L'eredita antica e la civilta figurativa del cristianesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’arte tardoantica e quella paleocristiana non vanno considerate come distinte, bensì devono essere comprese tenendo conto del filo di continuità che le lega, come dimostrano i monumenti dell’epoca.
Ranuccio Bianchi Bandinelli, illustre archeologo e studioso di storia dell’arte classica, nel suo saggio Roma, la fine dell’arte antica (Milano, Rizzoli, 1970, p. 88) polemizza con la distinzione tra arte tardoantica e arte paleocristiana, ribadendo la loro contestualità cronologica, materiale e, in definitiva, estetica. Lo testimonia in maniera esemplare il caso dell’arco di Costantino, dedicato all’imperatore dal senato romano nel 315. Il monumento è assemblato con pezzi scultorei di spoglio secondo un’estetica della varietas che trova riscontri anche nelle coeve imprese architettoniche. L’unica scultura realizzata ad hoc è il rilievo narrativo disposto lungo i quattro lati nel registro inferiore dell’arco, il primo secondo la modalità di lettura di allora, dal basso verso l’alto. Qui si celebrano le vittoriose battaglie di Costantino, culminanti sul fronte principale, a nord, nei due eventi topici della retorica imperiale, la oratio (orazione) e la liberalitas (distribuzione dei donativi). A dispetto della massima ufficialità dell’opera, il linguaggio figurativo sacrifica ogni descrittivismo e naturalismo di radice ellenistica a favore dell’evidenza: la prospettiva ribaltata, l’insistita frontalità quasi iconica della figura imperiale, il raggruppamento paratattico dei personaggi, gli scarti dimensionali improntati alla gerarchia sono mutuati dall’arte “popolare” al servizio dell’efficacia del messaggio che qui diventa slogan. Analoghe sintassi e sintesi figurative si ritrovano negli stessi anni in un gruppo di sarcofagi scolpiti di soggetto cristiano. Alcuni esemplari del tipo detto a “teste allineate”, distribuiti tra il Museo Pio Cristiano (Città del Vaticano) e il Museo Nazionale Romano, presentano analogie così strette con il rilievo narrativo dell’Arco di Costantino da far supporre quantomeno il ricorso ai medesimi modelli, se non addirittura la provenienza dalla stessa bottega. Un ovvio ruolo di rilievo in questa serie di sarcofagi romani spetta a san Pietro, la cui tomba era appena stata glorificata con l’erezione dell’immensa basilica vaticana per volontà dello stesso imperatore Costantino, in nome del primato della Chiesa di Roma fondata dall’apostolo vicario del Cristo. Sono anni in cui il repertorio figurativo cristiano, inizialmente assai ridotto e limitato a segni simbolici in ossequio alla diffidenza verso le immagini di retaggio giudaico, si espande fino a epitomizzare l’intera storia sacra. Veri e propri compendi della Bibbia fanno la loro comparsa sui sarcofagi e ne condizionano la tettonica, arrivando, negli anni Cinquanta o Sessanta del secolo, a imporre un’articolazione addirittura su tre registri, adatta ad accogliere la crescente folla di episodi. Appartengono a questo stadio due sarcofagi romani: il cosiddetto sarcofago “dogmatico”, proveniente dal cimitero di San Paolo fuori le mura e oggi custodito presso il Museo Pio Cristiano, e il sarcofago di Adelfia, rinvenuto nel cimitero di San Giovanni a Siracusa ed esposto nel locale Museo Archeologico. Quest’ultimo prende il nome dalla destinataria Adelfia, ovviamente di rango (“clarissima femina”), come esplicitato dall’iscrizione incisa nella tabula del coperchio, visto che i sarcofagi erano sepolture di lusso. È uno dei rari casi in cui ancora si distinguono tracce dell’originaria policromia. I rilievi associano episodi dell’Antico Testamento, come i tre giovinetti di Babilonia che si rifiutano di adorare la statua di Nabucodonosor, soggetto molto popolare all’epoca della persecuzione dei cristiani di Diocleziano, e scene cristologiche, con una preferenza per quei brani che esaltano il carisma taumaturgico del Cristo, come la Guarigione dell’emorroissa o i miracoli delle Nozze di Cana e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Nonostante la disposizione a fregio continuo delle scene, manca un impianto narrativo e gli episodi si succedono senza alcun nesso sequenziale. Si preferisce esporre una galleria di exempla del progetto di salvezza divino al quale sono destinati a partecipare i due defunti, ritratti in un medaglione inserito al centro della cassa.
La progressiva penetrazione del cristianesimo nelle élite aristocratiche dà luogo a peculiari episodi di coesistenza di elementi cristiani e pagani. La splendida cassetta del corredo nuziale di Secundus e Proiecta (Londra, British Museum), pertinente a un tesoro rinvenuto sull’Esquilino, a Roma, nel corso di uno scavo di fine Settecento, esibisce un repertorio di immagini di schietta ascendenza ellenistica elegantemente sbalzate in argento. Sui lati del coperchio si snoda un corteo marino di nereidi, tritoni e amorini facenti ala a una Venere che, languidamente seduta in una conchiglia, si pettina le chiome rimirandosi allo specchio, con un’allusione alla funzione del contenitore destinato a strumenti da toeletta. Con somma indifferenza al contesto, l’iscrizione cesellata lungo il bordo augura ai due sposi Proiecta e Secundus di “vivere in Cristo”. Se è corretta l’identificazione della giovane Proiecta con un’omonima defunta nel 384, il corredo nuziale si può attribuire agli anni 379-383.
È sempre nell’ambito della produzione artistica d’élite che troviamo un’altra classe di oggetti destinati a un lungo e duraturo successo: i manufatti in avorio, come dittici e tavolette, ma anche pissidi e reliquiari, che dal IV secolo vedono un notevole incremento e diventano sempre più fastosi, talvolta impreziositi con applicazioni metalliche o tocchi di colore. Si tratta di oggetti prodotti da officine indifferentemente attive per una committenza cristiana o pagana, così come avveniva per i sarcofagi o per i codici miniati. Questa contiguità produttiva porta ad attribuire alla medesima officina romana, attiva attorno agli esordi del V secolo, una serie di tavolette eburnee nettamente distinte in due gruppi per le iconografie cristiane o pagane, ma accomunate dalla qualità di esecuzione e dai dettagli stilistici: da una parte, le placche raffiguranti un’Ascensione (Monaco di Baviera, Bayerisches Nationalmuseum) e Le Pie Donne al Sepolcro (Milano, Castello Sforzesco, Civico Museo d’Arte); dall’altra il Dittico di Probiano (Berlino, Staatsbibliothek, Stiftung Preussicher Kulturbesitz) e il Dittico dei Simmaci e Nicomaci, diviso tra Londra (Victoria and Albert Museum) e Parigi (Museo di Cluny). Quest’ultimo, appartenente a due famiglie ai vertici della nobiltà romana, palesa un’appassionata rivendicazione degli antichi costumi nella scelta del soggetto, due sacerdotesse nell’adempimento di rituali pagani, e nel registro stilistico di marcata eleganza ellenizzante, al limite del revival. Invece la placca con l’Ascensione di Monaco di Baviera mostra nel registro superiore un atletico giovane Cristo imberbe che ascende al cielo letteralmente scalando una montagna di nubi, secondo un’insolita iconografia destinata a ricomparire solo in età carolingia, quando forse proprio questa tavoletta è adottata come modello.
La consapevolezza dell’ambiguità semantica inerente al repertorio figurativo di quest’epoca condiziona la nostra piena comprensione di alcune rappresentazioni. È il caso del personaggio maschile in posa di orante dipinto nel corso del III secolo sulla parete di un vano pertinente ad un complesso restituito dagli scavi sotto l’odierna basilica romana dei Santi Giovanni e Paolo. Il dibattito circa la sua identificazione è ancora irrisolto: potrebbe essere il ritratto di un defunto cristiano, e quindi connotare in senso cultuale l’ambiente, oppure una figura allegorica della virtù filosofica della pietas.
La stessa incertezza anima la discussione attorno al busto di una figura maschile inserita nel fregio dell’apparato decorativo proveniente dall’aula di una dimora situata presso l’abitato di Ostia, all’esterno della Porta Marina, e ricostruito in un allestimento di grande efficacia presso il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo di Roma. Il personaggio è raffigurato a mezzo busto, con indosso la toga, il volto barbuto, il capo circondato da un’ampia aureola e la mano destra levata nel gesto di parlare. È tradizionalmente riconosciuto come un Cristo, ma è altrettanto valida la sua identificazione come filosofo, in analogia con le rappresentazioni di consessi filosofici riscontrate in alcune dimore tardoantiche della Grecia o dell’Asia Minore. Del resto, l’intero programma risente del più classico gusto ellenistico: i pannelli maggiori del registro centrale mostrano tigri e leoni in atto di ghermire ferocemente le loro prede, poi, procedendo verso il basso si susseguono un fregio con girali di foglie e fiori e una fascia a specchiature geometriche. L’intera decorazione è realizzata nella lussuosa tecnica dell’opus sectile, vale a dire tarsie di marmi policromi, sfruttando sapientemente persino le diverse venature delle preziose lastre di pietra. L’opus sectile della domus di Ostia per l’ottimo stato di conservazione e per l’attendibilità della datazione, circa il 383-388, è la migliore testimonianza di quella che nel corso del IV secolo diventa una vera e propria moda. I documenti di scavo e gli antichi disegni consentono di ricostruire la diffusione di questa sofisticata tecnica in edifici pubblici e in ambienti di rappresentanza di prestigiose dimore private. La portata del fenomeno è tale da andare a incidere sul gusto per le specchiature marmoree dei futuri edifici cristiani, tanto più che talvolta le aule rivestite in opus sectile sono riconvertite in chiesa lasciando intatta la decorazione. È il caso della chiesa romana dei Santi Cosma e Damiano, le cui tarsie in marmi sono ormai documentate solo da copie, o di quella di Sant’Andrea Catabarbara, insediata nella seconda metà del V secolo in un’aula della domus di Giunio Basso, console romano nel 331. Quest’ultima ha a lungo conservato splendidi rivestimenti di cui restano alcune lastre, divise tra i Musei Capitolini e il Museo Nazionale Romano.
Il gusto per le complesse composizioni di pietre policrome e paste vitree determina il successo anche dei grandi pavimenti figurati in mosaici colorati che, a partire dal III secolo, irradiano dalle province africane lungo il Mediterraneo, sulla scorta di maestranze africane o, quanto meno, dei loro cartoni di modelli. Il pavimento in mosaico della basilica cristiana di Aquileia, datato al 320 circa, mostra una sequenza di episodi della vita di Giona ambientati in un mare popolato di pesci. La maniacale descrizione delle specie ittiche, quasi come in un catalogo, e le onde stilizzate trovano dei precedenti nei mosaici pavimentali africani di III secolo, come quelli della Casa del trionfo di Dioniso a Sousse, in Tunisia. Da questa stessa residenza proviene un altro brano di mosaico pavimentale decorato con una serie di elementi senza apparente nesso: frutti, animali, cesti di uva, sparsi su un fondo chiaro. Questo motivo, derivato dall’ellenistico “tappeto non spazzato”, alla metà del IV secolo emigra a Roma, sulla volta a botte del mausoleo di Costanza, dove si pongono le premesse al mosaico figurativo parietale.
Dall’istituzione della tetrarchia ad opera di Diocleziano, nel 286, Roma non gode più dello status di unica capitale dell’impero. L’anno seguente, lo stesso Diocleziano stabilisce la capitale della parte occidentale dell’impero a Treviri, nell’allora provincia belgica. A Treviri, agli esordi del secolo successivo, soggiorna Costantino, nel corso della contesa con Massenzio. Il soffitto a cassettoni di un’aula di rappresentanza della sua residenza ha restituito splendidi brani pittorici raffiguranti putti con ghirlande alternati a ritratti di filosofi o letterati e a figure femminili allegoriche dal capo aureolato: una galleria di personaggi del tipo in voga in età tardoantica, preludio alla serie di ritratti di papi disposti lungo la navata della basilica romana di San Paolo fuori le mura circa un secolo dopo. La salda pennellata che definisce i compatti volumi dei busti di Treviri riporta in auge i canoni della pittura del I secolo e pone le basi per alcune espressioni artistiche dei secoli a venire. Qualche anno dopo, nel 326, Costantino, nel frattempo divenuto imperatore, dispone la costruzione di due basiliche cristiane gemine proprio sulle fondamenta di quest’ambiente.
L’imperatore Galerio, invece, stabilisce la propria residenza a Tessalonica, capitale della provincia di Macedonia, e vi fa erigere uno dei principali monumenti dell’epoca: l’arco quadrifronte posto sull’importante via Egnatia a celebrazione della sua vittoria sui Persiani. L’arco era congiunto tramite una via colonnata a un grande edificio a pianta circolare, probabilmente adibito alla duplice funzione di sede del culto imperiale e di mausoleo. In seguito, presumibilmente all’epoca dell’imperatore Teodosio, la Rotonda con pochi riadattamenti architettonici è convertita in chiesa. Già ad una data così alta non c’è alcuna remora a insediare una sede di culto cristiano in uno spazio nato per cerimonie pagane. Sono coevi a questa prima fase cristiana gli straordinari mosaici ancora in parte conservati nella cupola e sulle volte a botte delle nicchie dell’edificio, oggi noto come San Giorgio. Lungo il tamburo della cupola, possenti figure di santi martiri orientali, identificati dalle iscrizioni in greco, si stagliano su delle architetture fantastiche, manifeste eredi del cosiddetto IV stile pompeiano, annegate in un luminoso fondo d’oro. Al di sopra di questo registro, secondo una disposizione gerarchica, dovevano esserci le figure dei dodici apostoli, quindi una scorta di quattro angeli, solo in parte conservati, acclamava una perduta immagine del Cristo, racchiusa in un nimbo, al culmine della cupola. Nella crescente tipizzazione dei volti, solo sporadicamente memori dell’accurata individualizzazione propria dell’antico ritratto romano, e nel fondo oro, si legge una marcata divaricazione dalla tradizione romana occidentale che fa di questi mosaici un incunabolo dell’arte bizantina.
Anche Milano, capitale tetrarchica nel 286, tra il 340 e il 402 si trova a ospitare stabilmente la corte imperiale. Sono anni coincidenti con l’energico episcopato di Ambrogio, di estrazione aristocratica, esperto di amministrazione, futuro santo e Padre della Chiesa per le riflessioni teologiche in difesa dell’ortodossia. Come la Roma dell’imperatore Costantino aveva celebrato le reliquie dei propri martiri con gigantesche basiliche erette presso le loro tombe, così le fabbriche promosse da Ambrogio intendono a loro volta rifondare l’autorevolezza della Chiesa milanese sul carisma dei propri santi. Presso i cimiteri extramurali sorgono la basilica dei Santi Gervasio e Protasio, inglobata nell’odierna Sant’Ambrogio e la basilica Apostolorum, in seguito chiesa dei Santi Nazaro e Celso, caratterizzata da una pianta cruciforme a probabile imitazione della basilica degli Apostoli (Apostoleion) di Costantinopoli.
Si distacca dal gruppo di fondazioni imputabili ad Ambrogio la chiesa di San Lorenzo, dall’insolita architettura ancora in parte apprezzabile malgrado i successivi interventi. Indizi archeologici ne consentono una datazione a cavallo tra il IV e il V secolo, ma, per il resto, se ne ignorano tanto la funzione originaria che la committenza. Non è comunque improbabile che si tratti di una fabbrica imperiale. L’inedita pianta a croce con bracci desinenti in absidi, tetraconco, rielabora liberamente in chiave simbolica il tema classico dell’edificio a pianta centrale. L’interno declinava in maniera decorativa anche gli elementi strutturali, con variegati colonne e capitelli di spoglio, ispirati da quel gusto per la varietas inaugurato dalle fondazioni costantiniane. È di spoglio anche il portale marmoreo che mette in comunicazione la chiesa con il coevo fabbricato annesso, noto come sacello di Sant’Aquilino, con ogni verosimiglianza in origine concepito come un mausoleo imperiale. Lungo l’architrave del portale scorre una rappresentazione a rilievo dei giochi circensi. È un tema che nell’immaginario tardoantico allude al ciclo delle stagioni e sembra trovare così una corrispondenza nella scena in mosaico allestita nella lunetta sud-est del sacello, ispirata dal culto del sole e riadattata al vocabolario cristiano. Qui, perdute le tessere musive, lo scarno disegno preparatorio consente di riconoscere una figura condotta in cielo da una quadriga, identificata come l’assunzione in cielo del profeta Elia, o, secondo altri, del Cristo Helios. Rimane invece in buone condizioni il mosaico situato nella calotta della nicchia di sud-ovest. Vi compare un giovane Cristo imberbe seduto su un’alta cattedra al centro dei suoi apostoli, simmetricamente disposti ai suoi lati, a partire da Pietro e Paolo. Ci troviamo al cospetto di un consesso di veri filosofi di matrice classica, come dimostrano le candide toghe indossate da tutti i protagonisti, i rotoli delle scritture esibiti in primis dal Cristo e il contenitore colmo di altri rotoli posto in primo piano. Si tratta di un’iconografia già da tempo incamerata nel repertorio cristiano funerario, come prova un arcosolio delle catacombe romane di Domitilla. In questo caso, però, la netta preminenza della figura del Cristo, dal capo circondato dal nimbo con il cristogramma, e la ieratica posa frontale dei personaggi spostano l’accento sulla solennità dell’apparizione divina, esaltata dallo sfondo dorato di precoce ascendenza orientale. Il nastro cangiante che si svolge a incorniciare la scena ritorna nei mosaici del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, dove la corte si era trasferita dal 402, lasciando Milano, più difficile da difendere militarmente. Il piccolo edifico era inizialmente connesso al nartece della vicina basilica di Santa Croce, patrocinata da Galla Placidia, imperatrice reggente dal 425 al posto del giovane figlio Valentiniano III. Le notizie che ne accreditano la funzione come mausoleo di Galla Placidia sono contraddittorie, tanto più che di certo non ha mai ospitato la sua sepoltura, ma ne rimangono pacifici la datazione circa gli anni 425-450 e il prestigio della committenza. L’interno è completamente rivestito di mosaici della stessa epoca, disposti a illustrare un programma articolato gerarchicamente dal chiaro significato escatologico. Nella cupola sfavilla una croce dorata attorniata da miriadi di stelle e dai quattro simboli degli evangelisti, ovvero le figure del tetramorfo apocalittico. Nelle sottostanti lunette compaiono quattro coppie di apostoli, mentre i restanti quattro sono collocati nei pennacchi. Infine, le lunette alle estremità dei bracci del vano cruciforme ospitano una selezione di temi orientata al più antico repertorio allegorico cristiano: coppie di cervi che si abbeverano, l’immagine di san Lorenzo, identificato dalla graticola, suo strumento di martirio, e il celebre Cristo Buon Pastore. Quest’ultimo, abbigliato di oro e porpora, declina in chiave trionfale la figura del Buon pastore a suo tempo ricorrente in contesti pagani ad evocare idilli bucolici allusivi ad un sereno aldilà, e, in seguito, precocemente incamerata nel bagaglio iconografico cristiano come simbolo del Cristo. Si compie la parabola che conduce dalle prime immagini simboliche cristiane all’apparizione della divinità in tutto il suo potente splendore.