato punto fissato nel tempo, a partire dal quale ha inizio un nuovo computo degli anni precedenti o successivi a quel punto. L’uso di ‘era’ associato al nome di un imperatore vale dunque in questo caso come rafforzativo di ‘epoca’, quasi a voler segnalare il fatto che ci si trovi di fronte a un’epoca speciale, dotata di un surplus di potenza periodizzante, che, senza attingere il valore pieno di ‘era’, possieda tuttavia un valore aggiunto rispetto a ‘epoca’26. Si tratta tuttavia di un espediente retorico, non privo di una sua efficacia espressiva, ma che nulla aggiunge, sotto il profilo logico, all’individuazione e all’interpretazione di un determinato periodo storico.
L’unica coerente definizione di «era costantiniana», intesa come periodo comprendente oltre sedici secoli (e quindi, a più giusto titolo, ‘era’), non è nata nell’ambito della ricerca storica propriamente detta, ma dentro la prospettiva di una critica storico-teologica. Essa si deve soprattutto al teologo domenicano Marie-Dominique Chenu, che nel 1961, alla vigilia del concilio Vaticano II, diffuse alcune riflessioni sull’esito di un processo che gli appariva compiersi nell’attualità, da lui definito «fin de l’ère constantinienne»27. Con «era costantiniana» Chenu non si riferiva all’arco di tempo caratterizzato dalla figura e dall’azione di quell’imperatore, ma a una situazione permanente (una «chrétienté établie»), di carattere totale, che coinvolgeva «un complexe mental et institutionnel dans les structures, dans le comportements et jusque dans la spiritualité de l’Église», ponendosi in una dimensione di esemplarità ideale. Si trattava dunque di una periodizzazione globale, della quale egli intravedeva ormai il termine ultimo. Nel momento in cui interi settori della vita umana si desacralizzavano («les civilisations [...] marquent leur progrès en prenant peu à peu en charge les besoins matériels et moraux des communautés terrestres dont l’Église, par suppléance, avait longtemps pris soin»), si offriva alla Chiesa la possibilità di rinascere come Chiesa missionaria, che si riappropriava del primato della parola di Dio: «La voilà, la fin de l’ère constantinienne!»28. L’individuazione di una prospettiva liberatrice per il futuro della Chiesa appartiene soprattutto alla visione dell’uomo di fede che si confronta con il rapporto tra Vangelo e storia. Considerata nel suo complesso, la riflessione, anche se di matrice ecclesiologica, è tuttavia di notevole interesse per gli storici tout court, perché la sua efficacia periodizzante è evidente e tutt’altro che impressionistica29.
Il fatto che da Costantino dai suoi contemporanei, e poi nei secoli dell’ultima antichità, nel mondo bizantino e nell’Occidente medievale, nell’Età moderna e in quella contemporanea, l’epoca di Costantino sia stata considerata, in positivo o in negativo, una svolta di rilevanza eccezionale, è un’affermazione talmente ovvia da non richiedere alcuna dimostrazione. È proprio per questo motivo che finora nessuno ha tentato di scrivere una storia esauriente della fortuna del concetto di «epoca costantiniana»30. L’argomento cui è dedicato questo contributo, ovvero il rapporto tra l’epoca di Costantino e il Tardoantico, occupa un segmento piccolo, anche se fondamentale, di una storia molto più lunga. Esso si concretizza infatti con l’invenzione del concetto di tarda antichità, che risale alla critica d’arte della fine dell’Ottocento. Prima di approfondire questo argomento è necessario ricordare che in precedenza la nozione di epoca costantiniana era stata collegata prevalentemente a singoli aspetti, ritenuti dominanti. Questa inclinazione monotematica riaffiora talvolta anche nella storiografia recente.
‘Tolleranza’ è un termine usurato da inflazione semantica. Negli ultimi decenni, tuttavia, è tornato di grande attualità anche tra gli storici: proprio quando si era diffusa la convinzione che il problema della tolleranza religiosa fosse diventato un fenomeno quasi residuale rispetto alla crescente centralità del problema della tolleranza ideologica, ecco che l’esplosione dei fondamentalismi ha addirittura riportato in auge lo spettro della guerra santa. Gli studi relativi alla tarda antichità ne hanno particolarmente risentito.
Da ultimo, nel clima del bimillenario del 313 d.C., ha ripreso vigore l’esaltazione di Costantino come protagonista del «tempo della tolleranza»31, proiettando la denominazione vulgata del provvedimento di Milano in una dimensione totalizzante.
L’interpretazione dell’epoca costantiniana come epoca della tolleranza, anche se non nuova, converge adesso in quell’orientamento storiografico che esalta la modernità del Tardoantico32. Dopo aver dominato a lungo, la retorica della modernità applicata a quest’epoca ha perso da qualche tempo smalto e vigore, ma è lungi dall’esaurimento. Applicare la definizione di epoca della tolleranza al periodo dominato dalla figura di Costantino significa infatti proporre una revisione del vecchio paradigma (per altro ancora operante) che attribuiva al politeismo una vocazione tollerante e al monoteismo il suo opposto. Al tempo stesso, l’operazione finisce per dislocare la figura di Costantino in contiguità sostanziale con i moderni teorici della tolleranza33.
È inutile ripercorrere, in questa circostanza, la grande massa di lavori dedicati, negli ultimi decenni, alla coppia tolleranza/intolleranza, in riferimento sia alle religioni tradizionali sia al cristianesimo. La cosa migliore, come alcuni rari studiosi hanno auspicato, sarebbe rinunciare all’uso di quella parola, poiché il concetto, se riferito a fenomeni come la politica religiosa di Costantino o gli orientamenti delle città e dei regni antichi in materia di controllo politico e religioso, appare inapplicabile, legato com’è, nella sua essenza, a fenomeni tipici di epoche a noi più vicine. Sarebbe quindi preferibile adoperare vocaboli come «esclusività» e «inclusività», che meglio si adattano a descrivere e interpretare la convivenza o il contrasto delle idee nelle società antiche34.
Il suggestivo concetto di «toleration by default» riferito alle città pagane del mondo greco e romano35 ha il difetto di non potersi basare su un solo documento esplicito. In altre parole, prima delle persecuzioni del cristianesimo è impossibile reperire documenti in cui sia attestata la volontà frustrata di procedere a repressioni sistematiche, e la conseguente rinuncia «by default». È vero piuttosto che le città politeiste hanno praticato più volte i loro specifici percorsi di quella che noi chiamiamo intolleranza, ovvero le scelte che in determinate circostanze sono apparse utili a ristabilire equilibri, sopire paure motivate o solo percepite, contenere minacce autentiche o presunte all’ordine pubblico. Esistevano certo città più o meno aperte, più o meno inclini alle convivenze, più o meno disponibili all’integrazione degli stranieri, ma queste differenze non comportavano automaticamente gradi diversi di coercizione delle devianze. Una città chiusa poteva non avere necessità di reprimere le idee dissonanti o i gruppi minoritari, perché il problema era annullato alla radice o contenuto entro limiti minimi, tali da non suscitare allarme. Una città aperta, o addirittura apertissima come Roma, poteva al contrario aver bisogno di ricorrere a repressioni periodiche proprio per mantenere in vita processi di acculturazione altrimenti insostenibili36.
L’immagine macabra delle moderne guerre di religione si è riverberata a ritroso sull’epoca costantiniana, influenzando molti studiosi, i quali sono stati portati a ritenere che l’intolleranza presupponga necessariamente spargimento di sangue, violenze fisiche, roghi e torture, e che laddove questi fenomeni non si registrino, o si registrino sporadicamente, non possa parlarsi di autentica ‘intolleranza’. La constatazione che la religione tradizionale abbia praticato persecuzioni cruente e sistematiche e che il cristianesimo non abbia fatto altrettanto37 è fondamentale, ma attitudini e politiche ‘intolleranti’ possono manifestarsi in forme oppressive, umilianti, moralmente brutali anche senza l’esercizio della violenza fisica sistematica. I seguaci di altre religioni possono essere eliminati con assalti furibondi e sistematici oppure con una lenta e protratta asfissia, con una progressiva alterazione del loro habitat: entrambi i procedimenti rientrano a pieno titolo nella sfera dell’intolleranza. Anche se Costantino adottò comportamenti oscillanti, che alternavano esternazioni aggressive e inviti alla moderazione, esperienze coercitive e pratiche di convivenza, la sua politica religiosa appare caratterizzata, complessivamente, da alcuni dati di fatto: l’imperatore sovvenzionò con somme ingenti le chiese, concesse ai chierici privilegi ed esenzioni dagli obblighi civici38, attribuì potere giusdicente ai vescovi cattolici, fece costruire a proprie spese nuove chiese e monumenti dedicati ai martiri, confiscò i beni di alcuni antichi templi, altri li distrusse, discriminò i cristiani non cattolici con provvedimenti punitivi e li qualificò con termini infamanti (creando in tal modo i presupposti per una più che millenaria persecuzione degli ‘eretici’), definì gli ebrei ‘assassini di Dio’39. È molto discussa, a causa delle ambiguità della documentazione, l’esistenza di un provvedimento costantiniano sulla proibizione dei sacrifici tradizionali, ma è difficile non attribuire a quel sovrano qualche intervento coercitivo anche in questo campo40. Nell’Oratio ad sanctorum coetum Costantino si esprime infine, nei confronti dei nemici, in termini che hanno fatto parlare di «guerra di religione»41; questo concetto, tuttavia, può essere riferito esclusivamente al messaggio e alle motivazioni dell’imperatore, perché nulla sappiamo – a differenza delle moderne guerre di religione – del reale coinvolgimento emotivo degli eserciti contrapposti.
Anche le parole hanno il loro peso. Costantino usa spesso contro i seguaci delle religioni tradizionali, i cristiani dissidenti, gli ebrei, un linguaggio aspro e violento, che si spinge fino a manifestazioni di disgusto. Risalta un’espressività cupa e minacciosa, che ha messo in imbarazzo qualche studioso42. Si è sostenuto che questi toni parossistici fossero un abile espediente politico, una sorta di tributo pagato da Costantino ai cristiani più intransigenti per poter proseguire, senza perdere consenso, una politica sostanzialmente moderata: «Using angry language to win the sympathy of the very militants whose will he thwarted, he gave a moral gloss to a policy of toleration by exploiting the Christian message of peace»43. Questa opinione è molto ragionevole. Tuttavia, anche se le parole del sovrano non raggiungevano certo la maggioranza dei sudditi, esse avevano, per il fatto stesso di essere destinate a gruppi di «militanti», un effetto potenziato, in quanto animavano i sentimenti dei cristiani più attivi ed energici, giustificavano le loro inclinazioni, li rendevano più autorevoli presso la massa dei fedeli quieti e soddisfatti. La loro predicazione diventava più potente perché era l’eco delle gravi parole dell’imperatore illuminato da Dio.
Questa interpretazione della politica costantiniana, meno irenica di quella tradizionale, ha come conseguenza un notevole indebolimento della nozione di epoca costantiniana intesa come periodo che si concluderebbe con il regno di Teodosio, il quale avrebbe soppresso le vie della convivenza a favore di una politica volta a valorizzare il cattolicesimo come unica religione di Stato. Più che la cesura essa valorizza infatti gli elementi di continuità della politica religiosa tra la prima e l’ultima fase del IV secolo44.
Il nome di Costantino compare, come riferimento negativo, all’alba della rinascita umanistica, quando Petrarca condannò, quale inizio dell’oscurantismo e della miseria culturale, il periodo in cui gli imperatori cominciarono a venerare Gesù Cristo. Questa coincidenza tra il trionfo della fede e il decadimento della cultura comportava una constatazione inquietante, come scrisse Panofsky:
Il Petrarca era troppo buon cristiano per non rendersi conto, almeno in certi momenti, che questa concezione dell’antichità classica come un’età di ‘puro splendore’ e dell’età iniziatasi con la conversione di Costantino come un periodo di ignoranza significava un rovesciamento completo dei valori stabiliti. Ma era anche troppo convinto del fatto che ‘la storia non fosse altro che lode di Roma’ per abbandonare la sua visione45.
Come vedremo in seguito, per superare questo divorzio tra storia del cristianesimo e storia della cultura sarebbe stato necessario un lungo percorso. In questo percorso la riflessione storico-artistica ha svolto un ruolo fondamentale.
Nel 1568 Giorgio Vasari osservò che con l’età di Costantino aveva avuto inizio un periodo di grave decadenza nelle arti. Come sarebbe accaduto tante altre volte in futuro, il monumento esemplare era per lui l’Arco di Costantino. Il carattere composito di quest’opera offriva un laboratorio prezioso per il confronto storico:
per mancamento di maestri buoni, non solo si servirono delle storie di marmo fatte al tempo di Traiano, ma delle spoglie ancora condotte di diversi luoghi a Roma. E chi conosce, che i vóti che sono ne’ tondi, cioè le sculture di mezzo rilievo, e parimente i prigioni e le storie grandi e le colonne e le cornici et altri ornamenti, fatti prima e di spoglie, sono eccellentemente lavorati, conosce ancora, che l’opere le quali furon fatte per ripieno dagli scultori di quel tempo sono goffissime, come sono alcune storiette di figure piccole di marmo sotto i tondi et il basamento da piè, dove sono alcune vittorie, e fra gli archi dalle bande certi fiumi che sono molto goffi e sì fatti che si può credere fermamente che insino allora l’arte della scultura aveva cominciato a perdere del buono.
È rilevante, per meglio inquadrare la visione storica di Vasari, la constatazione che questa evidente decadenza non era dipesa in prima istanza da cause esogene, vale a dire dalle invasioni barbariche, ma aveva avuto inizio da un processo endogeno: «e nondimeno non erano ancora venuti i Gotti e l’altre nazioni barbare e straniere che distrussero insieme con l’Italia tutte l’arti migliori [...] chi considera con diligenza le medaglie d’esso Gostantino e l’imagine sua et altre statue fatte dagli scultori di quel tempo, che oggi sono in Campidoglio, vede chiaramente ch’elle sono molto lontane dalla perfezzione delle medaglie e delle statue degl’altri imperatori. Le quali tutte cose mostrano che molto inanzi la venuta in Italia de’ Gotti era molto declinata la scultura». L’architettura fu anch’essa coinvolta in questo decadimento, ma in modo meno grave e più lento, «perché facendosi gl’edifizzi grandi quasi tutti di spoglie, era facile agli architetti nel fare i nuovi imitare in gran parte i vecchi che sempre avevano dinanzi agl’occhi; e ciò molto più agevolmente che non potevano gli scultori, essendo mancata l’arte, imitare le buone figure degl’antichi»46.
Le premesse costantiniane di questo declino si sarebbero molto aggravate a causa delle invasioni barbariche, e tuttavia il danno peggiore sarebbe stato opera del cristianesimo: «Ma quello che sopra tutte le cose dette fu di perdita e danno infinitamente a le predette professioni, fu il fervente zelo della nuova religione cristiana»47, che si accanì nell’abbattere le opere dei pagani e nello spogliare i loro monumenti. Sembra esagerato attribuire a Vasari la convinzione che Costantino fosse stato il responsabile di questo decadimento, e che la sua ‘epoca’, considerata nell’ambito della storia dell’arte, si sarebbe protratta fino al 1250, ovvero fino alla rinascita48. Per un verso, infatti, le arti erano considerate da Vasari già decadenti prima di Costantino49, per altro verso il declino dei secoli successivi era dovuto anche a molteplici cause che nulla avevano a che fare con Costantino. Quanto allo «zelo» distruttivo dei cristiani che vennero dopo, Vasari evita di attribuirne la responsabilità a Costantino. L’età costantiniana aveva un significato periodizzante, in senso negativo, soprattutto per le conseguenze artistiche della decisione di trasferire la capitale a Costantinopoli:
E se alcuna cosa mancava all’ultima rovina loro, venne loro data compiutamente dal partirsi Gostantino di Roma per andare a porre la sede dell’Imperio in Bisanzio, perciò che egli condusse in Grecia non solamente tutti i migliori scultori et altri artefici di quella età, comunche fussero, ma ancora una infinità di statue e d’altre cose bellissime50.
Inconsapevolmente Vasari riprendeva un argomento antico, già adoperato, in una prospettiva più ampia di quella storico-artistica, dalla tradizione pagana confluita nello storico Zosimo, che nel VI secolo insistette sul fatto che il trasferimento della capitale a Costantinopoli aveva rovinato l’Impero.
L’impostazione di Vasari suscita ancora oggi molte questioni rilevanti per gli storici dell’epoca costantiniana, poiché affronta un aspetto fondamentale, ovvero l’impossibilità di un inquadramento angusto dell’epoca costantiniana, circoscritta agli anni del regno di quell’imperatore (l’accezione «debole» cui si è accennato sopra). Questo significava indagare, come egli fece con gli strumenti allora a sua disposizione, sia gli eventuali precorrimenti nel periodo precedente l’epoca costantiniana sia gli sviluppi ulteriori.
L’elenco delle caratterizzazioni monotematiche dell’epoca costantiniana potrebbe essere ben più lungo, ma le interpretazioni storico-artistiche meritano una particolare considerazione perché è proprio nell’ambito della critica d’arte che si è affermato il concetto di Tardoantico51. Alois Riegl, il massimo esponente della cosiddetta Scuola di Vienna, pubblicò nel 1901 il suo libro più famoso, Die spätrömische Kunst-Industrie (Industria artistica tardo-romana, secondo la precisa resa della traduzione italiana, Firenze 1953)52, nel quale giungevano a maturazione alcuni aspetti di ricerche precedenti sui tessuti egizi, sui tappeti dell’Antico Oriente, sull’ornamentazione53. Muovendo da un’esigenza storicistica, Riegl si opponeva all’estetica di Winckelmann, ai suoi tempi ancora largamente diffusa, che individuava nell’arte classica il periodo di massima perfezione e lo adottava come misura del valore raggiunto da altre epoche della storia dell’arte. Questo equivaleva a respingere il concetto di decadenza, che fino ad allora dominava l’interpretazione degli ultimi secoli di Roma. Riegl introduceva a tal fine il complesso concetto di Kunstwollen («volontà d’arte»), che implicava la necessità di considerare autonomamente le epoche della storia dell’arte, senza far discendere il giudizio critico da pregiudiziali qualitative elaborate nella valutazione di altre epoche54. Lo stesso Burckhardt, cui si deve la prima grande interpretazione moderna dell’epoca costantiniana, non si era ancora emancipato dalla visione classicistica.
Riegl confessò di essere stato a lungo incerto se fissare l’inizio dell’arte tardoantica nell’età di Marco Aurelio o in quella di Costantino, per orientarsi infine a favore di quest’ultima55. A una conclusione analoga pervenne molto tempo dopo Ranuccio Bianchi Bandinelli, che, senza negare alcuni significativi precorrimenti riscontrabili nell’arte del III secolo, individuò soltanto nell’arte della prima tetrarchia «un’effettiva permanente rottura con la tradizione formale ellenistica nelle sue qualità più tipiche»56.
Dall’ambito storico-artistico questo problema di periodizzazione si è esteso alla storia generale tout court, investendo questioni di storia sociale, economica, istituzionale, culturale in senso ampio, senza escludere l’antropologia e la psicologia storica. Ovunque si è riproposto il dilemma sul peso da attribuire all’epoca costantiniana nella formazione della tarda antichità. Peter Brown ha definito il III secolo come il periodo dell’«emergence of features that [...] finally came together to form the definitively Late Antique style of religious, cultural, and social life that emerged in the late fourth and early fifth centuries»57. Santo Mazzarino accettò, sul piano culturale, l’idea di un «tardoantico in potenza (prima di Diocleziano o Costantino) accanto a un ‘basso impero’ attuale», e sostenne che, per aspetti quali il rapporto tra ideologie religiose contrapposte, potesse decisamente ritenersi che era stato il Tardoantico a dare inizio all’«era costantiniana»58. Queste considerazioni si conciliavano perfettamente con la convinzione che Costantino fosse stato al tempo stesso uno dei più grandi rivoluzionari della storia universale, come dimostravano le radicali trasformazioni che egli operò anche in campi diversi dalla religione. Considerata per esempio l’importanza che Mazzarino attribuiva alle conseguenze economiche e sociali della politica monetaria in età imperiale, la riforma costantiniana che fece della moneta d’oro (il solidus) il perno del sistema monetario assumeva ai suoi occhi una dimensione per l’appunto «rivoluzionaria»59.
L’interpretazione mazzariniana dell’età di Costantino non può prescindere dalla categoria di «democratizzazione della cultura», da lui applicata alla storia della tarda antichità e oggi assurta a nuova fortuna dopo un periodo di relativo oscuramento60. Democratizzazione della cultura è un’esperienza globale, fatta di movimenti orizzontali e verticali; un processo che tocca le masse non romanizzate e gli strati di base della popolazione di lingua greca e romana, ma che coinvolge al tempo stesso i ceti medi e alti; che ha nella diffusione del cristianesimo le sue motivazioni più forti, ma che prescinde per molti aspetti da essa; un grande fenomeno descrivibile secondo gli schemi più vasti dell’acculturazione. Mazzarino lo vide come un processo che attraversava l’intera società tardoantica. Sottolineò l’importanza delle trasformazioni nella storia dell’arte, con riferimento a fenomeni quali la «democratizzata idea dell’apoteosi» studiata da Friedrich Gerke e insistette sul rapporto tra democratizzazione e trasformazioni editoriali (il codice come forma «democratizzata» del libro), tra democratizzazione e consolidazioni giuridiche. Ma la sua analisi del fenomeno è dominata dall’insistenza sulle difficoltà del dialogo, talvolta sull’incomunicabilità, tra la cultura della tradizione, dello Stato, delle classi elevate, e le culture locali, rappresentate soprattutto dalle masse rurali. Nella prospettiva di Mazzarino, il paradigma della democratizzazione della cultura dispiegava tutte le sue potenzialità soprattutto nell’interpretazione della crisi del III secolo d.C. Già nel secolo successivo, con l’avvento della tetrarchia e di Costantino, il fenomeno fu tuttavia composto «in forme gerarchiche». S’impose allora la «prospettiva carismatica»; con questo concetto Mazzarino intendeva una nuova visione del mondo, che si esprimeva in un complesso di fenomeni che portava soprattutto l’impronta della politica di Costantino: il fondamento teologico del potere imperiale, che con quel sovrano divenne monarchia per grazia di Dio; la struttura piramidale della società, in cui i detentori della moneta aurea erano al vertice e i poveri alla base; il consolidamento della gerarchia ecclesiastica. Nell’arte, la prospettiva carismatica trovava invece espressione in fenomeni come la frontalità, la «‘proporzione gerarchica’, la centralizzazione, l’emancipazione dallo sfondo»61. La prospettiva carismatica è l’essenza dell’epoca di Costantino e, al tempo stesso, di un Tardoantico già sufficientemente elaborato.
Oggi, a causa del rafforzamento delle tendenze continuistiche, che mirano a negare l’esistenza di una crisi del III secolo o a ridurne notevolmente la gravità, la novità rappresentata dall’epoca di Costantino è spesso oggetto di valutazioni più sfumate e attenuate. Si tende a valutarne l’impatto come espressione più di un’accentuazione e di un accumulo di esperienze pregresse che di un vero e proprio salto qualitativo62. Le differenti interpretazioni concordano tuttavia nell’attribuire un significato forte al concetto di «epoca costantiniana».
Condanne della figura di Costantino e visioni negative della sua epoca hanno caratterizzato non soltanto, com’è noto e come si è visto in parte nelle pagine precedenti, le prospettive illuministiche e non confessionali. Le ritroviamo sia in quei settori del cattolicesimo che ricercano la freschezza della parola di Cristo di contro alla sclerosi e alle deviazioni della fede diventata istituzione sia, a maggior ragione, in tutte le innumerevoli forme del cristianesimo anticattolico. Ma per molti cristiani, almeno da Petrarca in poi, la contraddizione tra la vittoria della fede ottenuta dal sovrano prescelto da Dio e la caduta della cultura classica nella voragine dell’oscurantismo (tutt’altra cosa era la cultura dei Padri della Chiesa) ha rappresentato un’autentica aporia. Questo malessere appare tanto più grave perché spesso rimosso, messo in sordina, tenuto latente. Nel momento in cui la nozione di «epoca costantiniana» interseca il nuovo concetto di Tardoantico si apre però l’opportunità di una via d’uscita, di un’imprevista armonia. Da Riegl in poi, la rivalutazione dell’arte tardoantica si è estesa lentamente, come un manto rassicurante, su tutti i paesaggi culturali del mondo tardoantico, compresi gli spazi più aspri e remoti. È difficile prevedere la durata di una simile armonia, perché i sostenitori del declino riprendono vigore e hanno i loro buoni argomenti, ma questa fase segnata dal rapporto tra ‘epoca di Costantino’ e ‘Tardoantico’ (nella versione inaugurata da Riegl) è destinata a rappresentare comunque un capitolo importante nella storia della storiografia moderna.
1 Ormai nessuno storico serio sostiene la teoria del «cristianesimo politico» di Costantino. È invece ancora intenso il dibattito sulle caratteristiche di questa fede e sui tempi della sua maturazione. Lo dice molto bene per esempio H.A. Drake, The Impact of Constantine on Christianity, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2006, pp. 111-136, in partic. 112: «the question about Constantine’s conversion needs to shift from “Did he become Christian?” (about which there can be very little doubt) to “What kind of Christian did he become?”».
2 Il testo greco reca il termine pais, letteralmente «ragazzo», sul quale si veda oltre, nel testo.
3 Si tratta ovviamente di Diocleziano.
4 Eus., v.C. II 50-51; la traduzione (tranne una breve frase da lui volutamente espunta) è di A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, p. 24. Per la problematica dell’autenticità dei testi costantiniani trasmessi da Eusebio, basti il rinvio al lucido inquadramento proposto in Eusebius, Life of Constantine, translated with introduction and commentary by Av. Cameron, S.G. Hall, Cambridge 1999, pp. 16-21.
5 Costantino non si limitò a normalizzare la storia del suo rapporto con la fede cristiana durante la propria ‘gioventù’ ed elaborò un’analoga manipolazione nei confronti di suo padre Flavius Valerius Constantius, ritraendolo falsamente come un pio seguace del cristianesimo: «Ritengo che gli imperatori che mi hanno preceduto siano stati quanto mai crudeli, a causa delle loro feroci imprese, e che soltanto mio padre si sia comportato in modo straordinariamente mite, invocando in tutte le sue azioni, con ammirevole devozione, il Dio salvatore» (Eus., v.C. II 49,1, ma il motivo ricorre più volte). Per la questione degli orientamenti religiosi di Costanzo e del suo ruolo nella persecuzione, cfr. ora A.D. Lee, Traditional Religions, in The Cambridge Companion, cit., pp. 159-180, in partic. 169 con bibliografia.
6 È quanto egli afferma esplicitamente in v.C. II 47,2.
7 H. Grégoire, Eusèbe n’est pas l’auteur de la «Vita Constantini» dans sa forme actuelle et Constantin ne s’est pas «converti» en 312, in Byzantion, 13 (1938), pp. 561-583, in partic. 580-582; l’autore faceva ovviamente ricorso anche ad altri argomenti, ma riteneva che questo passo della Vita fosse decisivo a dimostrazione della sua tesi: «Seeck a bien vu que sa théorie de l’authenticité des pièces constantiniennes de la Vita ne résistait à cette seule phrase» (p. 581).
8 Eus., v.C. I 12,2.
9 Cfr. I 12,1; 19,1; 20,2; 38,2; 38,5; 39; II 12. Cfr. M. Hollerich, The Comparison of Moses and Constantine in Eusebius of Caesarea’s Life of Constantine, in Studia patristica, 19 (1989), pp. 80-95; più di recente, M. Amerise, Costantino il nuovo Mosè, in Storiografia e agiografia nella Tarda Antichità. Alla ricerca delle radici cristiane dell’Europa, Atti del Convegno della Facoltà di lettere classiche e cristiane dell’Università Pontificia Salesiana (Roma 21-22 gennaio 2005), a cura di B. Amata, G. Marasco, Roma 2005, pp. 671-700.
10 Su questo punto ritorno in modo approfondito in un prossimo lavoro.
11 T. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Malden-Oxford 2011, p. 3. Non diremo quindi che, insistendo sulla propria giovane età nella circostanza della persecuzione, Costantino intendesse valorizzare la precocità e la brillantezza della sua carriera, ma, al contrario, che quell’enfasi opacizzava lo smalto iniziale, con il vantaggio di lasciar credere che egli, durante la persecuzione, non avesse avuto alcuna responsabilità, né soggettiva né oggettiva, e di rendere quindi credibile il suo dissenso morale in quella circostanza: diversamente Eusebius, Life of Constantine, cit., pp. 245 segg.
12 Eus., v.C. II 24-42.
13 Eus., v.C. II 25.
14 Eus., v.C. II 28-29,1.
15 Cic., de imperio Cn. Pompei, 47.
16 Plin., epist. X 2,2; cfr. D. Fiore, La felicitas del principe in Plinio il Giovane, in Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane, V, Bari 1999, pp. 205-226. Più in generale, soprattutto J.R. Fears, Princeps a diis electus: the Divine Election of the Emperors as a Political Concept at Rome, Roma 1977.
17 Plin., paneg. 1,4-5.
18 Eusebius, Life of Constantine, cit., p. 44: «In this respect Constantine is little different from his polytheistic predecessors. Purity of religion could even motivate a persecutor, and was held to preserve the divine favour, pax deorum, for the whole Empire. Constantine is therefore directly concerned with the people of the Church».
19 H.A. Drake, The Impact of Constantine, cit., p. 128: «Constantine makes equally clear what his terms are in a way that is uniquely late Roman: he talks about God and what God wants».
20 Sotto questo profilo rimane sempre valida la distinzione tra «evangelii di Augusto» ed «evangelio di Gesù», formulata ad altro proposito da S. Mazzarino, L’impero romano, Roma 19622, pp. 100-110.
21 Eus., v.C. IV 67-75. Per la nuova ideologia patrimoniale del potere supremo elaborata da Costantino, per i suoi modelli culturali e per il suo fallimento, cfr. soprattutto I. Tantillo, “Come un bene ereditario”: Costantino e la retorica dell’impero-patrimonio, in Antiquité tardive, 6 (1998), pp. 251-264. Sulla prospettiva eusebiana di «un regno dopo la morte» di Costantino, cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano, cit., pp. 166-169.
22 Per la sesta età, cfr. Aug., gen. c.Manich., I 23,40, ed. D. Weber, in CSEL 91: «Mane autem fit ex praedicatione evangelii per dominum nostrum Iesum Christum et finitur dies quintus, incipit sextus, in quo senectus veteris hominis apparet. Hac enim aetate carnale illud regnum vehementer attritum est, quando et templum deiectum est et sacrificia illa cessarunt; et nunc ea gens, quantum ad regni sui vires attinet, quasi extremam vitam trahit. In ista tamen aetate tamquam in senectute veteris hominis homo novus nascitur qui iam spiritaliter vivit».
23 Jacques-Bénigne Bossuet, Discours sur l’histoire universelle à Monseigneur le Dauphin: pour expliquer la suite de la religion et les changements des empires, Paris, Sébastien Mabre-Cramoisy, 1681, praefatio; cfr. K. Pomian, s.v. Periodizzazione, in Enciclopedia Einaudi, X, Torino 1980, pp. 603-650, in partic. 617.
24 Cfr. ora L’impatto della peste antonina, a cura di E. Lo Cascio, Bari 2012.
25 E. Renan, Marc Aurèle et la fin du monde antique, Paris 1882, pp. 489 segg., fece addirittura coincidere la morte di Marco Aurelio con la fine del mondo antico: «Le jour de la mort de Marc-Aurèle peut être pris comme le moment décisif où la ruine de la vieille civilisation fut décidée». È interessante che questa constatazione non si accompagnasse a un’esaltazione acritica del suo regno ma, al contrario, a una sottolineatura dei suoi limiti: «Vingt ans de bonté avaient relâché l’administration et favorisé les abus».
26 Sembra questa l’accezione che troviamo nelle riflessioni raccolte da S. Mazzarino, Antico, tardoantico ed èra costantiniana, 2 voll., Bari 1974, 1980.
27 Cfr. specialmente M.-D. Chenu, La fin de l’ère constantinienne, in J.-P. Dumée, J. de Broucker, R. Voillaume et al., Un concile pour notre temps. Journée d’études des Informations catholiques internationales, Paris 1961, pp. 59-87, poi in La Parole de Dieu. L’évangile dans le temps, II, Paris 1964, pp. 17-36. Per la lunga formazione, nel corso del Novecento, del concetto di ‘fine dell’era costantiniana’, cfr. ora soprattutto G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Bologna 2012.
28 Cfr. J.-P. Jossua, Fin de la chrétienté ou nouvelle chrétienté, selon M.-D. Chenu, in Cristianesimo nella storia, 26 (2005), pp. 769-779.
29 Diversamente W. Schneemelcher, s.v. Konstantinisches Zeitalter, in Theologische Realenziklopädie, XIX, Berlin 1990, p. 501, in un approccio per altro ostile alle periodizzazioni storiche. Non direi, con J.-P. Jossua, Fin de la chrétienté, cit., che secondo l’interpretazione di Chenu «l’era costantiniana» non rappresenti un vero e proprio periodo storico; piuttosto, l’«era costantiniana» non si esaurisce con il periodo caratterizzato dalla presenza terrena di Costantino e dalle sue conseguenze sui decenni successivi, ma è inteso come una più grande epoca, un’‘era’, contenente altre epoche, diverse ma accomunate da quelle caratteristiche costanti che qualificano per l’appunto l’era costantiniana.
30 Non sono mancati ovviamente contributi importanti, come alcuni tra quelli raccolti ultimamente in Kaiser Konstantin der Grosse. Historische Leistung und Rezeption in Europa, hrsg. von K.M. Girardet, Bonn 2007.
31 Costantino 313 d.C. L’editto di Milano e il tempo della tolleranza (catal.), a cura di G. Sena Chiesa, Milano 2012.
32 A. Giardina, Esplosione di tardoantico, in Studi storici, 40 (1999), pp. 157-180, specialmente § 1 (Retorica della modernità).
33 Cfr. per esempio G. Sena Chiesa, Costantino. Mediolanum e il tempo della tolleranza. La testimonianza delle immagini, in Costantino 313 d.C., cit., p. 11, a proposito del cosiddetto editto di Milano: «è comunque sorprendente che il concetto di tolleranza, un problema così vivo nel nostro tempo, trovi una enunciazione solenne in un documento che, molto prima delle settecentesche dichiarazioni dei diritti dell’uomo, impegnava lo Stato al rispetto della coscienza di ciascun essere umano». Come si è accennato, valutazioni della politica religiosa di Costantino nel segno della tolleranza si trovano anche in ricerche meno recenti: uno degli esempi più significativi, per la qualità complessiva del contributo e per l’orientamento non confessionale, si trova in P. Garnsey, Religious Toleration in Classical Antiquity, in Persecution and Toleration. Papers Read at the Twenty-Second Summer Meeting and the Twenty-Third Winter Meeting of the Ecclesiastical History Society, ed. by W.J. Sheils, Oxford 1984, p. 18 (l’autore ritiene che nel periodo compreso tra la fine della persecuzione dei cristiani e l’inizio della persecuzione dei pagani, da lui individuato nella politica di Teodosio I, «Christian emperors on the whole pursued a policy of toleration»).
34 «Exclusivity» è il vocabolo proposto da M. Beard, J. North, S. Price, Religions of Rome, I, A History, Cambridge 1998, p. 212: «The issue is rather the degree of exclusivity of the Roman system, how it operated and how it changed». Sembrerebbe lecito dedurne che come «tolleranza» presuppone «intolleranza», così «exclusivity» debba presupporre «inclusiveness» (la coppia simmetrica sarebbe dunque, preferibilmente, «exclusiveness/inclusiveness). Sull’opportunità di non applicare il concetto di tolleranza al mondo antico, cfr. ultimamente anche G. Zecchini, Religione pubblica e libertà religiosa nell’impero romano, in Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri e indirizzi, forme del controllo, idee e prassi di tolleranza, a cura di G.A. Cecconi, C. Gabrielli, Bari 2011, p. 188 e passim.
35 P. Garnsey, Religious Toleration, cit., per esempio p. 9: «‘Toleration by default’ would seem a possible, if charitable, description of the attitude of the Roman authorities. It would be more in line with our definition of toleration to say that governments showed by their inaction an appreciation of the limits of their power or a passive acquiescence in the presence of cults which they could not control».
36 Cfr. A. Giardina, Inclusione/esclusione nel mondo etrusco e romano, in Thesaurus cultus et rituum antiquorum (ThesCRA), 8, Los Angeles 2012, pp. 302 e segg.
37 «Una considerazione tanto ovvia quanto spesso dimenticata», osserva giustamente G. Zecchini, Religione pubblica, cit., p. 198 nota 61.
38 Ovviamente, il fatto che templi e figure delle religioni tradizionali abbiano conservato, per un periodo più o meno lungo, alcune gratifiche o esenzioni non può essere paragonato alla quantità e alla qualità degli interventi costantiniani a favore del cattolicesimo.
39 Su questi orientamenti della politica costantiniana, T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA)-London 1981, cap. XIV.
40 Sul problema della distruzione dei templi, cfr. ora soprattutto G. Bonamente, Politica antipagana e sorte dei templi da Costantino a Teodosio II, in Trent’anni di studi sulla Tarda Antichità: bilanci e prospettive, Atti del Convegno internazionale (Napoli 21-23 novembre 2007), a cura di U. Criscuolo, L. De Giovanni, Napoli 2009.
41 S. Mazzarino, Antico, tardoantico, cit., I, cap. V, pp. 99-150; il richiamo mantiene la sua validità indipendentemente dalle possibili individuazioni del nemico cui si riferisce Costantino (secondo Mazzarino, Licinio), con le inevitabili ripercussioni sulla datazione dell’Oratio.
42 Cfr. per esempio M. Edwards, The Beginnings of Christianization, in N. Lenski, The Cambridge Companion, cit., p. 143, il quale dubita dell’autenticità di Cod. Theod. XVI 8,1 («this might have been the language of a bishop not of Constantine, at least not in his laws»).
43 H.A. Drake, Lambs into Lions: Explaining Early Christian Intolerance, in Past and Present, 153 (1996), p. 21.
44 Per un inquadramento storiografico e un ripensamento della legislazione di Teodosio in campo religioso, cfr. ora l’importante contributo di R. Lizzi Testa, Legislazione imperiale e reazione pagana: i limiti del conflitto, in Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (IVth-VIth Century A.D.). Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose (October 2008), ed. by P. Brown, R. Lizzi Testa, Münster 2010, pp. 467-491.
45 E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Milano 19912, p. 26.
46 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, II, Firenze 1967, pp. 14 e segg.
47 Ivi, pp. 18 segg.
48 Diversamente K. Pomian, s.v. Periodizzazione, cit., p. 621.
49 Inequivocabile l’affermazione «se bene continuarono l’arti della scultura e della pittura insino alla consumazione de’ dodici Cesari, non però continuarono in quella perfezione e bontà che avevano avuto innanzi»: Giorgio Vasari, Le vite, cit., p. 14.
50 Ivi, p. 15.
51 M. Mazza, Spätantike. Genesi e trasformazioni di un tema storiografico (da Burckhardt a Mickwitz e Marrou via Riegl), in Id., Tra Roma e Costantinopoli. Ellenismo Oriente Cristianesimo nella Tarda Antichità. Saggi scelti, Catania 2009, pp. 5-63, ha acutamente insistito sul ruolo di Burckhardt nella prima elaborazione del concetto di Spätantike. I due aspetti fondamentali, per un serrato confronto tra Burckhardt e Riegl, riguardano il rispettivo rapporto con l’idea di decadenza e l’importanza attribuita all’autonomia del Tardoantico. I principali riferimenti storiografici relativi al problema dell’origine del concetto sono esposti da W. Liebeschuetz, The Birth of Late Antiquity, in Antiquité Tardive, 12 (2004), pp. 253-261.
52 A. Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in Österreich-Ungarn, 2 voll., Wien 1901 (seconda edizione Wien 1927).
53 A. Riegl, Die ägyptische Textilfunde im k.k. österreichischen Museum. Allgemeine Charakteristik und Katalog, Wien 1889; Id., Altorientalische Teppiche, Leipzig 1891; Id., Stilfragen. Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik, Berlin 1893 (con particolare riferimento al «Pflanzenornament»).
54 Per un ripensamento di vari aspetti dell’impatto di Riegl sulla cultura contemporanea, cfr. ultimamente Alois Riegl (1858-1905). Un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale (Roma 30 novembre-2 dicembre 2005), Roma 2008.
55 A. Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie, cit., p. 18.
56 R. Bianchi Bandinelli, s.v. Spätantike, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, VII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1966, p. 426; più estesamente Id., Continuità ellenistica nella pittura di età medio e tardo-romana, Roma 1953, poi in Id., Archeologia e cultura, Roma 1979, pp. 344-423; cfr. anche Id., Dall’ellenismo al medioevo, Roma 1978.
57 P. Brown, The Making of Late Antiquity, Cambridge (MA)-London 1978, p. 1.
58 S. Mazzarino, Antico tardoantico, I, cit., pp. 7-9.
59 Per la fortuna di questa idea nella storiografia più recente si vedano le importanti riflessioni di Elio Lo Cascio, nell’introduzione alla ristampa di S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Milano 20022. Su Costantino rivoluzionario, ma senza alcun riferimento all’opera di Mazzarino, cfr. ora R. Van Dam, The Roman Revolution of Constantine, Cambridge 2007.
60 Il merito di aver riacceso l’attenzione su questo tema è di J.M. Carrié, Antiquité Tardive et “Démocratisation de la culture”: un paradigme à géometrie variable, in Antiquité Tardive, 9 (2001), pp. 27-46.
61 Mazzarino non fornì una definizione sintetica di «democratizzazione della cultura» e ritornò più volte sull’argomento in modo più o meno rapido. Tra i numerosi scritti in cui l’argomento è evocato, cfr. soprattutto S. Mazzarino, La democratizzazione della cultura nel “Basso Impero”, Rapports du XIe Congrès international des Sciences Historiques (Stockholm 21-28 agosto 1960), Stockholm 1960, riedito con qualche modifica e alcune aggiunte bibliografiche in Id., Antico, tardoantico, I, cit., pp. 74-98; cfr. anche Id., Religione ed economia sotto Commodo e i Severi. Premesse sulla ‘democratizzazione’ della cultura nella tarda antichità, ivi, pp. 51-73. Più in generale Id., Impero romano, cit., II, pp. 433-599, La democratizzazione della cultura e lo stato antico.
62 Nell’impossibilità di una rassegna completa, ci si limita a segnalare, per la sua lucidità, l’impostazione di N. Lenski, nell’introduzione a The Cambridge Companion, cit., p. 1: «To be sure, Constantine was never so revolutionary that he turned up the roots of what had gone before and planted the field of history afresh. Rather, much of what he accomplished was to bring to fruition trends and tendencies that had sprung up long before his reign [...]. The age of Constantine thus witnessed not so much a re-creation of the historical landscape as a new emphasis on the cultivation of those features that had previously been pruned back»; il risultato di questo processo sarebbe stato la piena affermazione della tarda antichità. Per una valutazione del rapporto tra interpretazioni continuistiche del III secolo e valutazioni ottimistiche della tarda antichità, si rinvia a A. Giardina, The Transition to Late Antiquity, in The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, ed. by W. Scheidel, I. Morris, R. Saller, Cambridge 2007, pp. 743-768, § VIII.