L'espansione della repubblica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del IV e agli inizi del III secolo a.C. una serie di campagne militari condotte contro popolazioni che la circondano portano Roma ad espandersi e ad affermare la sua egemonia fino al mar Ionio. Al contempo le misure adottate all’interno favoriscono una trasformazione sociale che vede la nascita di una nuova élite, la nobilitas, in cui alle antiche famiglie aristocratiche patrizie si affiancano ora famiglie plebee.
Le trasformazioni politiche realizzate tra V e inizi IV secolo a.C. hanno portato Roma a essere un centro politicamente e socialmente più stabile rispetto al passato, mentre il consolidamento dell’egemonia tra le città latine e gli altri successi militari ne hanno fatto il luogo più grande e importante dell’Italia centrale tirrenica. Proprio queste nuove condizioni politiche e militari finiranno per rendere Roma l’arbitro delle sorti dell’Italia peninsulare nel secolo successivo.
La prima occasione in cui Roma metterà alla prova il suo nuovo ruolo sarà la prima guerra sannitica (343-341 a.C., secondo la cronologia tradizionale).
I Sanniti sono un popolo italico che riunisce quattro etnie (Irpini, Caudini, Carricini, Pentri) abitanti un territorio assai ampio collocato nell’area appenninica centro-meridionale. Nel 354 a.C. Roma sigla proprio con i Sanniti un trattato di non belligeranza che delimita le reciproche aree di influenza lungo il confine del fiume Liri, in un momento in cui i Sanniti cercano vie di espansione verso il mare Tirreno e vogliono evitare di scontrarsi con avversari numerosi e ben organizzati.
Nel 343 a.C. i Sanniti entreranno in conflitto prima con i Sidicini (un altro popolo italico che abita una piccola regione fra i fiumi Liri e Volturno), poi con i Campani, stringendo d’assedio la loro città più importante, Capua. A questo punto i Campani invieranno un’ambasceria a Roma chiedendole aiuto, valutando che solo essa, tra le città vicine, poteva essere in grado di tenere testa all’esercito sannita. Dopo un iniziale rifiuto del senato, determinato dalle condizioni sancite nel trattato del 354 a.C., gli ambasciatori campani riescono a ottenere l’intervento dei Romani quando mostrano la loro disponibilità a sottoporre a quella città il loro intero territorio, uno dei più fertili e ricchi d’Italia.
La prima guerra sannitica si risolve nel giro di due anni a favore di Roma che, a fine conflitto, rinnova nella sostanza il trattato del 354 a.C., aggiungendo il riconoscimento ai Sanniti del diritto di intervenire contro i Sidicini. Proprio i Sidicini, vistisi nuovamente aggrediti dagli scomodi vicini già nel 341 a.C., cercano con successo l’aiuto dei Campani che, insoddisfatti delle condizioni del trattato di pace stilato da Roma con i Sanniti, le voltano le spalle. Alla coalizione Sidicini-Campani si uniscono rapidamente altri popoli, cioè i Volsci, gli Aurunci (che abitano la costa tra l’area dominata dai Volsci e quella dei Campani) e i Latini, riuniti in una lega. Tutte queste etnie hanno motivi di rivalsa sia nei confronti dei Sanniti, sia dei Romani. In particolare i Latini mal sopportano, da tempo, le condizioni del foedus Cassianum, che collocavano le loro città in un evidente stato di subalternità politica e militare rispetto a Roma. Il conflitto tra Roma, ora alleata con i Sanniti, e la coalizione di popoli centroitalici, noto come "la grande guerra latina", durerà tre anni concludendosi, dopo complessi e non sempre chiari rovesci, a favore di Romani e Sanniti.
Gli storici moderni sono concordi nel considerare la vittoria nella guerra latina come un momento di passaggio decisivo nella storia di Roma, che conduce quella città verso l’egemonia sull’Italia intera. Alla fine del conflitto Roma decide infatti di applicare, come avverrà anche in seguito, il principio del divide et impera, trattando gli sconfitti in modo estremamente differenziato, stabilendo le forme di pacificazione sulla base del comportamento che le singole comunità già nemiche avevano dimostrato nei suoi confronti.
Rispetto, ad esempio, alla lega latina, Roma decide di incorporare nel suo territorio molte città (Lanuvio, Ariccia, Nomento, Pedum) che ne facevano parte, con lo status di municipia. Il modello municipale era stato applicato per la prima volta nel 381 a.C. nel caso di Tuscolo, città latina recuperata ai Volsci. Quando crea un municipium Roma non vi invia coloni e solitamente consente la conservazione dell’amministrazione civica tradizionale e dei magistrati locali. Ciò non di meno, i municipia fanno parte a tutti gli effetti del dominio romano.
Anche Velletri e Anzio, che sono state alquanto ostili a Roma durante la guerra, divengono municipia, ma nel primo caso solo dopo che gli aristocratici locali vengono cacciati e le loro terre assegnate a Romani, nel secondo caso dopo che una parte delle navi che ne compongono la flotta viene distrutta e i loro rostri portati nel foro romano, nell’area che verrà chiamata, per l’appunto, Rostra. Tivoli e Preneste, invece, restano indipendenti e di diritto latino, pur dovendo cedere parte del loro territorio a Roma.
Al di fuori del Latium vetus Roma impone agli sconfitti tre modelli di relazione con essa.
Il primo è quello dell’alleanza. Gli alleati (socii) restano politicamente autonomi da Roma, salvo che sono tenuti a inviare loro truppe in suo aiuto qualora essa entri in guerra: la possibilità di impiegare ampi contingenti alleati in guerra renderà l’esercito romano uno dei più grandi e vincenti lungo tutta l’età repubblicana.
Il secondo è la civitas sine suffragio (a cui sono sottoposte, tra le altre, le campane Capua e Cuma e le volsche Fondi e Formia). Anche in questo caso la città entra a far parte del dominio romano come municipium, ma i suoi cittadini avranno solo pieni doveri rispetto a Roma, come la milizia e il tributo, ma non pieni diritti, come quello di votare – ed essere votati – nei comizi.
Il terzo è lo status di colonia latina. Roma, dopo la grande guerra latina, fonda per la prima volta alcune colonie di diritto latino composte da Romani, Latini e indigeni, in luoghi che non appartengono al territorio del Latium vetus. Chi le abita ha gli stessi diritti riservati alle città latine rimaste indipendenti (ius conubii, commercii, migrationis), la lingua ufficiale è il latino, ma gli abitanti vivono fuori dal Lazio antico e possono essere prevalentemente non Latini, come i Campani di Cales, fondata nel 334 a.C., o i Volsci di Fregelle, creata nel 328 a.C.
Proprio la colonizzazione di Fregelle innescherà un nuovo periodo di rapporti turbolenti tra Roma e gli alleati Sanniti, i quali rivendicano la signoria su quella città, che avevano strappato ai Volsci alcuni anni prima. Nel 326 a.C. i Sanniti sono alle porte di Napoli, ultima città greca (e indipendente) rimasta in Campania, sostenuti dalla massa popolare ma osteggiati dall’aristocrazia locale che chiede e ottiene l’aiuto di Roma, la quale, in rotta con i Sanniti per l’affare fregellano, scatenerà contro di loro una seconda, più che ventennale (326-304 a.C.), guerra.
I Romani, dopo aver facilmente recuperato Napoli, invece di fermarsi, attaccano guerra contro gli ex alleati muovendo verso le loro roccaforti tra le alture appenniniche e subendo una celebre e pesante sconfitta presso il passo delle Forche Caudine (321 a.C.).
Solo alcuni anni dopo Roma riuscirà a riprendersi dalla disfatta, recuperando territori e città (tra cui Fregelle) che erano andati perduti. Quella sconfitta conduce i generali romani a ripensare l’organizzazione del loro esercito in battaglia. Se, infatti, il compatto schieramento a falange, retaggio dell’età regia, era ideale per gli scontri in pianura e in campo aperto, esso appare troppo massiccio e goffo per manovrare tra colline, pendii rocciosi e terreni accidentati che, nel Sannio, sono la norma. Per questo motivo la legione romana viene divisa in 30 unità minori, dette manipoli (ognuno di circa 120 uomini), organizzate su tre linee ognuna composta da dieci manipoli che si muovono assai più agilmente e in modo relativamente indipendente l’una dall’altra. Anche l’armamento dei soldati romani si modifica sensibilmente a partire della seconda guerra sannitica: il clipeo rotondo viene sostituito dallo scudo rettangolare che proprio i Sanniti usavano, mentre le forti differenze nell’equipaggiamento dei vari reparti dell’esercito censitario vanno via via affievolendosi.
Il nuovo e più dinamico esercito romano ottiene importanti vittorie dopo il 315 a.C., riuscendo a giungere fino a Boviano, sorta di capitale dei Sanniti che, nel 304 a.C., vengono sconfitti in una drammatica battaglia campale dove, secondo le fonti, muore il comandante del loro esercito, Stazio Gellio. Nello stesso anno i Sanniti sarebbero stati obbligati a una resa che confermava il vecchio trattato di pace del 354 a.C., con il riconoscimento del controllo romano su Cales e Fregelle.
A spingere i Sanniti alla resa concorrevano anche i risultati della politica di fondazioni coloniali lungo i fianchi del Sannio, realizzate da Roma parallelamente alla guerra: nel 314 a.C. viene creata, infatti, Luceria in Apulia, nel 313 Suessa Aurunca, verso la costa, e Saticula, nel 312 Interamna sul Liri e Ponza. La pressione sui Sanniti deve essere forte anche da nord dopo la sottomissione e immissione nella cittadinanza romana (seppure sine suffragio) degli Ernici (306 a.C.), l’inglobamento nel territorio romano di quello degli Equi, con la creazione di una nuova tribù (304 a.C.), e la politica di alleanze con Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani (304 a.C.), che abitano l’area appenninica a sud dei nuovi domini romani e a nord dell’area sannita.
Proprio la pressione esercitata da Roma e dai suoi alleati sul Sannio sta alla base della terza, e ultima, guerra sannitica, esplosa solo sei anni dopo la presa di Boviano.
Nel 298 a.C. i Sanniti attaccano il popolo dei Lucani, con i quali confinano verso sud. Questi ultimi chiedono l’aiuto dei Romani, il cui intervento provoca la reazione dei Sanniti che, questa volta, affrontano il nemico non da soli, ma coalizzandosi con altri popoli che, come loro, temono l’espansione di Roma, cioè gli Etruschi (e in particolare quelli dei centri interni come Volsinii, Chiusi, Arezzo), gli Umbri e i Galli Sènoni.
La battaglia più importante della terza guerra sannitica (298-290 a.C.) vede lo scontro di Roma e dei suoi alleati contro i Sanniti e i Galli a Sentino (presso l’odierna Sassoferrato) nel 295 a.C. La battaglia di Sentino è rimasta nella storia per l’inusitato numero di soldati in lotta: i Romani schierano ben quattro legioni a cui vanno aggiunte le truppe degli alleati (ancor più numerose di quelle dei Romani) per un totale di circa 36 mila uomini, di cui 8700, secondo Livio, cadranno, mentre le perdite dei nemici saranno di circa 25 mila unità. L’assenza di Etruschi e Umbri gioca un ruolo decisivo nell’esito di una battaglia che, oltre a risultare estremamente violenta, è incerta fino all’ultimo.
Due anni dopo Sentino, le ultime truppe sannite vengono sconfitte ad Aquilonia, mentre nel 291 a.C. Roma fonda un’altra colonia in posizione strategica a Venosa. Nel 290 a.C. i Sanniti si trovano costretti a stilare l’ennesima pace, che li riduce alla condizione di socii di Roma. Risolta temporaneamente la questione sannita, gli sforzi bellici di Roma si rivolgono verso le popolazioni ostili stanziate a nord.
La perdita dei libri XI-XX dell’opera dello storico Tito Livio, che trattano degli anni compresi tra il 293 e il 218 a.C., non consente di avere del tutto chiaro il quadro dei conflitti durante i primi decenni del III secolo a.C. Quello che sembra certo è che nel 283 a.C. una coalizione di Galli ed Etruschi cerca di attaccare il territorio romano da nord, venendo sconfitta al lago Vadimone presso Bomarzo. I Romani, a questo punto, contrattaccano aggredendo, in Etruria, le città di Volsinii, Vulci e Cere muovendo poi verso l’Adriatico, in direzione del territorio occupato dai Sènoni. Lungo il percorso Roma sconfigge, nel 290 a.C., Sabini e Pretuzi, che riceveranno la civitas sine suffragio. Negli anni Ottanta-Settanta del III secolo a.C. Roma completa la sottomissione dei Galli Sènoni, con l’annessione del loro territorio a quello romano e la fondazione, nella parte settentrionale della regione, della colonia latina di Ariminum, odierna Rimini, nel 268 a.C. A sud del territorio gallico Roma ottiene, infine, significative vittorie contro il popolo dei Piceni, le cui città (con l’esclusione del centro principale, Ascoli, e della greca Ancona) ricevono la civitas sine suffragio. Anche in questa regione Roma consolida il suo potere con la fondazione della colonia latina di Fermo nel 264 a.C.
Verso la fine del periodo delle guerre di conquista verso nord, Roma viene coinvolta in un altro conflitto, questa volta nell’estremo sud della penisola italiana.
Alla fine del IV secolo a.C. Roma aveva stilato un trattato con la città magnogreca di Taranto nel quale si impegnava a non superare con le sue navi da guerra il Capo Lacinio e, dunque, a non entrare nel golfo di Taranto. Nel 282 a.C. la città di Turii, minacciata dai Lucani, chiede aiuto a Roma che accetta invadendo, nelle operazioni di difesa della città amica, le acque territoriali di Taranto e contravvenendo così al trattato. Per tutta reazione i Tarantini attaccano le navi romane affondandole e cacciando il contingente stanziato a Turii.
La reazione di Roma non si fa attendere. I Tarantini pensano di rispondere allo scontro con l’enorme esercito nemico chiedendo aiuto a Pirro, re del popolo epirota dei Molossi, stanziati sulla costa balcanica di fronte alla Puglia.
Il re epirota sbarca in Italia nel 280 a.C. con 25 mila uomini (e 20 elefanti) grazie a cui ottiene subito una vittoria nella battaglia di Eraclea, nella quale per la prima volta i Romani si scontrano con un esercito ellenistico, professionale e ben organizzato – che pure soffre perdite significative –, per di più sostenuto da Tarantini, Lucani, Bruzi e Sanniti. Pirro propone la pace ai Romani, che rifiutano, e allora cerca di marciare verso la città, trovando, però, lungo la strada l’ostilità di tutte le comunità amiche di Roma, comprese Capua e Napoli, ed è costretto a tornare verso Taranto. Nel 279 a.C. avviene un secondo scontro con i Romani ad Ascoli Satriano (Ausculum) in cui Pirro, che ha nel frattempo assoldato truppe mercenarie per rimpiazzare i caduti, vince di nuovo ma, ancora una volta, subendo perdite enormi.
Pur avendo sconfitto ben due volte i Romani, il re epirota non riesce a venire a capo della situazione, mentre le spese che i suoi alleati hanno dovuto affrontare per mantenere il suo esercito e i mercenari stanno creando delle tensioni.
L’anno successivo Pirro si dirige verso la Sicilia, chiamato dalle città greche dell’isola, in particolare Siracusa, in guerra contro i Cartaginesi, popolo legato, peraltro, da amicizia con Roma da oltre due secoli e con cui nel 279 a.C. aveva stretto un patto di reciproco aiuto. Il re epirota è particolarmente legato a Siracusa per il fatto che sua moglie, Lanassa, era figlia di Agatocle, re di Siracusa morto dieci anni prima, di cui il genero vuole prendere il posto. Pirro riesce a conseguire alcune vittorie contro i Cartaginesi che decidono di stringersi a Lilibeo, all’estremo ovest dell’isola, una fortezza virtualmente inespugnabile dal momento che viene rifornita costantemente di uomini, armi e vivande che arrivano da Cartagine lungo un percorso marittimo su cui quella città esercita un’indiscussa egemonia.
I modi autoritari di Pirro e l’esosità della sua impresa portano i suoi alleati a prendere le distanze da lui, talora addirittura passando dalla parte dei Cartaginesi, obbligando il re epirota a tornare in Italia nel 275 a.C. richiamato dai popoli a lui alleati. In quell’anno Pirro affronta i Romani, guidati dal console Manio Curio Dentato, nel luogo che poi sarà chiamato Beneventum (cioè "evento favorevole"), dove viene sonoramente sconfitto. Preso a mal partito, Pirro abbandona l’Italia lasciando tuttavia una guarnigione a Taranto che si arrende a Roma nel 272 a.C., ed entra a far parte del novero dei socii di un centro che vede ormai estendersi la sua area di influenza fino al Mar Ionio. Nello stesso anno Pirro muore in uno scontro tra le strade di Argo.
Il periodo di intensa attività militare e di espansione che ha inizio con le guerre sannitiche non blocca, ma semmai accelera, il processo di affermazione delle istanze plebee e, al contempo, di trasformazione sociale a Roma.
Dopo le leggi Licinie-Sestie si assiste, oltre alla comparsa costante di un plebeo tra i consoli, all’elezione del primo dittatore (356 a.C.), del primo censore (351 a.C.), del primo pretore (337 a.C.) provenienti dalla plebe. Nel 300 a.C., poi, con il plebiscito Ogulnio si apre ai plebei l’accesso a due dei massimi collegi sacerdotali dello stato romano che da sempre, e formalmente, erano stati retaggio patrizio, cioè quello dei pontefici e quello degli àuguri. Nel 287 a.C., infine, dopo un’altra secessione della plebe, viene varata la legge Ortensia che equipara i plebisciti, votati dai soli plebei, a una legge dello stato, evitando la necessità che essi passino per l’assenso del senato, come doveva avvenire precedentemente.
È bene sottolineare, come gli studiosi moderni hanno rilevato, che l’apertura ai plebei di tutte le magistrature e di alcuni sacerdozi non fa in alcun modo di Roma una democrazia in cui a chiunque è possibile, dal nulla, arrivare a ricoprire i più prestigiosi incarichi dello stato. Per potersi candidare a una magistratura è, infatti, indispensabile appartenere alla prima classe di census e aver militato nella cavalleria. Per raggiungere questi traguardi bisogna – oltre a essere maschi e adulti – avere antenati illustri o ricchezze abbondanti, oppure, meglio, entrambe le cose. Di fatto, ad avvantaggiarsi dell’apertura di magistrature e sacerdozi a tutti i cittadini sono solo i membri di alcune delle famiglie plebee, talora imparentate con quelle patrizie, i quali in molti casi non fanno altro che prendere il posto di antiche linee parentali patrizie in decadenza. L’effetto principale di questa integrazione di alcune famiglie plebee nell’aristocrazia romana tra IV e III secolo a.C. è quello di generare una nuova élite, che nelle fonti viene definita come nobilitas (dal verbo (g)nosco "riconosco": nobilis è dunque chi è riconoscibile tra gli uomini della comunità). Una élite non meno esclusiva di quella delle epoche più antiche: basta scorrere le liste dei consoli tra 366 e 291 a.C. per vedere che, in quel periodo, 54 consolati vengono ricoperti in tutto da 14 persone, seppur di estrazione sia patrizia che plebea.
Un esempio significativo dei valori di cui sono portatori e dei traguardi a cui ambiscono gli esponenti della nobilitas romana tra IV e III secolo a.C. può essere rintracciato nell’elogio in versi saturni iscritto sul sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato: “Lucio Cornelio Scipione Barbato, generato dal padre Gneo (Gnaivod patre prognatus), uomo forte e saggio (fortis vir sapiensque) il cui aspetto fu pari alla sua virtus (quoius forma virtutei parisuma fuit), fu console, censore e edile (…), prese Taurasia, Cisauna, il Sannio, sottomise tutta la Lucania e liberò ostaggi” (Corpus Inscriptionum Latinarum 1.2).
I discendenti di Scipione Barbato affermano, dunque, la riconoscibilità sociale del loro antenato sottolineandone l’appartenenza a una importante linea di parentela (in questo caso patrizia), la forza, il coraggio, la saggezza, l’aspetto fisico, il valore in guerra: attributi positivi che stanno a fondamento delle prestigiose magistrature civiche ricoperte da Scipione Barbato e dei successi militari, per quanto, secondo le fonti letterarie in nostro possesso, tali successi sembrano essere stati assai inferiori a quelli elencati nell’elogio – e forse anche questo dato ci dice qualcosa su alcune caratteristiche sociologiche della nobilitas romana.
Nella Roma di IV-III secolo a.C. a subire delle trasformazioni non è solo l’élite. Le condizioni degli strati meno agiati della popolazione romana verosimilmente migliorano nel complesso, almeno sul piano materiale: la lex de modo agrorum compresa nelle Licinie-Sestie probabilmente produce un ampliamento del numero di chi può accedere allo sfruttamento dell’ager publicus. Non meno di essa possono, poi, le conquiste militari. La sottrazione di estesi territori ai nemici sconfitti e la creazione di numerose colonie consentono a molti Romani di diventare, se coloni, proprietari terrieri, oppure di poter occupare aree coltivabili di ager publicus. È bene sottolineare, poi, che di norma i combattenti nemici che vengono catturati, se le città cui appartengono non ricevono la cittadinanza, entrano a far parte del bottino di guerra e, come tali, vengono messi in vendita come schiavi al migliore offerente. Dal IV-III secolo a.C., dunque, il fenomeno della schiavitù a Roma diventa relativamente significativo (e destinato a crescere).
La proprietà di schiavi indurrà i proprietari terrieri romani, e non solo i più ricchi, a utilizzare questa forma di manodopera a basso costo per il lavoro dei campi, mentre il fenomeno dell’asservimento per debiti dei cittadini diventa un fatto relativamente marginale, a cui più raramente si ricorre, specialmente dopo l’abolizione del nexum tramite una legge Poetelia tra 326 e 313 a.C.
All’alba dello scontro con Cartagine, Roma è un centro che, secondo i calcoli dei moderni, controlla un’area di quasi 30 mila km2 sul territorio italiano, che ha poco meno di un milione di abitanti tra cittadini (con e senza diritto di voto) e coloni (romani e latini) sui tre che devono vivere in Italia in quel momento, che ha costruito strade (il primo tratto della via Appia, da Roma a Capua, viene completato nel 312 a.C., seguito all’inizio del III secolo a.C. dalla realizzazione delle vie Valeria, Clodia e Cecilia) che ne facilitano i rapporti politici e commerciali con buona parte del suo dominio, che gradualmente sta imponendo le sue leggi, i suoi costumi, la sua lingua, le sue istituzioni, la sua moneta a tutta l’Italia.