Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il ritorno a Kant nasce sia in reazione alle difficoltà, da parte del pensiero hegeliano, di interpretare gli sviluppi della scienza moderna, sia per contrastare la corrente positivista. I centri più importanti per questa tradizione sono in Germania: Marburgo, dove operano Cohen e Cassirer, e Heidelberg con Windelband. In Italia il tentativo di reagire al dissolvimento dei grandi sistemi filosofici produce un ritorno all’idealismo, con Croce e Gentile. Un neoidealismo di marca metafisica, in contrapposizione con l’empirismo e con il pensiero di Mill, illumina invece la scena filosofica inglese, con l’eredità di Bradley raccolta da filosofi come Collingwood e McTaggart.
Ernst Cassirer
I simboli
Nello sviluppo immanente dello spirito, l’acquisizione del simbolo costituisce sempre un primo e necessario passo per l’acquisizione della conoscenza obiettiva dell’essenza. Il simbolo costituisce per la conoscenza, per cosí dire, il primo stadio e la prima prova dell’obiettività perché, grazie a esso, per la prima volta viene offerto un punto fermo al perenne mutare del contenuto della coscienza, perché in esso viene determinato e messo in rilievo un elemento permanente. Nessun mero contenuto della coscienza ritorna come tale in una determinatezza rigorosamente identica dopo essersi dileguato ed essere stato sostituito da altri contenuti. Esso è passato per sempre riguardo a ciò che era, una volta svanito dalla coscienza. Ma a questo incessante mutare delle qualità del suo contenuto, la coscienza contrappone adesso l’unità di se stessa e della sua forma. La sua identità si dimostra realmente non in ciò che essa è o ha, ma solo in ciò che essa fa. Per mezzo del simbolo, legato a un contenuto, questo acquista in se stesso una nuova consistenza e una nuova durata. Perché al simbolo, in opposizione al reale mutarsi del contenuto singolo della coscienza, compete un determinato significato ideale, che come tale permane. Esso non è, al pari della semplice sensazione data, un fatto assolutamente singolo e irrepetibile, ma si presenta come rappresentante di una totalità, di un complesso di contenuti possibili, di fronte a ciascuno dei quali esso rappresenta quindi un primo “universale”. Nella funzione simbolica della coscienza, quale si attua nel linguaggio, nell’arte, nel mito, si elevano per la prima volta dal flusso della coscienza determinate forme fondamentali che permangono sempre uguali, in parte di natura concettuale, in parte di natura puramente intuitiva; al posto del contenuto fluente sottentra l’unità chiusa in sé e in sé permanente della forma.
E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1988
Ernst Cassirer
Critica della ragione, critica della civiltà
Ogni vera funzione fondamentale dello spirito [...] non esprime in maniera meramente passiva un’entità esistente, ma racchiude in sé un’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un significato determinato, un peculiare valore ideale. Ciò vale per l’arte come per la conoscenza, per il mito come per la religione. [...] Accanto alla pura funzione conoscitiva si tratta di intendere la funzione del pensiero espresso nel linguaggio, la funzione del pensiero mitico-religioso e la funzione dell’intuizione estetica in tal maniera che risulti evidente come in esse si compia non tanto una ben determinata attività formatrice avente per oggetto il mondo, quanto piuttosto un’attività formatrice tesa verso il mondo, verso un oggettivo nesso sensibile, e verso un’oggettiva totalità intuitiva. La critica della ragione diviene così critica della civiltà. Essa cerca di intendere e di dimostrare come ogni contenuto della civiltà, in quanto è più di un semplice contenuto singolo, in quanto è fondato su un generale principio formale, ha come presupposto una originaria attività dello spirito.
E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1961
Giovanni Gentile
L’attualismo
La filosofia attualistica è così denominata dal metodo che propugna: che si potrebbe definire “metodo della immanenza assoluta”, profondamente diversa dalla immanenza, di cui si parla in altre filosofie, antiche e moderne, e anche contemporanee. Alle quali tutte manca il concetto della soggettività irriducibile della realtà, a cui si fa immanente il principio o misura della realtà stessa. Immanentista Aristotele rispetto all’idealismo astratto di Platone, la cui idea nella filosofia aristotelica diviene forma della stessa natura: forma inscindibilmente connessa con la materia, nella sintesi del concreto individuo: dal quale l’idea, suo principio e misura, non si può separare se non per astrazione. Ma l’individuo naturale per la filosofia attualistica è esso stesso qualche cosa di trascendente: perché in concreto non è concepibile fuori di quel rapporto, in cui esso, oggetto di esperienza, è indissolubilmente congiunto col soggetto di questa, nell’atto del pensiero mediante il quale l’esperienza si realizza. Tutto il realismo fino al criticismo kantiano rimane sul terreno di trascendenza. Vi rimane ogni filosofia la quale, anche se riduca tutto all’esperienza, questa intenda come qualche cosa di oggettivo, e non come l’atto dell’Io pensante in quanto pensa, realizzando la realtà dello stesso Io: una realtà fuori della quale non è dato pensare nulla di indipendente e per sé stante.
[...] L’atto pertanto di cui si parla in questa filosofia non è confondibile con l’atto (enérgheia) di Aristotele e della filosofia scolastica. L’atto aristotelico è anch’esso pensiero puro, ma un pensiero trascendente, presupposto dal nostro pensiero. L’atto della filosofia attualistica coincide appunto col nostro pensiero; e per questa filosofia, l’atto aristotelico, nella sua trascendenza, è semplicemente una astrazione, e non un atto: è logo, ma logo astratto, la cui concretezza si ha solamente nel logo concreto, che è il pensiero che attualmente si pensa
G. Gentile, Introduzione alla filosofia , Firenze, Sansoni, 1933
Il neocriticismo si sviluppa essenzialmente come una corrente filosofica tedesca e ha nelle due importanti università di Marburgo e Heidelberg i centri più prestigiosi. Per quanto riguarda la scuola di Marburgo, gli esponenti più importanti sono certamente Hermann Cohen, Paul Natorp ed Ernst Cassirer; mentre la scuola del Baden si rifà soprattutto all’opera di Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert.
Il ritorno al pensiero di Immanuel Kant contraddistingue il neocriticismo, insieme a una posizione critica nei confronti del positivismo ottocentesco e all’esigenza di non accettare aprioristicamente metodi e fondamenti della scienza, bensì di sottoporli a un esame serrato. Cohen, ad esempio, riprende la riflessione kantiana sul problema della conoscenza proprio al fine di evitare le contraddizioni emerse sia dal positivismo sia dall’idealismo. La sua opera maggiore resta il Sistema di filosofia, suddiviso in tre sezioni: Logica della conoscenza pura (1902); Etica del volere puro (1904); Estetica del sentimento puro (1912). La principale preoccupazione di Cohen è quella di prescindere da ogni riferimento alla soggettività della conoscenza: se da un lato egli rifiuta la sintesi a priori, composta dal dato fenomenico e dalle forme a priori dell’intelletto, dall’altro propone una lettura “logicistica” di Kant, in nome della quale arriva ad annullare la separazione fra sensibilità e intelletto e tra estetica e logica trascendentale. Dato che, secondo Cohen, non esistono dati della conoscenza che non siano posti dal pensiero, viene così a cadere la distinzione kantiana tra conoscere e pensare, e con questa anche il concetto di noumeno: questi è, al più, una sorta di concetto-limite che segna l’infinitezza connaturata al processo della conoscenza. Il pensiero viene definito come la struttura logica dei suoi contenuti, che sono indipendenti dal soggetto: da qui l’interesse per la logica matematica e la riflessione sul calcolo infinitesimale, che diviene il prototipo di una ragione a priori infinitesimale (Il principio del metodo infinitesimale e la sua storia, 1883).
Allievo di Cohen, Paul Natorp ne amplia il concetto di esperienza. Essa non è più limitata al contesto strettamente scientifico, non appare più fondata esclusivamente su una struttura logica, ma la morale, l’arte e la religione possono, a suo avviso, essere portatrici di un identico grado di valore, benché fondato sui principi della psicologia piuttosto che su quelli della scienza strettamente intesa. Natorp dedica numerosi saggi non solo alla filosofia kantiana, ma anche a Pestalozzi e Herbart. Di particolare rilievo, tuttavia, è La dottrina platonica delle idee (1903). Le idee platoniche vengono qui considerate come “pensabilità” della realtà; distanziandosi così in senso platonizzante da quella che sarà la concezione delle “forme simboliche” di Cassirer, esse vengono intese come funzioni del conoscere nel tentativo di associarle alle categorie kantiane. Natorp avvia infine la rivalutazione di una psicologia non empirica, intesa come una scienza che ha il compito di ricondurre le diverse esperienze culturali all’unità della coscienza.
L’impronta formalista, che aveva caratterizzato il movimento nei primi anni, tende a sfumare per aprirsi all’esperienza e a un approccio psicologico non privo di una forte tensione etica. Ne emerge una dicotomia tra esperienza e ragione che presto sarebbe apparsa ineludibile. Tale atteggiamento è particolarmente evidente negli studi giuridici, nel quali risalta in modo chiaro la relazione tra pure forme giuridiche e le forme della vita sociale. Nel pensiero di Rudolph Stammler (1856-1938) e, soprattutto in quello di Hans Kelsen, tale dicotomia assumerà l’aspetto di una relazione tra mera forma sistematica del pensiero ed esperienza, sia essa psicologica oppure legata alla dialettica tra il “dover essere” (Sollen) e il contenuto della convivenza organizzato dal diritto.
Ma l’esponente della scuola di Marburgo che più ha influenzato la cultura del Novecento è Ernst Cassirer. Rispetto alla scuola in senso stretto, Cassirer pone attenzione all’importanza del linguaggio e alle forme simboliche che costituiscono il mondo dell’uomo. Cassirer propone un’interpretazione originale del concetto di “funzione”, con la convinzione che le strutture che garantiscono validità agli oggetti della scienza e delle altre attività culturali siano appunto “funzioni”. Come anche Natorp, e in parte Cohen, Cassirer rilegge il pensiero kantiano nel tentativo, se non di ridurre, comunque di convertire il concetto di sostanza a quello di funzione. Tuttavia, e in questo egli segna la distanza con i suoi predecessori, ciò non delimita la realtà, sovrapponendosi a essa, ed esaurendone, con l’ambito formale, l’esperienza. Senza abbandonare l’esigenza di una formalizzazione sistematica del reale, si può parlare di una sorta di cooperazione categoriale all’intuizione della realtà: “Oggettivi denominiamo, in definitiva, quegli elementi dell’esperienza su cui poggia la permanenza di questa e che quindi si mantengono inalterati in ogni mutare dell’hic et nunc; mentre ciò che fa parte di questo mutare viene fatto rientrare nel campo della soggettività. Si tratta qui non di una rigida parete divisoria che mantenga separati due campi della realtà divisi per sempre, bensì di un confine mobile che si sposta sempre nel progredire della conoscenza medesima” (Cassirer, Funktion und Begriff, trad. it. Funzione concetto, a cura di M. Ferrari, 1973, p. 362).
Se la scienza per prima lascia cadere il concetto di sostanza, viene a cadere anche un’immagine della scienza come forma e rispecchiamento del reale. Dopo essersi dedicato alla stesura di importanti opere storico-filosofiche, tra cui Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna (1906-1920), Cassirer scrive la sua opera più importante, la Filosofia delle forme simboliche (1923-1929). L’intento dell’opera è di ricondurre a unità il carattere multiforme del mondo della cultura, parcellizzatosi nelle diverse scienze e nelle molteplici forme della produzione intellettuale. Pur senza abbandonare la tradizione sistematica propria della tradizione di Marburgo, la ricerca di Cassirer non si orienta tuttavia alla costruzione di un sistema unitario del sapere fondato su presupposti metafisici, secondo il modello idealista: la fondazione delle “scienze dello spirito”, al centro del dibattito filosofico tedesco sulla scia di Dilthey, viene orientata alla ricerca di quella fondamentale attività dello spirito umano che ha saputo generare ogni forma della cultura. La critica della ragione scientifica si trasforma così in una critica della cultura, dove per “critica” si intende, kantianamente, un’indagine sulle condizioni di possibilità, e di pensabilità, delle realtà di fatto e sulle forme e significati che esse possono assumere.
A riprova del fatto che il passaggio da sostanza a funzione non esaurisce la ricchezza della riflessione sul reale, Cassirer pensa la cultura come una fitta rete di relazioni, organicamente legate. Fulcro di questa riflessione è il concetto di forma simbolica, con il quale egli intende “un modo determinato di concepire spiritualmente, nel quale e mediante il quale [essa] costituisce ad un tempo un aspetto specifico del ‘reale’” (Cassirer, Philosophie der Symbolischen Formen, 1: Die Sprache, trad. it. Filosofia delle forme simboliche, 1. Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 10). Le forme simboliche sono “le vie che lo spirito segue nella sua obbiettivazione, cioè nel suo manifestarsi” (ibidem): il simbolo non è involucro o trasfigurazione di un contenuto già dato, ma il prendere vita di una realtà che solo attraverso di esso può costituirsi. Una “forma interna” e “vitale” grazie alla quale diventa possibile ricondurre a un’unità di significato simboli eterogenei come quelli della scienza, del mito, della filosofia o dell’arte: un metodo di cui darà esempi molto efficaci la scuola del Warburg Institut, e in particolare Erwin Panofsky, che all’influenza della riflessione cassireriana deve i presupposti teorici del suo capolavoro: La prospettiva come forma simbolica (1924-1925).
Importante è infine il pensiero di Cassirer sul mito. Esso è centrale già nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche (dall’eloquente sottotitolo “Il pensiero mitico”), dove il mito è inteso come sfondo primario dal quale prendono origine le forme simboliche, e culmina nelle riflessioni de Il mito dello Stato. In quest’opera, pubblicata postuma nel 1946, il concetto assume una chiara coloritura politica e viene declinato nella forma negativa assunta, all’interno della società contemporanea, da miti come lo “Stato” e il “capo” carismatico, propri del totalitarismo.
Diversa e di differente orientamento è invece la rilettura kantiana operata dalla scuola del Baden. Si è soliti far risalire questa interpretazione all’impulso di Wilhelm Windelband, autore di una Storia della filosofia moderna che esplicitamente offre un “punto di vista” kantiano sulla filosofia. Il punto centrale del suo pensiero è il problema del valore: la filosofia è per lui una scienza critica dei valori universali. Rispetto alla scuola di Marburgo, Windelband attenua il formalismo sistematico della scuola di Marburgo, perché compito della filosofia è non tanto registrare l’antinomia tra esperienza e ragione quanto tentarne il superamento, ricercando i valori fondativi di arte, morale e religione. Il problema dei valori e del loro ruolo centrale per quelle che Dilthey definirà Scienze dello Spirito è presente anche nelle riflessioni del suo allievo Heinrich Rickert, che polemizza, per la mancanza di un fondamento che in fondo è sistematico, con Dilthey stesso, e con Georg Simmel, William James ed Henri Bergson.
Il tentativo di opporsi alla crisi della ragione sistematica e positivista non si muove solo in direzione di un recupero delle categorie kantiane, ma cerca di risolvere la relazione tra soggetto e oggetto del conoscere, in senso sistematico, recuperando le sintesi della tradizione hegeliana. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del primo conflitto mondiale, l’idealismo viene ripreso, con accenti dal deciso sapore metafisico, in Inghilterra e in particolare a Oxford, dove esercita a lungo un indiscusso dominio. Al punto che vi è chi ha parlato dell’università oxoniense, in questi anni, come di una cittadella dell’idealismo (Restaino), impermeabile, sulle prime, tanto alla tradizione empiristica di Sidgwick quanto, soprattutto, alle innovative tesi del new realism di G.E. Moore e B. Russell e alla nascente tradizione analitica. Già diffuso sino dalla seconda metà dell’Ottocento per opera di filosofi quali J.H. Stirling (1820-1909), per il quale l’idealismo hegeliano rappresenta la più alta forma di ancilla theologiae al cristianesimo, e da filologi come Benjamin Jowett (1817-1893), il neo-hegelismo inglese vede il suo massimo interprete nel pensiero di F.H. Bradley.
Fellow di uno dei più prestigiosi college di Oxford (il Merton) per tutta la sua attività intellettuale, Bradley non insegnò mai e trasmise il suo pensiero solo attraverso le sue opere. Ciò non gli impedì, tuttavia, di influenzare profondamente tutta la tradizione oxoniense dell’epoca. Fine principale dell’esistenza dell’uomo è la realizzazione di se stessi (self-realization) attraverso la realizzazione, alla quale tendiamo all’infinito, del contenuto delle nostre volontà. Tale tensione avviene nella teoria come nella pratica della vita quotidiana (affermazione invero abbastanza ardita, se si pensa che Bradley passò quasi tutta la propria esistenza in uno stato di semi-eremitismo) e conduce alla realizzazione di sé come un tutto infinito. Con infinito, tuttavia, non si deve intendere l’infinità dell’etica kantiana. Bradley propende per un’etica e una felicità terrene, che si rifanno a modelli ideali, ma che si realizzano concretamente. Importanti sono le teorie logiche, che si muovono verso un realismo in netto contrasto con la tradizione empiristica e lo psicologismo di J.S. Mill. L’associazionismo di dati individuali è per Bradley impossibile, a causa proprio della loro mutevole contingenza; non resta che fondare una logica non sulla generalizzazione concettuale dei dati empirici, quanto sul giudizio tra universali, cioè sull’inferenza e l’associazione di contenuti ideali e significati stabili.
L’opera più importante di Bradley è senz’altro Apparenza e realtà (Appearance and Reality) pubblicata in due volumi nel 1893. In essa Bradley si propone di conoscere l’intera Realtà di fronte alla mutevolezza della Apparenza. Se l’Apparenza si presenta nella continua contraddittorietà del mondo fenomenico, la realtà ne è invece l’Assoluto. Proprio per superare la contingente mutevolezza dell’Apparenza, sostiene Bradley, si deve andare alla ricerca della Realtà assoluta che essa cela. Muovendosi all’interno della tradizione filosofica, Bradley rileva come qualità primarie e secondarie, tempo, spazio, sostanza e accidente, relazione e qualità, moto e mutamento, io, cosa in sé: sono tutti concetti contraddittori, e, se considerati in riferimento alla realtà cui pretendono di riferirsi, sono addirittura privi di senso. Affermazione che vale, in particolare, per la qualità e la relazione che sono del tutto inintelligibili, vista la mutevolezza del loro riferimento alla pluralità del mondo reale. Non resta che concludere che tali concetti siano validi solo all’interno dell’Apparenza e che la realtà cui si riferiscono non sia la Realtà vera e immutabile. Quest’ultima viene colta solo nell’immediatezza di un primitivo e unitario atto percettivo, per poi essere irrimediabilmente inquinata dall’infinita partizione operata dalle relazioni del mondo apparente: “Ciò che io ripudio è la separazione del sentire dal sentito, o del desiderato dal desiderio, o di ciò che è pensato dal pensare […], essere un elemento integrale di un tutto che è sperimentato, questo deve costituire l’esperienza. Essere e realtà sono in breve una cosa sola con il percepire, e non possono essere opposti e nemmeno in definitiva distinti” (Bradley, Apparenza e Realtà, trad. it., 1984, p. 180). Nonostante l’Assoluto sia individuato nell’esperienza sensibile, noi non possiamo conoscere nulla del suo essere, dato che esso è certamente “superpersonale”, contiene in sé la totalità dell’esperienza come un insieme ed è perciò, propriamente, Realtà Assoluta, identità immutabile, organica e concreta di tutti gli estremi.
L’influenza di Bradley sull’idealismo inglese, e su quello oxoniense, fu importante. Tra le figure più significative che seguirono le tracce del filosofo di Oxford, seppure in modo originale, meritano di essere ricordati Bernard Bosanquet (1848-1923) e soprattutto Ellis McTaggart (1866-1925). Maestro a Cambridge di Russell e Moore, McTaggart riprende la dialettica hegeliana con spunti che si distaccano grandemente dalla tradizione e lo ricollegano a Berkeley, Leibniz e Rudolf Hermann Lotze. Per McTaggart la realtà è un insieme di sostanze individuali complesse, in relazione tra di loro attraverso la “corrispondenza determinante”: un principio causale sul quale si fonda l’ordine dell’universo, costituito dalla percezione immediata di un “Io” da parte di un altro “Io”. La centralità della percezione mette fuori gioco tutto ciò che non lo è: su questo particolare aspetto della filosofia di McTaggart eserciteranno le loro serrate e spesso decisive critiche i suoi ex allievi George Edward Moore e Bertrand Russell. Particolarmente acute sono tuttavia le pagine de L’irrealtà del tempo (1908), in cui McTaggart si oppone alla teoria della simultaneità esposta da Albert Einstein come teoria della relatività ristretta. Posteriore a McTaggart è l’opera di Robin George Collingwood, sostenitore di un idealismo filosofico e storiografico, che si pone in contrapposizione al neoempirismo, in primo luogo diffondendo in Inghilterra le opere di Benedetto Croce e poi teorizzando un riavvicinamento tra la filosofia e la storia della filosofia, disciplina che per Collingwood rappresenta una tappa necessaria e preliminare per giungere al vertice del sapere teoretico.
In Italia la scena filosofica è dominata da un ritorno all’idealismo, che tuttavia si innesta su un tessuto preesistente di tradizioni filosofiche nazionali – Hegel del resto è l’autore che, nel primo Ottocento, incarna agli occhi degli idealisti liberali napoletani (i cosiddetti begriffi) l’idea di libertà immanente alla storia – e che sfocerà, forte anche della tradizione vichiana, in un importante sviluppo dello storicismo. Se la ripresa hegeliana prende le sue mosse a Napoli con Augusto Vera e Bertrando Spaventa, per poter realmente parlare di un vero è proprio “idealismo italiano” occorre arrivare al Novecento, quando, in un panorama di richiami estremamente eterogenei a quella tradizione (dall’idealismo trascendente di Piero Martinetti a quello attualista di Ugo Spirito), emergono le figure di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.
Croce riprende e modifica la dialettica hegeliana. Il movimento dello Spirito non ha come peculiarità l’opposizione e il movimento dialettico, ma è caratterizzato dalla distinzione, priva della negazione, dei suoi momenti. Croce teorizza l’esistenza di due momenti, quello pratico e quello teorico, che al loro interno sono costituiti da una duplicità di forme: nel momento teorico la conoscenza può essere intuitiva o logica; la conoscenza intuitiva è quella artistica-individuale, la conoscenza logica è quella filosofica-universale; nel momento pratico la forma individuale è quella dell’azione volitiva individuale (economia) oppure universale (etica). L’opposizione hegeliana resta solo, all’interno dei due momenti, tra un valore e il rispettivo disvalore, come l’opposizione bello/brutto nell’arte, vero/falso nella logica, utile/inutile nell’economia, bene/male nell’agire morale.
Particolare rilievo è dato al senso degli accadimenti storici, inquadrati come momenti necessari nel dispiegarsi della razionalità superiore insita nella storia; anche il male e l’errore non sono altro che momenti dialettici dello spirito, indispensabili al progresso verso la sua realizzazione finale. La storia è per Croce il regno della libertà: una posizione che influenzerà, pur con le debite prese di distanza, tanto l’azionismo quanto le analisi materialiste e le interpretazioni marxiste della storia (in linea con l’interpretazione ormai classica di Fulvio Tessitore, che ha indicato nell’articolazione plurale e spesso contraddittoria il tratto caratteristico dello storicismo italiano ed europeo; cfr. Dimensioni dello storicismo, Napoli 1971). Ogni storia autentica va sempre intesa come contemporanea, in quanto sono le istanze del presente, gli interessi e le esigenze del nostro tempo, a muoverci verso il passato e a orientarne la lettura.
La storia è processo sempre positivo (storicismo): ciò ha di fatto significato, per Croce, riconoscersi nell’autointerpretazione liberale dell’Italia umbertina e nell’Europa liberale di fine Ottocento (per quanto egli non sia riuscito, se non separando pensiero e azione, a giustificare l’opposizione al fascismo, che peraltro Croce appoggia fino al 1925). Meno legato alla realtà degli accadimenti, nella sua estetica Croce rivendica all’arte la più assoluta autonomia da ogni altra manifestazione umana e la sua attività critico-letteraria influenzerà la vita culturale italiana del primo Novecento, egemonizzando attraverso i suoi allievi l’insegnamento universitario e la manualistica.
Anche Giovanni Gentile si forma alla scuola di Spaventa. Le sue prime opere sono di taglio storico, prevalentemente dedicate alla filosofia italiana, anche se nel 1899 pubblica un saggio sul marxismo dal titolo La filosofia di Marx. Studi critici. L’elaborazione gentiliana dell’idealismo hegeliano – l’ attualismo – cerca di superare le aporie che egli ritiene di individuare nel pensiero del filosofo tedesco. Il tema più importante è l’esigenza di passare oltre l’opposizione hegeliana tra pensiero dell’idea e idea, per mettere fine al dualismo tra oggettività e soggettività. Secondo Gentile è necessario mettere in atto una dialettica del pensante e non del pensato, poiché l’unica realtà è il soggetto attuale, secondo un’impostazione che risale al primo Fichte. È la filosofia dell’atto puro, che Gentile abbozza in L’atto del pensiero come atto puro (1912), e definisce in La teoria generale dello spirito come atto puro (1916). Questo soggetto in atto si configura come totalità vivente, entro la quale ogni differenza sbiadisce; da cui l’adesione del filosofo al fascismo, di cui rappresenterà l’immagine a livello intellettuale, sia in termini di dottrina che per quanto riguarda le teorie pedagogiche, la riforma della scuola e la creazione dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. Identica ragione di fondo si può scorgere nella sua adesione, sul finire della vita, alla Chiesa cattolica: due sistemi, quello del totalitarismo fascista e quello del cattolicesimo, nei quali la verità si incarna in un solo capo.
I due filosofi, schierandosi dopo il delitto Matteotti l’uno contro e l’altro a favore del fascismo, si spartiscono ed egemonizzano di fatto il campo filosofico italiano. Forte della sua presenza nelle maggiori case editrici (Laterza, Sansoni), questo idealismo costituisce una sorta di syllabus che, in nome di sintesi dottrinali unitarie precostituite, mette in ombra ogni tradizione che gli sia estranea. Bisognerà così aspettare il dopoguerra perché filosofie come la fenomenologia, la psicanalisi, il neopositivismo, l’evoluzionismo darwiniano, il pragmatismo ecc. possano innestarsi nelle tradizioni nazionali italiane, contribuendo ad arricchire il dibattito filosofico, attraverso gli intrecci con il marxismo, l’esistenzialismo, il razionalismo critico e il neoilluminismo.