L’eredità di Longhi e l’altra scuola di Lionello Venturi
«È difficile ignorare che si configurò allora (dagli anni ’50 in poi), nel campo dei nostri studi, lo schieramento di due parti avverse che si estese, dal campo specifico della storia dell’arte, all’università e di conseguenza ai concorsi universitari, all’editoria, alle rubriche dei giornali e delle riviste, ai rapporti con l’arte contemporanea. Da una parte Lionello Venturi, dall’altra Roberto Longhi» («la Repubblica», 13 novembre 1992). In queste franche parole del più caro allievo di Longhi, Giuliano Briganti (1918-1992), è fotografata l’insanabile frattura che oppose Longhi al figlio del suo maestro Adolfo Venturi (1856-1941). Questa opposizione ha condizionato – e condiziona ancora oggi, attraverso i suoi esiti diretti – la geografia intellettuale e accademica della storia dell’arte italiana.
La scuola romana di storia dell’arte, guidata dalla linea che lega Lionello Venturi (1885-1961), Giulio Carlo Argan (1909-1992), Maurizio Calvesi (n. 1927), ha programmaticamente trascurato non solo l’analisi della forma e la filologia del figurativo, ma ha anche rinunciato al metodo storico propriamente detto, optando per un’ermeneutica del figurativo assai sbilanciata in senso filosofico, e coltivando un’iconologia dagli esiti spesso discutibili.
L’eredità di Longhi, d’altra parte, era forse troppo complessa per essere accettata nella sua articolazione. Così essa è stata spesso ridotta (per es., dalla tradizione accademica longhiana fiorentina) alla pratica dell’attribuzione (impropriamente elevata da insostituibile strumento storico, a fine autonomo in se stessa), perdendo così la profondità e l’aderenza alla storia che era invece enunciata come un programma dalle Proposte per una critica d’arte. Inversamente, proprio questa saldissima articolazione storica è stata profondamente intesa da allievi diretti di Longhi (come Enrico Castelnuovo, n. 1929) o indiretti (Paola Barocchi, n. 1927), i quali però non hanno né coltivato né trasmesso la pratica della filologia figurativa del maestro. Se non sono mancate figure di mediazione scalate a diverse distanze da questi due poli (da Briganti a Luciano Bellosi), è stato invece Giovanni Previtali (1934-1988) l’allievo più capace di tenere insieme e sviluppare questi due inseparabili facce della medaglia longhiana: e non per caso è stato proprio Previtali l’unico capace di coltivare anche la terza, fondamentale dimensione dell’impegno civile a favore del patrimonio e della sua dimensione ‘politica’, nel senso più lato.
Altri poli accademici per così dire autarchici – si pensi alla scuola pisana di Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), a quella di Cesare Brandi (1906-1988) o alla tradizionalmente autonoma Venezia – si sono di volta in volta confrontati o scontrati con Longhi e con il suo magistero.
Se si eccettua la Francia (nella quale, però, l’influenza longhiana si spegne anno dopo anno), la risonanza della lezione di Longhi fuori dalla cultura italiana è stata straordinariamente modesta: la difficoltà della scrittura longhiana (inseparabile dal contenuto storico-critico che veicola) ha infatti rappresentato un ostacolo insormontabile per la ricezione fuori d’Italia, e soprattutto nella storia dell’arte anglosassone. E lo scarso rilievo internazionale del pensiero e dell’opera di Longhi è forse una concausa non secondaria della partecipazione della storia dell’arte internazionale di oggi alla deriva a-storica e para-antropologica di una parte consistente degli studi umanistici.