L'eta carolingia in Francia, Germania e Italia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’attività edilizia di Carlo Magno, finalizzata sia a rappresentare la dignità imperiale sia a rispondere a necessità pratiche, è sicuramente da intendersi come il miglior strumento scelto dal sovrano per esplicitare e diffondere nel regno la sua politica di rinascita di un unico grande impero cristiano, che prende a modello il prospero e duraturo impero della Roma antica, cui si aggiunge la dimensione di “sacralità” data dalla profonda alleanza con la Chiesa. Il successo politico e sociale dell’impero porta con sé una densa rinascita culturale che si manifesta nella diffusione degli scriptoria per la conservazione del patrimonio librario antico e nella produzione pittorica che si estende anche all’Italia e alla Francia.
Settantacinque palazzi, sette cattedrali e duecentotrentadue monasteri. Sono questi, secondo le fonti, i numeri strabilianti di Carlo Magno. Ovvero gli edifici iniziati, restaurati e in gran parte compiuti durante i 46 anni del suo regno. L’instancabile attività edilizia di Carlo è finalizzata, come racconta il suo biografo Eginardo, sia a rappresentare la dignità imperiale sia a rispondere a necessità pratiche.
I termini rinnovamento, rinascita, renovatio e rinascenza sono da sempre associati dagli studiosi al momento storico carolingio per indicare la generale rigenerazione politica e culturale con cui Carlo cercò di dare forma omogenea e unitaria al suo vasto impero. Naturalmente il modello scelto dal sovrano non poteva che essere il più ampio, etnicamente variegato, prospero e duraturo impero d’Occidente, quello della Roma antica. Tuttavia il regno di Carlo era sì un “romano impero”, ma sacro, cioè fondato su una profonda alleanza con la Chiesa, che aveva voluto e favorito la discesa dei Franchi in Italia e che aveva incoronato Carlo imperatore la notte di Natale dell’800, proprio a Roma. Risulta chiaro, quindi, come il punto di riferimento preciso fosse soprattutto l’impero romano cristianizzato, principalmente dell’età di Costantino, di cui il neoimperatore si presentava come diretto erede e continuatore. Questi due poli, l’impero della Roma antica e la cristianità, permettono a Carlo da una parte di affermare la validità di un potere unico e universale e dall’altra di utilizzare la Chiesa come lo strumento per l’attuazione delle riforme. La grande intuizione di Carlo, o del suo straordinario entourage di consiglieri, sta nell’aver capito che per mantenere saldo un impero così ampio e soprattutto variegato bisogna unirlo socialmente e culturalmente: nasce così una nuova monetazione unica, le varie grafie vengono ridotte a una sola nuova tipologia, la minuscola carolina, e ci si impegna per la costituzione di una classe di funzionari imperiali con la medesima formazione e di dotti con la stessa cultura, grazie alla fondazione di scholae presso i monasteri.
Proprio per esplicitare e diffondere, in un mondo senza mass media, questa politica di rinascita di un unico grande impero cristiano, gli edifici costantiniani diventano spesso i modelli della nuova arte carolingia.
Questo dichiara, ad esempio, la Torhalle, eretta tra il 774 e il 790 nel cortile antistante la chiesa abbaziale di Lorsch, presso Worms. La Torhalle, una sorta di ingresso monumentale al convento, si apre, nella parte inferiore, in una loggia a tre fornici, mentre al piano superiore si trova un’aula riservata all’imperatore. Il modello è stato riconosciuto negli archi trionfali romani, in particolare in quello di Costantino, a cui la Torhalle si collega nella struttura attraverso una fitta serie di richiami simbolici, senza dimenticare tuttavia i rimandi, in particolare per la policromia, alla produzione locale gallo-romana, come indica, ad esempio, il battistero di Poitiers.
Questo è, infatti, il concetto di “copia” nel mondo medievale, e così anche nel processo di “romanizzazione” dell’arte carolingia: un segno particolare, un ricordo vagheggiato, una suggestione più interiore che esplicita. Anche la denominazione di “Laterano” per il palazzo di Carlo ad Aquisgrana, in ricordo del Patriarchio lateranense, nel Medioevo residenza dei papi a Roma, va intesa in tal senso. Stando infatti ai ritrovamenti archeologici non sono emerse vistose analogie tra i due complessi residenziali; i rimando viaggia più che altro su un piano metaforico, di volontà culturale e mentalità locale, in cui anche piccole citazioni potevano mettere in moto meccanismi identificativi; ad esempio, la statua equestre di Teodorico, proveniente da Ravenna, “imitava” quella romana di Marco Aurelio, allora nel cortile del Laterano perché ritenuta di Costantino, mentre un’antica lupa in bronzo evocava la famosa lupa capitolina, nel Medioevo conservata nel portico della Basilica Lateranense. In ambito religioso la chiesa di Saint-Denis, presso Parigi, ricostruita da Pipino il Breve e portata a compimento da Carlo Magno, segna il momento di una consapevole ripresa della tipologia delle basiliche romane di San Pietro e San Paolo, così come la successiva chiesa di Fulda, che mostra ancor più puntuali rimandi all’architettura della Roma paleocristiana. Tale scelta, finalizzata a rinsaldare il rapporto con il papato, trova la sua ragion d’essere anche nel ruolo delle due chiese carolingie di custodi delle reliquie di Dionigi, l’apostolo della Gallia, e di Bonifacio, evangelizzatore della Germania, sulla falsariga delle due basiliche martiriali romane. Questo emblematico costruire romano more, che si sostanzia soprattutto nella presenza dell’impianto longitudinale, del transetto e della cripta semianulare, è comunque solo un aspetto della complessa natura dell’architettura monastica carolingia, come ben mostra il noto progetto per l’abbazia di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibliothek). Qui la chiesa, circondata dalla griglia regolare dei molteplici edifici monastici, presenta una doppia abside, probabilmente giustificata da esigenze liturgiche legate al culto delle reliquie. Alla disposizione unidirezionale dello spazio della basilica tardoantica, la chiesa carolingia ne oppone, infatti, un’altra, organizzata intorno a più entità, con la ripartizione degli atti liturgici tra i differenti punti dell’edificio religioso. Interessante in tal senso è la chiesa del cenobio di Saint-Riquier a Centula, fatta erigere, con il resto del complesso monastico, dall’abate Angilberto, marito segreto della figlia di Carlo Magno, tra il 790 e il 799, ma poi totalmente ricostruita. L’edificio carolingio era caratterizzato da due “transetti” sporgenti di uguali dimensioni che chiudevano all’interno il vano longitudinale a tre navate e che risultavano all’esterno fiancheggiati da due torri scalari.
Il corpo occidentale, il Westwerk, comprendeva una sorta di cripta per le reliquie al pianterreno e una galleria superiore con altare dedicato al Salvatore. L’importanza del corpo occidentale era, quindi, analoga a quella della testata orientale sia per l’uso liturgico, sia per la funzione semantica. L’invenzione tipologica che meglio rappresenta l’architettura carolingia è, senza dubbio, proprio il Westwerk, per le sue forti implicazioni ideologiche, come ben attestato dalla Cappella Palatina di Aquisgrana. L’abbazia di Corvey ne conserva un esempio integro e straordinario, che, eretto solo tra l’873 e l’885, documenta la fortuna di questa struttura, destinata a consolidarsi anche nella successiva età ottoniana, soprattutto nella parte orientale dell’impero. Se, infatti, dopo la spartizione territoriale dell’843, quest’ultima tende a portare avanti in architettura un discorso legato alle prime espressioni dell’arte carolingia, la pars occidentalis può essere ritenuta il grande centro delle nuove elaborazioni formali. Qui il tema principale delle ricerche architettoniche diventa un presbiterio orientale più spazioso e adatto a ospitare numerosi altari e reliquiari. Nella chiesa di Saint-Philibert-de-Grandlieu è realizzato, a partire dall’836, un nuovo coro rettangolare desinente in un’abside, sotto cui viene sistemata una cripta a galleria con piccoli oratori, che rimpiazza quella semianulare di tipo romano; cinque cappelle attorniavano inoltre il presbiterio, dando vita a un coro a deambulatorio, con una conseguente frammentazione degli spazi liturgici e cultuali.
La vasta produzione di manoscritti carolingi si lega in origine all’idea di Carlo che il successo politico e sociale del suo impero viaggiasse di pari passo con una densa riforma culturale, ovvero che l’autorità della Chiesa e la capacità dei funzionari pubblici fossero strettamente dipendenti dal loro livello culturale.
Il sovrano chiama a realizzare questo imponente progetto i migliori dotti dell’epoca, fatti arrivare con lungimiranza, vista l’eterogeneità del suo impero, da vari Paesi: Alcuino di York dalle isole britanniche, Pietro da Pisa dall’Italia, Eginardo dalla Germania. La convinzione poi che non esista cultura che non sia direttamente o indirettamente debitrice di quella classica, fa sentire la necessità di un recupero di questo patrimonio letterario e anche di un lavoro di emendamento filologico su questi testi. Inoltre, la fondazione di numerose chiese e abbazie, che hanno bisogno di libri liturgici, porta alla redazione di molti nuovi codici. Proprio negli scriptoria di questi monasteri si sviluppa la ricca produzione miniata di età carolingia. Le prime testimonianze, come l’Evangelario di Godescalco (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. Nouv. Acq. 1203), eseguito probabilmente ad Aquisgrana prima del 783, mostrano nelle iniziali e nei motivi ornamentali una dipendenza da modelli insulari, mentre nelle scene a piena pagina trova ampio spazio la componente mediterranea. In particolare i ritratti degli evangelisti sono stati messi in relazione con la produzione musiva della Ravenna del VI secolo, facendo ipotizzare l’esistenza di un perduto codice ravennate come modello. Nel manoscritto carolingio la figura umana è rappresentata disinvolta, in atteggiamenti naturali, conservando proporzioni corrette e volto regolare, sebbene il disegno lineare domini le ampie campiture uniformi e il modellato si limiti a poche lumeggiature. Questi riferimenti sono stati sicuramente mutuati dall’Italia settentrionale, dove il Codice di Egino (Berlino, Staatsbibliothek, ms. Phill. 1676) così come le Omelie di Gregorio di Vercelli (Biblioteca Capitolare, ms. CXL-VIII) confermano in ambito italiano la continuità della tradizione antica sul finire dell’VIII secolo.
A questi modelli nord-italiani, nello scriptorium di Aquisgrana, si aggiungono puntuali citazioni classiche, che si risolvono soprattutto in solenni architetture, finti marmi, colonne tortili e cammei, in un gruppo di codici omogenei, tra cui i Vangeli di Saint-Médard di Soissons (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. 8850), legati al nome di Ada, leggendaria sorella di Carlo Magno.
Un tentativo di restaurazione totale dell’ideale del libro antico si coglie, invece, nei Vangeli dell’Incoronazione (Vienna, Kunsthistorishes Museum, s.n.), così chiamati perché si ritiene siano quelli rinvenuti da Ottone III nell’anno Mille nella tomba di Carlo. La monumentalità delle figure, eseguite con pennellate rapide e impressionistiche, e la coerente struttura spaziale rievocano modelli greci, confermati dalla presenza del nome Demetrius presbyter all’inizio del Vangelo di Luca. Intorno all’823 il tema dei Vangeli dell’Incoronazione viene ripreso ma rielaborato con uno spirito “medievale” nello scriptorium del monastero di Hautvilliers, vicino a Reims, sotto la guida del vescovo Ebbone, fratello di latte di Ludovico il Pio. Il codice con i Vangeli (Epernay, Bibliothèque Municipale, ms. 1) ripropone l’immagine dell’evangelista inserita in un paesaggio, ma la definizione delle figure e dello sfondo è affidata completamente a una linea sussultante e ossessiva, secondo un gusto visionario che godrà in seguito di grande fortuna nei territori anglosassoni. Per ragioni di concordanza stilistica viene attribuito allo stesso periodo e al medesimo scriptorium di Reims anche il Salterio di Utrecht (Bibliothek der Rijkuniversiteit, Script. eccl. 484), con le sue silhouette dinoccolate che si muovono con ritmi velocissimi in una spazialità visionaria. In modo eccezionale il salterio conserva ancora tutti i 150 salmi, illustrati dal miniatore con saporite metafore e sfrenata fantasia. Quando, ad esempio, il salmista invoca il Signore con le parole “Svegliati, perché dormi?”, si vede Dio sdraiato in un sontuoso letto a baldacchino oppure allorché nel salmo si legge “gli empi muovono in cerchio”, viene raffigurato un gruppo di persone che fanno un girotondo. Anche l’imponente Bibbia di San Paolo Fuori le mura, realizzata intorno all’869 per Carlo il Calvo, appare strettamente collegata sul piano illustrativo a Reims, anche se non mancano richiami alla Schola di Aquisgrana e a quella di Tours. Presso l’abbazia di Saint-Martin a Tours si era infatti sviluppato un grande centro di produzione di Bibbie miniate, soprattutto sotto l’abate Viviano (843-851). Al suo nome si lega in particolare un famoso codice, noto anche come prima Bibbia di Carlo il Calvo (Parigi, Bibl. Nat., ms. Lat. 1), nel cui foglio iniziale, in una scena di acuto sapore storico, è raffigurato l’imperatore, circondato da dignitari, nell’atto di ricevere il volume dalle mani dell’abate Viviano. In questa Bibbia le esperienze dello scriptorium di Aquisgrana si fondono con rimandi a modelli classici, come mostra la puntuale ripresa di alcune immagini da un famoso codice tardoantico, il Virgilio Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3225), che in quegli anni doveva trovarsi proprio a Tours.
Questa pluralità di linguaggi, presente nella miniatura carolingia, sembra ritrovarsi anche nei pochi esempi di pittura monumentale giunti fino a noi. I mosaici dell’oratorio di Germigny-des-Prés, in particolare la splendida immagine dell’Arca dell’Alleanza, fanno pensare per l’aggraziato movimento dei corpi, i gesti ricercati e la fluidità del disegno a un atelier ancora fortemente legato alla tradizione ellenistica. Diversamente, gli affreschi della cripta della chiesa abbaziale di Saint-Germain a Auxerre, frutto di uno stile lineare e improntato alle campiture cromatiche uniformi, mostrano un ruolo preponderante della figura umana che, con gestualità dinamica e mimica energica, prende il sopravvento su uno spazio fortemente sintetico. Databili all’incirca alla metà del IX secolo, le pitture di Auxerre testimoniano a pieno le trasformazioni subite dall’arte carolingia man mano che questa si allontana dai modelli mediterranei, sviluppando dei mezzi espressivi propri. Tuttavia l’area geografica che meglio conserva testimonianze di pittura carolingia è la parte centro-orientale dell’arco alpino, per il ruolo di snodo viario di collegamento tra l’Italia settentrionale e la Germania e per la presenza di numerosi insediamenti monastici. Nella chiesa di San Giovanni a Müstair, nei Grigioni, le pareti sono interamente ricoperte con storie del Vecchio e Nuovo Testamento. L’attenzione riservata alla scena di Davide e del figlio Assalonne, che mosse guerra contro il padre, sarebbe, per alcuni studiosi, un’allusione agli scontri tra Ludovico il Pio e il nipote Bernardo, con una conseguente datazione del ciclo intorno all’820; per altri, invece, ci sarebbe un riferimento alla ribellione dei figli di Ludovico contro il padre, con una cronologia quindi tra l’829 e l’840. Non manca tuttavia chi, non ritenendo così pregnante la motivazione iconografica, data le pitture sul finire dell’VIII secolo, in concomitanza con l’erezione della chiesa. Quel che è certo è comunque la grandiosità degli affreschi di Müstair, in cui le figure, ottenute con pennellate rapide e lumeggiate, si muovono in modo equilibrato all’interno di complessi fondali architettonici.
Alle pitture di Müstair si collegano quella della piccola chiesa di San Benedetto a Malles, in Val Venosta, nuovamente vicino al passo di Resia. Qui, nella zona absidale intorno all’800 sono stati raffigurati con vivace realismo le immagini di due donatori, un tempo incorniciate da preziosi stucchi. Queste pitture, richiamando alla mente l’unione di stucco e affresco nel tempietto di Cividale o nel San Salvatore di Brescia, testimoniano la oramai universalmente riconosciuta continuità culturale e artistica nel nord Italia fra l’età longobarda e quella carolingia. Al loro arrivo nella penisola, infatti, i sovrani franchi trovano non solo corti fortemente latinizzate, ma anche un diffuso interesse per i modelli artistici antichi, come mostrano le esperienze dell’epoca di Liutprando. Una serie di solide comunanze non permettono, ad esempio, di ascrivere con assoluta certezza all’ultimo periodo longobardo o alla prima età carolingia alcuni monumenti chiave, come il San Salvatore di Brescia. Così come i capitelli del sacello carolingio di San Satiro a Milano derivano direttamente per stile e rilettura del modello antico da quelli delle chiese longobarde di Pavia. La varietà culturale dell’Italia settentrionale in questo periodo è testimoniata dagli affreschi del San Procolo a Naturno, presso Bolzano, che, per il linearismo esasperato e l’estrema sintesi figurativa, sono stati collegati ora agli scriptoria della Baviera, ora alla violenza caricaturale dell’Altare di Ratchis.
Proprio Milano diviene uno dei centri nevralgici della politica artistica di Carlo Magno, per volere del quale non solo viene istituito un monastero presso Sant’Ambrogio, ma vengono anche riuniti in un’unica tomba i resti del vescovo milanese e quelli dei martiri Gervasio e Protasio. È l’occasione per realizzare uno dei capolavori del Medioevo italiano: l’altare d’oro di Sant’Ambrogio. Lamine d’oro e d’argento dorato lavorate a sbalzo, con cornici di smalti policromi cloisonné, inserzione di gemme, perle e filigrane ospitano sulla fronte storie cristologiche, mentre sul retro sono narrati episodi della vita di sant’Ambrogio; sempre sulla parte posteriore, nei due medaglioni inferiori, il santo milanese incorona il vescovo-committente Angilberto, colto nell’atto di donare il modellino dell’altare, e Volvinius magister phaber, ovvero l’autore dell’opera. A giudicare dall’abito che indossa, quest’ultimo sembra un monaco-artista, a cui, in modo decisamente insolito, viene riconosciuto lo stesso onore del vescovo. A Vuolvinio sono solitamente attribuiti i rilievi della parte posteriore dell’altare, anche se alcuni studiosi trovano strano che un artista di così sottolineato valore non abbia eseguito la decorazione della fronte, giudicata più importante a livello materiale, per l’uso della lamina d’oro, e iconografico, con le storie di Cristo. Peraltro le due parti dell’altare rivelano diversità anche per quel che riguarda il linguaggio stilistico, pur rientrando sempre in un discorso di richiamo a modelli tardoantichi; mentre, infatti, le scene della vita di Gesù guardano a una cultura figurativa aggiornata sulla miniatura d’Oltralpe, le storie di sant’Ambrogio sono intrise di influssi legati all’ambito artistico dell’Italia settentrionale, come mostra il confronto con le già citate illustrazioni delle Omelie di Gregorio e del Codice di Egino. Realizzati rispettivamente a Nonantola e a Verona tra la fine dell’VIII e il principio del IX secolo, i due manoscritti dichiarano, pur nella semplificazione grafica, una monumentalità che riprende la tradizione tardoantica. Elementi questi presenti anche nelle pitture di Torba, rinvenute all’interno di una torre che apparteneva a un complesso monastico e datate tra VIII e IX secolo. Questo costante sguardo al passato si ritrova anche nelle architetture, come il sacello milanese di San Satiro, a cui spetta di sicuro un posto di rilievo nel panorama della Lombardia carolingia. Eretto per volere testamentario del vescovo Ansperto, dichiara, nella pianta centrale e nell’articolarsi continuo delle masse murarie in nicchie grandi e piccole, un influsso dell’architettura termale tardoantica.