L’espansione delle città
Oltre il 50% della popolazione mondiale vive oggi in città. Si è molto parlato, negli ultimi anni, del ‘sorpasso’ dei cittadini sugli abitanti delle aree rurali, della soluzione di una continuità finora ininterrotta, del superamento di uno spartiacque che non ha precedenti storici: non senza enfasi, è stata così annunciata la nuova ‘era urbana’. Intorno al 1900, cioè poco più di un secolo fa, la popolazione urbana era limitata al 10%, mentre nel 2050 si prevede che costituirà il 75% del totale. Stimata intorno ai 3 miliardi nel 2003, secondo i dati pubblicati dalle Nazioni Unite, dovrebbe raggiungere i 5 nel 2030; per quella rurale ci si aspetta invece un lieve decremento, dai 3,3 ai 3,2 miliardi. Sono cifre che parlano da sole, ancor più impressionanti se si pensa che la progressiva digitalizzazione di ogni attività umana, a giudizio di molti, avrebbe dovuto rendere sempre più indifferente l’effettiva localizzazione dell’uomo sulla Terra, rallentando, o addirittura invertendo, la tendenza verso l’urbanizzazione.
È ormai chiaro che il problema dell’espansione della città e le sfide che essa ci pone coincidono, in larga misura, con i problemi dell’uomo e del pianeta in generale: residenza, lavoro, vita sociale e spazio pubblico, globalizzazione, mobilità e flussi migratori, segregazione sociale, sostenibilità. Si tratta di questioni note e dibattute; meno chiare, invece, le possibili risposte che si possono dare. Come in molti altri ambiti, il dibattito critico sull’espansione della città e, più in generale, sul suo futuro appare diviso fra chi prevede situazioni terrificanti e chi adotta toni di entusiastica fiducia. Ma a nessuno, nemmeno a chi opta per una più saggia posizione intermedia, può sfuggire come le vertiginose espansioni contemporanee e i possibili futuri sviluppi sembrino, in molti casi, preludere alla fine della stessa nozione storica di città. Da una parte quest’ultima sembra inadeguata alle nuove forme assunte in alcune aree geografiche, segnatamente quelle dell’Asia orientale. Dall’altra, la stessa nozione di progresso legata all’idea di espansione della città, un tempo positiva, assume oggi spesso connotazioni fortemente negative: è uno dei maggiori architetti contemporanei, Renzo Piano, a osservare che: «il nostro secolo ha fatto degenerare la città: questa grande invenzione dell’uomo. Ne ha inquinati i valori positivi, ha alterato la miscela delle funzioni che ne è alla base; la stessa socialità che ne è il carattere distintivo e poi, anche, la qualità architettonica. La qualità del costruito, eredità di un tempo che fu e che oggi sopravvive a stento, soffocata e snaturata nei nostri centri urbani» (2007, p. 37). Piano parla dei ‘nostri’ centri urbani, della città occidentale in generale e di quella europea in particolare, e suggerisce una soluzione: «invece che continuare a farle esplodere, dovremmo completare il tessuto della città. E questa è già un’idea più interessante e accettabile del concetto di una ‘crescita’ senza fine: l’idea della crescita ‘sostenibile’, attraverso la quale le periferie possono trasformarsi in città. È questa la nostra vera, grande scommessa per i prossimi cinquant’anni» (p. 38). Ma le cose sono forse più complesse. Non tutte le aree urbane crescono; per es., le cosiddette shrinking cities (città in contrazione) presentano una consistente diminuzione demografica e un impoverimento, oltre che sociale, del proprio tessuto edilizio e dei servizi a esso collegati. Le condizioni della città europea (in cui la crescita è comunque moderata e spesso dovuta prevalentemente all’immigrazione), come di quella nordamericana o australiana, non sono paragonabili a quelle delle grandi aree metropolitane dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. Centrale resta tuttavia la questione della qualità urbana: la città deve garantire felicità e benessere ai suoi abitanti. In tempi di mobilità globale, deve attirare cittadini che siano in grado di creare ricchezza culturale e materiale. Un’elevata qualità urbana tende a legare i cittadini al luogo: si preferisce guadagnare meno pur di vivere in un ambiente urbano gradito; simmetricamente è necessario offrire di più in termini di remunerazione economica quando un lavoro richiede la permanenza in una città meno desiderabile. La qualità della vita offerta da una città resta di gran lunga il fattore determinante per la sua competitività. Non vi è alcun dubbio che il futuro e la stessa sopravvivenza dell’umanità dipendono in larga misura dal controllo che essa riuscirà ad avere su tali fenomeni e, più in generale, dalla capacità di creare nuovi insediamenti sostenibili.
Flussi migratori e insediamenti spontanei
In un mondo in cui il 90% della ricchezza è nelle mani dell’1% dei suoi abitanti, il problema dell’espansione delle aree urbanizzate non è separabile da quello della distribuzione del benessere economico. Tale disuguaglianza, com’è noto, è all’origine dei fenomeni migratori dalle aree povere del mondo verso quelle ricche. Le frontiere funzionano in maniera asimmetrica: facilmente consentono di uscire dai Paesi poveri, più difficilmente di entrare in quelli ricchi (i cosiddetti continenti-fortezza come l’Unione Europea o l’America Settentrionale, di cui ha parlato Naomi Klein 2003). La stessa nozione di frontiera appare oggi peraltro dislocata rispetto a quelli che un tempo erano i confini fisici dei singoli Paesi: i controlli avvengono spesso lontano da questi ultimi, negli aeroporti, nelle sedi diplomatiche o nello spazio virtuale della rete. Com’è stato osservato da Zygmunt Bauman: «l’unica industria che prospera nelle terre dei nuovi arrivati (equivocamente e spesso ingannevolmente soprannominate Paesi in via di sviluppo) è la produzione in serie di profughi» (2007, p. 36). La separazione fra gli immigrati e gli abitanti dei campi profughi da una parte e i cittadini, i ‘radicati’, come sono stati definiti dal sociologo Norbert Elias, dall’altra, è sempre più forte: nell’età della mobilità globale, il termine straniero è paradossalmente sempre più vicino al suo significato etimologico e arcaico: estraneo, strano, insolito, sconosciuto con una connotazione ostile. Fin troppo spesso ancora oggi: «Il profugo, come scrisse Bertolt Brecht nella poesia Die Landschaft des Exils, è ‘ein Bote des Unglücks’, un messaggero di sventura» (Bauman 2007, p. 54).
Strettamente legato al fenomeno delle migrazioni è quello della sicurezza e della ‘gestione della paura’. La perdita progressiva del senso della comunità si accompagna a ciò che Robert Castel (2003) ha segnalato come il ritorno delle classi pericolose: in maniera paradossale, la città, storicamente nata per proteggere i suoi abitanti dai pericoli provenienti dall’esterno, è oggi pericolosa essenzialmente al suo interno. Le mura e i fossati, che un tempo separavano la città (sicura) dal territorio circostante (pericoloso), si ripropongono, in maniera meno palese, al suo interno, determinando una serie di ghetti in cui, volontariamente o involontariamente, si chiudono i suoi abitanti. Tali divisioni non sono ovviamente mai nette: la realtà urbana è sempre più ricca di sfumature e articolazioni rispetto alle semplificazioni necessarie a un ragionamento astratto. Tuttavia è un fatto che, con l’aumento della paura, la ricerca di sicurezza si fa sempre più pressante, assumendo talvolta connotazioni irrazionali. Di qui il proliferare, da San Paolo a Johannes-burgh, da Caracas a Città di Messico, come in moltissime città statunitensi, europee e anche italiane, delle gated communities, comunità residenziali chiuse, fatte di spazi apparentemente pubblici ma in realtà privati in cui chi non si attiene alle regole viene espulso, oltre che di una serie di aspetti percettivi apparentemente secondari, ma comunque non trascurabili, che vanno dalla corazzatura di porte e finestre all’uso di veicoli blindati. Muri e barriere fisiche di ogni tipo isolano dunque le case, i quartieri residenziali, i luoghi della produzione e del lavoro; a essi si aggiungono la vigilanza e tutti i sistemi elettronici, visibili e invisibili, di controllo, oltre a barriere di tipo psicologico, spesso non meno percepibili di quelle fisiche. L’invisibilità di tali sistemi è peraltro tanto maggiore quanto più facoltose sono le persone da difendere: nelle aree urbane e suburbane più esclusive degli Stati Uniti, dal Connecticut alla California, case e uffici sono spesso semplicemente racchiusi da ampie vetrate e circondati da prati privi di recinzioni, ma efficienti occhi elettronici rendono impossibile ogni illecito superamento dei confini. Le classi agiate e le élites dominanti, sempre meno radicate in un luogo fisico, sempre più mobili nella extraterritorialità della rete o all’interno di uno strato sociale internazionale relativamente indipendente dalla fisicità dei luoghi, cercano così sicurezza all’interno di recinti che le isolino dal resto della città. Simmetricamente, i poveri si ritrovano segregati dai ricchi, ma spesso anche fra di loro, e quasi sempre su base etnica. Pressoché ogni città del ‘primo mondo’ ne contiene al suo interno, in maniera più o meno visibile, una del ‘terzo mondo’, con problemi di mortalità infantile, malnutrizione, malattie, mancanza di alloggi ecc.; simmetricamente, quasi ogni città del ‘terzo mondo’ ne contiene una del ‘primo mondo’, quella che ospita il distretto finanziario, i grandi alberghi, le aree residenziali di lusso, la moda, la tecnologia avanzata e così via.
Da una prospettiva occidentale è infine difficile prendere atto che la gran parte delle realtà urbane del pianeta è costituita da insediamenti precari spontanei, che si autodeterminano velocemente, spesso in assenza dei servizi più essenziali (acqua, fognature, elettricità): favelas in Brasile, johpadpatti in India, gecekondular in Turchia, callampas in Colombia, pueblos jovenes in Perù, vijiji in Kenya, bidonvilles nei Paesi francofoni africani e caraibici, shanty towns, squatter camps ecc. continuano a ospitare i circa 200.000 abitanti che, in tutto il mondo, ogni giorno, si stima lascino le aree rurali per trasferirsi in una megalopoli. Sono gli squatters, non gli architetti, a costruire nei fatti la gran parte delle città del mondo. Né si tratta di situazioni necessariamente caratterizzate da aspetti negativi. Un primo esempio interessante è costituito da Sultanbeyli, un piccolo insediamento sulla costa asiatica di Istanbul, che qualche decennio fa iniziò a ospitare emigranti provenienti dalle parti interne più povere del continente. Le costruzioni si moltiplicarono abusivamente, proliferando, rubando energia elettrica, facendo a meno di allacci alla rete idrica e fognante: ne nacque un gecekondu dunque, che letteralmente significa «è accaduto di notte», alludendo al fatto che la legge turca chiude un occhio sugli insediamenti realizzati abusivamente durante la notte. Una volta raggiunto il numero di 2000, gli abitanti possono però chiedere alle autorità di essere riconosciuti come municipio autonomo. Ed è ciò che è accaduto a Sultanbeyli, che ha oggi superato i 300.000 residenti, ha un suo sindaco e gode di tutti i servizi portati in loco dall’amministrazione di Istanbul. Un altro esempio positivo ci è offerto da Ciudad Neza a Città di Messico, che, con l’aiuto di fondi pubblici e una forte prova di orgoglio civico, si è progressivamente trasformata da insediamento abusivo (asentamiento irregular o de paracaidistas) in una vivace comunità di 1,5 milioni di abitanti.
La densificazione
La densità degli insediamenti urbani e la loro maggiore o minore sostenibilità – se sia cioè meglio procedere nella direzione di una progressiva densificazione, anche verticale, della città o sia invece preferibile la sua espansione orizzontale nel territorio – è questione che ha occupato a lungo gli esperti. Gli studi più recenti e accreditati propendono per la prima ipotesi: la città compatta, ad alta densità, appare la risposta migliore alla necessità di ospitare masse crescenti di abitanti. La contemporaneità ha affrancato le aree urbane densamente popolate da quell’immagine tetra e sinistra un tempo tratteggiata, pur da punti di vista politicamente e culturalmente diversi, da autori quali Friedrich Engels, Thomas Carlisle, George Herbert Wells ed Ebenezer Howard, fino allo stesso Le Corbusier. Sono anzi proprio le elevate densità a consentire oggi la lotta contro l’inquinamento automobilistico grazie alla riconversione al più sostenibile trasporto pubblico, oltre a garantire sicurezza sociale e a offrire un apprezzabile senso di varietà e vitalità. Se è poi vero che il tempo diverrà un bene sempre più prezioso, è auspicabile la riduzione del pendolarismo giornaliero: ne risultano privilegiate le aree ad alta densità, svantaggiati gli insediamenti troppo estesi.
Chiara è anche la proporzionalità inversa che esiste fra sviluppo demografico ed elevata densità, ma solo nel caso in cui quest’ultima sia connessa a un certo grado di istruzione e di adeguamento alla vita urbana. Un caso emblematico è costituito da Seoul, diventata in pochi anni una delle città più densamente abitate del mondo, che ha vissuto al tempo stesso un crollo nel numero delle nascite. La vita urbana offre insomma il vantaggio di determinare condizioni socioculturali che garantiscono maggiore libertà: consentendo, per es., alle donne di avere più controllo sulla propria vita, sposarsi più tardi e avere meno figli, un risultato desiderabile all’interno di aree caratterizzate da intensa crescita demografica.
Il consenso è generale anche sulla necessità di limitare l’utilizzo dissennato delle aree verdi, cioè il progressivo aumento delle aree edificate a danno di quelle agricole: pressoché tutti i fautori della densificazione, pur sostenendo la necessità di immettere sul mercato immobiliare delle zone centrali e semicentrali quote consistenti di alloggi a basso costo, considerano tuttavia accettabili solo gli interventi sui brownfields, le aree dismesse nel passaggio dall’era industriale a quella postindustriale, e non sui greenfields, aree verdi comunque da preservare. L’espansione dell’edificato ai danni della campagna è un esito che, in alcuni Paesi come il Bangla Desh, i Paesi Bassi e il Regno Unito (ai primi tre posti nella classifica della minore quantità di spazi aperti pro capite, ma il discorso vale anche per l’Italia), non può non preoccupare, aggravato com’è dai costi necessari per dotare tali insediamenti suburbani di servizi e infrastrutture.
D’altra parte i centri delle più celebrate metropoli occidentali, soprattutto quelle europee più attraenti per storia, cultura, moda ecc., sono abitati pressoché esclusivamente da fasce sociali agiate: in alcuni casi, si pensi alle aree più costose di Londra, si tratta di abitanti il cui stile di vita è segnato da un elevato tasso di nomadismo sui generis. Le case sono abitate solo eccezionalmente, e l’immagine di tali zone, innegabilmente piacevoli, è riconducibile al lifestyle bou-tique, un ruolo sempre più simile a quello di veri e propri parchi tematici destinati a ospitare alberghi, ristoranti, caffè ed esercizi commerciali di lusso: la vita vera sembra piuttosto svolgersi altrove, nelle fasce periferiche, nei sobborghi oppure nei centri urbani secondari o minori.
Le torri o, più in generale, gli edifici high-rise, cioè con più di 12 piani, appartengono a una tipologia edilizia in rapida espansione in tutto il mondo. Quasi la metà di tali edifici è stata realizzata dal 2000 a oggi; una quota molto vicina al 10% è attualmente in costruzione (cfr. www.emporis.com). Si tratta del modo più semplice per crescere; persino i cimiteri si sviluppano in altezza, ne è un esempio la Memorial Necrópole Ecumênica III a Santos, in Brasile. Come si è detto, la cultura della congestione è più ecologica di quella dello sprawl, cioè della sconsiderata diffusione della città nel territorio; gli spostamenti in verticale degli ascensori inquinano molto meno di quelli in orizzontale, lungo le superstrade. Le torri riducono lo spreco di terreni e servizi, la loro impronta ecologica, pur consistente, è tuttavia sostenibile. Il successo commerciale e sociale di complessi high-rise per uso misto è elevato, si pensi a Roppongi Hills a Tokyo, Samsung Tower Place a Seoul, The Arch a Kowloon, Kanyon a Istanbul, non a caso tutti esempi asiatici. Lo sviluppo in altezza ha portato una forte crescita nella ricerca tecnologica: strutture, facciate, materiali, impianti e sistemi di trasporto verticale intelligenti, industrializzazione del ciclo edilizio, efficienza energetica, manutenzione, sicurezza ecc., sono stati enormemente migliorati e sono oggi alla portata di tutti. Non da ultimo, la crescente spettacolarizzazione dell’immagine di tali edifici sembra giocare a favore di nuovi, sempre più ingenti investimenti, nonché agevolare l’aggiramento dei vincoli di carattere urbanistico.
Le torri sono oggi molto lontane dall’originaria concezione che le vedeva legate ai downtowns direzionali delle città nordamericane. In Europa si sono diffuse per lo più ai margini delle città storiche, si pensi ad aree come La Défense a Parigi e Canary Wharf a Londra (la City londinese costituisce un’eccezione notevole, con i vincoli determinati dai corridoi visivi di Saint Paul, del London Bridge e del Big Ben, che hanno portato a un’espansione verticale sporadica e irregolare). In Asia sono state accettate in maniera entusiastica e incondizionata. A Tokyo le torri si sono sviluppate intorno alle principali stazioni, soprattutto quelle dell’anello ferroviario metropolitano sopraelevato costituito dalla Yamanote line. Un simile policentrico modello di sviluppo si è nei fatti realizzato a Seoul, Kuala Lumpur, Shanghai (anche se l’area di Pudong sembra replicare i distretti speciali verticali di gusto europeo) e in molte altre grandi città del continente. Gli investitori cercano aree libere centrali (come Shinagawa o Shiodome, sempre a Tokyo), ma soprattutto aree dove non si creino eccessivi problemi agli edifici vicini: di qui la predilezione per i panoramici waterfronts e per le zone ai margini dei grandi fasci infrastrutturali ferroviari o autostradali.
La diffusione del grattacielo, una tipologia edilizia nata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, e la sua rapida globalizzazione hanno causato la parziale ibridazione della sua immagine: dalla Cina al mondo musulmano, le nuove torri nascondono spesso i condivisi interessi di mercato con l’utilizzo di motivi geometrici e decorativi derivati dalle culture locali. Notevole è anche la progressiva differenziazione tipologica in atto fra uffici, residenze e complessi a uso misto, che sono oggi la maggioranza. Dal punto di vista tecnologico si assiste infine al trionfo del cemento armato sul semplice acciaio in torri di altezze prima inimmaginabili (si pensi agli oltre 160 piani della Burj Dubai), mentre, dal punto di vista della sostenibilità ambientale, i livelli di controllo climatico attivi oscillano fra quelli alti nordamericani e mediorientali e quelli relativamente bassi dell’Asia orientale e meridionale.
La sostenibilità
La necessità di andare verso insediamenti sostenibili non è più procrastinabile. La città è il campo di battaglia in cui si stanno giocando le sorti del futuro dell’umanità. La sostenibilità urbana è un concetto concretamente valido rispetto ad alcuni parametri fondamentali quali la produzione di una quantità di energia maggiore di quanta se ne consuma, la raccolta e il trattamento dei rifiuti all’interno dei propri confini, la raccolta e il riciclaggio delle acque e così via. Naturalmente tali obiettivi devono coesistere con le finalità tradizionali, tra cui quelle di creare benessere economico e sociale, e favorire la crescita culturale e tecnologica. Si tratta dunque di una grande sfida, ma senza una profonda rivoluzione di pensiero sarà difficile modificare lo stato delle cose. L’edificato e i trasporti sono responsabili del 70% delle emissioni nocive. Le reti e le infrastrutture delle città, anche di quelle più ricche, sono per lo più obsolete. Ma il problema è che non è pensabile portare le città dei Paesi più poveri agli standard di quelle occidentali: si deve piuttosto imparare da esse, cercando nuovi modelli di sviluppo. Città di Messico, Mumbai o Caracas, pur essendo enormemente estese e inquinate, hanno sviluppato una cultura della sopravvivenza e del recupero dei rifiuti che le rende, per certi aspetti, più in sintonia con i tempi di quanto lo siano le città nordamericane ed europee. Un cittadino del Bangla Desh ha bisogno di 0,002 km2 per sostenere i propri consumi, un europeo ne usa in media 0,06, uno statunitense 0,09.
Fra gli esempi positivi figurano Barcellona, che negli ultimi anni ha con successo modificato il proprio tessuto urbano mediante la creazione di un gran numero di spazi pubblici di quartiere; Curitiba, in Brasile, che ha portato avanti una politica di progressivo affrancamento dal trasporto privato in favore di quello pubblico; Copenaghen, che nell’ultimo trentennio ha costantemente sostenuto gli spostamenti a piedi o in bicicletta, con il risultato di non registrare incrementi apprezzabili nel numero delle automobili in circolazione; Manchester, infine, che nonostante la sua storica condizione industriale si avvia a essere una delle città più ‘verdi’ del Regno Unito. Significativo anche ciò che è avvenuto a Londra: grazie alla discussa Congestion charge (che prevede il pagamento di un pedaggio per il transito degli autoveicoli privati in alcune zone centrali della città) e al forte incremento del numero degli autobus urbani da essa finanziato (oltre il 40% dal 2000), ha ottenuto il raddoppiamento degli spostamenti in bicicletta e una limitazione dei veicoli privati nelle aree centrali. Tuttavia, l’impronta ecologica della capitale inglese è ancora pari a 293 volte la sua superficie: ciò significa che la città ha bisogno di un’area superiore a quella del Regno Unito per far fronte al suo fabbisogno di energia e di risorse.
Le città più grandi del mondo
Le classifiche delle città più grandi del mondo risultano particolarmente interessanti. I dati, tuttavia, sono da interpretare con cautela, tenendo presente la variabilità dei criteri con cui sono stati raccolti e ricordando che una loro lettura comparativa è spesso inficiata dal fatto che non tutti i Paesi utilizzano indicatori attendibili e omogenei. Notevoli differenze si determinano inoltre se si guarda ai confini municipali veri e propri, all’area metropolitana o ad ancor più estese forme di conurbazioni, spesso alla scala regionale e, talvolta, addirittura interstatale o transnazionale, i cui limiti sono suscettibili di interpretazioni diverse.
La questione dei confini di una città è peraltro cruciale rispetto all’efficacia delle varie forme di governo locale: si pensi che una città come New York fu perimetrata nel 1898 e da allora i suoi confini amministrativi sono rimasti invariati, anche se la sua area metropolitana si estende attualmente su tre Stati diversi (New York, New Jersey e Connecticut). Londra ha visto ampliarsi la definizione della città dai 26 km di raggio partendo da Charing Cross a quella odierna della Greater London authority, che copre un’area di 1600 km2. La superficie ufficiale di Shanghai è passata, negli ultimi anni del secolo scorso, da 375 a 3200 km2. Il Distretto federale di Città di Messico è stato ridisegnato molte volte, con il risultato che è attualmente dieci volte più esteso di quello originario: ma gli abitanti dell’area metropolitana sono al 50% circa amministrati dal sindaco, che regge le 16 delegaciones al suo interno, e per il rimanente 50% dal governatore dello Stato di Mexico, che ha potere sulle 58 municipalità esterne ai confini del Distretto.
Secondo le stime di UN-HABITAT (2008), l’agenzia dell’ONU che si occupa degli insediamenti umani, le dieci maggiori città del mondo sono nell’ordine: Tokyo (35.676.000 abitanti), New York-Newark (19.040.000 ab.), Città di Messico (19.028.000 ab.), Mumbai (18.978.000 ab.), San Paolo (18.845.000 ab.), quindi Delhi (15.926.000 ab.), Shanghai (14.987.000 ab.), Calcutta (14.787.000 ab.), Dacca (13.485.000 ab.), Buenos Aires (12.795.000 ab.). Seguono Los Angeles-Long Beach-Santa Ana (12.500.000 ab.), Karāchī (12.130.000 ab.), Il Cairo (11.893.000 ab.), Rio de Janeiro (11.748.000 ab.), Osaka-Kobe (11.294.000 ab.), Pechino (11.106.000 ab.), quindi Manila (11.100.000 ab.), Mosca (10.452.000 ab.) e Istanbul (10.061.000 ab.). Tali classifiche suggeriscono alcune considerazioni. Tokyo, al numero uno, costituisce un’eccezione in quanto è anche una delle città più ricche, e non si colloca, evidentemente, fra quelle più velocemente in espansione (tuttavia, nelle proiezioni al 2025 di UN-HABITAT, mantiene saldamente il primo posto con oltre 36 milioni di abitanti, distanziando di oltre 10 milioni la seconda, Mumbai). Tutti gli altri posti nella parte alta della classifica 2008 sono occupati da città relativamente povere, povere o molto povere, appartenenti per lo più a Paesi in via di sviluppo, con poche eccezioni, come le aree metropolitane di New York, Los Angeles e Osaka; per trovare qualche città europea bisogna aspettare Mosca e Istanbul, che lo sono in realtà solo dal punto di vista geografico. Nelle proiezioni al 2025, dopo Tokyo e Mumbai si collocano, nell’ordine, Delhi, Dacca, San Paolo, Città di Messico, New York-Newark (che scende dal secondo al settimo posto), Calcutta, Shanghai e Karāchī; si conferma così la prevalenza delle megalopoli dei Paesi in via di sviluppo. A ridosso dei primi dieci posti si posizionano tre poverissime città africane, Kinshasa, Lagos e Il Cairo. Mosca scende al ventitreesimo posto, attestandosi intorno ai 10,5 milioni di abitanti.
America Latina
L’America Latina è la parte del nuovo continente in cui la recente espansione delle città avviene con maggiore intensità e certamente non senza problemi. Come si è visto, qui sorgono alcune delle città più grandi del mondo. Quelle che presentano uno sviluppo demografico più rapido sono Città di Messico al centro, San Paolo e Rio de Janeiro al Sud, seguite a poca distanza da Bogotá e da altre città brasiliane. Rallenta invece la crescita di Buenos Aires, oggi al secondo posto fra le metropoli latinoamericane, soltanto sedicesima nelle previsioni del 2025. Bogotá in particolare, grazie a una serie di amministrazioni illuminate guidate da sindaci come Antanus Mockus ed Enrique Peñalosa, è riuscita, negli ultimi anni, a risolvere alcuni dei suoi molti problemi: il TransMilenio (un sistema di autobus rapidi in corsia riservata che trasporta oggi mezzo milione di passeggeri al giorno), 300 km di piste ciclabili e una politica chiaramente orientata contro l’uso delle auto private hanno ridotto il traffico del 40%; altri interventi, mirati soprattutto ai servizi di quartiere, hanno inoltre migliorato la qualità della vita e l’hanno resa molto più sicura e vivace di un tempo. In Brasile si sono segnalate alcune città di secondo piano per la loro intelligente politica di miglioramento del trasporto pubblico, di potenziamento delle aree verdi, di riciclaggio dei rifiuti e rivitalizzazione dei centri storici, come la già citata Curitiba. In alcune metropoli come Rio e San Paolo si è significativamente lavorato al recupero di alcune favelas, rinunciando a improbabili operazioni di demolizione e accettandone quindi l’esistenza, ma cercando al tempo stesso di migliorarne il più possibile le infrastrutture e i servizi. Un’eccezione è infine costituita dal Cile che, grazie alle condizioni economiche generali e alla recente stabilità demografica e politica, gode di una situazione paragonabile a quella delle città nord-americane, con alcune interessanti punte di eccellenza architettonica e una considerevole e significativa attenzione al tema del paesaggio.
Africa
I problemi delineati per l’America Latina assumono connotazioni drammatiche in Africa, dove è necessario distinguere città fra le più antiche del mondo (come, per es., Il Cairo, prima del continente per consistenza demografica e una delle poche ad avere un importante centro storico), città caratterizzate da una condizione di miseria assoluta (per es., quelle di Mozambico, Somalia, Eritrea o Etiopia), città della Repubblica Sudafricana come Città del Capo e Johannesburg, che almeno apparentemente assomigliano a quelle americane, o città in cui la rapida espansione si è accompagnata a un’altrettanto rapida crescita dei problemi, come avviene, per es., a Kinshasa, Khartum, Nairobi e Lagos.
Quest’ultima, che è oggi il principale centro urbano della Nigeria, ha vissuto un’espansione magmatica, dalle dimensioni indecifrabili: sull’entità della sua popolazione vi sono stime molto differenti, ma tutte concordano sul fatto che Lagos ha avuto una crescita in assoluto fra le più alte del mondo. Poverissima (la maggior parte dei suoi abitanti vive con meno di 1 dollaro al giorno), fatta per lo più di slums che proliferano in assenza dei servizi più essenziali, paralizzata dal traffico, inquinata da una coltre perenne di smog, endemicamente colpita dalle malattie (circa metà della popolazione è affetta dalla malaria), corrotta, pericolosa e violenta, la sua vertiginosa espansione sfida ogni nozione precostituita. Ma non tutto assume connotazioni negative: un osservatore attento quale Rem Koolhaas ha rilevato che, mentre in Occidente lo spazio pubblico sembra condannato a una progressiva marginalizzazione, qui l’assoluta povertà consente a esso di dominare la scena, con livelli di interazione sociale altissimi e un continuo scambio fra dimensione pubblica e privata. Lagos rappresenta inoltre il fulcro di buona parte dell’economia dell’Africa occidentale, nelle sue strade sono parlate oltre 250 lingue diverse ed è considerata dagli africani un luogo dove, rispetto alle aree depresse dell’interno, è comunque possibile ‘farcela’.
Anche Addis Abeba sta oggi vertiginosamente accelerando la sua corsa verso la modernità: la nuova Ring Road (2003), parzialmente costruita dai cinesi, il nuovo aeroporto di Bole (2003), una serie infinita di cantieri grandi e piccoli, nuovi edifici, strade e impianti ne stanno rapidamente trasformando l’immagine. La città è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, fino a raggiungere una popolazione attualmente stimata nell’ordine dei 5-6 milioni di abitanti, che continuano ad aumentare. Capitale di uno dei Paesi più poveri del mondo, la sua realtà quotidiana è caratterizzata da un’edilizia caotica e fatiscente, sulla quale prevalgono di gran lunga gli slums, e da un alto tasso d’inquinamento, dovuto al traffico e al cattivo stato dei veicoli. Edifici anche molto grandi si alternano a precarie baraccopoli, lussuosi compounds (insiemi edilizi recintati e difesi da checkpoints militarizzati) si affiancano ad aree dismesse e abbandonate dove pascolano greggi e giocano bambini. Folle di miserabili si spostano, a piedi o su vecchi autobus, da una parte all’altra di un’area urbanizzata vastissima, attraversando spazi pubblici polverosi e fuori misura; non pochi di loro, durante la notte, dormono all’aperto.
Medio Oriente
Non lontana geograficamente, la scena mediorientale appare molto diversa. L’espansione urbana determinatasi nelle aree più ricche del mondo arabo, nonostante l’ampia attenzione mediatica ricevuta negli ultimi anni che ne ha in qualche modo consumato i contenuti da una parte e i recenti segnali di crisi dall’altra, continua ad avere dell’incredibile. La prosperità portata dal petrolio ha innescato una crescita che non ha eguali nel mondo, soprattutto se si considera che, nella maggior parte dei casi, si partiva praticamente da zero. Caratteristica comune a tali insediamenti urbani è infatti la totale artificialità determinata dal clima: in una condizione storicamente nuova, la vita dell’uomo contemporaneo si svolge pressoché esclusivamente all’interno di ambienti climatizzati (persino l’acqua delle piscine viene, nella stagione calda, opportunamente raffreddata), mentre lo spazio pubblico all’aperto svolge una funzione assolutamente secondaria. Le capitali dei sette Emirati Arabi, del Qaṭar e del Kuwait, e le grandi città dell’Arabia Saudita, hanno vissuto un frenetico boom edilizio, spesso all’insegna dell’imitazione e del superamento dei modelli più spettacolari e commerciali del capitalismo occidentale, specie nordamericano.
L’espansione di Dubai, in particolare, rapidissima sia verso l’alto sia verso il mare, è stata provocata, più che dal petrolio (come nel resto della regione), dall’afflusso di capitali privati incoraggiati dalle audaci politiche dello sceicco Maktoum bin Rashid al-Maktoum, deciso a trasformare la città in un grande centro trans-nazionale del lusso, obiettivo in parte già conseguito. Resort city, com’è stata definita da Koolhaas, Dubai ha così messo in crisi ogni discorso storico sulla forma urbana e sulla sua evoluzione nel tempo. La crescita verticale è stata determinata dal proliferare di un gran numero di torri: da Burj al-Arab (1999), la ‘vela’ di Tom Wright che emerge con i suoi 321 m dalle acque del Golfo, fino a Burj Dubai (2009), progettata da Adam Smith dello studio statunitense SOM e realizzata dalla sudcoreana Samsung corporation, che detiene il labile titolo di edificio più alto del mondo con un’altezza di 828 metri. La Burj Dubai fa parte di un gigantesco complesso circondato da un lago artificiale, in cui si trovano anche la Burj Dubai Down-town, un insieme di 33.000 unità residenziali, il centro commerciale Dubai Mall (2008), uffici e nove alberghi diversi, fra cui (all’interno della stessa Burj Dubai) il primo Armani Hotel, in grado di offrire 160 tra stanze e suites e 144 appartamenti di lusso. L’espansione orizzontale, più che verso le inospitali aree desertiche interne, avviene sottraendo terreno al mare. Si tratta di interventi che per dimensioni e spettacolarità non hanno precedenti: come testimoniano le immagini satellitari, è la stessa geografia costiera a esserne radicalmente modificata. È il caso, per es., di alcune imponenti realizzazioni immobiliari come The Palms, tre isole artificiali (Jebel Ali, 2008; Sumeirah, 2008; Deira, ancora in costruzione) destinate a residenze private di lusso, ciascuna dotata di attracchi privati; o The World (iniziato nel 2003), 300 isole artificiali che, viste dall’alto, simulano le terre emerse dei cinque continenti. Oppure Waterfront City, colossale progetto del 2008 (140 km2) commissionato dalla società Nakheel properties allo stesso Koolhaas e al suo studio OMA: un quadrato delineato da un canale che consentirà alle acque di entrare dov’era prima la terraferma. Pensata per 1.500.000 abitanti, con una densità pari a quella di New York, la nuova città avrà un impianto urbano regolare con 25 isolati e una serie di torri molto alte, ma anche una monumentale sfera di 44 piani riservata a usi civici diversi, e una gi-gantesca moschea. Dubai si è dunque preparata a un’espansione demografica senza precedenti: per il 2015 le stime parlavano (prima della crisi globale del 2008) di 2,5 milioni di residenti, 40 milioni di visitatori l’anno, una ricettività alberghiera di 110.000 camere, 650.000 nuove unità residenziali con investimenti edilizi pari a 318 miliardi di dollari.
La crescita del settore immobiliare (sommata a quella del settore infrastrutturale) ha avuto momenti in cui è parsa inarrestabile: solo fra il 2006 e il 2007 è stata del 79%, con un rialzo medio dei prezzi alla vendita del 64%. Le società immobiliari hanno promosso i propri prodotti sulla base di immagini virtuali: alloggi lussuosi dalle cui terrazze panoramiche si gode la vista vertiginosa della città del futuro, in gran parte ancora da edificare. Si sono anche moltiplicati i centri commerciali: il colossale Mall of the Emirates (celebre per Sky Dubai, struttura che ospita piste innevate tenute a temperatura costante fra –−1 e −2 °C, quando quelle esterne toccano i 45 °C), il più esteso Dubai Mall, nel citato complesso di Burj Dubai, e il Mall of Arabia a Dubailand: per questi ultimi progetti si parla di superfici commerciali disponibili pari a 930.000 m2. Non è facile prevedere, soprattutto in un periodo caratterizzato dalla citata crisi economica globale (e da ampie oscillazioni nei prezzi del petrolio), in quale misura il momento storico di assoluta eccezionalità vissuto di recente a Dubai sia destinato a durare: fino a oggi l’entità dei finanziamenti a disposizione, pressoché illimitata, non sempre è riuscita a compensare la velocità alla quale si costruisce: non pochi quindi i problemi di carattere geodinamico e, più in generale, di qualità esecutiva che si pongono a tali ardite espansioni. Non pochi edifici stentano poi a trovare abitanti. Ma gravi sono anche gli squilibri sociali, che contrappongono all’estrema ricchezza di pochi un’invisibile massa di immigrati (pakistani, indiani, yemeniti ecc.) che lavora in condizioni di semischiavitù.
Analoghe considerazioni sono possibili nelle vicine città del Golfo: colossali interventi (alcuni connotati da una forte attenzione per l’ecologia) sono previsti, per es., ad Abu Dhabi, dove lo studio Foster ha progettato la nuova città di Masdar (in costruzione dal 2006) e dove, all’interno del Saadiyat Island Cultur-al District, grandi musei occidentali come il Louvre e il Guggenheim stanno aprendo loro sedi (ideate rispettivamente da Jean Nouvel e Frank O. Gehry); inoltre, Zaha Hadid ha progettato il Performing Arts Centre e Tadao Ando, con lo stesso Foster, ha disegnato altri due nuovi musei. La Guggenheim Foundation ha poi invitato l’architetto cinese Zhu Pei a realizzare un nuovo padiglione espositivo. Masdar, in particolare, ha la forma di una città murata, e nasce dall’ibridazione del modello contemporaneo dello shopping mall, esteso a dismisura fino alla scala urbana, con quello tradizionale della città araba, con il suo reticolo di strette stradine in ombra. La nuova città si pone l’ambizioso obiettivo di essere una comunità carbon-neutral e zero-waste, quindi altamente ecologica e sostenibile ed è destinata a ospitare un nuovo centro di ricerca universitaria, sede della Abu Dhabi future energy company e di una Special economic zone. Interessante anche ciò che sta avvenendo nel piccolo emirato di Ras᾿al Ḫayma, dove lo stesso studio OMA ha progettato il complesso di Rak Gateway. Oppure a Doha, capitale del Qaṭar, dove in pochissimo tempo sono sorte enormi torri in acciaio e vetro, ma dove si è anche puntato, nei limiti del possibile, sul recupero dell’eredità culturale islamica. A Ieoh Ming Pei, per es., è stato affidato il progetto di un nuovo museo, il Museum of Islamic Art (2008), che dimostra come sia possibile coniugare, non senza qualche ambiguità, modernità, tradizioni autoctone e stilemi dell’architettura islamica antica.
Asia sud-orientale
Dove però il fenomeno dell’espansione delle aree urbane assume connotazioni di assoluta eccezionalità è nella parte sud-orientale del continente asiatico. Come si è visto, fra le maggiori città del mondo molte sono attualmente in Asia. Fra queste vi sono alcune delle più ricche, alcune delle più povere, altre segnate da una straordinaria crescita demografica (come Dacca, Mumbai, Karāchī, Giacarta e Delhi, ma anche Shanghai, Calcutta, Manila, Pechino e Lahore), altre ancora in cui la crescita demografica si accompagna fortunatamente a quella economica.
Mumbai (la vecchia Bombay), capitale dello Stato del Mahārāṣṭra, è la maggiore città dell’India, una delle più grandi e più velocemente in crescita del mondo (nel primo decennio di questo secolo la popolazione è cresciuta del 14%, nel prossimo si prevede l’arrivo di circa 2,4 milioni di persone), e una delle più giovani (un terzo dei residenti ha meno di vent’anni, solo il 4% supera i 65). Importante sede finanziaria, da cui proviene il 37% delle entrate fiscali di tutta l’India, ma che, al tempo stesso, ha un PIL interno pari al 2,4% del Paese, patria di Bollywood, la formidabile industria cinematografica indiana, è, nonostante i suoi problemi e i suoi difetti, spesso vissuta come trampolino verso l’emigrazione. Malgrado tutti i suoi servizi siano inadeguati, è la meta più ambita per chi proviene dagli Stati poveri dell’India settentrionale, come l’Uttar Pradesh e il Bihar. Ospita così oggi uno sconfinato sottoproletariato, abituato a vivere di giorno arrangiandosi come può e a dormire di notte sui marciapiedi. La densità è altissima, lo spazio pubblico meno dell’1% della superficie totale, l’inquinamento elevato, il traffico perennemente congestionato pur essendo i mezzi privati usati soltanto nel 15% degli spostamenti giornalieri di pochi privilegiati. La città guarda a Shanghai, sperando di ripeterne il miracolo: Vision Mumbai è un ambizioso progetto che prova ad affrontare alcuni dei molti problemi urbani entro il 2013. Gli speculatori vi costruiscono oggi condomini di lusso e centri commerciali, per il resto la città è vicina al collasso. Ma sono paradossalmente le sue stesse dimensioni e le sue infinite contraddizioni a garantire libertà a chi la abita: «È un luogo dove non conta di che casta sei, dove una donna può cenare da sola in un ristorante senza essere molestata e dove ci si può sposare con chi si preferisce. Per i giovani di un villaggio indiano il richiamo di Mumbai non è solo una questione di denaro. È anche una questione di libertà» (S. Mehta, Mumbai, India, in Città. Architettura e società, 1° vol., 2006, p. 248).
Un caso a parte è costituito da Singapore, dove le favorevoli condizioni economiche, la stabilità politica e il multiculturalismo, nonostante le ridotte dimensioni demografiche, hanno dato vita a uno dei laboratori urbani più interessanti della contemporaneità. In meno di venticinque anni di costante crescita economica, da Paese in via di sviluppo, Singapore si è collocata fra i primi cinque del mondo in termini di reddito lordo pro capite: fra gli obiettivi raggiunti, alcuni dei quali non esenti da aspetti inquietanti, vi sono la prima rete postale virtuale, un sistema wireless di controllo del traffico automobilistico e un sistema di manutenzione e supervisione esteso all’intera isola.
Ben altro spazio meriterebbe poi il Giappone, il primo Paese asiatico ad aver vissuto l’espansione urbana ed economica che si sta verificando oggi in molte altre parti del continente. Lungo la costa occidentale sono chiaramente distinguibili due grandi aree metropolitane: Tokyo-Yokohama a nord e Osaka (2.700.000 ab.) a sud, nella ricca regione del Kansai. Ma praticamente in continuità con Osaka sorgono Nara, Kobe e Kyoto, l’antica capitale: nell’insieme, oltre 17,5 milioni di persone.
Tokyo, su una superficie di circa 13.000 km2, è e resterà a lungo, come si è detto, la città più popolata del mondo. Si tratta di un’estesa, densa e caotica regione urbanizzata composta da 27 città con più di 200.000 ab.; 17 con più di 300.000 ab.; 8 con più di 500.000 abitanti. La parte principale di tale sistema, retta dal Tokyo metropolitan government, è suddivisa in 23 ku, o municipi, che si estendono per 598 km2 all’interno della prefettura di Tokyo-to. I tre municipi centrali di Chiyoda, Chuo e Minato formano il cosiddetto CBD (Central Business District), ove, oltre a estese zone residenziali e turistiche, si registra la più alta concentrazione di edifici governativi, sedi di società giapponesi e straniere, banche, ambasciate e così via. Dal 1991 la stessa sede del Tokyo metropolitan government è stata spostata a Shinjuku, all’interno di un piano di decentramento che prevede lo sviluppo di sei municipi in nuovi centri cittadini: oltre a Shinjuku, Shibuya, Ikebukuro, Ueno/Asakusa, Kinshichō/ Kameido e Osaki. Shinjuku, in particolare, è sempre più percepita come il nuovo downtown di Tokyo. A quest’area vanno aggiunti il distretto di Tama (oltre 3.500.000 ab. su 1160 km2) e le isole sulla baia (30.000 ab. su 400 km2), alcune di esse lontanissime dalla città. Ma l’area metropolitana della capitale giapponese è in realtà formata da un’ancor più estesa conurbazione misurata sul pendolarismo dei lavoratori giornalieri, che si estende per un raggio di oltre 150 km dal centro e dipende da altre 3 prefetture (ken): Kanagawa a sud-ovest (al cui interno ricade la metropoli di Yokohama), Saitama a nord e Chiba a sud-est, che nel loro insieme formano un’entità amministrativa chiamata Tokyo metropolitan region. Con oltre 30 milioni di abitanti, l’area geografica della pianura di Kantō ospita il 25% della popolazione del Giappone, un terzo dei professionisti, tecnici, manager e lavoratori qualificati e il 36,2% delle fabbriche. Ancor più estesa è la National capital region, entità amministrativa così vasta da funzionare a fatica come unità economicamente riconoscibile, chiaramente dominata da Tokyo, ma contenente tutta una serie di centri minori lontani e appartenenti a prefetture diverse, come Ibaraki. Nel suo insieme è una delle regioni urbanizzate più estese e popolate del pianeta, un articolato e complesso sistema continuo policentrico che nel tempo ha integrato al suo interno una serie di città originariamente del tutto separate.
Cina
Più di ogni altro Paese, è la Cina – con la sua cultura millenaria e il suo recente ‘protocapitalismo comunista’ che, non senza forme autoritarie, governa una popolazione di quasi un miliardo e mezzo di abitanti, coesa soprattutto intorno alla sua straordinaria crescita economica – a svolgere oggi il ruolo di protagonista sui nuovi scenari globali. L’espansione delle città ha assunto qui proporzioni senza precedenti storici. Si prevede che nel 2015, 700 milioni di cinesi, metà della popolazione del Paese, vivranno in città. Soltanto l’India avrà una popolazione urbana ancor più numerosa. Studi diversi stimano che entro il 2030 altri 400 milioni di persone si saranno trasferiti dalle zone rurali in città. La World bank prevede fra l’altro che nel mondo, tra il 2008 e il 2015, circa metà delle nuove costruzioni saranno realizzate proprio in Cina. Le proporzioni assunte dal fenomeno dell’inurbamento della popolazione cinese sono dovute anche alla creazione di distretti economici speciali, che assorbono una parte cospicua delle imposte raccolte nelle aree rurali. L’evoluzione di queste ultime, spesso povere e arretrate, ne è pertanto simmetricamente rallentata.
Dovunque vengono costruite nuove città o nuove colossali espansioni urbane, come dovunque si ricostruiscono le vecchie città: si pensi all’emergenza edilizia verificatasi dopo il terremoto del maggio 2008 nella provincia di Sichuan. Un altro esempio è costituito dalla regione urbanizzata del Pearl River Delta, intorno a Hong Kong, con Shenzhen e Guangzhou (la vecchia Canton). In quest’ultima, in particolare, al di là di alcuni edifici eccezionali (tra cui la nuova TV Tower progettata dagli studi Arup e Information based architecture, 610 m di altezza, completata nel 2009, in tempo per le trasmissioni televisive dei campionati asiatici del 2010; o la Pearl River Tower, progettata nel 2005 dallo studio SOM, che, al momento del suo completamento previsto per il 2010, sarà probabilmente il primo grattacielo a emissioni zero del mondo), l’impressione è di grigia uniformità, come teorizzato da Koolhaas ricorrendo allo slogan della ‘città generica’. Ma si tratta anche di città che oggi tendono a offrire immagini via via più diversificate e complesse. Di Shenzhen, per es., non si possono non segnalare le repliche di alcuni monumenti celebri nel mondo, a cominciare dalla ricostruzione, in scala ridotta ma pur sempre molto grande, del Golden Gate Bridge di San Francisco, che emerge in mezzo a nuovi condomini di lusso; ma sarebbe interessante parlare anche di Dong-guan, Shunde, Zhongshan, Zhuhai e Macao.
Hong Kong in particolare, l’unica fra le città cinesi ad avere una storia urbana ‘occidentale’ stratificatasi nel corso della seconda metà del Novecento, continua anch’essa a crescere, sia verso l’alto sia verso il mare. Un buon esempio è costituito dalla West Kowloon Promenade, una striscia di terreno lunga 400 m recuperata dalle acque, da cui si gode la vista del vertiginoso skyline urbano sul quale spicca l’altissima Two IFC (415 m), la torre realizzata da Cesar Pelli e Ove Arup & partners HK nel2003. Altre torri notevoli sono One Peking (2003), racchiusa da una complessa facciata a lente a tre strati, che alloggia schermi frangisole e pannelli fotovoltaici, opera di Rocco design, uno dei maggiori studi di progettazione cinesi di cui è titolare Rocco S.K. Yim, con WMKY architects engineers; la AIG Tower di SOM (2005); la Chater House (2002), al cui interno è l’Emporio Armani (2002), di Massimiliano e Doriana Fuksas; l’International Commerce Center (2008) a Kowloon, 108 piani sulla Union Square, in un’area, anche in questo caso, recuperata dal mare, entrambi di Kohn Pedersen Fox associates con Ove Arup & partners HK. La città si espande anche con giganteschi interventi edilizi quali, per es., The Arcade at Cyberport (2004), un complesso commerciale e culturale immerso in un paesaggio di grande bellezza panoramica, progettato da The Jerde partnership, gruppo statunitense specializzato in shopping malls, in collaborazione con Wong Tung partners, Ove Arup & partners UK e Maunsell structural consultants.
I due più straordinari laboratori urbani, che ambiscono a svolgere un ruolo economico, politico e culturale globale, sono certamente Pechino (Beijing) e Shanghai. Le due maggiori città cinesi vivono anni di crescita vertiginosa, accelerata da eventi di risonanza mondiale quali i Giochi olimpici del 2008 nella prima e l’Expo del 2010 (dedicata al tema dell’ambiente) nella seconda. Pechino ha attualmente cinque grandi strade anulari di raccordo che contano da sei a quattordici corsie; il sesto anello, che scorre a circa 50 km dal centro, è in costruzione; il settimo è già stato progettato. L’edificio simbolo del nuovo Central business district è forse la CCTV Tower (2008), sede della televisione cinese progettata da Koolhaas e Ole Scheeren, inconsueta e originale struttura high-rise circondata da circa 300 nuove torri.
Ma è Shanghai, che con i suoi circa 15 milioni di abitanti è la più popolosa della Cina e si colloca al quarto posto in Asia, la città che in questi ultimi anni ha registrato la più forte crescita economica al mondo e che, più di ogni altra, si è rapidamente globalizzata, monopolizzando l’attenzione dei media: ospita oggi i quartieri generali continentali di oltre 150 corporation, fra cui quelli di giganti come General motors e IBM. A ciò corrisponde, prevedibilmente, un’altrettanto straordinaria crescita della città fisica, della sua edilizia e delle sue infrastrutture: uno sviluppo pilotato dallo Stato ma essenzialmente basato sul leasing dei terreni demaniali ai privati e sull’apertura ai capitali stranieri. Il patrimonio residenziale urbano si è così raddoppiato in pochi anni, rendendo possibile un’espansione che avrebbe altrimenti richiesto tempi infinitamente più lunghi: la città ha oggi il doppio degli edifici di New York. La pressione demografica resta tuttavia fortissima: le stime indicano che Shanghai, per la prossima decade, avrà bisogno di 200.000 nuovi alloggi l’anno, mentre il valore medio di un appartamento in un’area centrale è anche quattro volte superiore a quello di uno periferico. L’espansione verticale della città è stata, negli ultimi anni, altrettanto intensa: fra le torri di recente realizzazione si segnalano la sede della Jiushi Corporation (2000) di Foster and partners con East China architectural design institute e Obayashi corporation design department; la Shanghai Information Tower (2001) dello studio giapponese Nikken Sekkei e del SIADR (Shanghai Institute of Architectural Design & Research); il World Financial Center (2008) di Kohn Pedersen Fox associates con Leslie E. Robertson associates, alto 492 m e caratterizzato da una grande apertura alla sommità per ridurre la resistenza al vento e da una piattaforma panoramica sospesa. Molte anche le torri con destinazione alberghiera, la cui progettazione è stata affidata a studi (per lo più statunitensi) tanto commerciali quanto internazionalmente noti: è il caso, per es., del Ritz Carlton (1992), del Westin Bund Center (2002) e del Marriott (2002), tutti di John Portman & associates; del Four Seasons (2002) di HOK international o del Regent Shanghai (2005) di Arquitectonica. Molti anche i nuovi interventi edilizi dalle dimensioni gigantesche: per es., l’Oriental Art Center (2004) a Pudong di Paul Andreu con East China architectural design institute, che, all’interno del suo impianto lobato, alloggia anche teatri, auditorium e sale espositive. Ma, soprattutto, l’espansione urbana passerà attraverso il piano varato dal governo municipale, il cui completamento è previsto per il 2010: al rinnovamento della città si affianca la realizzazione di 9 new towns che ospiteranno circa 6 milioni di abitanti e di altre 60 minori, ciascuna destinata ad accogliere 50.000 abitanti. Le nove maggiori sono modellate a somiglianza di altrettante città occidentali, seguendo la discutibile moda dell’eurostyle: Thames Town (2008), per es., che fa parte della Songjiang New City a circa 40 km a sud-ovest del centro di Shanghai, somiglia a un tradizionale villaggio inglese, ricco di pittoresche repliche storiche; Anting New Town (2006), progettata da Albert Speer & partners, è invece ispirata a una città tedesca contemporanea, sia pur parzialmente adattata agli usi cinesi, e ospita, fra l’altro, un grande complesso sportivo (2008) dello studio Behnisch, Behnisch & partner, segnato da sagome basse e cristalliformi; e l’elenco potrebbe continuare, con esempi in stile italiano, spagnolo, nederlandese e così via. Fra le molte zone di espansione si segnala anche Luchao Harbour City, destinata a ospitare 800.000 residenti in un’area di 65 km2 caratterizzata da un impianto radiocentrico che si sviluppa intorno a un lago circolare il cui diametro misura 2,5 km; progettata dallo studio tedesco gmp Architekten-von Gerkan, Marg und Partner, se ne prevede il completamento nel 2020. Ma anche le aree centrali sono oggetto di una sensibile spinta al rinnovamento: alle indiscriminate demolizioni di gran parte dei quartieri storici, spesso operate senza curarsi dell’impatto, anche psicologico, sulla popolazione residente, soprattutto sulle sue fasce più deboli per censo ed età, fanno oggi riscontro alcuni interessanti casi, come, per es., il quartiere di Xintiandi, in cui gli americani Benjamin Wood e Carlos Zapata hanno proposto il recupero delle tradizionali case lilong; contemporaneamente si costruiscono nuovi complessi residenziali di lusso e un Theatre District che aspira ad assomigliare a Broadway o al West End londinese.
Lo sviluppo dei trasporti urbani, che comprende, oltre a quella stradale, la rete ferroviaria, quella della metropolitana e una linea Maglev ad altissima velocità, interesserà presto l’intera superficie urbanizzata, consentendo un’effettiva possibilità di scelta fra la densa città consolidata e le più aperte, e meno costose, città satelliti, gradualmente sempre più autonome dal centro. Lussuose gated communities ospitano i nuovi ricchi. Ma l’indice di diseguaglianza economica Gini (che pone pari a 1,00 la massima disuguaglianza) è salito da 0,37 a 0,45 nel 2001, avvicinando Shanghai alle aree urbane meno equilibrate degli Stati Uniti. Emblematico ciò che si è determinato nella panoramica Hangzhou, non lontano da Shanghai, prima città al mondo a raggiungere il milione di abitanti nel 13° sec., a lungo sede imperiale e oggi domicilio prediletto dai nuovi ricchi. Il mercato immobiliare ha qui registrato aumenti di valore senza precedenti, molto prossimi a quelli delle aree più pregiate di Shanghai; le ville sulle rive del celebrato West Lake, spesso firmate da architetti famosi, vengono oggi vendute a molti milioni di dollari. Simili, impetuose crescite si sono verificate a Chongqing, nell’interno del Paese, nella settentrionale Shenyang, e in molte altre città.
La Cina, che attualmente è il primo produttore mondiale di anidride carbonica, e che ha sollevato e continua a sollevare non poche polemiche dovute alla sua arretratezza normativa nel settore e a progetti di discutibile sostenibilità come, per es., la Three Gorges Dam, la nuova diga sul fiume Yangzi (già Yang-tze), ha cominciato di recente ad avvalersi di consulenti provenienti da ogni parte del mondo per vincere la sfida ecologica: i modelli architettonici e urbani, finora frettolosamente e superficialmente desunti da quelli occidentali, stanno subendo un processo di radicale ripensamento e sempre più diffusamente l’adesione alla cultura ecologica è vista come parte integrante della contemporaneità. Se tali piani verranno realizzati con successo, il concetto stesso di città sarà, nel prossimo futuro, completamente sovvertito. Un segnale concreto in questa direzione giunge con il programma che prevede la costruzione di 400 nuove città ecologiche nei prossimi vent’anni. L’esempio più noto è costituito da Dongtang, vera e propria ecocity (definizione che risale alla fine degli anni Ottanta, e precisamente al libro di Richard Register Ecocity Berkeley. Building the cities for a healthy future, 1987), progettata dallo studio Arup a partire dal 2005, e la cui realizzazione è prevista sia completata nel 2010, in tempo cioè per la World Expo di Shanghai. Con una superficie pari a circa un terzo dell’isola di Manhattan, il nuovo insediamento urbano, nato all’insegna del motto better city, better life, sorge sulla punta sud-orientale dell’isola di Chongming nel delta alluvionale del fiume Yangzi. L’impianto, collegato a Shanghai da un ponte e da un tunnel subacqueo, è caratterizzato dalla commistione fra le aree densamente edificate e quelle naturali, che salvaguardano l’ecosistema paludoso della zona.
Un panorama evidentemente articolato, difficile da decifrare e sul quale è ancor più difficile avanzare ipotesi per il futuro, per il quale, in definitiva, è forse vero ciò che di recente hanno scritto gli architetti Jacques Herzog e Pierre de Meuron: «La città ideale ha abdicato un sacco di tempo fa, compresa la ‘Città razionale’ di Aldo Rossi, la ‘Città generica’ di Rem Koolhaas o lo ‘Strip’ di Venturi, per non parlare della ‘Ville radieuse’ di Le Corbusier. Tutti questi tentativi di descrivere la città, comprenderla e reinventarla, non erano soltanto necessari: avevano un senso. Ma oggi ci lasciano freddi perché non hanno più relazioni con noi, si riferiscono a un mondo che non è più il nostro. È venuto il momento di metter da parte la nostra mania per le etichette, di abbandonare manifesti e teorie. Non colgono l’obiettivo; servono soltanto a etichettarne a vita l’autore. Non ci sono teorie sulle città; ci sono solo città» (The endless city, 2007, p. 327).
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