L'ETÀ CONTEMPORANEA
La prima metà dell'Ottocento. Orientamenti generali: principi e realtà Il ritorno di Pio VII a Roma, il 24 maggio 1814, fu accompagnato dal sincero entusiasmo dei Romani, tutt'altro che soddisfatti del dominio francese di quegli anni. Non a torto il Pacca, nel rievocare quell'arrivo, citava un significativo passo del dialogo di Girolamo contro i luciferiani: "Ad reditum Eusebii [Eusebio di Vercelli, esiliato a lungo dagli ariani] lugubres vestes Italia mutavit". Il prestigio di Pio VII crebbe per la generosa ospitalità concessa dall'ex prigioniero di Napoleone, ormai a Sant'Elena, a vari membri della famiglia Bonaparte, che non trovavano altrove nessun'accoglienza paragonabile: la madre di Napoleone, Letizia (Madame mère... "la corsa Niobe", per dirla con Carducci), che sarebbe morta a Roma nel 1836; il fratello di Napoleone, Luciano, piuttosto inquieto e causa di preoccupazioni alla polizia, nominato proprio da Pio VII principe di Canino, morto a Viterbo nel 1840; il cardinal Fesch, morto nell'Urbe nel 1839. Ma la simpatia iniziale non risolveva i problemi di fondo. La stessa ricostituzione della Compagnia di Gesù, il 7 agosto, a poche settimane dal ritorno del papa, giustificata da obiettive esigenze apostoliche, accolta con simpatia dai Borboni di Spagna presenti a Roma, poteva essere interpretata come indizio di una chiara volontà restauratrice, di un ripristino se non proprio completo, piuttosto largo delle antiche strutture, incapace di cogliere quello che c'era di valido, vitale, irreversibile nelle travolgenti vicende di quei venticinque anni, accanto ad altri aspetti inaccettabili. Non del tutto a caso all'inizio del 1815 era entrato nella Compagnia l'ex re di Sardegna Carlo Emanuele IV, piuttosto debole, quasi inetto, praticamente alla fine della vita (sarebbe morto nel 1819). Questa mentalità reazionaria era stata efficacemente espressa da monsignor Gazzola, vescovo di Cervia poi di Montefiascone, cardinale nel 1824, morto nel 1832, che auspicava una legge redatta in questi termini: "Tutto ritorna come nel 1789". Pio VII - l'autore dell'omelia sulla democrazia del 1796 - era tendenzialmente un moderato, ed era stato eletto a Venezia proprio per questo, in opposizione allo "zelante" Mattei. Aveva accanto a sé, strettissimo collaboratore, l'aperto Consalvi. Ma era in parte logoro per le sofferenze subite, stanco, ansioso. Sarebbe stato capace di resistere alle tendenze conservatrici, forti in Curia, rappresentate specialmente dai cardinali Rivarola e Pacca, e da quegli ambienti ben descritti nelle Memorie del Consalvi? Lo stesso orientamento appariva in molti circoli intellettuali europei, per i quali la Rivoluzione aveva rovesciato tutto un sistema di valori tradizionali, era l'ultimo atto di un processo ostile alla Chiesa e alla fede, cominciato con la riforma protestante e maturatosi con l'illuminismo e l'89; era essenzialmente satanica, esigeva una risposta radicale, in sostanza il ritorno all'Ancien Régime, a una società divisa rigorosamente in classi, strettamente subordinata all'episcopato e alla Santa Sede. Consalvi al suo ritorno da Vienna tentò con successo di attuare una larga riforma dell'amministrazione e della struttura stessa dello Stato della Chiesa. Egli mitigò la severa epurazione dei laici che si erano mostrati simpatizzanti con i Francesi, si mostrò comprensivo anche davanti a ecclesiastici più o meno compromessi. Soprattutto egli cercò di salvare almeno in parte il carattere innovativo dei princìpi francesi, e di impostare l'organizzazione statale secondo i criteri della centralizzazione, dell'uguaglianza, dell'uniformità. Lo Stato della Chiesa restò comunque uno Stato assoluto, rigidamente ecclesiastico (in cui le principali cariche amministrative e politiche erano affidate a ecclesiastici, necessariamente celibi), strettamente confessionale (con il ripristino delle antiche discriminazioni civili degli ebrei, tornati nel ghetto, e dei pochi protestanti), senza alcuna libertà di stampa, con il largo appoggio della polizia al controllo pastorale dei parroci. Ma l'interesse dei papi del primo Ottocento verteva su campi assai più vasti. Il loro obiettivo principale era un altro. Dopo la tempesta rivoluzionaria e napoleonica, la paralisi di molte istituzioni ecclesiastiche, la soppressione di numerosi istituti religiosi, la laicizzazione della scuola, la limitata attività parrocchiale, la vasta diffusione dell'ateismo e dell'irreligione, occorreva innanzi tutto ricondurre i fedeli all'antica fede, con i solidi valori da essa richiamati, riportarli a una vita cristiana integrale, regolarizzando situazioni familiari anormali, indurli gradualmente ad un'autentica pratica sacramentale. Su un altro piano, la Santa Sede doveva affrontare ancora il giuseppinismo nella sua forma mitigata rispetto al Settecento, ma sempre ingombrante e pesante, e il gallicanesimo, talora appoggiato a un liberalismo di nuova specie, l'assolutismo più rigido ed esteso, nella Russia di Alessandro e di Nicola I, da Varsavia a Mosca. Il quadro generale è analogo nei vari paesi, pur assumendo connotazioni diverse da luogo a luogo, dalla Francia all'Austria, dalla Spagna alle due Sicilie, dagli Stati germanici al Regno di Sardegna, alla Russia. Si spiega così la diversa attività della Santa Sede, che si esplica in solenni richiami ora dottrinali, ora religioso-politici (encicliche), in concordati o accordi, in appoggio a diverse iniziative pastorali. Sarebbe troppo lungo e forse inutile ricordare singolarmente i vari documenti pontifici del primo Ottocento, e ritengo superfluo distinguere sotto questo aspetto i singoli pontefici. Si può dire nel complesso che il loro insegnamento, più frequente sotto Pio IX, colpisce molti idola fori del tempo, cioè quella mentalità sostenuta in modo incruento ma efficace dall'illuminismo, in modo cruento dopo il 1789, per vie pacifiche ma efficaci dall'anticlericalismo tipico della Restaurazione, molto forte in Francia, Spagna, Regno di Sardegna, paesi tedeschi. Il papato tenta di dare una risposta sintetica ma incisiva alla Rivoluzione francese, di colpire quella mentalità frequente nel mondo borghese, adagiato spesso in una mezza cultura, fondata per lo più sui giornali, e sicuro di sé. Combatte prima di tutto l'indifferentismo, ribadendo che solo il cattolicesimo possiede e annunzia la verità religiosa obiettiva sostanziale, ricorda la differenza reale fra il cattolicesimo e le altre religioni e insiste di conseguenza sull'unità di fede nello Stato e, indirettamente, sul divieto del culto pubblico acattolico. Gli acattolici sono esclusi da qualunque incarico pubblico. Il magistero pontificio attacca poi il razionalismo, ma insieme, dando prova di notevole equilibrio, il tradizionalismo, che costituiva una risposta radicale ma eccessiva al razionalismo, negando alla ragione la capacità di cogliere le verità essenziali dell'ordine religioso e morale; ribadisce le verità essenziali del cristianesimo: peccato originale, redenzione, validità dell'insegnamento scritturistico, divinità di Cristo, attaccata ora dai razionalisti della scuola di Tubinga, istituzione divina della Chiesa, sua natura gerarchica, con la subordinazione del laicato al magistero, necessità della grazia e dei sacramenti, valore sacramentale del matrimonio, la sua indissolubilità. Con gli anni, ovviamente, davanti alla graduale affermazione del matrimonio civile, che costituiva un fatto comune in Francia, Belgio, Paesi Bassi, si ribadisce l'inseparabilità fra sacramento e contratto. È sottolineato il valore del magistero pontificio, di cui gradualmente si accentua l'infallibilità, la sua autorità nell'interpretazione delle Scritture, di cui si rifiuta un'interpretazione sia individuale, sia affidata a società bibliche private. Ovviamente la Santa Sede insegna l'indipendenza della Chiesa rispetto allo Stato, ma ribadisce anche, contro il dilagante separatismo, la mutua concordia fra sacerdozio e impero, che avrebbe dovuto portare all'intervento dello Stato a favore della Chiesa e della sua azione pastorale. L'insegnamento papale non scende ai particolari, alle applicazioni della teoria, che appaiono invece nei concordati. Almeno negli Stati assoluti, si cercava di ottenere non solo il rispetto delle immunità, ma il controllo della gerarchia sulla scuola, e la censura preventiva episcopale nelle materie religiose, sancita in Baviera col concordato del 1817, art. 13, e nel concordato con il Regno delle Due Sicilie del 1818, art. 24. Non è possibile in questa breve sintesi scendere in ulteriori particolari su questo punto, nonostante la sua importanza e il suo significato. Certo, l'intervento statale come sanzione civile alle decisioni ecclesiastiche sulla stampa era stato un fatto ovvio nell'Ancien Régime, almeno in teoria. La Santa Sede, con una certa ingenuità storica e politica, sperava che la prassi potesse continuare anche dopo il 1814. Naturalmente, le società segrete sono condannate senza esitazione e, d'altra parte, si insiste sulla dovuta sottomissione alle autorità civili, fossero Francesco II, Nicola I, Ferdinando I. Su un altro fronte, se il giansenismo tradizionale, dogmatico, era ormai superato, restava però viva, in Italia e altrove, la polemica fra i rigoristi e i moderati, fra i fautori e gli avversari del sistema liguoriano. Gradualmente, con la beatificazione e la canonizzazione di s. Alfonso, e la sua proclamazione a dottore della Chiesa (1803, 1839, 1871), e con gli interventi relativi, il probabilismo rettamente inteso vinse la sua battaglia. È significativo in questo senso, come un passo verso una sempre maggiore accettazione del probabilismo, un brano di Leone XII, nell'enciclica Caritate Christi, 25 dicembre 1825, con cui il papa estende a tutto il mondo il giubileo dell'anno precedente. Il pontefice, già per tre anni vicario di Roma, invita i confessori a evitare due errori, il rigorismo e un'eccessiva facilità nell'amministrazione della penitenza. I rigoristi, persuasi che la dilazione dell'assoluzione costituisse una buona lezione, la rifiutavano a chi non dava sicuri segni di perseveranza. Gli altri l'impartivano anche a quanti non davano nessun segno di emendazione. Leone XII non esclude in assoluto il differimento dell'assoluzione, purché questa decisione sia accompagnata da tale mitezza e prudenza da ispirare fiducia e serenità. Si può considerare l'atteggiamento di Leone XII come una fase intermedia fra il prevalere dei rigoristi e l'avanzata dei probabilisti. A tutti i pontefici è cara la santità del sacerdozio e, davanti alle prime avvisaglie di una soppressione del celibato ecclesiastico, gli ammonimenti sono energici. Solo dopo la metà del secolo, quando qua e là affiorano le tesi sull'elezione popolare dei parroci, queste sono immediatamente condannate. Dopo il crollo del mito di un Pio IX liberale, un anno dopo l'allocuzione del 29 aprile 1848 (la cui importanza va ricordata per il consapevole prevalere in Pio IX degli interessi religiosi su qualunque passione nazionale), i documenti pontifici assumono un altro tono. Si respingono innanzi tutto le accuse che la religione cattolica costituisca un ostacolo alla grandezza, alla gloria, alla prosperità della nazione italiana. Naturalmente col succedersi delle leggi di laicizzazione nel Regno di Sardegna prima, d'Italia poi, si moltiplicano le denunzie e le proteste di Pio IX contro la legge Boncompagni (4 ottobre 1848, sulla dipendenza esclusiva della scuola dalle autorità civili), sulle leggi Siccardi e sull'esilio di monsignor Fransoni, sulla natura delle immunità ecclesiastiche (secondo la visione dei canonisti del tempo, con alla testa il gesuita Tarquini, esse deriverebbero dalla natura stessa della Chiesa, non costituirebbero una semplice concessione statale, revocabile), sulla proprietà ecclesiastica, sulla libertà dei religiosi, sull'indipendenza dei seminari, sul principio dell'intervento, sulla natura della Chiesa e dello Stato, sull'invasione del 1859-60, sulle annessioni. Gli interventi di Pio IX costituiscono un singolare atto di accusa a molti aspetti del Risorgimento. Il discorso si allarga poi fuori d'Italia, in Spagna, per difendere il principio della religione di Stato e, al di là dell'Atlantico, per deplorare non solo la violazione delle immunità nell'America Latina, ma la libertà del culto acattolico, l'esilio di alcuni vescovi messicani. In altre circostanze Pio IX ribadisce alcuni principi tradizionali, ripresi poi troppo sinteticamente dal Sillabo. Basta dire che Pio IX dà un'interpretazione moderata, in linea del resto con l'insegnamento tradizionale, del principio extra ecclesiam nulla salus. Non si mette in dubbio la possibilità di salvezza per chi si trova in una ignoranza invincibile. Nel 1863, il papa ricorda all'arcivescovo di Monaco che i teologi cattolici hanno il dovere di rispettare il magistero non solo solenne e infallibile, ma anche ordinario, in molte questioni, su cui è ormai comune e costante il consenso dei fedeli. Pio IX mirava essenzialmente alle posizioni del tedesco Döllinger, fautore di una teologia largamente autonoma dalla Santa Sede. Nel magistero pontificio dell'Ottocento, restano significativi due documenti, la Mirari vos di Gregorio XVI (15 agosto 1832) e la Quanta cura di Pio IX (8 dicembre 1864). Il primo, rivolto sostanzialmente contro Lamennais e "L'Avenir", condanna con tono amaro e duro l'indifferentismo, ma anche la libertà di coscienza, vista in una sola prospettiva, cioè come conseguenza dell'indifferentismo. "Da questo ripugnante indifferentismo deriva quell'assurda ed erronea opinione o piuttosto follia, che si debba sostenere e garantire a tutti la libertà di coscienza". L'enciclica condanna anche la libertà di stampa, ricordando l'indicazione degli apostoli di dare alle fiamme i libri cattivi, e, infine, la separazione fra Chiesa e Stato. Erano colpite le tesi sostanziali del liberalismo politico e religioso, senza avvertire la possibilità di un'altra concezione della libertà di coscienza. L'enciclica non si fermava a questo, sottolineava una visione di una Chiesa immobile, chiusa in se stessa, mai soggetta a crisi o a evoluzioni o a riforme, sottomessa in tutto al papa, con un laicato cui non restava che ubbidire. "Dato che, per usare le parole del Tridentino, sappiamo che la Chiesa è stata ammaestrata da Cristo e dai suoi apostoli, e che lo Spirito Santo le suggerisce di giorno in giorno ogni verità, è del tutto assurdo ed estremamente ingiurioso nei suoi confronti, suggerire una sua restaurazione ed una sua rigenerazione, come se fosse necessaria per provvedere alla sua incolumità ed al suo sviluppo, come se si potesse supporre che essa fosse soggetta a crisi, periodi di oscuramento ed altri pericoli del genere [...]". Gregorio XVI osserva che in ogni caso solo al romano pontefice, non a un semplice privato, spetta decidere se e come sia necessario introdurre qualche cambiamento nella legislazione ecclesiastica. La Mirari vos riflette la singolare sicurezza che, proprio quando Pio VI stava morendo a Valence, prigioniero dei Francesi, aveva dato a Mauro Cappellari il coraggio di pubblicare a Roma l'opera Il trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori combattuti e respinti colle stesse loro armi. Questa "orgogliosa sicurezza" sostenne migliaia di ecclesiastici durante gli anni 1789-1814, e ispirò opere come la storia della Chiesa dell'ultramontano Rohrbacher, ma la stessa sicurezza, superata ben prima del Vaticano II, impediva di cogliere i segni dei tempi e induceva al linguaggio apocalittico, chiuso, di quel 15 agosto 1832. Lo stesso stile, lo stesso spirito, appare, trent'anni più tardi, nella Quanta cura. Ovviamente è respinta con forza l'interpretazione razionalistica di Gesù Cristo (la vita di Gesù dello Strauss, radicale, era uscita nel 1835, e un'edizione più popolare, dopo molte altre, proprio nel 1864, un anno dopo l'opera di Renan). È riaffermata l'indipendenza della Chiesa, il carattere naturale della famiglia, anteriore allo Stato, l'innato diritto dei genitori sull'educazione dei figli, la dignità e la libertà della vita religiosa. Nello stesso tempo si condanna con le stesse parole della Mirari vos la libertà di coscienza e, mettendo sullo stesso piano due problemi diversi, si respinge non solo l'idea che una società ideale non debba tener conto del fenomeno religioso, ma anche che la società debba riconoscere un identico trattamento giuridico alle diverse religioni. Di più: si respinge un principio tipico del diritto penale ispirato al liberalismo, secondo cui le offese alla religione cattolica debbono essere punite solo in quanto possono recare danno all'ordine pubblico, non in quanto lesive della religione cattolica. Nella legislazione statale, le dizioni di vari codici penali italiani della Restaurazione (Torino 1839, Firenze 1853) relative ai delitti contro la religione di Stato, puniti in quanto tali, dopo il 1860 erano abbandonate, e lo Stato non si preoccupava più della difesa della verità religiosa, ma solo della tutela della libertà dei cittadini e dei loro sentimenti e convinzioni, qualunque fossero. Ma la Santa Sede alla metà dell'Ottocento (e ancora nel 1929!) non accettava uno Stato laico, difendeva l'idea, storicamente più o meno prossima a morire, di una religione di Stato e sosteneva la possibilità e la realtà di uno Stato cattolico. Altri documenti pontifici rivelano un'analoga mentalità conservatrice. Se la Sollicitudo Ecclesiarum, del 5 agosto 1831, superava il legittimismo, riconoscendo la distinzione fra potere di fatto e potere di diritto e la necessità per la Santa Sede di trattare con le autorità di fatto, altre volte il papato appare ancora legato a una visione conservatrice. Nella Cum primum, 5 giugno 1832, Gregorio XVI condanna ogni rivoluzione contro i poteri legittimi, senza approfondire il difficile e spesso quasi insolubile problema della legittimità delle autorità. Egli prende chiaramente posizione contro la rivoluzione polacca del 1831, non perché priva di ogni possibilità di successo e quindi sterile, ma perché rivolta contro il "fortissimus imperator", Nicola I. La preoccupazione principale del pontefice era chiara: non mescolare religione e politica, non provocare in Polonia l'ostilità dello zar contro la Chiesa, salvare nei territori in un modo o nell'altro soggetti alla Russia l'esistenza e la libertà delle istituzioni cattoliche. Pio IX non si allontanerà da questa linea, durante la nuova insurrezione del 1863, ammonendo realisticamente i fedeli polacchi: difendete la libertà della Chiesa, accettate il dominio russo. La Santa Sede alla metà dell'Ottocento non poteva prevedere l'evoluzione storica successiva. Più difficile riuscì alla Santa Sede cogliere il vero significato storico-politico della lotta dei paesi latinoamericani contro la Spagna: ultimo episodio, momentaneo e transitorio, delle rivoluzioni che avevano afflitto l'Europa a cavallo fra Sette e Ottocento, o fenomeno ben diverso, con la fine di un'epoca (l'impero coloniale spagnolo nell'America Latina) e la nascita di una situazione storica definitiva, con un continente ormai libero dall'antico dominio coloniale? Certamente subito dopo il ritorno di Pio VII a Roma, nel 1814, la situazione effettiva del Sudamerica era nota alla Santa Sede in modo confuso e unilaterale, esclusivamente attraverso le notizie che arrivavano dalla nunziatura di Madrid. Fortissime furono poi le pressioni diplomatiche spagnole a Roma, attraverso l'ambasciatore don Antonio Vargas Laguna (il prototipo della lealtà spagnola al trono e all'altare) per la conservazione dell'antico patronato, mentre il leale appoggio della corte madrilena al papa in quegli anni non poteva essere dimenticato. Del resto, i primi tentativi verso l'indipendenza non erano stati sempre risolutivi. Si comprende così l'enciclica legittimista Etsi longissimo, 30 gennaio 1816, con un invito ai vescovi a favorire la riaffermazione dell'autorità legittima, cioè della Spagna. Otto anni dopo, il 24 settembre 1824, uscì la seconda enciclica americana, questa volta firmata da Leone XII, Etsi jam diu, strappata al papa dal Vargas Laguna, dalle pressioni russe e austriache. L'enciclica, ancora una volta in senso legittimista, non ebbe grande fortuna e, in ogni modo, costituì una parentesi, verso una politica sempre più attenta alle situazioni concrete e non alle antiche tradizioni spagnole. Fu soprattutto con Gregorio XVI che la Santa Sede comprese finalmente la portata generale degli avvenimenti latinoamericani di quegli anni. Si susseguì presto il riconoscimento romano dei vari Stati. Non meravigliamoci troppo se solo con una certa difficoltà e lentezza la Santa Sede ha colto la realtà e vi si è adeguata. E non dimentichiamo soprattutto le due difficoltà sostanziali che resero più lenta e difficile l'armonia fra il Vaticano e l'America Latina: la pretesa dei nuovi Stati di ereditare come diritto innato dello Stato l'antico patronato spagnolo; il forte regalismo creolo, che non aveva nulla da invidiare al giuseppinismo austriaco o europeo. Comunque da Benedetto XV in poi si avvertirà maggior rapidità nel cogliere la mentalità dei paesi afroasiatici e nell'adeguarsi ad essa. L'esame dei concordati della Restaurazione ci aiuta, come sempre, ad avvertire con maggior chiarezza la coscienza che, in una data epoca, la Chiesa ha di se stessa, e dei mezzi che ritiene necessari per svolgere efficacemente la sua missione. Emerge chiara un'ecclesiologia che vede la Chiesa essenzialmente come società perfetta, capace di trattare da pari a pari con lo Stato, cosciente dei propri poteri, ferma nella difesa anche delle prerogative mal viste dallo Stato moderno (immunità); nello stesso tempo, si fa evidente la convinzione che la cristianità, anche e soprattutto dopo la parentesi rivoluzionaria, costituisce una realtà, anche se ha bisogno di essere tutelata. Lo Stato in questa prospettiva ha una funzione chiaramente strumentale, deve restare il braccio secolare della Chiesa. Si riafferma quindi il concetto del cattolicesimo religione di Stato, l'unità di fede, che va rigorosamente mantenuta, con l'esclusione di qualunque altro culto. La diversa visione che Stato e Chiesa, o meglio che il papato del primo Ottocento e lo Stato liberale hanno della realtà, appare evidente. Mentre le costituzioni che si succedono via via nei vari paesi europei proclamano la libertà di coscienza, l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza discriminazioni confessionali, la Santa Sede tiene duro fin dove può, di qua e di là dall'Oceano, alla difesa di uno Stato cattolico. Solo in Belgio l'abile esposizione del vicario generale di Malines, poi vescovo di Malines e cardinale, lo Sterckx, induce Gregorio XVI a tollerare con un silenzio, certamente significativo, l'adesione dei fedeli del paese a una costituzione che si fonda proprio sulla libertà di coscienza e non riconosce alla Chiesa nessun privilegio speciale. Il Belgio di Leopoldo I resta a lungo l'ipotesi; la Spagna di Isabella II, l'Ecuador di García Moreno, la tesi. Diversa è la preoccupazione che appare nel concordato austriaco (1855). Non si mira, in un paese con larga parte della popolazione protestante, a riaffermare l'unità di fede, né a combattere il separatismo, ma a superare il giuseppinismo, ancora difeso all'atto pratico dalla burocrazia viennese. Appaiono quindi, qua e là, disposizioni antiliberali (art. 7, secondo cui nelle scuole, anche pubbliche, destinate ai cattolici, restano esclusi i professori di altre religioni), ma soprattutto si rivendica la libertà della gerarchia nell'attività pastorale, nell'erezione di diocesi e di parrocchie, nel governo dei seminari, nella convocazione e celebrazione di sinodi, nelle ordinazioni, nella comunicazione con la Santa Sede e con i fedeli, nell'insegnamento del catechismo. D'altra parte, la formazione giovanile nelle scuole sarà conforme ai principi cattolici (art. 5), e lo Stato si impegna a difendere la Chiesa (art. 16) e a dare la sua sanzione civile alla proibizione ecclesiastica di libri vietati dalla gerarchia (residuo della censura preventiva episcopale). Ma una lettera del cardinale Rauscher al nunzio a Vienna Viale Prelà, annessa al concordato, ricorda la scarsa efficacia della rigorosa censura preventiva esistente sino al 1848, e sottolinea la necessità di essere prudenti in proposito. È riconosciuto il foro ecclesiastico nelle cause matrimoniali e nelle cause per delitti contro la religione, non nelle cause civili relative a chierici. La nomina dei vescovi resta di competenza del governo, ma i nuovi vescovi presteranno il giuramento di fedeltà all'imperatore, obbligandosi anche a denunziare eventuali macchinazioni contro lo Stato di cui vengano a conoscenza (art. 20). Si comprende bene davanti a questo complesso il cauto giudizio dell'Aubert, che ricorda varie impressioni negative dei contemporanei. C'era chi parlava di una Canossa, in cui l'Austria dell'Ottocento veniva a far penitenza, in sacco e cenere, del suo giuseppinismo del Settecento. Altri parlavano di un concordato di tipo medievale, di "un colpo di mazza sulla testa della Francia", grande campione dei principi dell'89. Lo storico belga trova che si trattò di una vittoria della Santa Sede e del papato, più apparente che sostanziale, che sarebbe stato meglio contentarsi di un successo meno spettacolare. In ogni caso, alla prima occasione, nel luglio 1870, il concordato venne denunziato. Rientrano invece in pieno nella prospettiva della Restaurazione altri concordati. Pensiamo a quello col Regno delle Due Sicilie del 1818. Si riaffermavano la religione di Stato, con l'esclusione implicita di altri culti, la conformità dell'insegnamento con la morale cattolica, una larga libertà della gerarchia nel ministero pastorale, la competenza dei tribunali ecclesiastici sulle cause matrimoniali, dei tribunali statali nelle cause civili dei chierici, la sanzione civile alla censura episcopale, la nomina dei vescovi rimessa al sovrano e il giuramento di fedeltà dei neoeletti al re. Forse più significativo è l'accordo parziale col Regno di Napoli del 1834, sulla immunità personale (gli ecclesiastici saranno arrestati solo di notte, o "in legno", e coperti di mantello per nascondere agli occhi del pubblico il loro abito, e ogni vescovo potrà avere una prigione). Nella stessa linea si colloca l'accordo col Regno di Sardegna del 1836, che riconosce ai parroci l'ordinaria competenza sui registri anagrafici, e l'altro del 1841 sull'immunità personale. Erano previsti locali separati per l'arresto di ecclesiastici e "tutti i riguardi opportuni" nella loro carcerazione. Si comprende in questa prospettiva l'ansia con cui i primi governi liberali del Regno di Sardegna si adoprarono per l'abrogazione del foro ecclesiastico. La difesa della cristianità si rivelava in definitiva controproducente. Ben altri problemi assorbivano in quegli anni l'attenzione del papato. Prima di tutto, occorreva migliorare ed elevare il livello del clero secolare e regolare. Dopo la tempesta napoleonica si era ricominciato a ricostruire da zero, riaprendo noviziati, seminari, conventi rimasti chiusi per decenni. La lenta opera di ripresa era stata ostacolata dal persistente giurisdizionalismo, dai dissensi di varia natura che agitavano il clero, specie nei piccoli centri, dall'insufficiente energia di troppi pastori, incapaci di introdurre una rigida selezione dei candidati, resistendo a troppe pressioni interessate e alle motivazioni terrene di molti giovani. Il papato costituì in questo campo uno stimolo praticamente insostituibile, dall'America settentrionale (dove era forte il pericolo dell'arrivo di sacerdoti imprudenti e forse in cerca di fortuna) e meridionale (con un clero non sempre capace di resistere alla solitudine, o alla tentazione della politica), all'Italia meridionale. Efficaci riuscirono le reiterate dirette insistenze dei papi, le sollecitazioni delle Congregazioni romane, le pressioni sui governi locali. Si insisteva perché il clero evitasse diretti coinvolgimenti nella politica ("il politicantismo", pericolo fin troppo ovvio in Irlanda, in Svizzera, in Polonia..., ma qua e là anche in Italia). Pio IX avvertì questo problema con particolare premura: ma anche i suoi predecessori non rimasero insensibili su questo punto. Gregorio XVI intervenne nel 1833 contro quanti nella Germania meridionale avevano sollecitato l'abolizione del celibato ecclesiastico, la soppressione della confessione auricolare, il riconoscimento di un autentico potere legislativo al clero inferiore. Anche i religiosi, specie quelli di vecchi istituti, si riprendevano con difficoltà. La vecchia guardia, tornata in convento dopo le dispersioni, non era disposta a rinunziare alla libertà di cui aveva goduto a lungo; le nuove leve, cresciute in questo ambiente, vi si erano gradualmente adagiate. Non mancarono gli interventi della Santa Sede: il coraggioso piano di riforma presentato nel 1814 a Pio VII dal futuro cardinale Giuseppe Sala; le inchieste sui religiosi promosse da Leone XII nel 1827 e da Pio IX nel 1847. Pio IX impose una migliore selezione dei candidati, l'introduzione dei voti semplici prima di quelli solenni (premessa di più facili dimissioni), il ritorno graduale alla vita comune; sostenne i religiosi nelle loro reiterate dispersioni, dalla penisola iberica allo "stivale" italiano; vide con piacere il fiorire di nuovi istituti femminili di vita attiva, pur pensando che, data l'incerta situazione politica, era meglio ritardare il loro pieno riconoscimento come Congregazioni religiose; sostenne vari nuovi istituti femminili nella loro ricerca di una reale autonomia dai vescovi locali, dannosa a un apostolato non ristretto nei confini di una diocesi. Fin dal 1815, per opera di religiosi e altri sacerdoti, vennero promosse in vari paesi missioni popolari, utile strumento di una rinascita cristiana, e i papi della Restaurazione le videro con favore. Dopo il 1849, specie per impulso di Pio IX si ha un'autentica fioritura di sinodi diocesani e provinciali, dalla Francia ai paesi tedeschi all'Italia ai vari Stati dell'America del Nord e del Sud. I papi sollecitano il movimento, vigilano, eventualmente lo correggono. Gli atti dei sinodi sono esaminati a Roma, che talora impone delle correzioni. Appare evidente la preoccupazione romana di mitigare la tendenza al rigorismo qua e là palese in Francia, assicurando ai penitenti piena libertà nella scelta del confessore, allineandosi gradualmente alla linea moderata di s. Alfonso, che presentava il confessore non come un giudice ma come un medico e padre, disapprovando il troppo facile rinvio dell'assoluzione, insistendo su una frequente comunione. Non mancano però direttive rigide, tipiche dell'Ancien Régime: rigida censura vescovile sulla stampa, controllo della pratica sacramentale (i "biglietti pasquali", così deprecati dal Belli nel sonetto Lo scummunicato, del 1834, ma anche dal Brofferio, dal Ruffini, da Massimo d'Azeglio), obbligo di denunziare eretici, vigilanza sui fidanzati, sforzo per evitare feste religiose troppo spettacolari... Checché sia di queste minute prescrizioni e della loro efficacia concreta, il controllo romano aiutò a superare più facilmente i resti dell'antico rigorismo e giansenismo, ma anche quella simpatia per il giuseppinismo, viva nei paesi asburgici, nel Veneto come in Lombardia, in cui era vivo il ricordo di Maria Teresa, ma anche del Riegger e del Kaunitz, e in Toscana ove Pietro Leopoldo restava quasi un mito intoccabile, sino all'Austria dove troppi sacerdoti e anche qualche vescovo si mostravano deboli davanti allo Stato, ai paesi tedeschi, col vecchio Wessenberg, lo Hirscher e il Walter. Non facile nel Regno delle Due Sicilie fu la lotta contro sacerdoti e vescovi avvezzi a guardare più a Napoli che a Roma, contro i difensori della Monarchia sicula, contro ministri e funzionari formatisi nella tradizione giannoniana e tanucciana, contro lo stesso sovrano che finì per imporre la divisione dei Redentoristi in due rami, napoletani e transalpini, per controllare meglio quelli napoletani. Ma anche in Portogallo, specie a Coimbra, il giurisdizionalismo, difeso nel Settecento dal Pereira, aveva salde radici anche nei professori: e si capisce che queste tendenze arrivassero sino a Goa. Ugualmente ardua in vari paesi latinoamericani fu la resistenza al giuseppinismo creolo, con la sua invadenza e ostilità. Nel clero cileno (e in quello di altri paesi latinoamericani) ancora alla metà dell'Ottocento esisteva un certo disorientamento, frutto della formazione regalista dei seminari. Guai a chi parlava male del patronato, cioè del controllo statale sulla Chiesa! L'azione del papato si rivelò un aiuto efficace per l'indipendenza delle Chiese locali. La proclamazione del dogma dell'Immacolata nel 1854 ebbe un vasto influsso nei vari paesi e, sotto un certo punto di vista, costituì una delle migliori risposte che il papato del primo Ottocento seppe dare alla Rivoluzione francese col suo tentativo di scristianizzazione, al razionalismo della scuola di Tubinga, che aveva pervaso larga parte della letteratura della Restaurazione, al liberalismo radicale, che aspirava a una società ignara del fenomeno religioso e fondata su basi puramente umane. Si riconosceva il privilegio unico di Maria, ponendo fine a secolari discussioni pro e contro la scuola domenicana, ma insieme si sottolineava la realtà del peccato originale, con la debolezza innata dell'uomo, la necessità della redenzione e della grazia, l'insostituibile missione della Chiesa, canale ordinario di quest'ultima. Il nuovo dogma, carissimo a Pio IX, nutriva, sì, la pietà di molti devoti, ma condannava errori largamente diffusi sulla bontà intrinseca della natura umana, e indicava una via di soluzione anche a molti problemi sociali. Lo affermava il gesuita Calvetti in un articolo del 1852 su "La Civiltà Cattolica", Congruenze sociali di una definizione dogmatica. Non si trattava di negare ogni capacità alla ragione umana, come inclina a ritenere qualche studioso dei nostri giorni, ma di riconoscerne i limiti. Nel complesso, il papato del primo Ottocento appare non di rado condizionato da vari fattori storici contingenti, che gli impediscono di cogliere la portata di alcuni fenomeni irreversibili, come la fine del dominio spagnolo in America, e lo inducono a difendere più volte situazioni tipiche di una "cristianità" ormai al tramonto e prossima a morire. L'ecclesiologia di alcuni documenti, come la Mirari vos, appare oggi del tutto contingente. Ciò nonostante, il papato di quegli anni ha svolto un ruolo storico efficace, in una lotta contro ideologie allora diffuse quali l'indifferentismo e il regalismo. Vari punti dovranno essere approfonditi, alcune prospettive generali cambiate, ma resteranno storicamente valide la resistenza a quei due errori, come pure la preoccupazione per la libertà e la dignità della vita religiosa, per il miglioramento della figura del sacerdote.
Dalla condanna degli errori all'indicazione di nuove prospettive. Da Leone XIII a Pio X Un noto studioso dei nostri giorni, Roger Aubert, ha chiuso il suo volume sul pontificato di Pio IX ricordando che l'opera dottrinale di questo papa ha un aspetto negativo, come condanna senza soste del liberalismo in tutte le sue forme (razionalismo, indifferentismo, laicismo, gallicanesimo). Lo storico belga ha però aggiunto che dietro quest'opera di negazione c'è un'affermazione positiva che ne forma sempre la base, il vero rapporto della creatura a Dio e la realtà dell'ordine soprannaturale. Spettava al successore di Pio IX unire alla condanna una visione più ampia e positiva, che aprisse a nuove speranze. Da Pio VII a Pio IX la Santa Sede non aveva mostrato particolare interesse per gli studi e i problemi intellettuali. Si è parlato addirittura di atonia intellettuale: lo prova la scarsa vitalità dell'Accademia dei Lincei, ristabilita, sì, proprio da Pio IX nel 1847, senza grande successo, così come il rifiuto vaticano del 1858 al progetto di pubblicare gli atti del Tridentino. Ci si limitava a condannare eventuali errori (le tesi di Hermes, di Lamennais, il tradizionalismo di Bautain...), ci si preoccupava di evitare scontri frontali tra diverse scuole, fra i rosminiani e i Gesuiti: un incoraggiamento e un appoggio al movimento scientifico era assente. Lo stesso de Rossi, l'autentico fondatore dell'archeologia cristiana dei nostri giorni, di fama internazionale, ammirato dal Mommsen, a Roma lavorò piuttosto da solo, e un insigne filologo, il romano Domenico Comparetti, sentendosi un po' soffocato dalla cultura accademica romana, contraria alle novità, nel 1859 era fuggito da Roma ottenendo una cattedra di greco a Pisa. Eppure proprio in quegli anni in filosofia, in storia, nelle scienze i progressi erano intensi, e si era sviluppato l'entusiasmo per la scienza, "lo scientismo". In Germania col Pertz si era avviata dagli anni Venti la pubblicazione dei Monumenta Germaniae Historica, che avrebbe orientato gli studi storici su una base documentaria sempre più esigente, mentre dall'inizio del secolo il Lachmann aveva aperto nuove vie alla filologia. In questo progressivo divenire, la cultura occidentale si era allontanata dal cristianesimo, e in particolare dal cattolicesimo, e questo a sua volta considerava la prima come un nemico irriducibile. Uno studioso che tutti ricordano con ammirazione, Marrou, in un notevole congresso del 1960 a Bologna sulla cultura cattolica dei tempi di Leone XIII, ha descritto da par suo questa situazione singolare. Da una parte, quello che si chiamava "il progresso dei lumi", dall'altra la religione, che appariva alla maggioranza degli ambienti colti un fenomeno di retroguardia, sul punto di scomparire. Marrou scrive: "Pendant tout ce XIXe siècle nos frères catholiques ont livrés des batailles d'arrière-garde, défendant des positions qu'ils étaient obligés d'abandonner l'une après l'autre, et l'on comprend que leurs adversaires aient pu penser que l'avenir leur réservait la victoire". Marrou ricorda la fama e l'influsso, nella Francia del tardo Ottocento, di Renan, e del grande suo amico, Eugène Berthelot, chimico notevole, positivista. Attento ai fatti propriamente culturali, egli non si ferma sugli uomini politici della Terza Repubblica, Gambetta, Ferry, sulla loro lotta contro le scuole e gli istituti religiosi. Un altro francese, Romain Rolland, rievoca l'atmosfera della capitale francese verso il 1880, dove arrivò dalla provincia non ancora quindicenne per gli studi secondari: "Je ne puis dire à quel point les esprits de tous ceux qui m'entouraient, maîtres et camarades, toute l'atmosphère morale de Paris vers 1880 étaient Déicides [...]". In Germania, il Kulturkampf aveva inciso profondamente, e la Görresgesellschaft faticava a rivendicare davanti al mondo prussiano protestante la serietà scientifica dei cattolici. In Italia, Quintino Sella (buon economista e discreto studioso di scienze, positivista, giurisdizionalista di ferro, insensibile davanti alle bellezze medievali o rinascimentali dell'Urbe), nei suoi discorsi a Roma dal 1876 al 1881 invocava i "lumi" destinati a fare della capitale dell'oscurantismo la capitale della scienza. "A misura che si avanza la scienza dell'osservazione, il Dio della religione deve ritirarsi", affermava il ministro in senso positivista. E, dopo le declamazioni del Carducci, con l'inno A Satana (1863) e Alle fonti del Clitunno (1876), l'anticlericalismo si manifestava con vivacità ai due capi d'Italia nel 1882 (celebrazione a Palermo del sesto centenario dei Vespri siciliani, erezione solenne a Brescia di un monumento a Arnaldo da Brescia, impiccato dal Barbarossa a Roma nel 1154 per assecondare le richieste di Adriano IV). E intanto a Roma nascevano nuove società storiche, dove col Monaci, il Correnti, il Corvisieri, il Brioschi, il Padelletti si affermava una generazione di studiosi agguerriti ma lontani dalla Chiesa. Proprio a Roma, dopo la breccia e il 1878, diveniva più diretta la sfida fra la cultura laica e quella confessionale ("la lotta per la verità contro l'ignoranza, contro il pregiudizio e contro l'errore", Sella, 19 dicembre 1880). La cultura laica avrebbe dimostrato a tutti la sua capacità con un grande archivio e una grande biblioteca. Leone XIII consapevolmente accettò la sfida, muovendosi in varie direzioni: una ferma politica scolastica, che imponeva alle scuole ecclesiastiche lo studio del tomismo (1879); l'apertura dell'Archivio Segreto Vaticano (1881); l'incoraggiamento agli studi storici (1883) e il potenziamento della Biblioteca Apostolica Vaticana; il richiamo ai grandi principi sulla natura della società, con varie importanti encicliche; le grandi linee per una soluzione della questione sociale. Nelle scuole ecclesiastiche, ancora a metà Ottocento, nell'insegnamento della filosofia si tollerava una notevole diversità di indirizzi. Stavano scomparendo i resti del sensismo (vivo ancora coll'italiano Soave, dei Somaschi, morto all'inizio del secolo) e scarse erano ormai le tracce del cartesianesimo; il tradizionalismo con la sua sfiducia nella ragione era stato più volte bloccato dalla Santa Sede. Le scuole cattoliche seguivano indifferentemente l'ontologismo (più o meno rosminiano), l'atomismo o il dinamismo, difesi da qualche professore del Collegio Romano. Il tomismo, già sostenuto verso il 1830 al Collegio Romano dal Taparelli, era insegnato a Napoli dal Sanseverino, a Roma dal Liberatore su "La Civiltà Cattolica", in alcuni centri dell'Italia settentrionale dal Cornoldi e da due gesuiti, i fratelli Sordi. I neotomisti erano un piccolo gruppo, inferiore ai difensori di altre scuole. L'Aeterni Patris (agosto 1879) costituì una svolta e un indirizzo decisivo che dura anche ai nostri giorni. Il papa, seguendo probabilmente un primo progetto del padre Liberatore, ricordava il triplice compito della filosofia: stabilire i praeambula fidei; dare un carattere scientifico alla teologia, ordinando in modo sistematico le verità da credere, e cercando di darne una conoscenza più chiara; confutare le obiezioni rivolte dal razionalismo. Nello sviluppo del pensiero cristiano, emerge Tommaso, con la sua sintesi chiara e coerente, sull'insieme dei problemi filosofici, con la sua incrollabile logica, con l'armonia tra ragione e fede. Proprio l'abbandono del tomismo ha portato a sistemi divergenti e contraddittori, con effetti negativi sulla famiglia e sulla società civile. Per questo, concludeva l'enciclica, la dottrina tomista doveva essere rimessa in vigore in tutte le scuole. Il documento pontificio segnò un momento importante nella storia culturale della Santa Sede, con un cambiamento radicale di indirizzi e di programmi, con un irrobustimento di quelle facoltà fino allora non di rado un po' deboli. L'Aeterni Patris aveva i suoi limiti: ignorava il pluralismo caratteristico della scolastica medievale, con Tommaso, Bonaventura, Scoto, che la storiografia posteriore avrebbe messo in risalto, e la considerava un tutto compatto, sotto la guida di Tommaso. Non era chiaro se il papa pensasse o no a un rinnovamento totale del pensiero filosofico nella Chiesa, fondato sul tomismo. L'enciclica non chiariva a sufficienza la distinzione necessaria fra la metafisica tomista e le affermazioni scientifiche, troppo legate al loro tempo. Ci si poteva infine chiedere se Leone XIII intuisse i pericoli insiti nella svolta da lui promossa. Prima di tutto, si poteva temere che essa desse alla filosofia un orientamento autoritario, imponendo di accettare non ciò che la ragione dimostra vero, ma quello che il papa preferisce e quanto Tommaso precisa (la ricerca filosofica sarebbe ormai predeterminata dagli indirizzi della gerarchia, si ridurrebbe a una filosofia imposta per decreto). In secondo luogo, ci si poteva domandare se la restaurazione tomista, applicata al piano sociale, si sarebbe mantenuta libera da ipoteche conservatrici e, infine, se il papa spingesse a un tomismo aperto, pronto a cogliere iniziative e proposte utili, o a un tomismo chiuso, capace solo di ripetere le tesi già avanzate da Tommaso nel Duecento. Si trattava di imitare s. Tommaso, che aveva interpretato genialmente il pensiero aristotelico e la sua trasmissione tramite il mondo arabo, o solo di accettarne le tesi? In ogni modo, l'iniziativa del papa di Carpineto costituì una scossa nell'atteggiamento mentale di molti sacerdoti, significò nel mondo ecclesiastico il superamento della noncuranza culturale dei decenni anteriori, un incoraggiamento agli studi, la riconquista delle grandi dimensioni del tomismo, come l'unità sostanziale dell'uomo, in piena armonia con la psicologia moderna e in contrasto con il dualismo cartesiano un tempo accarezzato, la giusta fiducia nella ragione, fra razionalismo e tradizionalismo, la riscoperta della legge naturale, minimizzata dal positivismo e male interpretata dal giusnaturalismo, il superamento del legittimismo, la riconquista, almeno parziale, di una reale stima degli studiosi cattolici nel mondo del pensiero. Naturalmente la risposta fu diversa, secondo i luoghi. Si manifestarono gradualmente varie correnti. Si ebbe prima di tutto una larga epurazione di molti professori, al Collegio Romano e altrove, non sempre con effetti positivi. Si svilupparono poi diverse scuole. Incontriamo un tomismo stretto, insensibile a ogni valutazione storica, di cui il gesuita Billot, poi cardinale (1846-1931), fu uno dei massimi esponenti, con tutti gli inevitabili rischi, ma che appare anche in un altro gesuita, Guido Mattiussi (1852-1925), ostile a ogni interpretazione suaresiana e intollerante nei riguardi del pensiero moderno (egli dette a un suo libro il titolo significativo Il veleno kantiano). Proprio un successore di Leone XIII, il giovane Angelo Roncalli, allora segretario del Radini Tedeschi a Bergamo, si mostrò molto riservato nei confronti del Mattiussi, essenzialmente per la sua eccessiva sicurezza. A Lovanio invece il tomismo del Mercier si mantenne decisamente aperto. In stretti costanti contatti con Leone, il prelato belga si mostrò sensibile all'aspetto storico, sollecito di un confronto fra il tomismo e le varie correnti del pensiero moderno, preoccupato dei problemi concreti sollevati dalla scienza, che non si potevano ignorare. Non dimentichiamo poi il tomismo decisamente aperto e progressista della scuola di Parigi, che la Santa Sede e Leone guardarono a lungo con una certa diffidenza. La restaurazione tomista per altro provocò proprio al Collegio Romano lunghe discussioni fra tomisti puri come Remer e suaresiani come l'Urraburu, e provocò, tredici anni dopo l'Aeterni Patris, il 30 dicembre 1892, la lettera di Leone XIII Gravissime nos, sulla piena conformità alla dottrina tomista nelle scuole della Compagnia di Gesù. Il papa insisteva sulla fedeltà a s. Tommaso, senza scendere in ulteriori particolari. Proprio questo non impedì nuove discussioni fra tomisti e suaresiani, né il tentativo del Mattiussi negli ultimi tempi di Pio X di proporre ventiquattro tesi, succo del tomismo, come obbligatorie. Benedetto XV interpretò il piano in modo elastico, come norme direttive che lasciavano piena libertà su vari punti. Infine, non mancò in molti seminari un tomismo di seconda classe, con forte spirito polemico e una grande superficialità. Su un altro piano per esplicito volere di Leone si sviluppavano iniziative preziose. Da una parte si avviava un'edizione critica di s. Tommaso, per opera specialmente del domenicano olandese Suermondt; dall'altra parte Ehrle e Denifle cominciavano a esplorare l'autentico pensiero filosofico medievale sottolineando la presenza di correnti neoplatoniche e i frequenti contatti col mondo arabo. Certo uomini come il gesuita tedesco Cathrein (1845-1931), notevole moralista, presentano aspetti complessi, in cui il vecchio e il nuovo si giustappongono. Da un lato egli lottò validamente contro il positivismo morale e la separazione della morale da un fondamento religioso, difese i sindacati interconfessionali, si oppose al paternalismo: in molti altri punti invece continuò a combattere delle battaglie di retroguardia, contro il suffragio universale e l'emancipazione femminile. Ma, nell'insieme, la ripresa tomistica del 1879 ebbe effetti positivi anche a lunga scadenza. Facilitò l'opera di pensatori successivi, come Sertillanges, Maréchal e lo stesso Maritain. Accanto alla restaurazione filosofica, ugualmente e forse più importante si può giudicare il rinnovamento storico, la migliore risposta che la Roma vaticana, secondo gli anticlericali oscurantista e retrograda, poteva dare alla sfida del Sella. Il fenomeno in questi ultimi decenni è stato studiato ampiamente, da Lájos Pásztor, con larga documentazione archivistica, e da Owen Chadwick, con le caratteristiche della migliore storiografia anglosassone: sintesi rapida, informazione precisa, problematica acuta, presentazione garbata e vivace dei protagonisti. L'Archivio Segreto Vaticano, miniera quasi inesauribile di fonti importanti, dopo il difficile ritorno da Parigi e la perdita di un terzo, forse, del materiale, restava difficilmente accessibile. Occorrevano speciali autorizzazioni, i documenti erano consultabili solo dietro pesanti controlli, che avevano provocato degli amari sfoghi di competenti come il Pertz e il Böhmer, a capo della grande impresa dei Monumenta Germaniae Historica. Nel novembre 1839 il Böhmer scriveva a Clemens Brentano, il grande letterato tedesco del primo Ottocento, cognato di Savigny, studioso della letteratura italiana e attento osservatore di Catherina Emmerick: "Lasceremo inutilizzati tutti questi tesori? Vivremo alla giornata? Non ci ricordiamo più che Benedetto XIV riteneva necessario ciò che i Maurini hanno operato?". E nei primi anni di Pio IX lo stesso studioso incalzava: "Volesse Dio che il prossimo papa, che è stato annunziato profeticamente come Lumen de coelis, consideri una solida scienza storica amante della verità, come una luce celeste che splenda in mezzo alle nostre tenebre, e ci mostri come evitare le deviazioni che nascono dalla mancanza di principi tipica della nostra epoca". La Curia romana era rimasta invece piuttosto sorda a queste aspirazioni. Dopo la prefettura di Agostino Theiner, erudito di razza ma di carattere difficile, il nuovo archivista Rosi Bernardini si era mostrato decisamente ostile a una liberalizzazione dell'ingresso degli studiosi. Si concedevano volta per volta, in casi speciali, autorizzazioni, ma si trattava di eccezioni. Alla morte di Pio IX si moltiplicarono le pressioni per una nuova politica archivistica: da Innsbruck scrisse il grande storico Grisar; contemporaneamente, da altre parti, un anonimo, e infine da Roma stessa il giovane Pastor... E intanto l'"Augsburger Allgemeine Zeitung" nel maggio 1880 scriveva: "Mentre in tutto il mondo si aprono le porte più larghe, in Vaticano si tengono sempre chiuse [...]. Nessuno sguardo curioso può penetrare in questa misteriosa oscurità, nessuna mano diligente può copiare quegli atti [...]". La morte del Rosi Bernardini nel 1879, l'immediata nomina del nuovo prefetto dell'Archivio, lo storico Hergenröther, notevole studioso di Fozio, l'intuito sicuro di Leone cambiarono la situazione. Senza far chiasso, senza dar pubblicità all'iniziativa, nel 1880 (o nel 1881?) l'Archivio venne aperto a tutti gli studiosi seri e competenti. Tre anni dopo, nel 1883, la Saepe numero considerantes dava l'annunzio ufficiale della decisione già in atto, ribadiva la necessità degli studi storici e il totale rispetto della verità che ne deve essere alla base. La lettera oscillava, sì, fra un'intenzione apologetica e quella più obiettiva, ma in ogni modo accettava la norma ciceroniana, ne quid falsi dicere audeat, ne quid veri non audeat. Ci si doveva servire della storia per difendere la Chiesa, o la migliore difesa della Chiesa consisteva nella semplice esposizione della verità? Tra qualche esitazione, Leone inclinava alla seconda risposta. Dopo le prime ingenue attese che speravano nell'arrivo di un esercito di storici ben preparati, tali da fornire in pochi anni una storia d'Italia centrata sul papato, con le Crociate, le Repubbliche marinare, Legnano, Lepanto, i papi del Rinascimento, la realtà si impose da sé. Non si poteva e non si doveva attendere in poco tempo una storia generale, si doveva cominciare con la pubblicazione di testi e documenti. La decisione del papa provocò l'apertura a Roma, in rapida successione, di una serie di istituti storici. All'École Française, già nata nel 1875, si affiancarono gli istituti austriaco (1881), ungherese (1882), prussiano (1888), americano (1894), olandese (1903), belga (1904). Bisognerebbe fermarsi sulle personalità di questi giganti della Roma di fine Ottocento, Sickel, Kehr, Pastor, Duchesne, Merkle, Eshes. Caracciolo nel suo studio sulla Roma nell'età liberale, ha parlato della "febbre edilizia", che si accese nella città in quegli anni, da via Veneto al Tritone a Prati. Un direttore dell'Istituto Storico Germanico di Roma, il prof. Elze, in un congresso della Società Romana di Storia Patria (1976) ha parlato invece volutamente di "febbre dell'oro", l'oro non delle miniere della California o dell'Alaska, che proprio nello stesso tempo avevano un inatteso sviluppo descritto con vivacità da Jack London, ma dei documenti storici. "L'oro, cioè la massa immensa di fonti inedite o sconosciute [...]". Sempre l'Elze scrive: "Roma era divenuta il punto di incontro e di nuove aperture alla cultura europea. Gli incontri avvenivano non soltanto all'Archivio Segreto Vaticano, ma anche in uno o nell'altro degli istituti stranieri o italiani. La situazione anche oggi a Roma è unica al mondo: in nessuna città, anzi in nessuno Stato vivono ed operano fianco a fianco tanti istituti scientifici stranieri". La sfida del Sella (e del Bonghi, che l'aveva rilanciata in vari scritti) aveva avuto la sua risposta, mentre le iniziative sognate dal primo (un grande archivio e una grande biblioteca) rivelavano limiti e carenze. L'Archivio di Stato di Roma restava inferiore a quello vaticano. Il lavoro dei nuovi venuti e degli italiani o romani che si erano loro affiancati, fu imponente, anche e forse proprio perché si trattò non di sintesi, ma di regesti, per decine e centinaia di volumi. Regesti delle lettere dei papi del Duecento, dei papi di Avignone, di Leone X, pubblicazione del carteggio delle nunziature del Cinque e Seicento, continuata poi per i secoli successivi, dei diari e atti relativi al Tridentino. La ricerca si è poi estesa all'Ottocento, con il carteggio fra Pio IX e Vittorio Emanuele II, dei nunzi a Vienna, a Parigi, a Madrid, con la pubblicazione delle relazioni lasciate dai vescovi nelle loro visite ad limina. Accanto all'Archivio, la Biblioteca Vaticana era potenziata da grandi bibliotecari, fra cui emergono l'Ehrle e il suo successore, il Ratti. Pochi forse hanno intravisto come l'Ehrle la vivacità della lotta nel campo scientifico fra le due Rome e la forza che costituiva nella Chiesa la Biblioteca Vaticana. Egli scriveva: "La Biblioteca Apostolica [...] è 'il maggior tesoro ch'abbia la Sede Apostolica, perché in essa si conserva la fede dall'Heresie', come scriveva il papa Marcello II". Regesti e pubblicazioni. Non mancò però il tentativo di una sintesi, che si riassume in un nome: Ludwig von Pastor. I primi tre volumi della sua Storia dei papi uscirono fra il 1886 e il 1895. Particolarmente delicato era il terzo, su Alessandro VI. Il volume conservò la sua obiettività. Il lavoro del Pastor, insieme alla Storia del Concilio di Trento dello Jedin, costituisce forse uno dei frutti più importanti dell'apertura dell'Archivio Segreto Vaticano. Oggi sono generalmente sottolineati gli inevitabili limiti dell'opera, come la prevalenza dell'analisi sulla sintesi, la proiezione nel passato di una visione della Chiesa e del papato che si è accentuata soprattutto ai nostri giorni, la scarsa comprensione di un'evoluzione storica su vari temi, l'accento apologetico e sicuro con cui per esempio si chiude l'ultimo volume (su Pio VI). Non dimentichiamo però che allora quei volumi rappresentarono un salto dialettico rispetto alla storiografia precedente, largamente apologetica ed agiografica. Muratori scriveva nel 1740 a un amico: "Meglio è che le dichiamo noi le verità, più tosto che sentircele dette con ischerno da' nemici [...]. Lodato sia Dio, che ci ha dato un papa di questo tenore [Benedetto XIV]". Oggi, all'affermazione del Muratori, che si può applicare a Leone XIII, possiamo aggiungere quella del Marrou: "J'estime avoir le droit de dire que [...] le règne de Léon XIII a vu se produire un événement de grande importance; d'un mot, la rentrée en force des catholiques dans le domain scientifique, et spécialement dans le secteur des études historiques, où ils s'étaient depuis longtemps laissé distancer". Papa Leone non si limitò al piano filosofico e storico. Volle dettare direttive essenziali alla società e ai cattolici del suo tempo. Il suo pensiero in proposito negli ultimi decenni è stato oggetto di nuove riflessioni, da parte di Scoppola, Traniello e altri, e basterà riassumere qui le conclusioni generalmente ammesse. Con il papa venuto da Perugia si passa da una condanna, una riprovazione, un rifiuto della nuova società liberale, o se vogliamo della democrazia, all'idea ormai propria non di individui isolati, ma di un pontificato, che la Chiesa stessa possa farsi guida delle classi popolari nel loro movimento di ascesa politica, sociale, economica. Nel suo pensiero il pontefice si ispira, spesso anche da vicino, ai principi e all'insegnamento di Tommaso, e proprio questo lo induce a un certo ottimismo, nella visione di un'armonia fra natura e grazia e nella convinzione di poter conoscere attraverso la ragione un ordine oggettivo - in ultima analisi creato da Dio, espressione della sua sapienza e della sua volontà -, di cui per altro la Chiesa è interprete e custode. Ma proprio questa mentalità porta a un malcelato conservatorismo, che sottolinea la gerarchia fra le classi e il posto di guida che spetta sempre alla Chiesa. Leone respinge la tesi rousseauiana della nascita convenzionale della società per un patto specifico; ribadisce che la società costituisce un'esigenza della natura umana, che l'autorità deriva da Dio come dal suo principio, pur ammettendo che la designazione all'esercizio di esso possa venire dal popolo; accetta la partecipazione dei cittadini alla vita politica, anche se l'Italia resta un'eccezione più o meno esplicitamente ricordata; riconosce cioè i principi della democrazia e dell'autogoverno, si distacca nettamente dal legittimismo, accettando i nuovi regimi repubblicani e invitando i cattolici, specie in Francia, ad aderire a essi senza restrizioni o riserve mentali. D'altra parte il papa ha ancora una visione paternalistica dello Stato, che si presenta non come difensore dei diritti dei cittadini, ma come loro tutore e guida verso il bene. E gradualmente, si arriva ad una visione restrittiva della democrazia, considerata nella Graves de communi (1901) per i cattolici unicamente "benefica azione cristiana a favore del popolo". Per questo Leone pur dando nella Libertas (1888) una visione positiva della libertà di coscienza, riconoscendo il diritto dell'uomo di seguire la volontà di Dio come in quel momento particolare gli si manifesta, non ammette un diritto alla libertà di culto e di propaganda delle confessioni non cattoliche, ritiene che lo Stato in quanto tale abbia i mezzi per distinguere le vere e le false religioni e debba dare a esse un trattamento giuridico diverso, con speciali privilegi alla religione riconosciuta vera, cioè al cattolicesimo (Immortale Dei, 1885). Leone resta in linea con l'interpretazione del Sillabo data da Dupanloup, basata sulla distinzione fra tesi e ipotesi, ma in fondo considera la tesi come una situazione ancora reale, almeno in parte. Egli ritiene che lo Stato abbia il dovere di limitare la libertà di stampa e di insegnamento e nella Longinqua oceani (1895), oltre a ricordare che il sistema americano della separazione fra Chiesa e Stato non è il migliore, ribadisce che la Chiesa cattolica aspira ad avere non solo la libertà ma "il favore delle leggi" e "la protezione dello Stato". Leone XIII compiva un passo in avanti, un tentativo, che giovò alla Chiesa, ma necessariamente restava insufficiente sul piano storico e politico. Sulla Rerum Novarum basta ora riassumere le conclusioni di una lunga discussione. È nota ormai, grazie a Giovanni Antonazzi, la genesi della sua redazione, passata attraverso tre fasi: il testo del Liberatore, quello dello Zigliara, l'ultimo dello Zigliara-Liberatore-Mazzella. Sono ormai superati i tradizionali giudizi apologetici sull'enciclica, mentre restano ora chiare le differenze tra le varie redazioni preparatorie, più aperte nel testo del Liberatore, più moderate nella redazione finale. Sono per lo più considerate insufficienti le tesi della vecchia storiografia marxista, esposte da Marx nel Manifesto del 1848, riprese più volte ne "La Critica Sociale" da Treves, Turati, Bissolati, riesaminate da Gramsci nei Quaderni del carcere, fatte proprie da P. Togliatti nella prefazione a una delle tante edizioni de Il Manifesto (Roma 1964), approfondite, in modo non sempre universalmente accettato, da studiosi come M.G. Rossi (Le origini del partito cattolico, Roma 1977). In questa visione, il documento poté apparire progressista, mentre sarebbe stato in realtà fondamentalmente conservatore. Non avrebbe avuto torto Marx, che nel 1848 parlando del (cosiddetto) socialismo cristiano, lo chiamava "l'acqua santa con la quale il prete benedice il dispetto degli aristocratici". Esso di fatto costituirebbe un'ulteriore prova della consueta linea egemonica della Santa Sede, che offre qualcosa ai suoi avversari per dominarli meglio e conservare la sua supremazia. La gerarchia, osservava Togliatti, tentava l'ultima difesa dell'ordinamento politico, sociale, economico a cui era legata, non quando il capitalismo tra ingiustizie e stragi stava conquistando il mondo, ma quando il proletariato, finalmente organizzato, stava diventando una minaccia per l'ordine borghese. Il giudizio contiene una parte di verità. Non si può dimenticare, come osservava il gesuita tedesco Nell-Breuning, noto moralista, il tono da gran signore, da patriarca, quasi con una voce che sembra scendere dall'eternità, piena di benevolenza e carità paterna, con cui papa Leone parla dei cari, buoni figli del ceto operaio. Non dimentichiamo però che la Santa Sede e i cattolici in genere si mostrarono molto più sensibili e aperti della classe dirigente liberale, da Crispi a Giolitti; che il ritardo si spiega anche, almeno in parte, tenendo conto dell'accentuato carattere anticristiano del movimento operaio, almeno ai suoi inizi. Si ripetevano in sostanza, in modo analogo, le difficoltà incontrate dai cattolici, decenni prima, davanti all'affermazione della libertà di coscienza. Probabilmente resta più valido ed equilibrato il giudizio di Jemolo (in Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni): "Solo l'apologetica può scorgere qui l'indicazione di vie nuove, od una risoluzione, fosse pure teorica, dei problemi assillanti che la fine dell'Ottocento poneva nella loro cruda luce [...]. Il reale merito della politica pontificia consiste nel non aver lasciato senza un complemento le nette posizioni antisocialiste del Sillabo, nell'aver dato una consacrazione ed un'unità teorica [...] alle molteplici iniziative [...] assunte per venire incontro ai bisogni e alle aspirazioni delle classi povere [...], di aver riaffermato il compito della Chiesa di tutrice della giustizia e di protettrice del povero [...]". Alcuni punti dell'insegnamento leonino, oggi fin troppo evidenti, quasi superati, rappresentavano autentiche conquiste, rovesciavano convinzioni diffuse fra i liberali e i cattolici conservatori, costituivano dei punti di partenza per tutto uno sviluppo successivo, anche se esso avrebbe provocato nuove inevitabili discussioni e problemi. Pensiamo al riconoscimento della necessità dell'intervento statale, della visione umana, morale, non solo economica del salario, alla legittimazione del sindacato, che ancora nel 1898 lo stesso Toniolo nel Programma di Milano accettava, sì, ma con qualche perplessità. L'enciclica del 1891, a differenza di quanto si è visto per altri interventi di Gregorio XVI e di Pio IX, resta un innegabile aspetto positivo del pontificato di Leone XIII. Minor successo ebbe il "ralliement" della Chiesa francese alla Repubblica, tenacemente favorito da Leone e ostacolato non solo dall'accentuarsi dell'anticlericalismo con Gambetta, Ferry, Waldeck-Rousseau, fino a Combes, ma anche dal conservatorismo e dall'antirepubblicanesimo di larghi settori dei cattolici francesi. Il papa sperava che un'adesione sincera dei cattolici al regime vigente avrebbe rallentato l'anticlericalismo in corso e avrebbe permesso di difendere con maggior efficacia la religione. L'enciclica Nobilissima Gallorum gens, del l884, è significativa: il papa evita ogni polemica, dimentica i recenti interventi contro i religiosi, sulla laicità della scuola, sul divorzio degli anni 1880-1884; sottolinea invece le gloriose tradizioni della Francia, figlia primogenita della Chiesa, e si limita a rimarcare il valore sociale della religione e i benefici del sistema concordatario, concludendo con un appello all'unità di tutte le forze cattoliche. Seguirono il famoso toast di Algeri, pronunziato da Lavigerie nel 1890 agli ufficiali della squadra francese del Mediterraneo, tendenzialmente monarchici, in cui si raccomandava l'adesione senza riserve dei cattolici alla Repubblica, l'enciclica Au milieu des sollicitudes, 1894, nello stesso senso, altre lettere del papa in diverse occasioni. Purtroppo le elezioni degli anni successivi ebbero un risultato contrario ai piani pontifici. I fronti si radicalizzavano. Ci si avviava ormai verso la separazione. Ci si può domandare quali fattori siano stati decisivi in questo processo, fino a che punto abbiano pesato l'accentuarsi dell'anticlericalismo socialista e, all'opposto, il graduale prevalere fra il clero e i fedeli di un forte nazionalismo e militarismo, di un crescente antisemitismo, il largo appoggio alla campagna antidreyfusarda e il ruolo svolto in essa da alcuni gruppi, la scarsa unione fra il clero locale e la gerarchia, l'intrecciarsi di tanti interessi opposti, la miopia di molti fedeli e di parte del clero. La Santa Sede ebbe in quegli anni ottimi nunzi, da Czacki a Ferrata, e fu prontamente informata. Ma il clima generale si andava deteriorando; era ormai impossibile una coesistenza cordiale fra socialisti e cattolici. Il sogno di Leone XIII, di una Francia sostanzialmente fedele alla sua missione, svaniva. Il fallimento era più apparente che reale, ma la sconfitta di Leone restava. Un caso analogo si verificò in Spagna, dove era vivo un cattolicesimo tradizionalista e conservatore, simpatizzante per il carlismo, cioè con l'estrema destra cattolica. La Santa Sede aveva, dalla metà del secolo, capito l'irrealismo e l'ingenuità dei carlisti ("brava gente, ma con la testa nel sacco", scriveva Pio IX dopo il 1870) e, dall'avvento di Alfonso XIII nel 1875, aveva guardato con simpatia ai governi liberali moderati. Leone XIII due volte, nel 1882 e nel 1890, in due lettere ad altrettanti importanti vescovi spagnoli, invitò i cattolici alla concordia, raccomandando di fatto a tutti, anche ai Gesuiti, dei quali non si faceva il nome, ma che erano chiaramente indicati, di non appoggiare la linea intransigente radicale, che finiva col danneggiare la Chiesa. Si ripeté la vicenda francese. I moniti del papa vennero poco ascoltati e la Spagna si avviò a una spaccatura fra cattolici largamente intransigenti e anticlericali. Nella seconda metà dell'Ottocento e nei primissimi anni del Novecento, proprio dopo l'emancipazione ebraica, in vari paesi europei, dalla Francia all'Austria alla Polonia, si andò accentuando l'antisemitismo, in Francia con il caso Dreyfus (il capitano ebreo accusato a torto di tradimento e di intesa con i Tedeschi), in Austria con la politica del partito cristiano sociale del Lueger fortemente antisemita, in Russia e in Polonia con i duri pogroms. Ancora una volta, non vogliamo tessere la storia di questi anni, ma solo cogliere la linea seguita dal papa e le sue motivazioni. Non esiste in quegli anni nessun documento ufficiale della Santa Sede sul problema ebraico e sull'antisemitismo. Possiamo però intuire o ricostruire il pensiero di Leone da alcuni fatti innegabili. È nota l'intervista concessa eccezionalmente dal papa il 31 luglio 1892 alla giornalista francese Caroline Rémy, più nota come Séverine, e pubblicata da "Le Figaro" il 4 agosto, in modo fedele anche se il suo contenuto venne presto minimizzato dai responsabili vaticani. Il papa condannava ogni violenza contro gli ebrei, come contraria alla volontà di Dio, non ammetteva né una guerra di religione né una lotta di razze, riconosceva però l'esistenza di una vera lotta dei nuovi ricchi ("del regno del denaro"), che vogliono vincere la Chiesa e dominare il popolo, e concludeva che Chiesa e popolo devono difendersi. Il pontefice non condannava l'antisemitismo. Sappiamo con sicurezza che "L'Osservatore Romano" in quegli anni aveva ricevuto precise direttive di non pubblicare nulla sulla questione francese che non fosse stato rivisto in Segreteria di Stato. Ed è ugualmente certo che "La Civiltà Cattolica", pur conservando una certa autonomia, in qualche caso un po' ampia, non avrebbe mai pubblicato nulla che non fosse stato gradito "in alto". Meno che mai avrebbe perseverato per un ventennio in una violenta campagna antisemita, se essa avesse incontrato la disapprovazione del papa o quanto meno dei responsabili vaticani. In questa prospettiva molte affermazioni ed espressioni di organi vicini alla Santa Sede esprimono in un modo efficace il suo pensiero, la sua mentalità, un certo indirizzo. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Per quanto riguarda "La Civiltà Cattolica", penso alla sua netta presa di posizione antidreyfusarda nel decennio 1890-1900, agli articoli del padre Ballerini che auspicavano il ripristino delle antiche discriminazioni, a quelli del padre Oreglia di S. Stefano a difesa della realtà storica dell'omicidio rituale di bambini cristiani da parte di ebrei nella Settimana Santa (tipico è il caso di Simoncino da Trento). Per "L'Osservatore Romano", penso all'affermazione del 20 gennaio 1898 secondo cui l'antisemitismo è la manifestazione di una mentalità, "che in fondo è l'espressione di uno spirito cristiano, tumultuariamente scatente [sic] nel primo impeto della reazione, ma incancellabilmente immedesimato nelle nazioni e nei popoli civili". Negli stessi anni, nel 1895, la Santa Sede attraverso la Congregazione detta degli Affari Ecclesiastici Straordinari discusse la condotta del partito cristiano sociale guidato a Vienna dal Lueger, accusato dall'episcopato austriaco, specialmente dal cardinale Schönborn, di Praga, e dal domenicano padre Weiss, di pretese di larga autonomia nei confronti della gerarchia, di posizioni sociali affini a quelle socialiste, di un fortissimo antisemitismo, che avrebbe voluto annichilata e distrutta la razza giudaica. La storiografia recente sottolinea generalmente il forte colorito antisemita del partito, ma anche la complessità della situazione, che vedeva l'imperatore e parte della gerarchia ostile al partito cristiano sociale e specialmente al Lueger; il nunzio Agliardi e l'erede al trono Francesco Ferdinando erano invece favorevoli. Nelle sfere vaticane, un grande tomista consultato, monsignor Talamo, notò: "Sarebbe stato meglio non dare alla lotta [...] contro gli avversari una nota spiccata di antisemitismo, che nulla aggiunge alla bontà dei propositi, all'efficacia dei mezzi, all'importanza stessa della lotta". In genere, vari personaggi ben informati consultati, come il domenicano Frühwirth, più tardi generale dell'Ordine, nunzio a Monaco e infine cardinale, sottolineavano la forte potenza del mondo ebraico nell'economia, nella cultura, nei giornali, nell'opinione pubblica. D'altra parte lo Schönborn era considerato il tipico rappresentante del mondo feudale in ritardo, il partito del Lueger aveva i suoi meriti, non era il caso di indebolirlo ulteriormente, quando aveva già parecchi nemici, a cominciare dall'imperatore. Così la Congregazione concluse: "L'accusa di antisemitismo quasi il partito sociale cristiano in Austria perseguitasse gli ebrei perché ebrei [...] fu ritenuta insussistente, [...] essendo spiegato nel programma del partito [...] come questo non odii gli ebrei come tali, ma il sistema economico oppressivo del popolo, al quale sistema gli ebrei sogliono ben troppo dedicarsi". Certamente queste righe furono lette da Leone, e molto probabilmente il papa le condivise. Si preferì così sorvolare sull'antisemitismo del Lueger e dei suoi. Solo più tardi, il 5 dicembre 1905, Pio X nella lettera Poloniae populum, condannò esplicitamente le Judaeorum caedes, avvenute le settimane precedenti nei territori polacchi allora soggetti alla Russia e in Ucraina. Leone XIII più di altri pontefici precedenti con un'energia e un'insistenza insolita combatté la massoneria. Basta ricordare le due encicliche più importanti, la Humanum genus, 1884, e la Inimica vis, 1892, che restano però solo due fra i settantacinque documenti contro la massoneria emanati da papa Leone. Erano gli anni del rafforzamento della società in Italia, ma anche in Francia, nei paesi tedeschi, in Belgio, in Spagna, e persino in Brasile, in Messico, e in genere nell'America Latina. Basta qui ricordare l'evoluzione della massoneria all'inizio dell'Ottocento, che resta ufficialmente neutra sui problemi religiosi nei paesi anglosassoni, mentre assume un atteggiamento ostile alla Chiesa nel continente. Nel 1879 il Grande Oriente di Francia decise di eliminare il paragrafo delle costituzioni in cui si riconosceva fondamentale la fede nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima. Erano cancellati così il richiamo al Grande Architetto e altri simili accenni, per porre in evidenza il carattere laico della società. In Italia, scarso fu probabilmente l'apporto della massoneria ai primi passi del Risorgimento, mentre molto forte fu il suo influsso a partire dal 1859, giungendo al suo momento culminante dopo il 1870, con la forte presenza di iscritti nei governi, nei parlamenti, nelle principali leve di comando e nella scuola. I documenti leonini ammettono la varietà delle sette, molte delle quali però collegate in un modo o nell'altro con la massoneria. Con la Inimica vis si sottolinea che questa si propone sostanzialmente di negare il soprannaturale, ripudiare la rivelazione, abbattere la Chiesa cattolica. In concreto si addebitavano alla massoneria le spinte o la propaganda a favore del matrimonio civile, la laicizzazione della scuola, la lotta contro gli istituti religiosi, i tentativi per introdurre e diffondere i funerali civili, gli attacchi ben noti alla Chiesa a Roma (1889, monumento a Giordano Bruno, con particolare solennità; 1895, monumento a Garibaldi), l'obbligo del segreto, l'ubbidienza cieca ai capi, le "atroci vendette" (sic) inflitte ai membri disubbidienti. Nuoce alle encicliche antimassoniche di papa Leone il tono apocalittico (l'accenno al diavolo, alla peste impura, sinonimo della loro dottrina), la mancanza di ogni distinzione fra la massoneria anglosassone e quella dei paesi latini, l'attribuzione alla setta di riti diabolici. Certo Leone si mostrava obiettivo, non cadeva nell'errore da lui stesso condannato, di attribuire alla massoneria "tutti i mali che [...] ci travagliano", ma riconosceva che in essi si sente il suo spirito, "per modo immediato o mediato, diretto o indiretto, di lusinga o di minaccia, di seduzione o di rivoluzione [...]". I moniti del pontefice non potevano fermare l'attività della massoneria, né impedirne la diffusione, non riuscirono nemmeno a confutare le leggende diffuse qua e là sulla massoneria, credute a lungo anche da molti cattolici, grazie alla fantasia mistificatrice del marsigliese Jogand-Pagès più noto come Taxil. Ebbero il merito di stimolare la resistenza dei cattolici, di rafforzarne la perseveranza, di risvegliare l'attenzione su un fenomeno non trascurabile, anche se si tendeva qua e là a farne una leggenda nera.
Il Novecento: nuovi problemi, nuove difficoltà. La guerra, il nazionalismo, il laicismo, il totalitarismo La storia della Chiesa e del papato non consiste in una lotta contro le eresie e i poteri del tempo, quanto piuttosto nello sforzo di influire sulle successive civiltà, che passano, e che hanno sempre, insieme, aspetti positivi e negativi. È inutile fermarci sulla crisi dei primi anni del secolo, con Pio X e il modernismo. La lotta della Chiesa e di questo pontefice contro il modernismo fu, sì, una lotta in difesa della sua autoconsapevolezza teologica, del possesso di una rivelazione che si riteneva venuta da Dio. Tuttavia fu insieme la lotta di un integrismo che adottava uno stile e una mentalità da restaurazione, che rifiutava ogni dialogo con la filosofia e la cultura moderna, che difendeva il guscio in cui la Chiesa si era chiusa dalla Rivoluzione francese in poi. Sono note le diffidenze che circondarono il cardinale Ferrari, il cardinale Maffi e, in misura minore, perché ancora giovane e ai primi anni del suo lavoro, Angelo Roncalli, e il favore con cui erano guardati giornali integristi come "L'Unità Cattolica", di Firenze, e "La Riscossa", con i fratelli Scotton, di Breganze, fra Bassano e Vicenza, la forte autorità di cui godeva non solo il segretario di Stato, Merry del Val, ma anche il De Lai, anima della Congregazione concistoriale, e il cardinale Vives y Tutó. Il clima cambiò con l'avvento di Benedetto XV. Davanti alla prima guerra mondiale, un po' in tutti i paesi, a una forte passione nazionalista, militarista, interventista, che raggiungeva spesso toni molto acuti, si contrapponeva, specie fra i cattolici e soprattutto in Italia, un atteggiamento di prudenza e di attesa. Tuttavia, alla fine di ottobre 1914, novantatré intellettuali tedeschi, fra i quali sei professori cattolici di teologia e di storia, ben noti, Ehrard, Esser, Finke, Mausbach, Merkle, Schmidlin, lanciarono un manifesto, difendendo in tutti i modi la Germania, e negando che essa avesse violato la neutralità del Belgio. Nell'aprile 1915, il rettore dell'Institut catholique di Parigi, Baudrillart, più tardi cardinale, con l'approvazione dell'arcivescovo di Parigi, Amette, rispose con il libro collettivo La guerre allemande et le catholicisme. Naturalmente da parte tedesca si rispose con Deutsche Kultur, Katholizismus und Weltkrieg. Eine Abwehr des Buches, La guerre allemande et le catholicisme. Fra i collaboratori incontriamo Schmidlin, il gesuita Lippert, Faulhaber. In modo autonomo, Max Scheler, giunto al cattolicesimo dopo una difficile crisi, negli stessi anni esaltava la guerra e il ruolo determinante della Germania nel dopoguerra. In questo contesto, qui appena accennato, spicca la matura condotta di Benedetto XV, allora duramente criticato dalle due parti, oggi riconosciuto come un grande papa e un abile politico. Egli seguì tre linee complementari. Non parliamo qui, per brevità, della prima linea, l'intensa attività caritativa. Affrontiamo invece subito la seconda linea, la condanna della guerra. Questa supponeva una forte maturità, capace di opporsi a quegli entusiasmi allora diffusi un po' in tutte le nazioni, anche in certi ambienti cattolici, un'assoluta imparzialità fra le parti in lotta, rifiutando le facili identificazioni degli interessi religiosi universali con quelli di una parte determinata, la fedeltà al proprio compito di suprema istanza morale, condannando le ingiustizie da chiunque commesse, in modo però da evitare l'irritazione dei condannati e l'accusa di parzialità. Il magistero di Benedetto si adegua a questi principi. In allocuzioni e in encicliche egli non si stanca di ripetere il suo dolore, il suo sdegno, la sua insanabile amarezza. Già l'8 settembre 1914, pochi giorni dopo l'elezione, il papa esplode: "Basti il sangue umano che è già tanto sparso". La sua prima enciclica, del 1° novembre 1914, chiama la guerra spettacolo tetro e delittuoso, orribili i mezzi militari, gigantesche carneficine i suoi effetti. Sarebbe agevole trovare espressioni del tutto simili nei documenti papali del 1915 e 1916. Le parole famose, della nota del 1° agosto 1917, "inutile strage", introdotte e mantenute nel testo dallo stesso pontefice nonostante l'opposizione dei suoi collaboratori, non alludono solo alla sterilità degli sforzi militari di quei mesi, ma esprimono la sua sincera convinzione. Meno frequenti, ma non del tutto assenti, sono le condanne delle più gravi lesioni del diritto, o le prese di posizione a favore dei popoli oppressi, fatte in modo che chi voleva capire potesse farlo, senza restare offeso. Tipica fu la condanna dell'aggressione del Belgio, espressa nell'allocuzione del 22 gennaio 1915, che "riprova[va] altamente ogni ingiustizia, da qualunque parte po[tesse] essere stata commessa". Il governo belga ringraziò il papa per l'allusione, quello tedesco protestò; il cardinal Gasparri in una nota del 6 luglio 1915 al ministro del Belgio dichiarò che la condanna dell'invasione di quel paese era chiaramente contenuta nelle parole dell'allocuzione. Con lo stesso animo Benedetto XV intervenne per frenare le espressioni o le iniziative che potevano far apparire i cattolici come tali schierati a favore di una delle due parti in lotta. Il primate tedesco, cardinal Hartmann, arcivescovo di Colonia, dopo la consueta conferenza dell'episcopato tedesco a Fulda, nella lettera al papa del 17 agosto 1915 deplorò La guerre allemande et le catholicisme, in cui alcuni cattolici, con l'approvazione dei vescovi, sembravano accusare i fedeli tedeschi di aver perso la fede. Benedetto XV rispose subito deplorando chi proprio in quegli anni metteva legna sul fuoco. L'allusione al libro curato dal Baudrillart era chiara. Del resto già prima il Gasparri aveva contestato direttamente al Baudrillart il suo orientamento. Subito dopo l'intervento italiano, il papa fece giungere in modo segreto istruzioni precise ai singoli ordinari, per evitare ogni iniziativa che potesse essere interpretata come l'adesione pubblica della Chiesa italiana alla guerra in corso. E per due volte, nel luglio del 1915 e nell'estate del 1916, dopo la presa di Gorizia, Benedetto XV di suo pugno bloccò la diffusione di due testi dell'Azione Cattolica Italiana vibranti di sensi patriottici. Si ripeteva il problema già avvertito da Pio IX nell'aprile 1848. La Santa Sede non poteva auspicare una vittoria di un popolo cattolico su un altro ugualmente cattolico. Benedetto in terzo luogo cercò di evitare l'estensione della guerra in corso e di affrettarne la fine. Nell'inverno e nella primavera del 1915, il papa tentò in tutti i modi di evitare l'intervento italiano, premendo sull'Austria per larghe concessioni all'Italia, con una missione segreta di Eugenio Pacelli a Vienna, con il ricorso alla mediazione germanica, con rapporti diretti e segreti col governo italiano. Per i ritardi e le incertezze delle due parti il tentativo restò sterile. Comunque, subito dopo l'intervento italiano, il cardinal Gasparri dichiarò pubblicamente che la Santa Sede non aspettava la soluzione della questione romana dalle "armi straniere, ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia che auguro si diffondano [...] nel popolo italiano". Più importante, in ogni modo, resta la nota del 1° agosto 1917. Non erano mancati già prima, nel dicembre 1916, sondaggi diretti delle due parti, in vista di eventuali trattative. Gli alleati (o l'Intesa, come è detto più spesso) trovavano però le proposte austrotedesche troppo generiche e, soprattutto, non avevano fiducia nel governo di Berlino, troppo succube dei militari. Gli Imperi centrali invece, oltre tutto, restavano timorosi davanti all'affermazione del principio di nazionalità, che, se accettato, avrebbe implicato sacrifici territoriali e politici. L'iniziativa di Benedetto XV venne preparata a lungo. Il nunzio a Monaco Pacelli si incontrò con l'imperatore Guglielmo, con il cancelliere tedesco e con l'imperatore Carlo I, il successore di Francesco Giuseppe, morto nel novembre 1916. Una base di discussioni per una pace futura sembrava non solo possibile, ma probabile, anche se Berlino aveva difficoltà a pronunziarsi in modo deciso sull'indipendenza del Belgio. Il Vaticano non prevedeva la caduta del cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg, avvenuta il 13 luglio, l'incertezza del suo successore Michaelis, la schiacciante preponderanza del gruppo militare dopo la fine di luglio 1917. I tre fattori provocarono il fallimento dell'iniziativa del 1° agosto. La tardiva risposta tedesca del 19 settembre rimase generica ed evasiva, specie sul Belgio. Sull'altro versante, le risposte o mancarono del tutto o, come nel caso inglese, rimasero provvisorie e condizionate. Gli Stati Uniti poi con Wilson rifiutarono di trattare con la Germania imperiale. Prescindendo da altri particolari, pur importanti, si deve riconoscere che nell'aria vi era un forte dissenso fra Benedetto XV e gli alleati. Il pontefice auspicava un accordo fra due parti, animate entrambe dalla ricerca del bene comune, senza risentimenti né spirito di vendetta. L'Intesa voleva una pace cartaginese, un complesso di decisioni cioè non discusse ma imposte al nemico di ieri, ridotto all'impotenza: esigeva la fine del regime militarista tedesco. Dopo oltre novant'anni, si comprendono meglio gli alti intenti del papa, si apprezzano realisticamente alcune proposte concrete, come la rinunzia al rimborso dei danni di guerra, il disarmo, l'arbitrato, il prevalere della forza del diritto su quella delle armi. L'accettazione di quelle proposte avrebbe evitato molte conseguenze negative degli anni 1919-1939, quanto meno avrebbe impedito la nascita di quel clima che facilitò l'avvento del nazismo. Ma, dopo anni di guerra, era difficile ottenere che prevalesse uno spirito di moderazione e di giustizia. Resta, comunque, la testimonianza di un papa che ha richiamato un ideale altissimo, anche se in quel momento irraggiungibile. E, soprattutto, la realistica frase di Benedetto XV, sulla guerra considerata "inutile strage", appare sempre più vera, ieri, oggi, domani. Il papa lottò contro un'altra corrente, strettamente legata al militarismo e al bellicismo, il "nazionalismo eccessivo", ben distinto dal semplice amor di patria. Il tema affiora più volte. Il papa si mostra freddo e sostanzialmente contrario all'idea del padre Gemelli, di consacrare i soldati italiani al Sacro Cuore. Il problema ritorna subito dopo la guerra nell'esortazione all'episcopato tedesco del 15 luglio 1919, in quella all'arcivescovo di Parigi, Amette, del 7 ottobre, nell'enciclica del 23 maggio 1920, Pacem Dei munus. I vescovi tedeschi sono invitati a combattere gli antichi odi contro quanti erano stati ieri nemici, e contro gli stessi avversari politici interni; a quelli francesi è ricordato il precetto evangelico di dimenticare le offese e di perdonare anche quanti ci hanno fatto del male e hanno combattuto la nostra patria. Benedetto sottolinea che la tranquillità e la pace internazionale dipendono essenzialmente dalla fedeltà a questo precetto universale di carità. Il richiamo a questi inviti evangelici assumeva un particolare significato in quel difficile drammatico dopoguerra. L'enciclica dell'anno seguente, Pacem Dei munus, torna sullo stesso tema, ricordando il precetto evangelico dell'universale carità, allude delicatamente al perdono del papa a quanti lo avevano offeso e vilipeso (le polemiche contro il papa boche, accusato di filogermanesimo, non erano mancate...), alla storia medievale, che mostrava la nascita di un'Europa cristiana tra diverse nazioni, che, politicamente divise, riconoscevano di essere unite da una stessa cultura di fondo e da una stessa religione, invita gli scrittori a usare un linguaggio conciliante con tutti, allude ancora una volta alla necessità di un disarmo e alla soluzione delle questioni territoriali pendenti. Nel dicembre 1919 l'enciclica Maximum illud, relativa alle missioni, ispirata in parte dal vincenziano padre Lebbe, a lungo missionario in Cina, insisteva su un altro aspetto, la necessità di distinguere assolutamente la predicazione missionaria da qualunque preoccupazione di "dilatar[e] l'influenza" della propria patria, di "vedere sempre e anzitutto celebrato il suo nome e la sua gloria". Realisticamente, in modo piuttosto raro nei documenti pontifici, Benedetto XV scendeva a indicazioni concrete: in "certe riviste di missioni, più che lo zelo di estendere il regno di Dio, appare evidente il desiderio di estendere l'influenza del proprio paese [...]". Anche per questo Benedetto insisteva sulla necessità di conoscere bene le lingue locali e sulla formazione di un clero indigeno. Si capisce che l'enciclica venisse accolta con diffidenza da alcuni missionari in Cina, che vi vedevano un processo ai loro metodi. In un'epoca di perdurante colonialismo, l'enciclica si poneva decisamente contro corrente. D'altra parte la condanna del nazionalismo esagerato non implicava in nessun modo l'invito a dimenticare e trascurare le caratteristiche delle singole nazioni, e a negare il loro diritto all'autodecisione. Basta ricordare una frase dell'esortazione alla pace del 28 luglio 1915, nel vivo della guerra, "ai popoli ora belligeranti e ai loro capi": "Le nazioni non muoiono; umiliate e oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa [...]". Forse il papa pensava soprattutto alla Polonia, cui avrebbe fatto cenno esplicito nella nota del 1° agosto 1917. Forse pensava ai popoli balcanici. Certo, si mostrò molto pragmatico davanti alla dissoluzione dell'Impero austroungarico, senza rimpianti e pronto a tener conto delle nuove forze emergenti, gli Stati nazionali. Si può dire che le due frasi, sull'inutile strage e sulle nazioni che non muoiono, sintetizzano bene alcuni aspetti centrali del pensiero di Benedetto XV in quegli anni di guerra, e riflettono l'intimo vigore di un papa solo apparentemente freddo e silenzioso. Nel pontificato di Pio XI larga parte della storiografia recente distingue due tempi. In un primo momento, il papa pensa seriamente non solo a una lotta contro il laicismo, ma a una restaurazione cristiana, nello spirito di quella regalità di Cristo di cui egli stesso aveva voluto proclamare la festa, e nella speranza che la società moderna riconoscesse l'autorità della Chiesa anche nel campo sociale. Quest'ideale appare nelle due encicliche complementari, Ubi arcano, dicembre 1922, e Quas primas, dicembre 1925. In una sintesi suggestiva, che entusiasmò persino Buonaiuti, il papa presentava la Chiesa come dotata della pienezza dei poteri, capace di esercitare un influsso sociale decisivo a beneficio dell'umanità. Pio XI si preoccupava di salvare i valori essenziali del cristianesimo e insieme i diritti fondamentali dell'uomo, di liberare la società da una nuova guerra, ma finiva per porsi in una prospettiva di cristianità, dando scarso spazio all'autonomia del temporale e stimolando i cattolici non tanto a una pacifica convivenza nella società pluralistica contemporanea, quanto a uno sforzo tenace per imporre a tutti la propria visione del bene comune. Questa politica si manifesta in due linee distinte. Incontriamo, espresso in varie encicliche, l'appoggio del Ratti alla coraggiosa resistenza dei cattolici messicani al laicismo dittatoriale di Obregón e Calles. Un'innegabile simpatia accompagna d'altronde il tentativo nazionalista e corporativo di Salazar (1889-1970), a capo di un governo autoritario, che si unisce al superamento della legislazione anticlericale vigente dal 1911. Pio XI in quegli anni guarda con favore ai regimi forti, accentratori. Un discorso analogo si potrebbe fare per l'Austria di Dollfuss. D'altra parte troviamo i concordati di quegli anni. Se alcuni di essi, anche quello con la Germania nazista, del 20 luglio 1933, si prefiggono sostanzialmente di salvare al massimo la libertà della Chiesa, altri più si avvicinavano all'ideale vagheggiato dal papa, come quello italiano del 1929. L'Italia doveva tornare un modello per tutte le nazioni, un caso di rinnovata cristianità. Si riafferma così con una certa solennità il concetto di religione di Stato, nella prospettiva, espressa nella lettera del papa al Gasparri del 30 maggio 1929, di uno Stato cattolico, che si uniformasse in tutto nella sua legislazione alla dottrina e alla pratica cattolica. De Gasperi, pur nell'amarezza comprensibile dello sconfitto, il 12 febbraio 1929 scriveva al suo amico, don Simone Weber, a Trento: "La conclusione, [...] vista nella storia e nel mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana. Non si poteva esitare, e credo che avrebbe firmato, se fosse stato papa, lo stesso don Sturzo" (in esilio dalla fine del 1924, per esplicito invito o comando della Santa Sede). Il sogno svanì presto, con lo scontro del 1931, e l'enciclica Non abbiamo bisogno. Anche l'incerta speranza di salvare largamente la libertà della Chiesa in Germania, che aveva portato al concordato del luglio 1933, urtò contro l'invadente e dura politica nazista. Nello stesso tempo, la grave malattia che aveva indebolito la fibra del papa, e ne aveva ridotto l'attività, lo aveva spinto a meditare a lungo sulla virtù della Croce e la sua forza redentrice. Assistiamo così a una svolta nel pontificato: dall'idea di una restaurazione cristiana, mediante una certa alleanza o un certo avvicinamento a regimi autoritari, a una resistenza frontale contro di essi, e a una graduale comprensione per i paesi democratici, dove nell'insieme la Chiesa salvava la propria libertà. Arriviamo così alla Mit brennender Sorge, 14 marzo 1937, contro il nazismo. Il documento, che costituisce uno dei punti più alti di questo pontificato, non è stato sempre giustamente apprezzato da una parte della storiografia italiana, che ignorava la dura reazione nazista, palese nei documenti editi da Dieter Albrecht in uno dei numerosi volumi curati dalla Kommission für Zeitgeschichte, Der Notenwechsel zwischen dem Heiligen Stuhl und der Deutsche Reichsregierung, 1937-1945 (Mainz 1969). È inutile riportare qui i passi più vibranti dell'enciclica, con la condanna del razzismo, dello statalismo, del culto della persona, e l'invito alla fiducia in un futuro migliore. Sottolineerei solo due cose. Le encicliche di questi anni giustappongono due prospettive, la condanna delle violazioni dei diritti della Chiesa e l'esplicita riaffermazione dei diritti inalienabili della persona umana. Pio XI, come altri papi, non si è preoccupato solo della Chiesa, ma insieme anche dei diritti dell'uomo in sé e per sé. Il discorso di Pio XII del 2 giugno 1945, a guerra appena finita, ricostruisce la linea seguita dalla Santa Sede davanti al nazismo, e in specie con l'enciclica del 1937, per sottolineare che i disastri degli anni 1939-1945 furono dovuti anche allo scarso ascolto che i cattolici tedeschi prestarono alle ammonizioni e alle condanne della Santa Sede. Qualche storico, come Miccoli, ritiene che quel discorso del giugno 1945, senza incrinature né perplessità, nasconda la preoccupazione di sostenere che la Chiesa si era sempre trovata nel giusto, il bisogno di tracciare un bilancio nettamente apologetico di tutta la condotta della Chiesa di fronte al nazismo, di nascondere i contrasti e i dubbi del passato. Mi limito a rilevare il problema, senza pretendere di arrivare a conclusioni sicure. In ogni modo non si può dimenticare la crescente intransigenza di Pio XI in quegli ultimi anni, la sua netta opposizione al nazismo e la sua partecipazione alle vicende ebraiche: pensiamo alla sua partenza da Roma all'arrivo di Hitler nel maggio 1938, al suo progetto di un'enciclica contro l'antisemitismo, alle sue commosse dichiarazioni a Castelgandolfo nel settembre 1938 ("per Cristo e in Cristo siamo della discendenza spirituale di Abramo [...]. Spiritualmente siamo dei semiti"). Nella storiografia dei nostri giorni, si discute sino a che punto quest'intransigenza fosse condivisa dalla Curia vaticana. Non credo necessario sintetizzare le caratteristiche degli ultimi cinque papi, dal 1939 a oggi. Penso sia utile invece, senza avanzare conclusioni, indicare i problemi principali tuttora discussi. Non si negano in nessun modo i grandi meriti di Pio XII in molti campi. Si discute invece ancora sul cosiddetto "silenzio" di Pio XII davanti al genocidio ebraico: Repgen (Handbuch der Kirchengeschichte, diretto da Jedin) difende il papa, che avrebbe preferito agire in silenzio per salvare il maggior numero possibile di vite umane; Miccoli tende invece a sottolineare la lentezza e le difficoltà con cui la Segreteria di Stato accolse le prime notizie in proposito, e le attribuisce a una certa secolare diffidenza verso il mondo ebraico. In genere, si tace sull'appoggio dato da Pio XII alla resistenza tedesca, chiaro e attivo anche se nascosto: tutto rimase sterile per l'indecisione dei generali tedeschi e la diffidenza degli alleati. Sono state insufficientemente studiate le cause dell'invincibile diffidenza che il papa nutrì verso De Gasperi, il quale difese vivamente ma dignitosamente e in silenzio la sua autonomia politica e il suo programma di evitare la divisione dell'Italia in due steccati, clericale e anticlericale. È innegabile una certa chiusura del papa negli ultimi anni, verso il 1950, quando alcuni teologi ben noti, promossi cardinali dai papi seguenti, furono oggetto di seri provvedimenti disciplinari (sospensione dall'insegnamento, controllo delle loro pubblicazioni), e personalità di grande livello, fra cui lo stesso Montini, furono allontanate da Roma. Ci si può chiedere infine sino a che punto siano stati positivi in Italia il netto anticomunismo dell'immediato dopoguerra e la crescente tendenza all'isolamento e alla centralizzazione di Pio XII, rimasto volutamente senza segretario di Stato per quattordici anni, dal 1944 al 1958. Su Giovanni XXIII, Alberigo - e con lui quasi tutti gli storici - ha decisamente sottolineato la piena consapevolezza con cui il papa poche settimane dopo l'elezione decise la convocazione di un concilio ecumenico. Fu una decisione del tutto personale, con la coscienza di valersi dei suoi poteri di capo della Chiesa, nella lucida consapevolezza della speciale situazione storica che attraversava la Chiesa, adagiata in un certo immobilismo. Si può discutere come e quando questa convinzione sia maturata in Angelo Roncalli, e sino a che punto il 25 gennaio 1959 egli avesse la sensazione di aprire un'epoca nuova per la Chiesa. Certo l'idea appare nell'esortazione del 6 gennaio 1962, e nell'allocuzione inaugurale del concilio, Gaudet Mater Ecclesia, dell'11 ottobre 1962, da lui interamente redatta. Infine, la recente storiografia, soprattutto con l'imponente storia del Vaticano II, diretta e coordinata da Alberigo, permette ora di cogliere come siano maturati i nuovi orientamenti conciliari, che hanno portato più o meno rapidamente all'abbandono degli schemi preparatori, fondati su una teologia tradizionale, e al loro rinnovamento. La vecchia guardia (Ottaviani, Siri, Ruffini, Larraona, Morcillo, Lefebvre...) era sconfitta, e nuove forze, cardinali (Bea, Suenens, Frings, Döpfner...) e teologi (De Lubac, Danielou, Congar, Murray, Philips...), si affermavano. All'annunzio del concilio, il 25 gennaio 1959, l'arcivescovo di Milano, Montini, si spaventò: "Che vespaio, che vespaio...!". Quel vespaio, lo avrebbe preso in mano lui e, fra le difficoltà frapposte a più riprese dalla minoranza conservatrice, l'avrebbe condotto alla fine, salvandone sostanzialmente l'ispirazione giovannea. Molto probabilmente, Montini non avrebbe preso quell'iniziativa di cui intuiva le complessità: due uomini diversi per temperamento, formazione, precedenti, eppure più vicini di quanto si immagini, hanno contribuito in modo diverso ed efficace all'esito finale della stessa iniziativa. Non è il caso di indicare i problemi del concilio, la tattica seguita da Paolo VI (convincere, non costringere), i risultati raggiunti (fra i quali pensiamo almeno, nella prospettiva più volte ricordata, alla riforma liturgica, alla Dignitatis humanae sulla libertà di coscienza, alla Nostra aetate sugli ebrei). Non possiamo dimenticare il postconcilio, in cui Paolo VI ha dovuto lottare su vari fronti, contro le forze conservatrici che avrebbero voluto insabbiare il concilio, contro i progressisti con le loro fughe in avanti, contro la contestazione, complessa e contraddittoria, contro la secolarizzazione e contro l'inatteso fenomeno delle crisi e delle defezioni sacerdotali. Penso sia utile però citare un documento significativo, un autografo di Paolo VI, trovato nell'archivio dell'Istituto Paolo VI di Brescia, e già pubblicato nel volume Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio (Brescia 1989, pp. 32-3), che stranamente non sembra aver attirato molto l'attenzione degli studiosi. Si tratta di un singolare esame di coscienza di Paolo VI, rimasto fra le sue carte, senza data. "Su Papa Giovanni di v.m. Che sia irripetibile, è nella natura delle cose - ogni personalità ha una sua propria fisionomia -. Questa poi ha note di così alto valore umano e di così originale carattere umano, che sarebbe ingenuo vano e irreverente, specialmente da parte di chi gli succede, pretendere di essergli non diciamo pari, ma semplicemente simili. Onoriamo la sua figura grande, buona, unica. Ma si deve osservare: 1) Che la diversità delle persone in un dato ufficio, estremamente caratterizzato come questo, può comportare identità di funzioni, di sentimenti, di programmi (cfr. la continuité...). L'affezione che egli ebbe per colui a cui è toccato di succedergli, e la venerazione di questi per lui sono già prova e non ultima della fedeltà sostanziale alla linea... Prova confermata nella continuazione del programma e nella conservazione delle persone ai loro rispettivi uffici. Chi è stato rimosso? 2) Che è far torto, e torto grave alla memoria di Papa Giovanni attribuendogli idee e suggerimenti ch'egli non ebbe. Che Egli fosse buono, sì. Che fosse indifferente, no. Quanto egli tenesse alla dottrina, quanto temesse i pericoli, ecc. Del resto quelli che danno di P.G. un'interpretazione simile, quale profitto hanno tratto in realtà dai suoi insegnamenti? (citare). È interpretazione di comodo a due scopi: di tranquillizzare la coscienza, arresa ad ogni relativismo o piegata ad ogni dogmatismo che non sia la liberatrice ed univoca verità cristiana; e di poter impugnare ogni esigenza dottrinale ed ogni affermazione cristiana coerente con l'impegno evangelico del magistero ecclesiastico, ed aver così nuova vena per alimentare la polemica di maniera e prefabbricata contro la Chiesa e contro la religione. Papa Giovanni non fu un debole, non fu un transigente, non fu un corrivo verso le opinioni errate o verso la fatalità così detta della storia ecc. Il suo dialogo non fu bontà rinunciataria ed imbelle, ecc. Quanto alla comprensione e all'accostamento col 'mondo moderno', ci pare d'essere sulle orme di Papa Giovanni come è possibile alla nostra pochezza. Ma, non per fare apologia di noi stessi, sì bene per aprire a conforto di quanti con animo retto ci volessero conoscere o avvicinare, ci sembra di poter dire con sicura coscienza d'aver cercato, durante tutto il corso ormai non breve della nostra vita, di avvicinare, apprezzare ecc
nel campo della cultura - in quello del lavoro - in quello dei rapporti umani (cfr. Fiera di Milano) - e in quello delle relazioni ufficiali (diplom. e relig.) - forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definisca dell'amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero". (Il testo si arresta improvvisamente). E, dopo la rapida parentesi di papa Luciani, arrivò un uomo dall'Est, il primo papa non italiano dopo Adriano VI, cioè dopo il 1523. Cambiava l'Europa, cambiava anche la Chiesa, non nella sua sostanza, ma nel suo dialogo col mondo. Giovanni Paolo II ha mostrato la ferma volontà di continuare l'attuazione del Vaticano II, realizzando alcune iniziative fino allora non ancora portate a termine, come il nuovo codice di diritto canonico (1983), considerato da molti come l'incarnazione sul piano giuridico della ecclesiologia conciliare, il nuovo accordo con lo Stato italiano (1984), favorendo il rapporto amichevole con le altre religioni non cristiane (visita alla sinagoga di Roma, giornata di Assisi, nello stesso anno 1986...), lottando energicamente contro la secolarizzazione ovunque crescente, in un'ottica che ovviamente aveva presente la situazione più nota al papa, quella della sua Polonia, un paese vissuto a lungo in un clima di cristianità, considerato sempre attuale. Ci si può chiedere fino a che punto e in che modo il papa polacco, in amichevoli rapporti con le correnti di opposizione al comunismo in Polonia, abbia influito sulla svolta del 1989, con la caduta del muro di Berlino, la fine dei regimi comunisti nell'Europa orientale, il crollo dell'URSS. L'eco dei grandi avvenimenti del 1989 è evidente nel discorso al corpo diplomatico presso la Santa Sede del 12 gennaio 1990. "La Santa Sede ha accolto con soddisfazione le grandi trasformazioni, le quali, particolarmente in Europa, hanno segnato in questi ultimi tempi la vita di diversi popoli. La sete irreprimibile di libertà manifestatasi in essi ha accelerato le evoluzioni, ha fatto crollare i muri e aprire le porte: tutto ha assunto il ritmo di un autentico sconvolgimento. Come avrete certamente notato, il punto di partenza o il punto di incontro è stato sovente una chiesa. A poco a poco si sono accese candele per formare un vero cammino di luce [...]. Sembra rinascere sotto i nostri occhi una 'Europa dello spirito' sul filo dei valori e dei simboli che l'hanno modellata, 'di questa tradizione cristiana che unisce tutti i popoli'. Varsavia, Mosca Budapest, Berlino, Praga, Sofia, Bucarest, per citare solo le capitali, sono diventate praticamente le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà [...]. La cosa più ammirevole negli avvenimenti dei quali siamo stati testimoni è che interi popoli abbiano preso la parola: donne, giovani, uomini hanno vinto la paura [...] questi fratelli hanno dimostrato che non è possibile soffocare le libertà fondamentali che danno un senso alla vita dell'uomo: la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di espressione, di pluralismo politico e culturale". Questo quadro obiettivo, appassionato, di un papa polacco, conclude opportunamente la nostra sintesi. Siamo partiti dalla visione duramente negativa sulla Rivoluzione del 1789, tipica dei papi della Restaurazione, che si riassume nelle note frasi della Mirari vos, per arrivare infine al riconoscimento non solo positivo ma entusiasta di un altro papa sulla portata degli avvenimenti di un altro 89, il 1989. L'"erronea illa sententia seu potius deliramentum" (il giudizio negativo sulla libertà di coscienza del 1832) è ora capovolto. Questa libertà, anche di coscienza, è ora riconosciuta come una delle libertà fondamentali che danno senso alla vita dell'uomo. Le ragioni e il significato di questa evoluzione (dal Sillabo alla Dignitatis humanae) sono note. Vale la pena di accennare almeno a un problema storico-politico soggiacente. È troppo presto per scoprire la realtà e i limiti dell'influsso di Giovanni Paolo II su questo fenomeno di portata mondiale. Certamente, altri fattori di diverso genere, economici, sociali, politici, vi hanno contribuito. Probabilmente la personalità del papa polacco, venuto dall'Est, ha favorito e accelerato il processo che si preparava. Del resto, esso era stato incoraggiato in anticipo dall'Ost-Politik, voluta con lungimiranza da Paolo VI e dal suo stretto collaboratore, più tardi segretario di Stato di Giovanni Paolo II, Casaroli, e, ovviamente, vista con diffidenza e rincrescimento dall'intransigenza di quegli anni. Giovanni Paolo II ha mietuto dove il suo predecessore aveva seminato.