L'esperienza letteraria
«Uomini, persone: generazioni ne ho vedute molte succedersi o variare da quelle originarie e via via dalle seguenti [...] Io chiesa madre di tutte le altre li guardo entrare e uscire dalle mie porte i figli dei figli di coloro che mi fecero visite e preghiere, padri di altri che saranno nei secoli, lo spero, i miei fedeli: vorrei che gli ultimi fossero dell’anima i più esperti, i più degni del cielo. O che officina è questa delle anime. Lo fu per molti secoli. Che resti aperta e operosa per i prossimi»1.
I versi con cui Mario Luzi inaugura il monologo della chiesa di Santa Maria del Fiore alla vigilia del secolo XXI possono ben valere da introduzione ad alcuni appunti relativi all’esperienza letteraria espressa nell’ambito cristiano nel corso dei primi centocinquant’anni dell’Unità dell’Italia.
Ambito, quello in questione, di grande complessità, non solo per la pluralità di stagioni culturali e di eventi a cui occorre fare riferimento, ma anche per un’estrema incertezza di campo relativa al rapporto tra letteratura e religione2. L’ambito a cui si viene indirizzati – l’hanno ricordato, tra gli altri, donGiuseppe De Luca eCarlo Bo – non può esser costretto entro un qualsivoglia orizzonte confessionale. Il punto, a voler semplificare, è tutto nel confronto con una dimensione spirituale il cui spettro di scrittura s’allarga dalla bestemmia alla preghiera, e ciò lungo un duplice versante.
Sul primo versante, a dir così, autori non certo rubricabili sotto l’etichetta di ‘credenti’, in cui è possibile cogliere un’infinità di tracce di sapore evangelico, per la via principale lungo la quale l’esperienza letteraria bussa alla porta del divino, quella dell’inquietudine e della domanda di senso. E ciò nelle più diverse forme, si pensi – per rapidi cenni – all’opposizione radicale, anticlericalismo incluso, del Carducci inneggiante a Satana «o ribellione / o forza vindice della ragione» e liquidatore del crocifisso o all’estetismo religioso proprio a un D’Annunzio; o alle ‘teologie negative’ che portano a conseguenze estreme il presupposto della morte di Dio, approdando agli scacchi esistenziali che segnano, ad esempio, gli esiti diPirandello o dell’ultimoCaproni. Ma anche a itinerari segnati da ansie di conversione – categoria cui è necessario attingere – che pur senza trovarlo continuano a postulare Dio, dal disagio religioso di un Pavese al travaglio storico di un Quasimodo. Per non dire dei torrenti di sensibilità religiosa che innervano l’opera di Pasolini, al volto di solidarietà umana – «socialismo cristiano» o «filigrana di fedeltà» al vangelo che sia – rintracciabile in Silone, o all’ultimo Tondelli, che respinge l’idea d’una salvezza per i sentieri della letteratura, accogliendola invece come ricaduta della grazia. Dismettendo da subito logiche d’annessione, gli esempi potrebbero moltiplicarsi, in un lavoro di scavo che, con Jossua, si domandi perché «parole come “fede”, “religione”, “Dio”, sembrano necessarie a scrittori agnostici per dire qualcosa di essenziale per la loro ricerca»3.
Ciò detto, per passare al secondo versante, va osservato che per l’ambito temporale di questo saggio la cultura dominante fa prima della negazione del sacro e poi dell’indifferenza religiosa uno dei propri tratti costitutivi. Il sigillo dei «maestri del sospetto», come ebbe a chiamarli Paul Ricoeur, si è indubitabilmente impresso sui contemporanei; e con maggior forza su un Novecento che, aperto dal drammatico incipit di Zarathustra, Gott ist tot, si potrebbe considerare chiuso – più che da un ritorno al religioso che s’è voluto impropriamente chiamare «rivincita di Dio» – dall’invocazione heideggeriana: «solo un Dio ci può salvare».
Quel Dio che, per chi riconosce in Gesù di Nazareth il Cristo, la ‘buona notizia’, ha un volto preciso; non tale però, per quel che ci riguarda, da tradursi in trame letterarie o in trasposizione di dogmi morali e religiosi, quasi a comporre la mappa d’una letteratura cristiana, o più restrittivamente cattolica, che propriamente parlando non esiste. Ma che, diversamente, può far concentrare l’attenzione su autori che, nel loro scandagliare il mistero dell’uomo e di Dio (indagine laica, indipendente, condotta con gli strumenti del linguaggio e dell’espressività creativa), compiono quell’esplorazione lasciando fermentare nel testo il lievito della loro fede, e più in forma di ricerca e di tensione che non d’assunto. Nel vasto ambito dell’esperienza letteraria, il numero di costoro non è esteso e al contempo lo è più di quel che si potrebbe supporre; in ogni caso, ancora con Jossua, «tale da testimoniare che... non sono il rifiuto di Dio e di ogni fede e neppure il carattere totalizzante dell’esperienza la condizione sine qua non»4 della letteratura contemporanea.
In un movimento in cui la letteratura incontra la teologia e quest’ultima l’irreligiosità, le variazioni e le suggestioni interne al tema abbondano, divenendo a loro volta piste d’indagine o lenti particolari tramite cui focalizzarlo.
Segnata da picchi di valore tra loro assai differenti, la letteratura espressione dei ‘cristiani d’Italia’ si incardina in tempi e spazi non riconducibili soltanto a un arco cronologico e a un paese specifico. Per il secolo e mezzo in questione, infatti, essa pure conosce o narra lo sconvolgimento delle tradizionali coordinate spazio-temporali, in un passaggio che frantuma i riferimenti del mondo contadino a favore di quelli del mondo industriale o postindustriale; ma anche, al contempo e all’opposto, il perdurare dei tempi e degli spazi tradizionali, una certa resistenza, a chiamarla così, nel custodirli e nel ri-orientarli al sacro.
Così nel quotidiano, dove la separazione tra giorno e notte è sempre meno tale e il progresso scientifico, nelle vesti d’una elettricità che illumina il passaggio tra Ottocento e Novecento, e lo sconvolgimento bellico della Grande guerra – là dove, con il Montale di Valmorbia, «le notti chiare erano tutte un’alba» – contribuiscono a mutarne i tratti. Tratti che, per quanto minacciati da fattori esterni, restano sempre intimamente legati all’esperienza umana che li caratterizza: vita, morte, attesa, sofferenza, gioia, conversione. Con un quotidiano sempre meno segnato dalla presenza del sacro – ma dove pure, con il Betocchi de La messa disertata, «vive nel Corpus Domini / la Messa senza uomini» – anche il tempo dell’anno si svela sempre meno scandito dai ritmi delle feste religiose; e tuttavia conosce, in occasione degli appuntamenti liturgici più significativi rinnovate epifanie di significato. E dal tempo misurato a quello non misurabile, anche il cammino delle generazioni in oggetto vive dentro il limite temporale per eccellenza, quello della morte, che pur progressivamente rimossa dallo spazio visibile, ugualmente segna l’esperienza letteraria, nei suoi estremi di disperazione e consolazione, frammisti d’un umano che spera («Non c’è la morte, non c’è, / e le lingue dei poeti, / e le finzioni dei pittori, / perfino le parole dei santi, / non sono che analogie. / C’è solo l’amore»5) e d’un divino che dubita:
«Conoscerò la morte. La conoscerò umanamente, da questa angusta porta mi affaccerò su lei che tu, vita onnipresente, non conosci se non per negazione. Tre giorni durerà per me l’esilio che per altri non ha fine, poi la vita mi richiamerà a sé e avrà la vittoria. È previsto fin dal principio.
Quella pausa, Padre, m’impaura: è un luogo dove tu non sei e io da solo senza di te pavento.
Che cosa mi aspetta, chi governa il nulla, il non presente il non essente? O è un inganno della veduta umana ciò che io impaurito ti confesso?»6.
Con il tempo, lo spazio; ma più che lo spazio il paesaggio, e più che il paesaggio il creato: una natura che – dagli echi di Genesi a quelli teihlardiani – per tappe si fa sempre più antropizzata, metropolitana, industriale, inclinata fino a panorama infernale.
Sul primo polo, passando dalla poesia alla prosa, i vertici descrittivi del Manzoni, le contemplazioni interiori dei suoi poveri, gli stati d’animo e le corrispondenze con la natura che li circonda, come pure i soliloqui dei personaggi fogazzariani. Ma anche sprazzi della narrativa novecentesca: alla metà del secolo, a sfogliare il breviario della contemplazione di don Primo Mazzolari («Don Stefano avvertiva adesso che la parola era stampata anche nella natura: che gli uccelli, il vento, le nuvole, i salici, i primi fiori gliela raccontavano»7) quanto alla sua conclusione, e massimamente in quella lectio divina creaturale che si rivela La messa dell’uomo disarmato (1989) di Luisito Bianchi.
Sul secondo polo, e sulla scia di Asor Rosa («Nella letteratura italiana moderna, in principio era il romanzo storico, e nel romanzo storico in principio ci fu la guerra»8), lo spazio frantumato, gli sconvolgimenti bellici prodotti da due guerre mondiali, eventi durante i quali, nella convulsione della trincea e nella città bombardata, pare che nulla testimoni ancora la presenza del divino, se non la sua stessa assenza. Un’assenza che, negli spazi urbani e nelle periferie metropolitane esplose nelle contraddizioni dello sviluppo economico o della desolazione sociale si declina come assenza di relazioni umane che lo testimonino.
Ma tra un polo e l’altro, e a entrambi mescolati, ecco i luoghi dell’anima, dalla Trieste di Biagio Marin alla Sicilia di Fortunato Pasqualino – «marche di frontiera» le ha chiamate Asor Rosa – là dove la relazione con il divino può farsi più evidente che altrove; spazi che, passando dall’autore al testo, lasciati sbiadire nella memoria e rivisitati a distanza di tempo, specie nel mezzo d’una crisi, possono ricondurre a ritrovare un senso smarrito, la radice d’una scelta, una più chiara direzione di vita. Elemento, quest’ultimo, riassunto in maniera paradigmatica da Pasquale Maffeo nel romanzo Prete salvatico: l’ascesa del «pretone» verso il suo paese d’un tempo, sconvolto dal terremoto, diventa ripresa di coscienza di sé, fino alla confessione – di stampo bernanosiano – che «nulla era stato vano» e che «tutto è meraviglia»9.
Con il tempo e lo spazio il Libro. Ovviamente «il Libro incrollabile della cultura ebraico-cristiana», la Bibbia, nel suo stare e nel suo dialogare con «i libri della metamorfosi e del divenire»10, pilastro o fiume carsico che alimenta o attraversa l’esperienza letteraria; e in questo senso – ricordando una critica che da Auerbach procede fino adHarold Bloom – una miniera di storie, di personaggi, di lingue e di modelli di scrittura. E anche più, là dove, a portare esempi dalle più note pericopi veterotestamentarie, la lotta di Giacobbe al guado dello Iabbok assume il valore d’una contesa per la benedizione – si pensi a certe liriche di Bigongiari – di sé e ‘del nome’, della parola stessa. O l’Esodo, e gli accenni sono qui a Ungaretti e alla Merini, diviene il testo in grado di rappresentare l’esilio della parola e del poeta, in viaggio verso La Terra Promessa, o della poetessa murata in manicomio. Giobbe – Ferruccio Parazzoli l’ha riproposto nel suo Adesso viene la notte (2008), ri-centrando l’antica scommessa tra Dio e Satana sul Paolo VI al tempo del sequestro Moro – il libro tramite cui si ricolloca costantemente l’interrogazione dell’uomo sul mistero della storia e sul senso del male e della sofferenza che la abitano, in rapporto allo stesso silenzio di Dio.
In questo senso, tra il secondo Ottocento e il Novecento, è la stessa immagine di Dio a riplasmarsi. «Sì che tu sei terribile»: il volto del Padre del Manzoni, «la prorompente immagine / Del Verbo creator» di Alessandro Poerio trova nei ‘poeti venturi’ tutt’altra declinazione. Il silenzio parlante del creato, là dove si era di preferenza scorto il Padre, retrocede semplicemente a silenzio, pari, a dirla con Ghiselli, a quello «delle statue», «della notte» e del vento11. Sponda apparentemente muta, dove batte e ribatte la domanda dei poeti, sia essa profezia postnietzscheana come in Cristini («E solo il mentecatto / agitando nel sole la lanterna / ti cerca vociando al mercato / dove sei pesce uva grano e cesta. / La storia sacra è finita»12), assunzione di responsabilità come in Barsacchi («Ma quanto ancora dovremo difenderTi? / Quanto tenerTi sepolto nel cuore? / Un tempo senza segni ci destina /a segno di speranza»13) o Tigre Assenza come in Cristina Campo:
«Ahi che la Tigre,
la tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera […]»14.
Ma anche quando è tale, il silenzio di Dio trova la sua sponda nella Parola che si fa carne, in quel Gesù di Nazareth mai nominato ne I Promessi Sposi15 (perchè, secondo Noè Girardi, già ‘dislocato’ in tutto il romanzo); in un Cristo che è interrogazione anche per la cultura laica; meglio, in un Cristo la cui domanda «voi chi dite che io sia?», più che suscitare riscritture di Vangeli – che Borges diceva sempre sfiorite rispetto all’originale – percorre per intero l’esperienza letteraria stessa.
Volto del Figlio che, pur svelando quello del Padre, rimane sempre un mistero. A cui accostarsi per mediazione, intravedendo l’evento senza esserne testimoni diretti, catturando il passaggio d’altri, come Luzi nel caso – frequentatissimo, si pensi a un T.S. Eliot – dei Magi («Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa. / E tutto passò via tra molto popolo / e gran polvere. Gran polvere»16); o affidandosi, come Roberto Mussapi, alle parole di qualcuno «che ha visto, un testimone»17. O anche direttamente, contemplando nel corpo di Gesù, come Giuseppe Centore, la «torcia esangue / blasonata di sputi / e di ferite»18 o come Alda Merini, il «corpo d’amore» per eccellenza. Per giungere a dare parola a Cristo, a un’operazione non distante da quella di Paolo di Tarso nell’inno della lettera ai Filippesi, là dove l’Apostolo osa entrare nel dinamismo della kenosi; è quanto hanno fatto Elena Bono19 e in maniera paradigmatica Luzi, immaginando una Via Crucis in cui è Gesù stesso a parlare, lungo le stazioni che lo portano al Calvario:
«Da qui passa la via per la resurrezione, da questi orridi luoghi. Ancora chiedo: è volontà tua oppure a questo scempio non hai posto rimedio, rimedio non ce n’era? Talora si perde il mio pensiero se il tuo non lo soccorre. Com’è solo l’uomo, come può esserlo! Tu sei dovunque ma dovunque non ti trova. Ci sono luoghi dove tu sembri assente e allora geme perché si sente deserto e abbandonato. Così sono io, comprendimi»20.
Nel delineare alcuni temi che percorrono la prosa del centocinquantennio, il primo a sbalzarsi – intimismi a parte – è il confronto, quasi l’immersione del romanzo nelle stazioni d’un tempo storico ed ecclesiale vissuto senza esenzioni. Storia d’un coinvolgimento, lontana dalle derive d’estraniazione immaginate, a portare esempi, nei romanzi di Luigi Santucci e diItalo Alighiero Chiusano, con i loro protagonisti risucchiati nel «felice regno di Umberto I»21 o più indietro, in un cammino a ritroso nella storia che rimpiangendo i bei secoli trascorsi, li sprofonda «in un buio sempre più fitto»22.
Partecipazione al proprio tempo diversamente stratificata, con scritture che riempiono la storia o la ripercorrono in un continuo processo di risignificazione. Storia dove abita la manzoniana «chiesa del Dio vivente», posta a metà tra Dio e la storia, con la sua volontà di rinnovamento o riforma, conservazione o restaurazione. Diversamente rappresa nel volto dei suoi pontefici, siano quelli reali – da Pio X a Giovanni Paolo II all’appello del romanzo non ne manca uno – o quelli immaginati dalla raffinata penna di Guido Morselli23; dei suoi preti e dei suoi laici, uomini e donne, ritratti nei differenti campi d’impegno, ciascuno immagine, vera o verisimile, della stabilità o delle inquietudini dei propri tempi.
In principio, quindi, Manzoni e la lezione manzoniana, passaggio obbligato per lettori e critici24: l’invenzione letteraria rispettosa della realtà; la storia rischiarata dalla luce provvidenziale; la critica pacata ma ferma al potere comunque esso si strutturi; la mitezza e la compassione per i piccoli, i poveri, gli ultimi. Temi che, a guardare i rivoli in cui, nella letteratura della nuova Italia, si disperde il ‘manzonismo’ – da Giulio Carcano a Emilio De Marchi – spingono a concordare con la notazione che l’età umbertina sia contrassegnata da «un minimo di riuscita artistica», una volta «scomparse tutte le più alte figure del cattolicesimo liberale, che erano state alla testa della letteratura del loro tempo, almeno tanto in quanto liberali che in quanto cattoliche»25.
Perlomeno fino aFogazzaro, in cui, ferma restando la distanza da Manzoni, la storiografia ha visto il trait d’union fra il crepuscolo del cattolicesimo liberale e l’alba d’un riformismo sorto nella stagione culturale del post-Risorgimento. Ma ben di più, a cogliere nelle pagine dei suoi romanzi le inquietudini che scuotono le coscienze degli intellettuali di mezza Europa, prima fra tutte la questione del rapporto tra il cristianesimo e la cultura d’una modernità che – innestata sul tronco del positivismo – dal settore degli studi sociali a quello scientifico muove al cristianesimo un’offensiva a tutto campo. Mondi, quelli tratteggiati dall’autore vicentino, in cui il desiderio d’un cattolicesimo rinnovato, secondo la parabola modernista, abita protagonisti segnati da un lato dal conflitto tra carne e spirito, dall’altro coinvolti «con le problematiche, politiche e ideologiche, del mondo moderno, in particolare con la questione nazionale italiana»26. Aspetto che nel decennio degli ultimi romanzi, da Piccolo Mondo moderno (1901) a Leila (1910), diventa incontestabilmente centrale, e che in un caso – stiamo ovviamente parlando de Il Santo (1905) – assume un valore paradigmatico.
Certo se n’erano percepiti più che degli echi nel quindicennio intercorso tra Daniele Cortis (1885) e Piccolo mondo moderno – passando per Piccolo mondo antico (1895) – coi loro protagonisti proiettati all’ideale della democrazia cristiana, antidoto all’egoismo delle maggioranze politiche protagoniste sulla scena. Ma ne Il Santo, Pietro Maironi – alias Benedetto, ortolano del monastero di Santa Scolastica, mistico, curatore d’infermi – innalza il tiro, diventando il tramite attraverso cuiFogazzaro dà voce alla sua speranza per la barca di Pietro e la porta fin davanti al soglio pontificio. Del noto colloquio tra Benedetto e il papa, in cui il santo denuncia la presenza di quattro spiriti maligni – di menzogna, consorteria, avarizia e immobilità – penetrati nel corpo della Chiesa, converrà riportare un estratto:
«“Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicesimo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio… È lo spirito di immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degli increduli; colpa grave davanti a Dio!” [...]
“Figlio mio” disse Sua Santità “Alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovra tutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te”»27.
Influenze rosminiane a parte, con l’urgenza della supplica c’è la conferma che una riforma della Chiesa non verrà: per il romanzo, duramente giudicato da papa Sarto e messo all’Indice, e per il movimento modernista, con la mannaia della Pascendi del 1907.
Pio X scompare nell’agosto del 1914, venti giorni dopo che i cannoni hanno preso ad annunciare l’apocalisse della modernità. A trascinare l’Italia verso il baratro, come è noto contribuisce, e non per ultima, una cultura pregna di nazionalismo, che dal pulpito delle riviste del primo Novecento, unita nel rifiuto del giolittismo e del mondo borghese, abbraccia compatta la causa dell’interventismo.
Esponente per eccellenza di quella generazione d’intellettuali che, valicato il cratere della Grande guerra, segna la prima stagione del fascismo, è Giovanni Papini. Parabola, la sua, che dai furori superomistici dell’anteguerra – che già nel 1912, in Un uomo finito, avevano mostrato la corda del fallimento – giunge al principio degli anni Venti alla conversione che lo riposiziona sulle sponde del cattolicesimo più intransigente. Conversione, come già quella di Federigo Tozzi, stimolata dalla frequentazione e dall’amicizia con quel bastione dell’ultraconservatorismo cattolico rispondente al nome di Giuliotti, «antiliberale, antidemocratico, antisocialista, anticomunista. In una parola, antimoderno»28, duramente schierato contro L’ora di Barabba (1920) del mondo moderno. E che produce come primo e più rappresentativo frutto la fortunatissima Storia di Cristo (1921), seguito – a quattro mani con Giuliotti – dal violentissimo Dizionario dell’omo salvatico (1923), prima degli approdi ad accademico d’Italia, alla firma del Manifesto della razza e al dimenticatoio del dopoguerra29.
Anni, quelli del regime, di ‘cristianità assopita’, ma in cui è possibile segnalare, fuori dall’adesione e dalla fronda d’ordine, i romanzi di Marino Moretti – La voce di Dio (1920), I puri di cuore (1923), Il segno della croce (1926) – e in particolare Il trono dei poveri (1928), per la sua dichiarata polemica con il regime. O quelli di Pietro Mignosi – con Perfetta letizia (1931), Azzalora (1931) e Gioia d’agave (1934) – incentrati su temi non lontani da quelli che nel 1936 Bernanos scolpirà indelebilmente nel suo Diario di un curato di campagna: «[Don Michele] si guardò le sue povere dita nodose e brulle, e le palme opache e callose, e le unghie piatte e dure, e si meravigliò che Dio… potesse servirsi di quelle luride mani per rinnovare il miracolo e il mistero dell’Incarnazione»30. E ancora Io sono tu sei (1933) di Luigi Fallacara, che ripercorre la crisi spirituale attraversata allo scoppio della Grande guerra, attraverso personaggi che incarnano il vitalismo ideologico di quegli anni, contestato in nome di un cristianesimo esistenziale; e infine un classico come il Diario di un parroco di campagna (1942) di Nicola Lisi.
Con il secondo Novecento una nuova generazione – i nostri riferimenti si raccolgono intorno agli autori nati negli anni Venti e Trenta, la cui produzione può essere considerata quasi per intero – immersa da un lato nel crogiolo di speranze e problemi suscitati dalla conquista e dall’esercizio del potere da parte della Democrazia cristiana, dall’altro in una vicenda ecclesiale spartita in due dall’evento del concilio.
Non si dà il primo caso senza riferirsi a Rodolfo Doni, per Giorgio Petrocchi «il rapsodo della DC», che nel suo Sezione S. Spirito (1958), romanzo ambiento al 18 aprile del 1948, assegna al protagonista Vasco Coppini il ruolo di interprete degli ideali confluiti sotto lo scudo crociato. E ciò in unaDc costretta al bilanciamento tra il realismo governativo di De Gasperi («pallido, immobile, le braccia conserte... che, in mezzo a difficoltà e contrasti di ogni specie, stava tirando fuori l’Italia dalla disfatta») e l’anima democratico-sociale di Marini, alias Dossetti, «i capelli lisci e bruni, la figura alta, il viso scavato», che «emanava un fascino … di spiritualità e ideale». Ma oltre quella «gravità e fermezza» e «quell’animosa intelligenza» da cui «s’irradiava il fascino dell’ideale che essi incarnavano»31, balena un partito già percorso da logiche spartitorie; problema, quello della gestione del potere, di cui si fa interprete il personaggio di Paolo Germi nel suo discorso con Coppini la sera stessa delle elezioni:
«“Che uso riusciremo a fare del potere che quella gente laggiù” e indicò con la mano la folla nella strada “probabilmente ci sta dando? Ti sembrerà una domanda fuori luogo in questo momento. Ma è quella che mi tormenta di più. Mi par di vedere lontano questa sera. Come riusciremo ad esercitare il potere che, in misura più o meno grande, ci verrà affidato?”»32.
Alla domanda di Doni è Gino Montesanto, in La cupola (1966), romanzo ambientato nella Roma del 1956 – regnante un Pio XII «consumato dai pensieri e da una mole enorme di lavoro... uomo sofferente che non si faceva amare»33 – a offrire una risposta desolata, descrivendo, nel protagonista Marco Baldoni, arrampicatore del sottobosco governativo, una Dc prigioniera della corruttela e delle correnti partitico-clientelari.
Ma, tornando a Doni, nel senso descritto tutto il successivo arco della sua narrativa sarà segnato dalla dicotomia tra un progetto politico o sociale, destinato a finir deluso innanzi ai compromessi del potere, e una fede che sembra in grado di far superare ai protagonisti, uomini o donne che siano, insufficienze pubbliche e crisi private, riposizionandoli su un nuovo inizio. Così è nei romanzi degli anni Sessanta, dove il giudizio dell’autore pistoiese sul potere democristiano s’aggrava, così in quelli degli anni Settanta e Ottanta, più inclinati sull’analisi della crisi dei padri e delle madri e sul duro scontro generazionale con i figli della contestazione e del terrorismo. E così è anche ne La città sul monte (1986), romanzo con protagonista Giorgio La Pira; per tutti «un megalomane, un visionario, un maniaco religioso»34, il sindaco santo è per Doni colui che meglio d’ogni altro ha saputo attestarsi «sul crinale della storia»35, proprio perché capace di guardare più in là («La storia la guida qualcun altro che non è neancheJohnson né Krusciov»36). È con questo sguardo di speranza che la narrativa di Doni, scandagliato per intero l’arco del secondo dopoguerra, ricomincia daccapo, riscrivendo se stessa – è il caso di La doppia vita (1980), I popolari (1991), La vita aperta (1995) – e ripercorrendo il secolo italiano in un ininterrotto esame di coscienza personale e collettivo.
Quello stesso che, ad altre latitudini, più inclinato su una “vena di sapienza popolare e contadina” – come ha scritto Geno Pampaloni – domina l’ultimo quindicennio del lavoro di Raffaele Crovi, già passato dalla riflessione sulla Milano dell’immigrazione (Carnevale a Milano, 1959) a quella sulle trame oscure del potere (Il franco tiratore del 1968 e La corsa del topo del 1970) alle fantasmagorie cosmiche (Il mondo nudo, 1975) e metafisiche (Ladro di ferragosto, 1985). In una sorta di teologia dell’Appennino37, Crovi compone un affresco storico che dai tempi di Depretis giunge fino a oggi, impregnato – per quel che ci riguarda – di memoria dossettiana, della presenza di Dossetti stesso, membro della «trimurti democristiana di Reggio», portatore di «quell’ottimismo della morale e quel pessimismo della politica» di eco quasi gramsciana, «rivoluzionario disarmato» che «ha seminato interrogazioni morali in adulti e giovani, in credenti e non credenti».
In quanto al versante ecclesiale – lo leggiamo in parallelo a quello politico – delle fatiche e dei pesi che la Chiesa di Pacelli si trascina dietro dai precedenti pontificati è portavoce, dopo la sconfessione di «Adesso», don Primo Mazzolari, che in La pieve sull’argine (1952) ripercorre gli eventi compresi tra la Grande guerra e la Conciliazione, rivisitati alla luce di un’altra guerra e delle grandi questioni sociali del secondo dopoguerra. Peso di errori molteplici, dalla contaminazione tra guerra e vangelo («Se invece di dirci... che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile e sempre»38), all’incomprensione della democrazia («La Chiesa esce male dalla guerra. Non ha capito i diritti dei popoli, né le voci di giustizia per cui abbiamo combattuto e sofferto»39), fino all’assopimento delle coscienze nell’abbraccio concordatario con il fascismo.
Eppure, nell’asfissia storica di metà anni Cinquanta faticosamente qualcosa si muove. Almeno in L’uccello nella cupola (1954) di Mario Pomilio, il cui protagonista, don Giacomo, porta in sé i tratti d’un cattolicesimo che, più che preconciliare, appare senza amore («si sentiva un’anima vuota: cercava invano in essa una scintilla di carità»40). Ordine fittizio il suo, routine, da cui lo strappa l’incontro con Marta, profuga di Pola: nella sua incapacità di assisterla, nella coscienza del proprio fallimento, don Giacomo vedrà spalancarsi una crepa nella propria durezza, la possibilità – per lui e per la Chiesa – di un’apertura a un cristianesimo più autentico.
Quello stesso che, tra vecchio e nuovo, promana dal padre francescano Cristoph van den Berghen, nel suo lavoro di scavo della crosta di egocentrismi che segnano i protagonisti di Gli egoisti (1959) di Bonaventura Tecchi, fallendo con alcuni ma guidandone altri, per echi paolini e agostiniani, sulla strada della conversione. Atmosfera di passaggio, con più oscurità che chiarori, si respira anche nel noviziato della Compagnia di Gesù al tempo di Pio XII – simile «a un personaggio del Greco o a un ritratto del Gran Condè»41 – là dove si snoda la vicenda di Andrea, protagonista di Il gesuita perfetto (1960) di Furio Monicelli, sospeso tra la disciplina appresa sui manuali di devozione e l’ignoto verso cui lo spinge la sua discussa vocazione.
È già il momento del pontificato giovanneo, del concilio e della sua faticosa ricezione. Ne racconta con il consueto humor Santucci in Non sparate sui narcisi (1971) trasformando i giardini pubblici di Milano nell’aldilà, e l’aldilà in un luogo non immune dall’arrivo della contestazione e dei contestatori, difesi da Giovanni XXIII in persona. Più prosaicamente, dei tormenti e della crisi della Chiesa postconciliare di Montini si fa interprete in Servo inutile (1982) Rodolfo Doni:
«Nessun papa nostro contemporaneo è stato più presente di lui, e nessuno forse sembra più estraneo... Ha riconfermato l’insegnamento giovanneo della Pacem in Terris, secondo la quale non deve confondersi l’errore con l’errante; ha insegnato che tra fede e prassi storica occorre la mediazione di una cultura critica; si oppone al doppio errore dell’integrismo e del pragmatismo; esorta a una continua ricerca di fedeltà ai principi, e di coerenza nei comportamenti; è il Papa del Concilio e dell’ecumenismo; della mano tesa verso il Terzo Mondo; della Ostpolitik; partecipa al dramma di questa umanità impotente e lacerata; l’America con i suoi assassinii politici; il sud-est asiatico con l’atrocità delle sue guerre genocide; la fame dell’Africa ex coloniale; il grido di giustizia che sorge dall’America Latina; il silenzio dei popoli dell’Est europeo... Da tutto ciò il suo tormento»42.
Chiesa salda e insieme insidiata dalle scosse che ne conquistano i preti alla teologia della liberazione, come il don Silvio che non crede più «ai santi del deserto ma ai santi alla Camillo Torres»43; destino a cui si sottrae invece Giovanni Pasti, prete rivoluzionario in Salvador, sospeso a divinis, giornalista, convinto da Giorgio La Pira a «restar dentro» una chiesa che «non esaurisce nel temporale il suo messaggio»44.
Non lo esaurisce, ma resta a rischio di temporalizzarsi: è questo volto oscuro che Gino Montesanto affresca in Così non sia (1985), romanzo imperniato sulla repellente figura di don Flavio Ranuzzi, prelato di smisurata ambizione che si destreggia tra tre pontificati – l’ultimo Montini «che a mala pena nasconde la sofferenza», la meteora Luciani che «avanza solo, sorridendo, appena curvo, il collo leggermente piegato», il primo Wojtyla «vigoroso», «sano», che «ha tempo davanti a sé»45 – a simboleggiare una Chiesa entro la quale i modelli mondani hanno fatto presa salda. Per ritrovarsi in crisi assieme all’intera società, con il don Ennio di Parazzoli, parroco ambrosiano d’una chiesa-impresa sociale, orizzontale, «andata sempre più affiancandosi e spesso sostituendosi alla carenza delle istituzioni civili», nel disastro «di una società che non accoglie e non ama la tua debolezza, la misura che Dio ha chiuso dentro di te»46.
Infine – lo poniamo in sinossi come terzo punto – alcuni accenni ai temi conciliari di cui la prosa s’impregna all’indomani del Vaticano II, e impensabili senza quell’evento.
Così, ad esempio, in Orfeo in paradiso (1967), Santucci mette in bocca all’erborista don Pasqua un inno all’alterità difficilmente adattabile alla Milano belle epoque: «Abbiamo un gran bisogno … della collaborazione degli atei, del loro investigare. È prezioso … Guai se fossimo soli con la nostra povera religione che ci hanno ficcato dentro a scuola, come il vaccino del vaiolo»47. Oppure – dopo il controverso Il mandragolo (1979) – la modalità in cui lo stesso autore conclude Il ballo della sposa (1985), fantasmagoria medioevale del tempo della quarta crociata, cioè con la riconciliazione cosmico-evangelica del creato e con il rifiuto delle armi di cristiani e musulmani di volgersi a battaglia48.
E così in quel vertice narrativo assoluto che è Il quinto evangelio (1975) di Mario Pomilio, in cui il diario del prete sconosciuto che il protagonista del romanzo, Peter Bergin, rinviene nella canonica d’una Colonia semidistrutta dalla guerra, costituisce, nei suoi riferimenti ai segni dei tempi, alla Parola «abitacolo della fermezza», ai temi della speranza e della responsabilità del cristiano, un concentrato di temi conciliari:
«Abbiamo troppo oscillato tra il Dio come distanza e il Dio come connivenza, il Dio che prescrive dall’alto d’un potere imperscrutabile e il Dio conoscibile solo nelle zone introverse del privato, dimenticandoci che egli si fa presente unicamente attraverso la testimonianza. Di qui il dovere pel cristiano di farsi segno in questo tempo senza segni… Iddio ci ha parlato una volta per tutte, attraverso i Vangeli. Per il resto, occorre sentire la persistenza del suo silenzio come un mutismo deliberato. O, più verosimilmente, come una delega permanente della Parola. Spetta ora a noi parlare di lui, e se possibile in nome suo. Lo spazio della nostra libertà è in questa scelta: tra la rassegnazione definitiva al suo silenzio e il bisogno d’infrangerlo colmandolo con la nostra voce. Ma è anche lo spazio della nostra responsabilità nel momento presente, l’indicazione dei compiti che ci spettano ora e qui»49.
Ora e qui, cioè in una storia che dovrebbe diventare riscrittura personale del vangelo; non a caso ‘riscrittura’, se Bergin, spesa la vita alla ricerca del quinto vangelo – che le fonti tramandano come ispiratore degli altri quattro – giunge a intuire, in punto di morte, che il testo cercato coincide con il senso stesso della sua ricerca: «Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio»50.
Infine, e in chiusura di cerchio, con Il Natale del 1833 (1983) lo scrittore abruzzese si confronta con il tema della sofferenza umana – quella stessa che nel Novecento scolpisce i disperanti esiti narrativi di Gadda e di Berto – e del dolore nonostante Dio. In un’alternanza di fonti reali e immaginarie, è dalla voce di Giulia Beccaria che si osserva Manzoni prostrato dalla scomparsa della moglie Enrichetta. Dunque, interrogando i cieli «dove Dio scrive i suoi silenzi», calandosi nel «cuore villoso della storia, a tu per tu coi suoi fatti atroci e le sue tristizie immotivate», assistendo al dissesto della «metafisica d’una Provvidenza capace di volgere in bene anche il male»51, centocinquant’anni dopo se stesso, Manzoni/Pomilio giunge a scrivere all’amico Fauriel/lettore:
«Perché… la storia delle vittime è la storia stessa di Dio? Ma perché ogni qual volta un innocente è chiamato a soffrire egli recita la Passione. Che dico, recitare? Egli è la Passione: non nel senso, beninteso, che il Signore voglia rinnovato in lui il proprio sacrificio, come ho pure per errore pensato altre volte, ma nel senso bensì che è Egli stesso a crocefiggersi con lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d’amore? E in verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno, e il dolore di ciascuno è la croce di Dio»52.
E la poesia? Superficialmente, la storia di quella religiosa è diagramma d’un declino; ma sotto la superficie – dove più evidente appare il tramonto di quel naturalismo religioso che per secoli ne aveva rappresentato l’espressione e, alla pari, la sempre più marcata difficoltà di un dire poetico civilmente impegnato – il discorso si fa più complesso.
L’itinerario che essa compie, per quanto diversamente segmentabile e policentrico, è indicativamente riassumibile in due canoni lirici principali: un primo che corre dalla stagione del postromanticismo a quella dell’ermetismo, un secondo – ferme restando le diverse possibilità di collocare punti di sutura tra i due – dalla metà del Novecento in avanti. Tra continuità e reciproche contaminazioni – il movimento verso il soggetto di alcuni autori e quello verso l’oggetto di altri è arduo da isolare tout court – l’arco dei centocinquant’anni si contraddistingue per il passaggio da una cultura, nella sua matrice illuministica o romantica, in cui la poesia è strumento critico, più o meno radicale, di rinnovamento civile, morale o religioso, a una cultura in cui essa perde mano a mano tale funzione. Prima retrocedendo a valore tra i valori civili, filosofici, politici o scientifici che siano, poi abdicando completamente, per porsi unicamente come interrogazione sull’assoluto, bisogno e ricerca d’un’altra vita – e anche d’un’altra lingua, come testimonia il rifiorire dei poeti dialettali, Tessa, Marin, Noventa, Pierro, Baldini, Calì, Tomiolo – insomma come bisogno di Dio.
In questo senso, poesia interamente fuori dalla storia? No, ma capace o abilitata a calarvisi dentro in modalità altra rispetto alla prosa, con le sue risorse ulteriori, linguistiche prima di tutto, vuoi per la strada della scarnificazione della parola vuoi attraverso quella del racconto in versi, ma sempre in virtù della sua capacità di «distruggere la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito».
È indubbio che la poesia italiana dell’ultimo Ottocento fatichi nel mantenere il passo di quella europea. Per quel che ci riguarda, se nella stagione del romanticismo il tema etico-religioso aveva vissuto compattato con quello patriottico, intorno a fine Ottocento, progressivamente, gli ambiti cominciano a scollarsi. Si pensi a una poesia declamatoria e grandemente frammista ai temi patriottici come quella di Giacomo Zanella per verificare come l’ultima fase della produzione del sacerdote veneto, quella dell’inquietudine della fede posta a confronto con la scienza (La conchiglia fossile), ne rappresenti il principale contributo; a testimonianza del contraddittorio con una cultura (per intendersi Darwin e Spencer) che in Zanella si risolve contro il sistema di pensiero positivista, ma a favore del progresso53.
Un’avvisaglia, o soltanto un aspetto del disagio che la ‘poesia religiosa’ vive tra l’Unità e la Grande guerra, chiusa da un lato dalla restaurazione carducciana, dall’altro dalle inquietudini che scuotono le nuove generazioni, le più influenzate dal simbolismo europeo; seti di verità e bisogni di certezze che, nel rifiuto dello scientismo, testimoniano il proprio anelito all’assoluto, là dove si placano (come in Giulio Salvadori) o non si placano (come in Giovanni Camerana) le ribellioni degli scapigliati. Ma anche nel rinnovamento pascoliano, là dov’esso è più sentimento del mistero che religiosità tremolante, per quanto ricco di simbolismi tratti dall’universo della fede, non si ritrova un adeguato punto di saldatura.
È invece dalla lezione delle avanguardie del primo quindicennio del secolo – ci si ricordi del Dio «inacquetabile sgomento» spiegato da Giovanni Boine nel saggio L’esperienza religiosa (1912) – che la poesia trova nuovi termini d’incontro con l’assoluto, nella «poesia di sterco e di fiori»54 di Clemente Rebora, nell’espressionismo lessicale dei Frammenti lirici pubblicati su «La Voce» e poi confluiti in raccolta nel 1913.
Mosaico a settantadue tessere, con il poeta che ambisce a ricomporre la totalità frammentata dalla storia, con la storia che cerca l’innocenza perduta senza trovarla, sconvolta nei suoi rapporti sociali («Mentre è violenza di strade / E divisa vicenda di case»55), abitata da uomini regrediti a materia («E sciocche, le genti della gran plebaglia / Superba d’errore e di male, / Osannano e impiccano al cenno dell’Utile»56), indifferente a Dio («Dio, per l’aria si rode / E beato non gode / Del buffo suo stato: Se scende, ignoto tramonta / Nell’ingannevol natura; / Se monta, vuoto svapora nel nulla»57), frutti d’una modernità che falsa la verità del cuore e della coscienza umana. Uno sguardo intriso di pessimismo, in cerca dell’eterno «nel fuggevole giorno»58, eterno desiderato ma sempre al di là d’essere compreso (E rigirio sul luogo come cane, / Per invilire poi, fuggendo il lezzo, / La verità lontana in pigro scorno59). Tranne quando l’assoluto s’avvicina e il molteplice diventa uno, quando il paesaggio, per lampi creaturali, apre un passaggio e «non più s’inventan gli uomini, ma sono»60; appena un momento dello slancio creativo, un’intuizione in attesa d’una conferma che sia esterna a sé, d’un approdo più solido.
Poi è la guerra, il trauma nervoso e la riforma al servizio militare. E nel 1922 i Canti anonimi, là dove la crisi prosegue, in versi più scarni – specie quelli bellici – e s’annuncia risolvibile, senza forzare il poi nel prima, in un salto di qualità, in una risposta da dare (Urge la scelta tremenda, / Dire sì, dire no / A qualcosa ch’io so61) in un’attesa di conversione:
«fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio»62.
E dopo la conversione il sacerdozio, il silenzio, i componimenti d’occasione e la «rinascita al canto» degli anni Cinquanta, i Canti dell’infermità e Curriculum vitae, innario sacro ma non devozionale puntato su «Gesù il Fedele, / il solo punto fermo nel moto dei tempi, / in sterminata serie di eventi»63.
Dopo Rebora «maestro in ombra» – così perPasolini – voce nodale per l’intera poesia novecentesca alla congiunzione tra avanguardia e tradizione è Giuseppe Ungaretti, sul filo d’una autobiografia che è, per l’appunto, «vita d’un uomo» – se ne riveda l’analisi di Carlo Ossola64 – rivelazione del rapporto tra vita e linguaggio, meglio, vita che nel linguaggio resiste a ogni distruzione e violenza, nelle sue infinite revisioni e variazioni di forma e di struttura.
Per questa via, subito lo spaesamento, per non dire lo sradicamento, degli anni della formazione cosmopolita, da Alessandria d’Egitto a Parigi, fino al fronte e a Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919). Qui la contrazione linguistica, la parola scarnificata che – dal bianco delle pause agli scatti del parlato – distrugge il ritmo tradizionale dei versi, liberandolo da un formalismo impensabile di fronte all’orrore delle trincee, via dal vuoto di senso e dalla consunzione del linguaggio. Vi spingono il poeta, a dirla con Jünger, le tempeste d’acciaio, la lacerazione bellica («Mi vedo / abbandonato nell’infinito»65) nei suoi sconvolgimenti naturali (le case di cui «non è rimasto / che qualche / brandello di muro»66, l’orizzonte «che si vaiola di crateri»67) e la morte di massa «degli uomini / ritirati / nelle trincee / come lumache nel loro guscio»68; fino a una nudità che apparenta «l’uomo di pena» alle pietre del Carso, lo riporta in contatto con sé («non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita»69), con lo scorrere della sua storia (Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo70). Quella stessa che, negli anni interbellici, vive un altro capitolo, segnato non solo dal rappel a l’ordre politico-stilistico – l’incontro con il barocco come via di disciplinamento dello sperimentalismo – ma anche come ritorno alla fede. Una crepa, quella attraverso cui il religioso irrompe nella vita e nella poesia di Ungaretti, già avvertita come domanda e invocazione, e ormai spalancata in Sentimento del tempo:
«La speranza d’un mucchio d’ombra
E null’altro è la nostra sorte?
E tu non saresti che un sogno, Dio?
Almeno un sogno, temerari,
Vogliamo ti somigli»71.
Per giungere, con Il dolore (1947) a una terza e ultima stagione – che procederà con La Terra Promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952) e Il taccuino del vecchio (1960) – in cui la sofferenza personale (la morte del figlio) e quella collettiva (l’occupazione nazista) si fondono nel poeta per farne voce di popolo, voce d’invocazione al “Santo che soffri”:
«Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più»72.
Desiderosa d’affrancarsi da ogni compromissione con la politica e la storia è invece la generazione che, tra il 1929 e il 1938, transita praticamente al completo su «Il Frontespizio» di Firenze, rivista, più che confessionale, di cattolici dediti al mestiere delle lettere, polemici verso l’estetica crociana. O almeno i giovani – che si ritrovano a fianco una generazione più vecchia, quella di Giuliotti, e più vicina al fascismo – più aperti alla cultura europea, ostili all’identificazione con il regime, inclinati al lirismo puro dell’esperienza ermetica. Betocchi, Bigongiari, Parronchi,Luzi: tra questi autori (e tra quelli non elencati), su cui pagine finissime ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, scegliamo di occuparci di Mario Luzi, ritenendolo non solo l’esponente più significativo delle grammatiche dell’ermetismo ma dell’intero Novecento poetico italiano. Una produzione settantennale, un «pensiero poetante» riguardo a cui si tratta di evidenziare – tema luziano per eccellenza – i tre tempi del mutamento73.
Il primo, tra La barca (1935) e Onore del vero (1957), il tempo dell’ermetismo, de «il giusto della vita», vita come desiderio e spinta a una più compiuta adeguatezza, oltre la personale «vicissitudine sospesa» e oltre le «immagini infrante» del reale. Speranza per il futuro quindi, rappresa in immagini di viaggio (“Amici ci aspetta una barca e dondola / nella luce ove il cielo s’inarca / e tocca il mare”74), di incontri al femminile, di rigenerazione – dopo il «nembo di cenere e di sole»75 anticipazione e traccia del disastro bellico – possibile anche in un clima cupo, desertico, ventoso, dove pure «i giorni rinascono dai giorni», «i relitti si vestono di fiori» e «l’amore aiuta a vivere, a durare»76.
Il secondo, da Nel magma (1963) a Al fuoco della controversia (1978), sempre più calato «nell’opera del mondo», in quella sorta di spazio purgatoriale – con un verso che via via si distende e al quale si affiancherà anche la scrittura teatrale – dove l’io retrocede da protagonista a parte degli avvenimenti, meglio, dell’unico e mutevole avvenimento che è la vicenda umana, la storia, di cui Luzi indaga archè e telos più che l’intermezzo. E dove pure restano impigliati gli inferni, Hiroshima e Mauthausen, il totalitarismo sovietico e la guerra del Vietnam, gli «annaspamenti d’annegata»77 della Firenze del 1966 e la Repubblica italiana che «muore ignomignosamente»78. Ma sempre per proiettarsi più in là, al cosmo che «per inattesa grazia / ti parla dai suoi seppellimenti e dai suoi parti, / ti svela il costrutto nei suoi boia e nelle sue vittime, / vive nei suoi animali e nei suoi ciottoli, / nelle sue opere di scienza e d’arte efficaci o logore / in te e di te che ne sei parte dal cominciamento e giudice»79. E dal cosmo alla trascendenza, invisibile e presente: «così quasi si estingue, / così cova l’incendio / l’immemorabile evangelio»80.
Comincia così, con Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), il terzo tempo dell’opera luziana, quello dell’ascesa – dantesca in linguaggio e immagini – della parola che s’innalza sempre, verticalizzandosi fino alla trasparenza. Non mancano le oscurità, il «sangue dilapidato»81 della storia (come il cadavere di Moro «acciambellato in quella sconcia stiva»82), ma fin dalla iniziale citazione giovannea il movimento è ascensionale («Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione»83), domina la luce, il verso contempla vertiginosamente il creato – cieli e acque, pesci e volatili – e lo stesso mistero di Cristo, che «brucia / della sua terribile promessa»84 e «risplende / disseminato e sparso nella moltitudine del mondo – / come sale? – come sale e come sangue»85. Luce che, sempre più rarefacendosi nella salita, illumina Frasi e incisi di un canto salutare (1990) e soprattutto Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) modulando il viaggio dell’anziano Simone Martini/Luzi al suo termine atemporale; che dopo Sotto specie umana (1999) si conclude in Dottrina dell’estremo principiante (2004), dove la metamorfosi giunge al proprio limite: di fronte alla morte, all’eternità che lo rende principiante, anche lo scriba novantenne può scrivere: «Addio, ora ben altro è il prato».
Ci si potrebbe fermar qui; tuttavia, tra i diversi possibili – solo per limitarsi alle generazioni di prima della guerra Cristini, Campo, Barsacchi, Centore; e a quelle dopo Mussapi, Rondoni, Graziano, Scarciglia – ci pare necessario aggiungere qualche nome. AnzituttoDavid Maria Turoldo, la cui lirica, dagli anni Quaranta ai Novanta, è tanto segnata dal confronto con la Parola – Giobbe, il Salterio, Qoeleth, Giona, più veterotestamentaria che no – quanto sprofondata nella storia, con sempre più evidenza dagli anni Sessanta in poi86.
In mezzo il dramma del poeta, di Dio e del loro incontro («E quando, Dio, firmeremo una pace, / quando fisseremo / i confini dei nostri poderi?»87). Il primo a interrogare, in luoghi liminari, con un canto che è più salmodia imprecatoria; il secondo un “Tu” presente («Gli urto / contro. Lo sopporto; / Lo respiro. È inutile / pregare. È qui»88) come sponda di dialogo muta, indecifrabile. E ciò nel «rogo» della storia, tra un «ateo occidente che non attendi nessuno»89, e un mondo dove ovunque s’annida il male, dal Salvador dell’omicidio Romero all’Iran dei soldati adolescenti. Una tragedia di cui la Chiesa partecipa nella vocazione al sacerdozio del poeta («salvatore / di ore perdute»90), anche quando gli fa sperimentare l’esilio, «l’immeritata bufera»91; ma ben di più Chiesa «amata e infedele» nella misura in cui scorda Cristo, per ridursi a istituzione mondana:
«Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto.
Perchè allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?»92.
Una Chiesa che il servita spera altra da sé, ricordando la speranza conciliare intravista negli anni di Roncalli («Mio papa, padre del mondo, Giovanni, / ho visto le tue parole frangersi / sulla gemma delle mitrie»93), rivisitando le ansie del pontificato montiniano («Pace a te, o papa, / non temere! / Allora non affonderai / camminando sulle acque»94), criticando gli esordi di Giovanni Paolo II95.
Anch’essa parte, quindi d’una tragedia in cui Dio, l’«Io sono» con il volto di Cristo, entra dentro la storia per rinnovarla: «“Io sono” è il mio nome: / oltre il dubbio e la fede / oltre le stesse immagini / oltre ogni previsione / sono la voce di cieli nuovi / e di terre nuove. / E il silenzio / e il canto dentro il silenzio»96. Restituendo così senso anche all’ultima domanda di Turoldo – presenza costante nella sua poesia – quella sulla morte, che da nemico, da «drago», da Nulla, diventa sposa, via d’incontro con il “Tu” cantato tutta la vita: «“Ma quando da morte passerò alla vita / sento già che dovrò darti ragione, Signore”»97.
Infine, due percorsi al femminile. Quello, iniziato negli anni Cinquanta e a lungo sottovalutato, di Elena Bono, alla cui poesia accenniamo come potremmo alla narrativa (Come un fiume come un sogno del 1985, Una valigia di cuoio nero del 1998) e ancor più al teatro (La testa del profeta del 1965, I templari del 1984, Storia di un padre e di due figli e Sera di Emmaus del 2008), tutti segnati da un cristianesimo drammatico, da un lato spalancato al cielo e dall’altro testimoniato ‘dai piccoli’, coloro che riscattano il mondo con-soffrendo con Cristo la sua passione. È il caso dei volti di partigiani che sfilano in Piccola Italia (1981) – come «Cucciolo», fucilato «a testa dritta / graziosamente / recando le ferite come fiori in dono». Epopea o mito della medesima ciò che alla fine conta è l’uso fatto d’una libertà, capace di rispondere al male – il nazismo immagine del nulla e scimmia di Dio – a costo del sacrificio personale: «Dicono ch’era sogno / e che per nulla più di un sogno / siete morti. E sia. / Sogno per / sogno in terra di dormienti / scegliamo il sogno da sognare. / Chi di bruto / chi d’uomo»98.
E quello di Alda Merini, con la sua poesia in tensione, sempre in cerca d’un bilanciamento tra slanci corporali, erotici, e misticismo, continua oscillazione tra gli abissi del peccato e le vertigini della grazia; fino a prospettare un divino che si dispiega nella fisicità dell’amore umano, meglio, in vere e proprie liturgie corporali. Prima in Paura di Dio (1955): «Sei Colui che ha due Volti, uno di luce / pascolo delle anime beate, / ed uno fosco / indefinito, dove son sommerse / la gran parte dell’anime, cozzanti / contro la persistente / ombra nemica»99. Poi in Tu sei Pietro (1961) e soprattutto – dopo i vent’anni di silenzio per l’internamento manicomiale – in La Terra Santa (1984), con la poetessa che scopre nell’esilio biblico il suo esilio, il dramma personale di faccia a un Dio «incanto» e «frode», «che appari e dispari / come un luogotenente del destino». Per concludersi, lungo l’«erta felice» del divino, con i volumi di poesia religiosa che segnano tutto l’ultimo decennio della sua produzione – Corpo d’amore (2001), Magnificat (2002), La carne degli angeli (2003), Poema della croce (2004), Cantico dei Vangeli (2006) – in cui le tensioni di carne e spirito si rincorrono e s’incontrano al di là d’ogni dualismo; per placarsi, forse, nel Gesù «carne di spirito / e spirito di carne»100.
Non rimane che uno spazio per il particolare itinerario del teatro di prosa, insidiato per un verso dal trionfo del melodramma e per l’altro dal ritardo di quella rivoluzione estetica che, tra anni Settanta e Novanta dell’Ottocento, in Europa, tra invenzioni sceniche e nuova illuminazione, impone l’avvento della regia. Per quel che riguarda l’Italia – mentre altri paesi esprimono un Ibsen, uno Strind-berg, un Čechov – occorre cercare altrove che in una drammaturgia o in una commedia dell’arte che, pur messa nell’angolo dalla borghesia protagonista del processo d’unificazione, ugualmente ne rispecchia intenzioni e drammi. E tra il Giacometti di La morte civile (1861) o il Torelli de I mariti (1867) con le loro riflessioni sul nodo della felicità-infelicità familiare o del confronto tra la vecchia Italia aristocratica e la nuova borghese; e tra le riprese e le variazioni sul tema in Giacosa (Tristi amori, 1887) o Praga (La moglie ideale, 1890), lontanissimi Manzoni e Pellico, è come se i cristiani d’Italia fossero assenti dal palcoscenico.
Occorre superare la stagione del teatro collegato a doppio filo con la prosa naturalista e verista, nelle sue varianti a connotazione regionale, linguistica e sociale; stagione peraltro dominata, fino al secondo decennio del Novecento, più che dal testo dalle generazioni di ‘grandi attori’ e ‘mattatori’ (Ristori, Rossi e Salvini prima, Zacconi e Duse poi), che lo interpretano e, in un certo senso, lo fanno. E anche le incursioni a teatro di D’Annunzio e dei futuristi, posizionandosi intorno a quegli anni Venti in cui – facciano punto a capo Sei personaggi in cerca d’autore ed Enrico IV – Pirandello completa la sua opera di scardinamento degli schemi della drammaturgia nostrana, riportandola ad una dimensione europea.
È qui che si colloca il teatro ‘dell’esame di coscienza’ di Ugo Betti, da La padrona (1926) a La fuggitiva (1953); un teatro «rivelatore e giudice» – sono parole sue – che si avvale del meccanismo dell’inchiesta, sociale o giudiziaria, per scandagliare gli abissi d’una condizione umana dove s’annidano il limite, la colpa, l’ingiustizia. Della colpevolezza conclamata degli uomini, e al contempo dell’impossibilità di condannarli – per farsene invece misericordiosamente carico – sono espressione prima i due maggiori drammi del teatro bettiano, Frana allo scalo nord (1932) e Corruzione a palazzo di giustizia (1944).
Il primo è indagine poliziesca ambientata nel mondo del lavoro, in cui – procedendo senza poter «trovare un punto fermo» – gli inquirenti scoprono ciascun imputato immerso nel «torchio da uva» della vita, dove «a poco a poco tutti veniamo spremuti». Una vicenda che il magistrato chiamato a giudicarla, posta l’impossibilità di «spartire il buono e il cattivo» – l’immagine è quella del grano e del loglio – considerando la sofferenza personale degli imputati, che «non potevano essere diversi da quelli che sono stati», si vedrà costretto a sentenziare non secondo giustizia, ma secondo «una cosa più alta: la pietà»101. Formula, questa, che torna compiutamente in Corruzione a palazzo di giustizia, in un’atmosfera ancor più plumbea, segnata dal delitto, divorata dalla «rosea pustola della lebbra: corruzione»102. Un labirinto, dove tutti i personaggi, giustamente, finiscono sotto accusa e dove tutti, ugualmente, mentono per autodifesa. Solo a dramma concluso, quando cessano le accuse e la coscienza può manifestarsi – soprattutto nell’omicida, sfuggito alle maglie del tribunale – ecco emergere un lampo di sincerità, un residuo senso di giustizia, un desiderio di confessione talora risolto in preghiera.
Se, come sostiene il cavalier Pinci in Il giocatore (1950), «la giustizia tutela il mondo, ma essendo il mondo errato la giustizia tutela gli errori del mondo», «credere in Dio» – e siamo all’ultimoBetti – «è sapere che tutte le regole saranno piccole». Non è un caso che questa battuta sia messa in bocca a un altro omicida, Ennio:
«Funzionario: “Hai ucciso: hai diminuito anche d’un solo filo d’erba il prato della sua gioia”.
Ennio: “Se fosse vero che il tuo Signore mi abbandona, e che Egli dunque, a un certo punto, abbandona le anime e si fa sordo alle loro preghiere … questo, se fosse vero, vorrebbe dire che il Creatore è meno generoso della creatura; che egli è sordo quando la sua creatura non lo è. Non lo è! Perché io sono certo che il Suo, anzi il mio filo d’erba, mi ascolta e mi risponde”»103.
Del peso del peccato, del male, presente ma sovrastato da quello della misericordia è espressione ancor più paradigmatica il dialogo finale di Acque turbate (1951), tra Giacomo e l’anonimo che gli si è accostato:
«Giacomo: “È con questo viso, Signore, che io debbo ora venirti davanti? Ero io il peggiore? Oh mio Dio, ma come ha potuto nascere e crescere dentro di me a mia insaputa un male non voluto? E come è possibile che io, non avendolo voluto, ne sia ugualmente responsabile? … Come è stato permesso che il bene e il male siano così simili, e ugualmente naturali alle cose? E sono poi essi, davvero distinti? E chi è a distinguerli?”.
Il tizio: “Se distinguere e sceverare è difficile a te, non mancherà un occhio migliore. Tutto sarà sceverato; e utilizzato. L’importante è che hai combattuto coraggiosamente. E per il resto... fidati! Uomo orgoglioso! Perché vuoi far tutto? Perché vuoi saper tutto? ”»104.
Con Betti, ma di vent’anni più giovane, Diego Fabbri, giunto alla pubblica notorietà negli anni Cinquanta, con Processo a Gesù, composto tra il 1952 e il 1954.
Processo a Gesù – o dell’impossibilità di scindere il Gesù storico dal Gesù della fede – altro non è che la ripetizione del processo dell’anno 30, rappresentata da una famiglia di ebrei (Elia e Rebecca, loro figlia Sara e Davide) che, come giudici e avvocati, interrogando attori calati nelle vesti dei testimoni dell’evento tentano di stabilire, da un punto di vista giuridico, la correttezza o meno della condanna emessa dal Sinedrio. Ma il processo, e il dibattito che ne consegue, prende tutt’altra direzione, spostandosi dal piano legale a quello della coscienza. Quella stessa che, evocando l’assente, si risveglia; trascinando la famiglia di ebrei, i testimoni-attori e il pubblico a una messa in questione personale, come se il Cristo si manifestasse entrando nelle pieghe più doloranti dell’esistenza: siano d’una prostituta («c’è sempre un momento nella nostra vita che rimane soltanto lui a difenderci») o d’una vedova («non dovete toglierci questa sola cosa che abbiamo, ma che per noi è tutto»); d’un uomo cacciato da casa («io ne ho bisogno d’un padre che un bel giorno mi perdoni e mi accetti in casa sua... così come sono»105) o di Davide, amante di Sara e delatore di suo marito alla polizia nazista.
Ciò che qui è scoperta della contemporaneità personale con Cristo, in Veglia d’armi (1956) si fa riflessione storica sul rapporto tra Chiesa e poteri mondani. Ne è occasione la riunione segreta che – nell’albergo d’una grande città – si svolge tra alcuni membri della Compagnia di Gesù. Riunione vigilata da un misterioso maître e da un viaggiatore d’Oriente – non altri che Ignazio di Loyola e Francesco Saverio – che ancora una volta si trasforma in altro, in riflessione sul mandato affidato alla Compagnia («Noi abbiamo avuto dal Fondatore un comando: quello di fare cristiana la storia. Conveniamo di aver fallito?»106) e alla Chiesa:
«Il nostro errore consiste proprio in questo: aver creduto che per fare una storia cristiana, la strada migliore fosse quella di associarsi ai cosiddetti capi della storia, agli uomini dominanti. Proseguiamo nell’errore di corteggiare i capi. E i capi ci tradiscono. Non possono che tradirci a un certo momento, l’avete visto! Chi ci ha cacciato? Le nazioni cattoliche, spesso. I loro capi. Capi... capi... sempre capi! Non possono mai essere con noi, dalla nostra parte... E noi continuiamo a frequentarli! Possibile che non li abbiamo conosciuti!»107.
Fino a che, quando il rappresentante di Roma si dimostrerà ancora una volta disponibile all’accordo con il potere, proprio da Ignazio – a stento riconosciuto – risuona il comando a un comportamento altro: «Date al mondo il fastidio di Cristo! Inquietatelo! Non lasciatelo un momento in pace!»108.
Temi, tutti quelli enunciati, che percorrono fino alla fine la produzione di Fabbri: lo scontro tra inquietudine religiosa e Chiesa mondanizzata ricompare nello humor di Lo scoiattolo (1961) e nelle punte drammatiche di Incontro al parco delle terme (1978); la sovrapposizione tra storia e accadimenti evangelici in L’avvenimento (1966-1967) e in Al Dio ignoto (1980), ultimo testo di Fabbri.
Infine, un accenno al cattolicesimo aspro del «più instancabile sperimentatore della letteratura italiana»109, come l’ha definito Raboni, cioè Giovanni Testori. Non tanto il Testori già violentemente corporale degli anni Cinquanta e Sessanta, che sia nei romanzi sia nei testi teatrali costitutivi del ciclo I segreti di Milano aveva dipinto – è il caso di dirlo – un’umanità dolorante e sanguigna, bisognosa di redenzione. E neppure al Testori degli anni Settanta, autore di quell’unicum linguistico che è la Trilogia degli Scarrozzanti – Ambleto (1972), Macbetto (1974) ed Edipus (1977) – nel suo impasto di arcaismi e neologismi, italiano e dialetti, lingua colta e triviale.
Ma l’ultimo Testori, quello successivo alla conversione e in essa non meno eccessivo, che in un’altra trilogia – Conversazione con la morte del 1978, Interrogatorio a Maria del 1979 e Factum est del 1981 (per proseguire, nei secondi anni Ottanta, con Confiteor, In exitu, Verbò) – reinventa la propria drammaturgia in una forma di teatro-oratorio, non a caso da declamarsi, da rappresentarsi in chiesa o in piazza. Interrogatorio a Maria, dunque, lauda teatrale e immagine pittorica, in cui la madre di Cristo, carica d’anni e di sofferenze, sotto il peso della profezia di Simeone, dialoga con il coro dell’umanità e della storia. E raccoglie in grembo – immagine testoriana per eccellenza – il gemito delle invocazioni che salgono a Dio, dai secoli al presente. Un presente che, materialista e violento, non avrebbe significato senza la domanda, la ricerca di senso che Maria, come «madre dei viventi», assume dall’uomo, rendendogli possibile il suo stesso cammino: generare ogni volta Cristo daccapo. E ciò ponendosi come «anello penultimo della collana» che comprende «quanti qui siete, / quanti qui foste / quanti nei secoli sarete», compresi i non più viventi e i non generati (come il feto protagonista di Factum est):
«Secoli e tempi
tempi e secoli d’affanni,
come un fiume, un oceano,
un nostro lago,
perchè la pagina voltasse su se stessa
e tutto si cambiasse
riunendo il passato nel presente
nel presente il futuro,
il prima dentro il poi,
il dopo dentro il prima,
perchè prima e dopo furono e resteranno lì,
in quel presente»110.
«Secoli e tempi» dunque, l’azione che si scarnifica e lo spazio teatrale che si riduce a nuda parola, appunto a Logos, incarnato in un cammino inesaurito di generazioni; che da Maria di Nazareth a Santa Maria del Fiore può concludersi – ancora una volta provvisoriamente – ritornando, con le parole di Luzi, là dove eravamo partiti:
«O veni saeculum, veni millennium, jubila.
Noi ti apriamo i cuori,
ti apriamo le porte, veni.
Quella che si dispone al rito festoso del ricominciamento,
figli, è una chiesa penitenziale. Molti hanno operato in me
e in nome mio, non onesta
ma anzi perfida e maliziosa gente.
In molti hanno abusato del mio limpido sigillo,
e io chiesa materna mi affliggo di tutte le magagne.
Perdono, chiediamo a mani giunte»111.
1 M. Luzi, Fiore nostro fiorisci ancora, Firenze 1999, pp. 19-20.
2 Sul tema cfr. almeno i recenti Le parole del sacro. L’esperienza religiosa nella letteratura italiana, Atti del Convegno Internazionale (San Salvatore Monferrato 2003), Novara 2005; E.N. Girardi, Letteratura italiana e religione negli ultimi due secoli, Milano 2008; F.D. Tosto, La Letteratura e il sacro, Napoli 2009.
3 J.P. Jossua, La passione dell’Infinito nella letteratura, Ragusa 2005, p. XIV; cfr. anche J.P. Jossua Pour une histoire religieuse de l’expérience littéraire, Paris, 1985-1998; id. La letteratura e l’inquietudine dell’assoluto, Reggio Emilia 2005.
4 Ibidem, p. VIII.
5 E. Doni, “C’è un bimbo”, in Il fiore della gaggia, Roma 1973, pp. 37-38.
6 M. Luzi, Via Crucis, Milano 1999, p. 35.
7 P. Mazzolari, La pieve sull’argine-L’uomo di nessuno, Bologna 2008, p. 210.
8 A. Asor Rosa, L’epopea tragica di un popolo non guerriero, in St.It.Annali, XVIII, Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Torino 2002, p. 847.
9 P. Maffeo, Prete salvatico, Treviso 1989, pp. 75 e 116.
10 L. Tassoni, L’ipotesto biblico nella poesia italiana contemporanea, in F. Stella, La scrittura infinita. Bibbia e poesia in età contemporanea. Con antologia di testi dal V al XX secolo, Firenze 1999, p. 83.
11 Cfr. L. Ghiselli, Diario, Firenze 1942, pp. 125-127.
12 G. Cristini, “Il silenzio”, in Weekend in terra straniera, Milano 1986, pp. 25-26.
13 R. Barsacchi, “Ma quanto ancora dovremo difenderti?”, in Uomo allo scoperto, Reggio Emilia 1978, p. 99.
14 C. Campo, La tigre assenza, Milano 1991.
15 Cfr. G. Pozzi, I nomi di Dio nei “Promessi Sposi”, Lugano 1989.
16 M. Luzi, “Epifania”, Onore del vero, ora in L’opera omnia, Milano 1998, pp. 241-242.
17 R. Mussapi, “Il racconto che udì Luca”, in La polvere e il fuoco, Milano 1997, pp. 79-81.
18 G. Centore, “Ecce homo”, in Ladro d’eternità, Padova 1986.
19 Cfr. E. Bono, Alzati Orfeo, Milano 1958.
20 M. Luzi, Via Crucis, cit., pp. 31-32 e 59.
21 L. Santucci, Orfeo in paradiso, Milano 1967, p. 83.
22 I. A. Chiusano, Il vizio del gambero, Milano 1986, p. 137.
23 G. Morselli, Roma senza il Papa. Cronache romane di fine secolo Ventesimo, Milano 1974.
24 Tra la sterminata bibliografia manzoniana, oltre a De Sanctis, segnaliamo almeno G. Getto, Manzoni europeo, Torino 1974; L. Caretti, Manzoni: ideologia e stile, Torino 1972; E. Noè Girardi, Manzoni reazionario. Cinque saggi sui promessi sposi, Bologna 1972; E. Raimondi, Romanzo zenza idillio, Torino 1974; F. Ulivi, Manzoni, Milano 1984; G. Barberi Squarotti, Manzoni. Le delusioni della letteratura, Rovigo 1988.
25 A. Martini, La critica letteraria di ispirazione cattolica, in Cultura e società in Italia nell’età umbertina. Problemi e ricerche. Atti del primo Convegno, Milano 11-15 settembre 1978, Milano 1981, p. 305.
26 La cultura, a cura di A. Asor Rosa, in Storia d’Italia, IV, 2, Dall’Unità a oggi, Torino 1975, p. 1213. Su Fogazzaro, oltre alla biografia di Tommaso Gallarati Scotti, cfr. A. Piromalli, Fogazzaro, Palermo 1959 e C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano. D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello, Milano 1960.
27 A. Fogazzaro, Il Santo, Milano 1953, pp. 256-261.
28 D. Giuliotti, L’ora di Barabba, Roma 1982, p. 99.
29 Bibliografia degli scritti di Giovanni Papini, a cura di A. Aveto, J. Lovreglio, Roma 2006.
30 P. Mignosi, Perfetta letizia, Pistoia 1931, p. 263.
31 R. Doni, Sezione S. Spirito, Firenze 1958, pp. 202-211.
32 Ibidem, p. 133.
33 G. Montesanto, La cupola, Milano 1966, p. 44.
34 R. Doni, La città sul monte, Milano 1986, p. 9.
35 Ibidem, p. 29.
36 Ibidem, p. 135.
37 Cfr. Le parole del padre (1991), La valle dei cavalieri (1993), Appennino (2003) e Cameo (2006), ora raccolti in R. Crovi, Storie dell’Appennino, Milano 2008, da cui citiamo dalle pp. 79, 320 e 435.
38 P. Mazzolari, La pieve sull’argine-L’uomo di nessuno, cit.
39 Ibidem, p. 83.
40 M. Pomilio, L’uccello nella cupola, Milano 1978. p. 135.
41 F. Monicelli, Lacrime impure (il gesuita perfetto), Milano 1999, p. 8 (prima ed. 1960).
42 R. Doni, Servo inutile, Firenze 2007, pp. 78-79.
43 Ibidem, p. 62.
44 R. Doni, La città sul monte, cit, p. 121.
45 G. Montesanto, Così non sia, Milano 1985, pp. 68, 148, 177.
46 F. Parazzoli, Per queste strade familiari e feroci (risorgerò), Milano 2004, pp. 34, 27, 89.
47 L. Santucci, Orfeo in paradiso, cit., p. 192.
48 L. Santucci, Il ballo della sposa, Cinisello Balsamo 1985.
49 M. Pomilio, Il quinto evangelio, Milano 1975, p. 17; su Pomilio cfr. C. Di Biase, Mario Pomilio. L’Assoluto nella storia, Napoli 1992.
50 M. Pomilio, Il quinto evangelio, cit., p. 323.
51 M. Pomilio, Il Natale del 1833, Milano 1983, pp. 33, 103, 114.
52 Ibidem, p. 129.
53 Cfr. G. Zanella, Le poesie, Vicenza, 1988; cfr. anche M. Guderzo, Bibliografia di Giacono Zanella, Firenze 1968.
54 C. Rebora, “LXIX. O poesia, nel lucido verso”, Frammenti lirici, ora in Le poesie, Milano 1998, p. 93.
55 Ibidem, p. 28: “VII. Per l’acre fluir dei minuti”.
56 Ibidem, p. 125: “LXVIII. Nel terso gravitar dei mondi insonni”.
57 Ibidem, pp. 120-121: “LXVI. Dalla razzante pendice”.
58 Ibidem, p. 18: “II. Nella seral turchina oscurità”.
59 Ibidem, p. 25: “VI. Sciorinati giorni dispersi”.
60 Ibidem, p. 37: “XIII. O sciolta alla montagna”.
61 Ibidem, pp. 169-170: “Frammento [Clemente, non fare così!]”.
62 Ibidem, p. 161.: “Dall’immagine tesa”.
63 “Gesù il Fedele”, Curriculum vitae, ora in Le poesie, p. 342. Su Rebora cfr. M. Marchione, L’imagine tesa. Vita e opera di Clemente Rebora, Roma 1960; M. Guglielminetti, Clemente Rebora, Milano 1961; M. Del Serra, Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco, Milano 1976; A verità condusse poesia. Per una rilettura critica di Clemente Rebora, a cura di G. Cicala, R. Langella, Novara 2008.
64 C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano 1975; cfr. anche G. Spagnoletti, Tre poeti italiani del Novecento: Saba, Ungaretti, Montale, Torino 1956; F. Portinari, Giuseppe Ungaretti, Torino 1967; M. Del Serra, Giuseppe Ungaretti, Firenze 1977; A. Cortellessa, Ungaretti, Torino 2000.
65 G. Ungaretti, “Un’altra notte”, L’Allegria, ora in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano 1992, p. 72.
66 Ibidem, p. 51: “San Martino del Carso”.
67 Ibidem, p. 55: “Perchè?”.
68 Ibidem, p. 42: “In dormiveglia”.
69 Ibidem, p. 25: “Veglia”.
70 Ibidem, p. 45: “I fiumi”.
71 Ibidem, pp. 168-171: “La pietà”, Sentimento del tempo.
72 Ibidem, pp. 228-230: “Mio fiume anche tu”, Il dolore.
73 Dai solariani agli ermetici. Studi sulla letteratura italiana degli anni Venti e Trenta, a cura di F. Mattesini, Milano 1989; su Luzi cfr. G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, Bologna 1980; S. Verdino, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali 1981-2005, Padova 2000; Mario Luzi oggi: letture critiche a confronto, a cura di U. Motta, Novara 2008.
74 M. Luzi, “Alla vita”, La barca, ora in L’opera omnia, cit., p. 29.
75 Ibidem, p. 105: “Alla madre”, in Un brindisi.
76 Ibidem, pp. 177, 187, 203-204: “Invocazione”, “Est”, “Aprile-amore”, in Primizie del deserto.
77 Ibidem, p. 378: “Nel gorgo oscuro della metamorfosi”, in Su fondamenti invisibili.
78 Ibidem, p. 477: “Segmenti del grande patema”, in Al fuoco della controversia.
79 Ibidem, p. 365: “Il pensiero fluttuante della felicità”, in Su fondamenti invisibili.
80 Ibidem, p. 509: “C’era? Sì, c’era – ma come ritrovarlo”, in Per un battesimo dei nostri frammenti.
81 Ibidem, p. 547: “Prima o dopo l’esperienza?”.
82 Ibidem, p. 531: “Acciambellato in quella sconcia stiva”.
83 Ibidem, p. 591: “Vola alta parola, cresci in profondità”.
84 Ibidem, p. 587: “In ogni nostro simile. Gli chiedo”.
85 Ibidem, p. 695: “Quale riposo? Quale pietra”.
86 Laicità e profezia. La vicenda di David Maria Turoldo, Palazzago 2003.
87 D.M. Turoldo, “Sesto giorno”, in Udii una voce, ora in O sensi miei. Tutte le poesie 1948-1988, Milano 1992, p. 100.
88 Ibidem, p. 98: “Terzo giorno”.
89 Ibidem, p. 368: “Vicino a morire”, in Il sesto angelo.
90 Ibidem, p. 34: “Io non ho mani”, in Io non ho mani.
91 Ibidem, p. 187: “Eravamo l’albero verde”, in Gli occhi miei lo vedranno.
92 Ibidem, p. 387: “Mio prefazio a Pasqua”, in Il sesto angelo.
93 Ibidem, p. 368: “Appena pochi anni dopo”; cfr. anche “Ai tempi di papa Giovanni”, Ibidem, pp. 359-363.
94 Ibidem, p. 371: “Non due fedi”.
95 Ibidem, pp. 560-566 “Voglio parlare con te, o papa”; “Papa, amore ci ridoni al silenzio”; “Cronache a Managua”, in Il grande male.
96 Ibidem, p. 443: “Ballata della disperazione”, in Il sesto angelo.
97 Ibidem, p. 145: “Amore e morte”, in Udii una voce.
98 Cfr. E. Bono, “Stanze per Rinaldo Simonetti Cucciolo”, “La scelta”, in Piccola Italia, ora in Poesie Opera Omnia, Recco 2007.
99 A. Merini, “Chi sei?”, Paura di Dio, ora in Fiore di poesia 1951-1997, Torino 1998.
100 A. Merini, Magnificat. Un incontro con Maria, Milano 2002, p. 37.
101 U. Betti, Frana allo scalo nord, in Teatro completo, Bologna 1957, pp. 243, 240, 260. Su Betti cfr. F. Cologni, Ugo Betti, Bologna 1960 e G. Fontanelli, Il teatro di Ugo Betti, Roma 1985.
102 Teatro completo, cit., p. 1096: Corruzione a palazzo di giustizia.
103 Ibidem, pp. 1071, 1084, 1082: Il giocatore.
104 Ibidem, pp. 1411-1412: Acque turbate.
105 D. Fabbri, Processo a Gesù, in Tutto il teatro, I, Milano 1984, pp. 1063, 1066. Su Fabbri cfr. Atti del Convegno Internazionale Diego Fabbri, a cura di F. Doglio, V. Raspolini, Roma 1986.
106 D. Fabbri, Processo a Gesù, cit., p. 1093.
107 Ibidem, pp. 1094-1096.
108 Ibidem, p. 1153.
109 G. Raboni, Introduzione a G. Testori, Opere 1943-1961, Milano 1996, p. VII; su Testori cfr. C. Bo, Testori: l’urlo, la bestemmia, il canto dell’amore umile, Milano 1995; G. Taffon, Lo scrivano. Gli scarrozzanti, i templi: Giovanni testori e il teatro, Roma 1997; F. Panzeri, Vita di Testori, Milano 2003.
110 G. Raboni, Interrogatorio a Maria, Milano 1979, p. 19.
111 M. Luzi, Fiore nostro fiorisci ancora, cit., pp. 26-27.