L'Eta dei Lumi: astronomia. L'astronomia stellare
L'astronomia stellare
Alla fine del XVII sec. l'astronomia 'stellare', cioè lo studio delle stelle come corpi individuali nello spazio, piuttosto che come semplice sfondo ai movimenti dei corpi del Sistema solare, aveva mosso i suoi primi incerti passi. Le idee di fondo che avrebbero contribuito in modo decisivo all'avvio di questo settore dell'astronomia cominciarono a diffondersi con la pubblicazione nel 1644 dei Principia philosophiae di Descartes. In quest'opera lo spazio era identificato con lo spazio infinito e indifferenziato della geometria greca, interamente cosparso di stelle concepite come Soli lontani, essendo il Sole semplicemente la nostra stella locale, particolarmente importante per l'umanità soltanto per la sua vicinanza.
Tuttavia le stelle meritavano ancora l'epiteto greco di 'fisse', attribuito loro nell'Antichità per distinguerle da quelle erranti o 'pianeti'. Apparentemente, le posizioni relative delle stelle non erano affatto cambiate rispetto a quelle assegnate loro da Tolomeo nel suo Almagesto un millennio e mezzo prima. Di sicuro, la fissità delle stelle era tra i fatti meglio accertati della scienza naturale e anche per questo motivo esse continuavano a suscitare un interesse limitato.
Solamente nel XVIII sec. l'astronomia stellare trovò una collocazione riconosciuta all'interno della scienza astronomica, anche se agli inizi del XIX sec. si sarebbe potuta condensare l'intera trattazione delle stelle in un singolo capitolo. Alcune delle questioni che erano state già affrontate dall'astronomia stellare riguardavano singole stelle. Quanto erano lontane le stelle più vicine al Sole, e questa loro distanza era confrontabile con le distanze interstellari in tutto l'Universo? Vi erano stelle soggette a cambiamenti di luminosità? Se vi erano, questi cambiamenti erano ciclici, irregolari o avvenivano una volta sola, e da quali processi fisici erano determinati? Le stelle erano veramente fisse? Se lo erano, tale fatto poteva conciliarsi con l'universalità della gravitazione newtoniana? E in caso contrario, i cambiamenti erano casuali? In particolare, il Sole stesso era in movimento?
Ulteriori quesiti riguardavano i sistemi di stelle, a partire da quelli costituiti da due sole stelle fino all'intera popolazione dell'Universo stellare. Se due stelle erano state inizialmente osservate come una stella singola, ciò dipendeva dal fatto che erano situate per puro caso nella stessa direzione rispetto alla Terra o perché costituivano un sistema doppio. Quelle che apparivano come nuvole di luce, ossia 'nebulose', erano presumibilmente ammassi stellari troppo distanti perché un telescopio potesse distinguere i singoli elementi; ma ciò valeva per tutte le nebulose, oppure alcune di esse erano effettivamente composte da un misterioso fluido luminoso? Gli ammassi stellari erano componenti stabili dell'Universo o avevano un ciclo vitale? In caso affermativo, come lo si poteva studiare nel corso del breve arco di vita di un astronomo? Qual era la forma tridimensionale del sistema di stelle che dava origine alla Via Lattea e quali erano le sue dimensioni? Il numero delle stelle nell'Universo era finito o infinito? Se era finito, che cosa ne impediva il collasso gravitazionale; e se era infinito, perché l'osservatore vedeva solamente un numero limitato di stelle nel cielo notturno?
Prima della fine del XVIII sec. le indagini più rilevanti su tutte le questioni menzionate furono quelle effettuate da William Herschel (1738-1822). Sin da quando era ancora un musicista professionista, l'ambizione di Herschel era stata quella di capire "la costruzione dei cieli" e i suoi progressi decisivi in tale direzione furono legati alla costruzione di grandi telescopi che gli consentirono di vedere oggetti celesti molto lontani e quindi molto poco luminosi. Prima di Herschel le discussioni riguardanti l'Universo su vasta scala erano state puramente speculative e, nella maggior parte dei casi, motivate da questioni religiose. Tuttavia, alcuni problemi relativi alle stelle più vicine avevano già suscitato l'interesse di numerosi osservatori. Un buon punto di partenza per dar conto di queste ricerche è, per esempio, la questione della variabilità della luminosità stellare, che era stata ampiamente discussa nel corso del XVII secolo.
Un osservatore tende a vedere solamente ciò che si aspetta di vedere; così, anche se in realtà sono numerose le stelle che variano la loro luminosità in maniera regolare o irregolare, tali variazioni rimasero inosservate fino al 1572, allorché la comparsa di una nuova sorgente con luminosità variabile, passata alla storia con il nome di 'nova di Tycho', s'impose all'attenzione sia del profano sia dell'osservatore professionista. Il danese Tycho Brahe dimostrò che tale fenomeno era in effetti di origine celeste.
Nel 1604 la possibilità che anche i cieli subissero un cambiamento fu confermata dall'apparizione della 'nova di Keplero'. A quel tempo già si parlava, peraltro, di un evento analogo, poiché nel 1596 l'astronomo frisone David Fabricius aveva asserito che una nova era apparsa nella costellazione della Balena (Mira Ceti o omicron Ceti). La riapparizione della stella fu osservata nel 1638 da un altro astronomo frisone, Johannes Phocylides Holwarda. Alla fine ci si rese conto che le stelle di Holwarda e di Fabricius erano il medesimo oggetto che appariva e scompariva ripetutamente. Inoltre, in base ai dati osservativi relativi alla stella Mira raccolti nel 1662 da Johannes Hevelius, sembrava che le riapparizioni fossero irregolari. Nel 1667, comunque, l'astronomo francese Ismaël Boulliau mostrò che, se era vero che il massimo di luminosità della stella era variabile, tuttavia esso si ripresentava a intervalli regolari di undici mesi e quindi la sua ricomparsa era un fatto prevedibile.
Una volta accertata l'esistenza di Mira, Boulliau offrì una spiegazione delle sue variazioni. Egli ipotizzò che la stella fosse ricoperta di chiazze scure, simili a macchie solari ma più grandi, e ruotasse come il Sole, per cui concluse che le variazioni regolari nella luminosità erano causate dalla rotazione della stella, mentre quelle irregolari derivavano da cambiamenti nelle chiazze scure. Era un tipo di spiegazione che poteva rendere conto facilmente ‒ troppo facilmente, forse ‒ delle variazioni di luminosità di diverso tipo, e in effetti la spiegazione in termini di 'chiazze scure' era destinata a perdurare anche nel XIX secolo.
Questi sviluppi stimolarono un rinnovato interesse per le stelle variabili. Proprio come nell'Antichità e nel Medioevo gli osservatori erano genericamente convinti del fatto che la luminosità delle stelle fosse invariabile, così ora essi giungevano facilmente alla conclusione di aver rilevato delle variazioni. Dal momento che non era stato stabilito univocamente un metodo di misurazione, o anche soltanto di comparazione dei vari tipi di luminosità, e poiché si riteneva che i presunti cambiamenti fossero temporanei, delle tante asserzioni effettuate soltanto poche poterono essere confermate o, per gli stessi motivi, confutate. Le continue 'scoperte' non avevano alcun esito e così, dopo un'iniziale ventata di entusiasmo, la questione delle stelle variabili perse qualsiasi attrattiva.
La scoperta di un metodo per controllare i presunti cambiamenti nella luminosità stellare dovette aspettare ancora un secolo. Finalmente, nel 1796, William Herschel pubblicò il primo di numerosi cataloghi "della luminosità comparata delle stelle". Nei cataloghi, la luminosità delle stelle più grandi di una costellazione era confrontata con quella delle stelle vicine di analoga luminosità e quindi qualsiasi futuro cambiamento poteva essere rivelato semplicemente da un'alterazione dei dati comparativi già pubblicati.
Si trattava del perfezionamento di una tecnica sviluppata nei primi anni Ottanta del Settecento da due astronomi dilettanti che vivevano a York, nel Nord dell'Inghilterra. Edward Pigott (1753-1825), il cui padre possedeva un osservatorio privato con strumenti di qualità, e il suo vicino di casa, il giovane sordomuto John Goodricke (1764-1786), unirono le loro forze nel 1782 per studiare le stelle variabili. Controllando alcune variazioni sospette in semplici elenchi di stelle ordinate secondo valori decrescenti di luminosità, i due amici concentrarono la loro attenzione su quelle stelle che in passato erano già state indicate come variabili. Una di queste era Algol (β Persei) che, essendo normalmente considerata di seconda magnitudine (secondo la scala usata da Tolomeo in poi per classificare le stelle in base alla luminosità), era stata dichiarata per due volte di quarta magnitudine nel corso del XVII secolo.
All'inizio del novembre 1782 Algol si presentava, come al solito, di seconda magnitudine, tuttavia cinque notti più tardi era salita fino alla quarta per tornare, la notte seguente, alla seconda magnitudine. Un tale rapido cambiamento non aveva precedenti nella letteratura, così Pigott e Goodricke continuarono a tenere la stella sotto stretta osservazione. La loro attenzione fu finalmente premiata la notte del 28 dicembre, quando videro passare la luminosità della stella dalla quarta alla seconda magnitudine nell'arco di poche ore. La mattina seguente Pigott segnalò il fatto al suo amico, come riportò qualche giorno più tardi: "l'opinione da me suggerita era che l'alterazione della luminosità di Algol era probabilmente causata da un pianeta, grande circa la metà della stella, che le ruota attorno e quindi talvolta la eclissa parzialmente" (Pigott, Journal).
Se davvero esisteva un pianeta del genere, esso poteva essere visibile in condizioni favorevoli, cioè quando la distanza angolare dalla sua stella madre raggiungeva il valore massimo. Per calcolare quando sarebbe accaduto, era essenziale conoscere quanto tempo impiegava il pianeta per compiere un'orbita completa attorno alla stella, il che poteva presumibilmente essere dedotto dall'intervallo di tempo che separava due eclissi successive. Pigott e Goodricke continuarono a effettuare osservazioni notturne e nell'aprile successivo l'intervallo massimo di tempo si era ridotto a sole 69 ore.
In seguito essi abbandonarono questa spiegazione delle variazioni di Algol in termini di eclissi, anche se oggi sappiamo che era corretta. I cambiamenti nelle condizioni di visibilità li portarono a dubitare del fatto che le variazioni alternate di luminosità di Algol avessero la simmetria e la regolarità richieste da una simile spiegazione; nell'ottobre 1784, per esempio, Goodricke annotò nel suo diario che "Algol non era diminuita tanto rispetto a com'è generalmente".
Cosa più importante, i due amici scoprirono altre tre stelle variabili a breve periodo e, per almeno due di queste, nessuna ipotesi basata su un processo di eclissi era possibile. Agli inizi del settembre 1784 Goodricke cominciò a sospettare variazioni in β Lyrae. Attorno alla fine del mese ebbe conferma di tali sospetti e fu in grado di attribuire alle variazioni un periodo o di 13 giorni o della metà di tale tempo. In effetti si pensa che β Lyrae sia una stella doppia (o binaria, ossia una coppia di stelle che orbitano una attorno all'altra), in cui le due compagne, quella più brillante e quella più debole, sono molto vicine tra loro e hanno una forma ellissoidale per effetto di una distorsione di marea; ognuna è soggetta a eclissi una volta ogni 12,91 giorni, e un notevole calo di luminosità si alterna a un calo di minore entità.
Proprio nella notte di settembre in cui Goodricke sospettò per la prima volta delle variazioni in β Lyrae, Pigott rilevò che la stella nota come η Aquilae appariva meno luminosa di θ Serpentis, contrariamente a ciò che aveva notato l'anno precedente. η Aquilae variava relativamente poco nel corso di sette giorni, poi subentrava un rapido incremento della sua luminosità seguito da un lento decremento, il che era impossibile da spiegare in base a un'ipotesi di eclissi. Un mese più tardi Goodricke rilevò un'alterazione del normale ordine di luminosità delle stelle appartenenti alla costellazione di Cefeo e subito collegò questo fatto a cambiamenti in δ Cephei; anche questa stella diventava rapidamente più brillante e poi perdeva lentamente luminosità.
Della vasta gamma d'ipotesi fisiche che Pigott e Goodricke presero in considerazione per spiegare tali variazioni, nessuna riusciva ad accordarsi in modo soddisfacente con le osservazioni effettuate. Due delle stelle variabili erano in realtà stelle binarie che si eclissavano tra loro, mentre le altre due erano 'Cefeidi variabili', ossia stelle singole che pulsavano in maniera regolare. L'ipotesi, certamente più flessibile, delle chiazze scure, proposta un secolo prima, sembrava ancora offrire la spiegazione più plausibile.
I due dilettanti di York conclusero la loro comune campagna di studio ai primi del 1786, quando la famiglia Pigott andò all'estero e, qualche settimana più tardi, il ventunenne Goodricke morì per un'influenza. Grazie ai loro sforzi l'astronomia si era arricchita di una nuova classe di stelle. Le stelle note in passato come 'variabili' subivano fluttuazioni di luminosità che si prolungavano per molti mesi o anni, sempre ammesso che si ripresentassero; ora gli astronomi erano a conoscenza di variabili a breve periodo, che completavano il loro ciclo in pochi giorni soltanto. I processi fisici che causavano queste fluttuazioni restarono però misteriosi e non sarebbero stati compresi fino a che le conoscenze ottenute grazie alla spettroscopia della luce stellare, unitamente agli sviluppi teorici, non consentirono di approfondirli.
Newton e i suoi contemporanei del tardo XVII sec. erano perfettamente a conoscenza dei cambiamenti di luminosità di alcune stelle, ma per quanto riguarda la posizione esse continuavano a sembrare fisse e prive di moto. La prima prova che la realtà era differente fu pubblicata in un breve articolo di Edmond Halley (1656-1742) apparso nelle "Philosophical Transactions" della Royal Society di Londra nel 1718. Halley aveva continuato a confrontare le posizioni delle stelle osservabili con quelle registrate nell'Antichità, con l'intento di calcolare di nuovo la velocità della precessione degli equinozi, una grandezza di fondamentale importanza in astronomia dal momento che tale precessione altera costantemente le coordinate della posizione di una stella. Halley scoprì che le posizioni più recenti di tre stelle brillanti, Aldebaran, Sirio e Arturo, non potevano essere spiegate semplicemente in base alla precessione e che quindi esse si erano effettivamente spostate rispetto ad altre stelle. Dopo tutto "queste stelle, che sono le più evidenti nel cielo, sono con tutta probabilità le più vicine alla Terra e se hanno qualche moto proprio particolare è più probabile che sia percepito in esse […]" (Considerations on the change of the latitudes of some of the principal fixt stars, p. 737).
Furono pochi gli astronomi che dubitarono dell'affermazione di Halley poiché, se Newton era nel giusto quando asseriva che le stelle erano corpi isolati, liberi di muoversi e soggetti alle forze di attrazione gravitazionale delle altre stelle, il fatto che esse potessero essere in stato di quiete era certamente difficile da comprendere. Per esempio, il successore di Newton a Cambridge, William Whiston (1667-1752), aveva in precedenza suggerito che la ragione per cui tali moti individuali o 'propri' ‒ che erano naturalmente relativi a un eventuale moto del Sistema solare ‒ non erano ancora stati rilevati, poteva dipendere dal fatto che il Sole si muoveva insieme alle altre stelle.
Tuttavia gli osservatori impiegarono molti decenni per raccogliere dati su questi moti propri che fossero abbastanza attendibili per avere una visione più chiara delle situazioni di moto relativo delle stelle, e questo per un semplice motivo. Un moto proprio ‒ la velocità angolare di una stella nel cielo ‒ risulta dall'osservazione della posizione di una stella che, impiegando decenni o secoli, cambi da una posizione A nel passato a una posizione B nel presente; più lungo è l'intervallo, più evidente sarà il cambiamento e più attendibile la misurazione della velocità angolare. Tuttavia, quanto più dobbiamo risalire all'indietro nel passato per trovare una documentazione della posizione A, tanto meno esatta sarà presumibilmente la registrazione. Tolomeo nel II sec. d.C. usava una strumentazione primitiva, Tycho Brahe nel XVI sec. operava prima dell'invenzione del telescopio, mentre Johannes Hevelius un secolo più tardi si rifiutava testardamente d'includere il cannocchiale tra i suoi strumenti. Persino John Flamsteed (1646-1719), il primo astronomo reale d'Inghilterra, la cui vita professionale fu dedicata alle misurazioni di precisione delle posizioni stellari con l'ausilio di cannocchiali, operava ignorando due effetti disturbanti la cui esistenza era ancora insospettata quando egli morì nel 1719.
La scoperta di questi effetti fu un'inaspettata conseguenza secondaria del tentativo di misurare la distanza di una stella, compiuto alla metà degli anni Venti del Settecento dall'astronomo dilettante londinese Samuel Molyneux (1689-1728) e dal suo giovane collega James Bradley (1693-1762), tentativo sul quale si tornerà in seguito. Il primo effetto perturbativo, la cosiddetta 'aberrazione stellare', fu reso noto da Bradley nel 1729: la posizione di una stella ‒ cioè la direzione da cui la luce della stella sembra provenire quando essa raggiunge l'osservatore posto sulla Terra ‒ è influenzata dal movimento della Terra, più o meno come la direzione della pioggia che colpisce il finestrino di un treno è influenzata dal movimento del treno. Il secondo effetto, reso noto da Bradley nel 1748, riguardava l'oscillazione dell'asse terrestre, o 'nutazione', dovuta all'azione delle forze di attrazione gravitazionale della Luna e del Sole; tale nutazione influisce infatti sul sistema di riferimento usato per misurare le posizioni delle stelle.
Come conseguenza della nutazione e, più in particolare, dell'aberrazione, la posizione osservata di una stella poteva cambiare di diverse decine di secondi di arco, una quantità enorme se confrontata con la maggior parte dei moti propri (il moto proprio di Sirio, per esempio, risulta poco più di 1″ all'anno). Dal momento che tali complicazioni influenzarono tutte le posizioni stellari prima di Bradley, comprese quelle riportate nella grande Historia coelestis Britannica (1725), opera in tre volumi di Flamsteed, trascorse qualche tempo prima che gli astronomi potessero misurare i moti propri in maniera attendibile e accurata. Il principale contributo in questo senso fu dato dallo stesso Bradley. Nominato astronomo reale nel 1742, egli dapprima riallestì l'Osservatorio di Greenwich e quindi s'impegnò in un programma intensivo di misurazione delle posizioni stellari, pienamente consapevole della necessità di registrare le informazioni che avrebbero permesso un'esatta 'riduzione' dei dati non elaborati, in maniera tale che si tenesse conto dell'aberrazione e della nutazione come pure della rifrazione e di altre complicazioni già note. Bradley morì nel 1762 senza aver portato a termine il lavoro; neppure i suoi dati grezzi furono disponibili fino a quando non furono pubblicati verso la fine del secolo.
Fortunatamente, Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846), un matematico di notevole talento, nel 1755 si incaricò di 'ridurre' molte delle stelle di Bradley fornendo in questo modo le posizioni iniziali per numerose determinazioni successive dei moti propri. Bessel confrontò le posizioni delle stelle del suo tempo con le posizioni del 1755 per ottenere il primo elenco esteso e attendibile di moti propri; al suo libro, pubblicato nel 1818, diede il titolo ambizioso di Fundamenta astronomiae.
Un moto proprio è la proiezione sulla sfera celeste del moto della stella relativo al moto del Sole e del Sistema solare. Come abbiamo visto, Whiston aveva già mostrato che l'incapacità dei suoi contemporanei di rilevare i moti propri poteva dipendere dal fatto che il Sole si muoveva solidalmente con altre stelle quando queste si spostavano nello spazio; del resto, già nel 1748 lo stesso Bradley aveva osservato che un certo andamento complessivo dei moti propri andava attribuito al moto del Sistema solare e soltanto le deviazioni rispetto a questo andamento dovevano essere attribuite ai moti delle singole stelle.
Ma quale forma doveva avere questo moto complessivo? La spiegazione fu data da Johann Tobias Mayer (1723-1762) in un'opera pubblicata nel 1760. Quando si cammina in mezzo a una foresta, gli alberi a sinistra sembrano spostarsi sempre più a sinistra e gli alberi a destra sempre più a destra. Allo stesso modo, se il Sole e il Sistema solare si stanno muovendo in una certa direzione (verso un punto nel cielo oggi definito 'apice solare'), le stelle sembreranno allontanarsi da questo punto (lungo enormi circonferenze convergenti verso il punto opposto, o 'anti-apice'). Mayer stesso non fu comunque in grado di rilevare questo tipo di movimento nei dati sui moti propri di cui disponeva.
Il primo ad asserire di aver individuato tale modello e a proporre una direzione per l'apice solare fu William Herschel nel 1783. Nella maggior parte delle sue ricerche fu avvantaggiato rispetto a quasi tutti gli astronomi contemporanei in virtù della potenza e della qualità dei telescopi che si era costruito; tuttavia questa indagine fu da lui effettuata a tavolino, usando dati sui moti propri che erano disponibili per chiunque. Infatti, Nevil Maskelyne (1732-1811), astronomo reale, aveva pubblicato i dati relativi ai moti propri di sette stelle brillanti; quindi, si poteva spiegare la direzione di tutte e sette le componenti in ascensione retta con l'assunzione di un apice situato in un punto arbitrario all'interno di una certa zona della sfera celeste. Facendo riferimento alla stessa zona si poteva anche spiegare la componente in ascensione retta della maggior parte dei dodici moti presi in considerazione da Mayer; questi ultimi erano stati ripubblicati, perché ritenuti convincenti, dall'astronomo francese Joseph-Jérôme Le Français de Lalande (1732-1807), dato che essi mostravano (nel volgere di mezzo secolo o quasi) un cambiamento di almeno 18″ di arco in una delle due coordinate. Tra queste stelle vi era pure Aldebaran, anche se il suo cambiamento in ascensione retta era stato registrato di soli 3″, un valore che ricadeva ampiamente all'interno dell'errore strumentale. Herschel, tuttavia, per nulla influenzato da simili considerazioni, fece pieno affidamento sui valori relativi ad Aldebaran e riuscì in questo modo a ridurre l'area della zona che aveva ricavato dai dati di Maskelyne. Dopo aver analizzato i cambiamenti in declinazione per ridurre ulteriormente la zona, egli propose che l'apice si trovasse vicino alla stella λ Herculis.
Per ragioni che non sono mai state chiarite pienamente, Bessel, una generazione più tardi, non fu in grado di ritrovare la stessa configurazione di moti, anche basandosi sui dati molto più estesi e attendibili contenuti nei suoi Fundamenta astronomiae. La quantità e l'attendibilità dei dati migliorava comunque anno dopo anno e attorno al 1837 Friedrich Wilhelm August Argelander (1799-1875) fu in grado di analizzare non meno di 390 moti propri, che divise in tre gruppi di diversa estensione. Ogni gruppo forniva un apice solare non lontano da quello proposto molto tempo prima da Herschel. Da allora in poi, il miglioramento dei dati e delle tecniche di analisi hanno prodotto valutazioni più sofisticate, ma l'apice del moto solare ottenuto da Herschel, con un misto di fortuna e di ragionamento, ha ampiamente resistito alla prova del tempo.
Le stelle appaiono come punti luminosi sulla sfera celeste, ma dai tempi di Descartes sono state considerate corpi estesi nello spazio tridimensionale; ci si chiese, pertanto, quale fosse in generale la scala delle distanze interstellari e quanto le stelle più vicine fossero lontane dal Sistema solare.
Quest'ultima misurazione era semplice in linea di principio ma molto complessa nella pratica. Poiché un osservatore terrestre si muove intorno al Sole trasportato durante l'anno lungo l'orbita ellittica della Terra, le stelle dovrebbero mostrare un moto apparente annuo costituito, secondo le leggi della geometria, da ellissi con dimensioni dipendenti dalla distanza della stella. Il problema consisteva nel rilevare questa 'parallasse annua', poiché l'ellisse è tanto più piccola quanto maggiore è la distanza. Tycho Brahe, nonostante la qualità impareggiabile della sua strumentazione, aveva già tentato e fallito questa rilevazione e aveva concluso che la Terra 'non' si muoveva intorno al Sole. L'alternativa era quella di collocare le stelle ad almeno 700 volte la distanza di Saturno.
La radice del problema stava nella scala temporale annuale che occorreva utilizzare. Uno strumento astronomico usato per rilevare un movimento ciclico di una stella nel corso di un anno risentiva inevitabilmente dei mutamenti climatici; le dilatazioni e le contrazioni delle sue parti avrebbero quindi introdotto errori d'osservazione che potevano tranquillamente nascondere la parallasse annua che ci si proponeva di misurare. Occorreva inoltre tenere conto dei possibili cambiamenti nella rifrazione atmosferica, le cui conseguenze erano scarsamente comprese.
Il problema fu affrontato consapevolmente per la prima volta dal versatile Robert Hooke (1635-1703); questi notò che la stella γ Draconis passava proprio sopra la sua stanza al Gresham College di Londra, per cui la sua luce entrava nell'atmosfera terrestre perpendicolarmente e quindi non era rifratta. Per evitare spostamenti nell'allineamento del suo telescopio in seguito a mutamenti climatici, egli collocò lo strumento all'interno dell'edificio, con la lente dell'obiettivo fissata al tetto.
La maturità di questi accorgimenti, attuati così presto nella storia del telescopio, è certamente d'importanza notevole. Lo strumento di Hooke era progettato per osservare un'unica stella e solamente quando questa era allo zenit. Come avviene spesso, tuttavia, i risultati di Hooke non corrisposero alla qualità dei suoi accorgimenti; nel 1669 egli riuscì a effettuare soltanto quattro osservazioni, prima che le sue cattive condizioni di salute e un incidente al vetro dell'obiettivo portassero il suo programma a una conclusione prematura.
Una generazione più tardi, Samuel Molyneux decise di riproporre il metodo di Hooke e invitò il giovane Bradley a collaborare con lui. Molyneux commissionò a un esperto costruttore di strumenti uno speciale telescopio montato verticalmente (ossia un 'telescopio zenitale') di oltre 24 piedi (7,3 m ca.) di lunghezza, che alla fine del 1725 fu fissato alla superficie nord-sud della colonna del camino della sua abitazione; al passaggio di γ Draconis il telescopio doveva essere diretto esattamente verso la stella e il suo angolo d'inclinazione rispetto alla verticale doveva essere misurato su un arco graduato. Dai calcoli risultava che attorno a Natale la parallasse annua avrebbe fatto raggiungere alla stella il massimo spostamento verso sud. Il 21 dicembre Bradley osservò il passaggio dell'astro con il semplice scopo di controllare la strumentazione; con sua grande sorpresa egli scoprì che la stella si trovava ancora più a sud dei giorni precedenti e che lo spostamento continuava ad aumentare nelle settimane successive, fino a che, attorno a marzo, essa si trovava a non meno di 20″ di arco più a sud rispetto alla posizione di dicembre. A partire da quella data la stella cominciò a invertire il suo moto, per raggiungere il massimo spostamento verso nord a settembre.
Una volta chiarito che quanto stava accadendo non era l'effetto di un errore strumentale, i due amici si chiesero se l'asse della Terra non stesse cambiando direzione e con essa il sistema di coordinate delle posizioni stellari; tuttavia, l'osservazione sistematica di un'altra stella, anche se non abbastanza brillante da essere vista durante il giorno, consentì loro di confutare questa spiegazione. Un'altra possibilità era che la Terra si muovesse attraverso un mezzo che distorceva la forma sferica dell'atmosfera che l'avvolgeva; ciò avrebbe causato quegli effetti di rifrazione che dovevano essere evitati proprio grazie al metodo di Hooke. Ma anche questa seconda ipotesi fu scartata.
Era quindi necessario estendere la ricerca prendendo in esame altre stelle, e in tal modo ottenere maggiori informazioni circa il loro comportamento d'insieme; per questo Bradley commissionò un nuovo telescopio zenitale, più corto e con un campo visivo più ampio. Nell'installarlo in casa di un parente londinese, Bradley confidava, attorno alla fine del 1727, di riuscire a capire la configurazione dei movimenti stellari; a suo avviso, le stelle raggiungevano le loro posizioni estreme quando transitavano in cielo alle sei in punto, sia di mattina sia di sera, e si muovevano verso sud se passavano di giorno e verso nord se passavano di notte. Il problema era spiegare la causa di tale comportamento.
Sembra che la risposta gli sia giunta mentre si trovava su una barca da diporto sul fiume Tamigi: una banderuola posta sull'albero cambiava direzione ogniqualvolta la barca girava, mostrando così che la direzione del vento, indicata dalla banderuola, era modificata dalla velocità della barca. Bradley prese allora in considerazione la velocità della luce. Nonostante fosse immensa, essa era finita, come aveva dimostrato mezzo secolo prima, a partire da studi compiuti sui satelliti di Giove, l'astronomo danese Ole Christensen Römer (1644-1710); un satellite infatti subiva un'eclissi in anticipo quando la luce proveniente da esso percorreva una distanza più breve del solito per arrivare alla Terra. In verità, la velocità della Terra era modesta in confronto a quella della luce, ma il loro rapporto era comunque maggiore di zero. Ne conseguiva che la direzione apparente da cui la luce della stella raggiungeva la Terra ‒ vale a dire la posizione della stella ‒ era alterata dalla velocità della Terra. Nel 1729, in una lettera pubblicata nelle "Philosophical Transactions" della Royal Society, Bradley fu in grado di annunciare la scoperta di questo fenomeno, che fu chiamato 'aberrazione della luce' (fig. 3).
Raramente una singola pubblicazione ha comportato una tale quantità di implicazioni per l'astronomia. Le scoperte di Bradley dell'aberrazione e, più tardi, della nutazione inaugurarono l'era dell'astronomia posizionale esatta. L'aberrazione offrì finalmente, dopo lungo tempo, la prova dell'ipotesi copernicana che la Terra orbita intorno al Sole. Oltre a ciò, dal momento che tutte le stelle subivano un effetto analogo, la loro luce arrivava sulla Terra alla stessa velocità, indipendentemente dalla distanza che aveva percorso; lo studio dei satelliti di Giove dimostrò che la velocità della luce era la stessa sia che la luce fosse diretta sia riflessa. In particolare, Bradley calcolò correttamente che la luce proveniente dal Sole impiegava poco più di 8 minuti per raggiungere la Terra. Egli non era riuscito a rilevare la parallasse annua di γ Draconis, ma proprio questo gli consentì di fissare il limite superiore di tale parallasse e, di conseguenza, il limite inferiore della sua distanza; concluse quindi che la stella era almeno 400.000 volte più lontana del Sole.
L'immensità di questa distanza non colse interamente di sorpresa i suoi contemporanei. Descartes aveva dichiarato che le stelle erano della stessa natura fisica del Sole e James Gregory (1638-1675) aveva affermato che il Sole non era altro che "la nostra stella fissa locale". Ammettendo, per ipotesi, che il Sole e le stelle fossero fisicamente non soltanto simili ma identici, dato che l'intensità della luce diminuisce con il quadrato della distanza, si poteva concludere che una stella con una luminosità apparente pari a un milionesimo di quella del Sole doveva trovarsi un migliaio di volte più distante (cioè a una distanza pari a un migliaio di 'unità astronomiche', ognuna delle quali è pari alla distanza media Terra-Sole). Restava soltanto la difficoltà pratica di confrontare la luminosità di una stella con l'abbagliante splendore del Sole.
I metodi con cui si tentò di effettuare questa valutazione furono due, il primo dei quali divenne largamente noto quando il popolare Cosmotheoros di Christiaan Huygens (1629-1695) fu pubblicato postumo nel 1698. Nel suo libro lo scienziato olandese raccontava di aver collocato di fronte al Sole uno schermo con un piccolo buco, nella speranza che la piccola (ma ben definita) area della superficie del Sole visibile attraverso il buco si sarebbe rivelata di luminosità uguale a quella dell'intera superficie particolarmente brillante della stella Sirio. La frazione della superficie del Sole visibile attraverso il buco avrebbe quindi fornito il rapporto fra le distanze del Sole e di Sirio. Purtroppo l'esperimento era più semplice nella teoria che nella pratica, e fu soltanto dopo qualche 'aggiustamento' che Huygens concluse che Sirio si trova a 27.664 unità astronomiche (0,4 anni-luce ca., contro il valore vero di 8,7 anni-luce).
Una tecnica alternativa era stata proposta da James Gregory nel 1668 in un trattato di geometria poco conosciuto. Gregory colse, per così dire, Giove nel momento in cui il pianeta aveva una luminosità paragonabile a quella di Sirio. Egli calcolò quindi il rapporto tra la luce proveniente direttamente dal Sole e la luce solare riflessa da Giove; in base a questo rapporto Sirio doveva trovarsi, a suo avviso, a una distanza di 83.190 unità astronomiche (1,3 anni-luce ca.). Gregory era però perfettamente consapevole di essere stato costretto a usare dati obsoleti sul Sistema solare, mentre dati migliori avrebbero comportato una distanza molto più grande.
Sembra che l'unico ad avere notizia del metodo di Gregory sia stato Newton; questi lo adottò negli anni immediatamente precedenti al 1687, quando pubblicò i Principia, deducendone che Sirio si trovava a una distanza non inferiore a un milione di unità astronomiche (15,9 anni-luce ca.). Il testo pubblicato dei Principia non conteneva però alcun accenno a questo argomento; sembra che per i quarant'anni successivi il metodo di Gregory sia stato discusso solamente entro la cerchia di scienziati vicini a Newton, fino alla pubblicazione postuma del System of the world nel 1728, qualche mese prima dell'annuncio della scoperta dell'aberrazione da parte di Bradley.
Seguendo Gregory, Newton aveva adottato l'ipotesi provvisoria dell'uniformità fisica delle stelle, ed era giunto alla conclusione che le distanze interstellari andavano valutate in milioni di unità astronomiche. Bradley aveva utilizzato misurazioni meticolose con telescopi appositamente costruiti e aveva mostrato che le stelle vicine si trovavano a distanze di 'almeno' qualche centinaio di migliaia di unità astronomiche. Il convergere di queste due conclusioni convinse gli astronomi che la scala delle distanze interstellari era ormai nota e che la parallasse annua implicava uno spostamento non maggiore della larghezza di una moneta posta a una distanza di diversi chilometri. Si trattava di una prospettiva scoraggiante. Nel XVIII sec. i calcoli di Gregory e Newton furono più volte controllati, ma gli astronomi trovarono il coraggio di affrontare direttamente, ancora una volta, il problema della parallasse annua soltanto all'inizio del XIX secolo.
Collegato per qualche verso a questioni di distanze stellari è il riconoscimento delle 'stelle multiple', cioè di sistemi stellari tenuti insieme da reciproche forze gravitazionali e costituiti da due (si parla allora di 'stelle doppie' o 'binarie'), tre ('stelle triple'), quattro ('stelle quadruple', in particolare 'stelle doppie-doppie') e, raramente, cinque ('stelle doppie-triple') o più stelle, ma sempre in numero relativamente piccolo, trattandosi altrimenti di 'ammassi stellari'.
Il riconoscimento delle stelle doppie ‒ per il quale furono applicati metodi che comprendono anche quelli relativi al riconoscimento delle stelle multiple in generale ‒ ebbe nell'astronomia del Settecento una parte piuttosto interessante. Una prima tecnica fu quella, risalente al secolo precedente, proposta per la prima volta nel 1632 da Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, che fu in seguito utilizzata con successo. Galilei fece notare che se due stelle si trovano casualmente quasi nella stessa direzione rispetto alla Terra (formando in tal modo una stella doppia) e se una delle due è molto più lontana dell'altra, allora la più lontana poteva servire da punto di riferimento praticamente fisso, fornito dalla generosità della Natura, rispetto al quale gli astronomi potevano controllare i movimenti apparenti annui della stella più vicina. Le due stelle sarebbero state influenzate dalla rifrazione allo stesso modo e uno degli effetti disturbanti sarebbe stato perciò aggirato; lo stesso ‒ aggiungiamo noi ‒ valeva anche per l'aberrazione e la nutazione, effetti che erano naturalmente sconosciuti a Galilei.
Alla fine degli anni Settanta del XVIII sec., William Herschel si stava dedicando sempre più intensamente al suo hobby dell'astronomia nella stazione termale inglese di Bath. In quanto musicista e compositore di origine tedesca, nonché scienziato autodidatta, egli non era a conoscenza del fatto che i 'veri' astronomi concentravano i loro sforzi sui corpi del Sistema solare, utilizzando le stelle poco più che come sfondo dei movimenti di pianeti e comete. Herschel, al contrario, era sempre più ossessionato dalla "costruzione dei cieli". Con l'aiuto della devota sorella Caroline (1750-1848), che sarebbe diventata a sua volta una rinomata 'cacciatrice' di comete, stava costruendo telescopi riflettori di dimensioni sempre maggiori, con cui studiare gli oggetti lontani e debolmente luminosi che popolano l'Universo. Allo stesso tempo egli continuava a 'esplorare' le stelle più brillanti allo scopo di acquisire una certa dimestichezza con il cielo notturno. Il 13 marzo 1781 Herschel era impegnato in osservazioni esplorative di questo tipo, quando gli capitò d'imbattersi in un oggetto che gli apparve subito curioso. Tornando su di esso qualche giorno più tardi, scoprì che si era mosso; non si trattava quindi di una stella lontana ma di un elemento del Sistema solare, presumibilmente una cometa; poi verificò che si trattava invece del pianeta Urano, il primo ad essere scoperto in tempi moderni.
La grande rilevanza di questa scoperta fornì agli scienziati professionisti che stimavano Herschel il pretesto per fare pressioni sul re e assicurargli una pensione; ciò gli consentì di abbandonare la musica per dedicarsi all'astronomia, con l'unico obbligo di vivere vicino al castello di Windsor e di essere disposto a illustrare i cieli alla famiglia reale quando gli fosse stato richiesto.
Una delle prime pubblicazioni di Herschel come astronomo professionista fu un elenco di 269 stelle doppie che aveva notato nel corso delle sue esplorazioni. Egli sperava che potessero essere utili nella rilevazione della parallasse annua con il metodo di Galilei. Purtroppo Herschel, da scienziato dilettante autodidatta qual era, non conosceva un importante scritto sull'astronomia stellare del geologo di Cambridge John Michell (1724-1793), che era stato pubblicato nelle "Philosophical Transactions" della Royal Society di Londra nel 1767. Qui Michell mostrava che la quantità di stelle doppie superava di gran lunga il numero che si poteva stimare in base all'ipotesi che la loro esistenza fosse dovuta soltanto alla circostanza fortuita che due stelle, viste dalla Terra, si trovavano nella stessa direzione. Egli concluse che la maggior parte delle stelle doppie era costituita da stelle binarie, ossia gruppi di due stelle fisicamente legate tra loro, presumibilmente tenute insieme dalla gravità, che quindi si trovavano alla stessa distanza dalla Terra e non potevano essere utilizzate ai fini dell'applicazione del metodo indicato da Galilei.
Volendo eliminare ogni dubbio in materia, nel 1784 Michell pubblicò subito, sempre nelle "Philosophical Transactions", un secondo articolo sull'argomento particolarmente degno di nota in quanto contiene la prima speculazione su quelli che agli astronomi contemporanei sono noti come 'buchi neri'. Michell calcolò che se una stella della stessa densità del Sole avesse avuto un raggio 500 volte più grande, la sua forza di attrazione gravitazionale sarebbe stata sufficiente a impedire alla luce di sfuggire: "Ogni luce emessa da un corpo del genere sarebbe costretta a ritornare verso di esso dalla sua gravità" (On the means of discovering the distance, magnitude, etc. of the fixed stars, p. 42). Tale stella poteva però rivelare la sua presenza a causa degli effetti della forza di attrazione gravitazionale su un'eventuale compagna. L'idea ottenne vasta risonanza allorché Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) inserì una valutazione simile nella sua nota Exposition du système du monde (1796), anche se tale idea speculativa fu abbandonata dagli astronomi poco tempo dopo per essere ripresa soltanto ai nostri giorni.
Subito dopo il volgere del secolo, Herschel trovò il tempo per riesaminare alcune stelle doppie, sulla scia dell'affermazione di Michell secondo cui esse erano coppie di compagne fisicamente collegate. Egli osservò che i cambiamenti della loro posizione relativa in diversi casi dimostravano che esse erano realmente legate da forze attrattive. A partire dal 1830 fu abbastanza evidente che le orbite erano ellittiche: si confermava così che la forza attrattiva era la gravitazione newtoniana, che valeva quindi anche per oggetti posti al di fuori del Sistema solare, dimostrando che Newton aveva avuto fondate ragioni per affermarne il carattere universale.
Lo stesso Newton aveva incontrato difficoltà a sgombrare il campo da quella che appariva la prova decisiva che la gravità non era universale: la 'fissità' delle stelle. Abbiamo visto che fino agli inizi del XVIII sec. non c'era alcuna prova dell'esistenza di movimenti delle stelle, e Newton stesso non faceva che seguire la tradizione quando, riferendosi a una stella, usava il termine latino fixa (per fixa stella). Newton aveva un atteggiamento più pragmatico di quanto spesso si pensi e fu soltanto dopo la pubblicazione dei Principia che alcune lettere di un giovane teologo, Richard Bentley (1662-1742), lo spinsero ad affrontare l'obiezione secondo cui una forza universale è una causa universale di moto e quindi la gravità universale provocherebbe sicuramente in maniera diffusa il movimento delle stelle 'fisse'.
A Newton non venne in mente che la risposta al dilemma era contenuta nell'enormità delle distanze interstellari, da cui dipende il fatto che i movimenti delle stelle sono così piccoli da essere difficilmente osservabili persino nel corso di secoli. Anche se egli aveva una nozione della scala delle distanze interstellari migliore di qualsiasi altro contemporaneo, fu forse proprio la terminologia da lui adottata a impedirgli di concepire la possibilità di movimenti stellari nascosti. Sta di fatto che la sua soluzione ‒ riportata nelle bozze, sconosciute fino a tempi recenti, di un teorema per un'edizione dei Principia che non fu mai pubblicata ‒ fu che il sistema delle stelle è approssimativamente simmetrico e perciò ogni stella, essendo attratta da ogni altra stella, subisce forze quasi uguali e opposte tra loro in ciascuna direzione. Lo studioso del 'Libro della Natura' poteva in tal modo apprendere con gratitudine come la Provvidenza al momento della Creazione avesse costruito un Universo di stelle praticamente stabile, e anche come la Provvidenza stessa sarebbe intervenuta di volta in volta se il sistema, nonostante la distribuzione simmetrica delle stelle, avesse rischiato il collasso. La Provvidenza, si poteva quasi dire, continuava a essere al servizio dell'Universo creato. Per il rivale e critico di Newton, Leibniz, interventi del genere avevano l'aria di essere semplici miracoli, ossia disperati interventi divini per evitare il disastro, il che corrispondeva a una concezione indegna di Dio; per Newton, gli interventi erano previsti e stabiliti fin dall'inizio, a dimostrazione della continua attenzione che Dio dedicava alla Creazione.
Nei teoremi cui si è accennato, Newton cercava di dimostrare che le stelle più brillanti erano per lo più distribuite in modo omogeneo nel cielo, come il suo Universo simmetrico avrebbe richiesto. Il suo modello geometrico riguardava le distanze, anche se i dati riportati nei cataloghi stellari erano espressi in termini di luminosità e di posizioni sulla sfera celeste, cioè di direzione rispetto alla Terra. Per stabilire una connessione tra il modello e le osservazioni, egli dovette supporre ancora una volta che le stelle più brillanti fossero ipso facto le più vicine. Giocando sulla relazione tra le distanze e le magnitudini tradizionalmente usate per classificare le stelle secondo la luminosità, Newton riuscì a convincersi che il numero di stelle di magnitudini successive era approssimativamente quello che ci si poteva aspettare da un Universo simmetrico.
Newton si occupò poco della fondamentale obiezione alla sua idea di un Universo simmetrico, che scaturiva dall'esistenza della Via Lattea con la sua alta concentrazione di stelle. Si trattava di un atteggiamento tipico di quel tempo; anche la prima pubblicazione di Galilei relativa alle sue osservazioni telescopiche aveva confermato, nel 1610, che la Via Lattea era in effetti formata di stelle, come si era a lungo sospettato, ma fino al secolo successivo nessuno sembrò interessato alla struttura tridimensionale del sistema galattico.
Colui che pose a Newton il problema della Via Lattea fu William Stukeley (1687-1765), che non era un astronomo ma un fisico, nonché futuro antiquario di fama. Conversando con Newton, verso il 1720, Stukeley illustrò a grandi linee la sua ipotesi speculativa che le stelle singole visibili avessero una distribuzione di forma sferica intorno a noi, mentre al di fuori di questa sfera le stelle della Via Lattea formassero un anello appiattito. Secondo Stukeley, Dio provvedeva ad accrescere eternamente verso l'esterno l'anello appiattito, continuando a creare sempre nuove stelle; nella sua concezione dell'Universo aveva quindi poco senso indagare sugli effetti gravitazionali. In realtà Stukeley stava allontanando il centro della discussione dall'azione esercitata dalle forze gravitazionali, indirizzandolo verso l'altro effetto evidente delle stelle, vale a dire la luce che queste ci inviano. Quando Newton accennò ai pregi opposti di un Universo di stelle simmetrico, Stukeley fece notare che, in un Universo del genere, una luce simile a quella della Via Lattea avrebbe dovuto provenire dall'intero cielo notturno: "L'intero emisfero [dei cieli] sarebbe dovuto apparire della stessa diffusa luminosità della Via Lattea" (Londra, Royal Society, ms. App. XXXVI, f. 69v ).
All'inizio del 1721, una mattina Newton si trovò a discutere argomenti di astronomia con Stukeley e Halley; soltanto qualche giorno più tardi, Halley, leggendo alla Royal Society il primo di due brevi scritti sulla cosmologia, Of the infinity of the sphere of the fix'd stars (1720), affermava: "Occorre occuparsi di un altro argomento di cui ho sentito parlare, e cioè che se il numero di stelle fisse fosse più che finito, l'intera superficie della loro sfera apparente sarebbe luminosa" (p. 23); il modo di esprimersi di Halley era così simile a quello di Stukeley che l'"argomento" citato proveniva sicuramente da quest'ultimo. Halley ne diede una confutazione erronea dal punto di vista matematico, volendo dimostrare che in realtà l'effetto non si sarebbe verificato, dato che le stelle lontane avrebbero trasmesso alla Terra soltanto una quantità di luce trascurabile.
I due scritti di Halley furono pubblicati nelle "Philosophical Transactions" e con ciò la tesi dell'Universo simmetrico, sostenuta a lungo in privato da Newton, divenne di pubblico dominio. Il carattere erroneo del ragionamento di Halley non passò inosservato. Nel 1744 l'astronomo svizzero Jean-Philippe Loys de Chéseaux (1718-1751) fece notare che in un Universo simmetrico, se le stelle più vicine sono a una data distanza dal Sistema solare, a una distanza doppia c'è (per così dire) spazio per un numero quadruplo di stelle, ciascuna delle quali doveva avere una luminosità pari a un quarto di quella delle stelle più vicine. Ne conseguiva che le stelle più vicine contribuiscono alla luminosità del cielo notturno con la stessa quantità di luce delle stelle situate a distanza doppia; lo stesso valeva per le stelle poste a distanza tripla, quadrupla, e così via indefinitamente. Dato che il ragionamento vale per stelle che si trovano a distanze sempre maggiori, siamo autorizzati a immaginare il cielo notturno come interamente luminoso, al punto da risplendere con la stessa intensità della luce del Sole.
Il fatto che ciò in realtà non avvenga, secondo Chéseaux, poteva essere spiegato dall'esistenza di un oscuramento interstellare. La deduzione matematica presuppone infatti che tutta la luce che proviene da una stella giunge alla sua destinazione, ossia che lo spazio è perfettamente trasparente; ma per Chéseaux questo non poteva essere vero nel mondo reale. Se la luce, percorrendo la distanza tra una stella e quella successiva, subiva anche una minima attenuazione, questo effetto si sarebbe moltiplicato al crescere delle distanze, e quindi le stelle lontane avrebbero contribuito alla luminosità del cielo notturno in misura molto minore di quanto supposto dal ragionamento geometrico idealizzato.
Una spiegazione simile fu esposta nel 1823 dal fisico tedesco e astronomo dilettante Heinrich Wilhelm Mathias Olbers (1758-1840), e quando l'oscurità del cielo notturno diventò un tema rilevante nella cosmologia moderna la questione fu erroneamente definita 'paradosso di Olbers'.
La spiegazione della Via Lattea
Nel corso del XVIII sec. gli astronomi professionisti si occuparono raramente di questioni cosmologiche; tra i pensatori dilettanti Stukeley fu invece soltanto il primo di numerosi personaggi che specularono sulla struttura dell'Universo divino. Una figura più significativa fu quella di Thomas Wright (1711-1786) di Durham, un autodidatta di umili origini che si guadagnava da vivere girando l'Inghilterra in lungo e in largo, tenendo conferenze pubbliche e dando consigli all'aristocrazia sulla cura dei propri beni. Nel 1734 Wright preparò un sermone in cui sostenne che il Sole e le altre stelle formano un sistema che occupa nello spazio un volume della forma di una sfera cava di modesto spessore; al centro della sfera vi è la Dimora di Dio, o Paradiso, mentre al di fuori vi è il Buio Esterno, o Inferno.
Ora, se le stelle fossero prive di moto, un collasso gravitazionale avrebbe presto provocato la loro caduta dentro il Paradiso riducendo così l'Universo divino a un caos; per tale motivo ogni stella era in moto e si spostava attorno alla Dimora di Dio in un'orbita situata all'interno della sfera cava. Per illustrare la sua concezione, Wright si servì di un grande disegno esplicativo che presentava una sezione trasversale dell'Universo. Al fine di suscitare l'interesse dei suoi ascoltatori mostrando la loro collocazione all'interno di un simile Universo, egli ritrasse liberamente la regione immediatamente circostante al Sistema solare nel modo in cui in effetti ci appare sulla Terra. Egli rappresentò il piccolo gruppo di stelle vicine come punti brillanti isolati, mentre raggruppò le numerose stelle lontane appena visibili in modo che formassero "un debole cerchio di luce", ossia la Via Lattea.
Tuttavia, dopo qualche anno, egli si rese conto dell'errore contenuto in questa spiegazione della Via Lattea. La sezione trasversale dell'Universo che aveva disegnato era solamente una delle molte sezioni trasversali possibili, mentre la Via Lattea forma un unico cerchio nel cielo. Alla fine egli modificò il suo precedente modello in modo da superare questa difficoltà; la nuova versione ebbe il massimo risalto nel suo bel volume An original theory or new hypothesis of the Universe, pubblicato nel 1750. Peraltro, Wright ammise che vi era un secondo modo di spiegare la Via Lattea. Se il sistema delle stelle che circondavano il Centro Divino formava non una sfera ma un anello dalla forma di un disco appiattito, allora le stelle immediatamente intorno all'osservatore posto all'interno del disco avrebbero assunto ancora una volta l'aspetto della Via Lattea. Questo modello comunque non offriva alcuna spiegazione sul motivo per cui il disco si trovava su un piano piuttosto che su un altro.
L'influenza effettiva del trattato di Wright è difficile da accertare. Probabilmente sarebbe stata minima, se un compendio del libro non fosse apparso in un periodico di Amburgo l'anno successivo e non fosse stato letto dal giovane filosofo Immanuel Kant. Nonostante le numerose illustrazioni di An original theory, le idee di Wright erano a malapena comprensibili; era quindi facile che un semplice compendio, privo di illustrazioni, potesse essere frainteso. Inoltre Wright, elaborando in maniera stravagante le sue prime speculazioni, presentava il Centro Divino del sistema stellare contenente il Sole semplicemente come uno degli innumerevoli centri divini, ciascuno dei quali aveva il proprio sistema stellare. Questo non fu compreso da Kant il quale, non senza ragione, suppose che l'Universo di Wright contenesse un unico Centro Divino, che secondo lui era troppo lontano dal nostro sistema stellare per avere qualche rilevanza nelle spiegazioni della Via Lattea. Stando così le cose, non c'era più alcuna ragione per cui il disco appiattito dovesse avere una zona centrale vuota; secondo Kant, si poteva sostenere che il disco si estendesse senza soluzione di continuità da un bordo esterno fino al bordo esterno opposto.
In definitiva, Kant credeva che gli fossero proposti due modelli alternativi del nostro sistema stellare, uno sferico e l'altro a forma di disco. Egli riteneva inoltre che vi fossero altri sistemi del genere nell'Universo e che il francese Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) avesse già osservato come alcuni di essi avessero un contorno ellittico. In generale, un disco circolare sarebbe apparso di forma ellittica, mentre una sfera sarebbe apparsa di forma circolare da qualunque direzione fosse osservata. Era quindi presumibile che i sistemi osservati da Maupertuis avessero la forma di un disco piuttosto che quella di una sfera; per questo Kant respinse il modello sferico del nostro sistema stellare proposto da Wright, e adottò il suo modello del disco circolare. Fu così che si pervenne al primo modello sostanzialmente corretto della nostra Galassia.
Gli stessi problemi erano affrontati sul piano speculativo anche dall'eclettico scienziato alsaziano Johann Heinrich Lambert (1728-1777), convinto sostenitore della stabilità dell'Universo-orologio di Newton, nel quale i movimenti ciclici si ripetevano incessantemente. A suo parere, il Sistema solare (con il suo numero finito di pianeti, le cui orbite rotanti attorno a un Sole centrale non si allontanavano mai dal piano dell'ellittica) era solo uno dei componenti di un sistema più grande, a sua volta componente di un sistema più grande ancora, secondo un ordine gerarchico che si estendeva indefinitamente. In particolare, la Via Lattea consisteva di un numero finito di questi sistemi stellari subordinati, ciascuno dei quali orbitava senza sosta attorno a un corpo centrale (scuro), pur non allontanandosi mai dal piano della Galassia.
Per ragioni differenti le speculazioni di Kant e Lambert ebbero una diffusione ristretta, con un'influenza che sembra essere stata minima. Tuttavia, il fatto che il problema della Via Lattea sia stato affrontato nell'arco di pochi anni da tre pensatori, che occupavano una posizione marginale rispetto alle principali correnti dell'astronomia ufficiale, è il segno che la scienza convenzionale si dimostrava troppo restrittiva nel suo approccio ai problemi. Fu William Herschel, quasi da solo, a porre fine a questa situazione.
Herschel cominciò a registrare le sue osservazioni il 4 marzo del 1774. Utilizzando un telescopio riflettore dotato di una distanza focale di 5 piedi e mezzo (1,68 m ca.), egli osservò la nebulosa di Orione e ne tracciò uno schizzo. Come annotava, "la sua forma non era quella che il dottor Smith ha delineato nel suo Opticks. […] Se ne può dedurre che senza dubbio vi sono cambiamenti tra le stelle fisse e che forse da un'attenta osservazione di questa stella si possono trarre conclusioni circa la sua natura" (Londra, Royal Astronomical Society, Herschel manuscripts, ms. W.2/1.1).
Il termine nebula era descrittivo, essendo usato per caratterizzare quelle macchie diffuse lattiginose del cielo che apparivano così diverse dagli oggetti dai contorni nitidi corrispondenti alle stelle e ai pianeti. Curiosamente, nel suo Sidereus nuncius del 1610, Galilei neppure cita la nebulosa di Orione, nonostante egli pubblichi un disegno di numerose stelle presenti in quella regione del cielo, osservate con il suo cannocchiale. Nel 1656 Huygens tracciò, invece, uno schizzo della nebulosa ‒ peraltro visibile a occhio nudo in condizioni favorevoli ‒ che fu riprodotto nel 1738 da Robert Smith (1689-1768) di Cambridge nel suo A compleat system of opticks, il libro dal quale Herschel stava imparando il modo di costruire i telescopi.
Un elenco di una mezza dozzina di autentiche nebulose era stato pubblicato da Halley nelle "Philosophical Transactions" (1716). Vi erano due opinioni plausibili sulla loro natura. Era chiaro che un ammasso stellare, posto a una distanza troppo grande perché si potessero distinguere le singole stelle, sarebbe apparso nebuloso (come avveniva per la Via Lattea, anche se su scala molto più ampia); quindi tutte le nebulose avrebbero potuto essere semplicemente ammassi stellari visti da un'enorme distanza. D'altra parte, era possibile che nei cieli esistesse un fluido luminoso di natura assai diversa da quella delle stelle. Questa era l'opinione di Halley, per il quale una nebulosa era "niente altro che la luce proveniente da uno Spazio nell'Etere straordinariamente grande" (An account of several nebulae or lucid spots like clouds, p. 390).
La scelta tra queste due ipotesi contrastanti poteva essere favorita da due verifiche osservative. In primo luogo, la costruzione di un nuovo e più potente telescopio avrebbe permesso di 'scomporre' gli elementi costitutivi di un maggior numero di nebulose, dimostrando quindi che esse erano realmente ammassi di stelle. La difficoltà era che alcune nebulose sarebbero comunque apparse confuse, anche se osservate con telescopi sempre più potenti. Fino a che punto, quindi, si era autorizzati a generalizzare le osservazioni raccolte, affermando che nel futuro ogni nebulosa sarebbe stata scissa nelle sue componenti, non appena fosse stato disponibile uno strumento di sufficiente potenza con cui esaminarla?
In secondo luogo, l'attenta osservazione di una particolare nebulosa per un certo periodo di tempo poteva rivelarne eventuali mutamenti di forma. Ciò avrebbe mostrato che l'oggetto in questione era una vera nebulosa, dal momento che un tale insieme di stelle, così lontano da non potersi distinguere i singoli astri e così vasto da occupare una parte rilevante del cielo, sarebbe stato di dimensioni enormi, tali da non consentire sensibili cambiamenti in pochi mesi o anni.
D'altra parte, però, qualunque fosse la rappresentazione grafica del visibile, era opera di un particolare osservatore con particolari capacità (talvolta limitate) di disegno, che operava con un particolare telescopio in particolari condizioni visive. Come si poteva dunque essere sicuri che la differenza tra due riproduzioni di una nebulosa fosse la prova che quest'ultima aveva in effetti cambiato forma? Nel caso specifico, la discussione sulla natura delle nebulose ‒ e sull'autenticità dei cambiamenti documentati ‒ sarebbe durata molto a lungo anche dopo l'introduzione della fotografia astronomica, ossia fino al XX secolo.
Anche se Herschel aveva mostrato una notevole perspicacia su questo argomento sin dall'inizio del suo libro di appunti, trascorse qualche anno prima che potesse dedicarsi allo studio delle nebulose. Alla fine degli anni Settanta del XVIII sec. ‒ quando era ancora un musicista in piena attività ‒ la maggior parte del suo tempo libero era dedicata a migliorare la strumentazione e a procurarsi telescopi riflettori, i cui grandi specchi gli permettevano di raccogliere da tali oggetti lontani e indistinti una quantità di luce sufficiente da renderli visibili all'osservatore. Nel 1776 Herschel costruì un telescopio riflettore dotato di una distanza focale di 20 piedi (6,1 m ca.) e di specchi di 12 pollici (30 cm ca.) di diametro; questo 'piccolo 20 piedi', come fu chiamato più tardi, aveva un sistema di montaggio primitivo, essendo fissato a un unico punto, alla maniera dei rifrattori a lungo fuoco tipici del XVII sec., mentre l'osservatore era arrampicato precariamente in cima a una scala a pioli; egli costruì in seguito altri telescopi, uno dei quali ancora più grande del '20 piedi' (per le caratteristiche di questo e di altri telescopi costruiti da Herschel, in particolare il 'grande 20 piedi' citato più avanti, v. cap. XXIV).
Negli anni precedenti, Herschel aveva trovato il tempo di osservare di nuovo la nebulosa di Orione numerose volte e di confermare (come egli riteneva) che essa cambiava ripetutamente il suo aspetto; ma al momento della scoperta di Urano nel 1781, che presto avrebbe portato alla sua conversione ad astronomo professionista, egli aveva osservato soltanto un piccolo gruppo di altre nebulose. A dicembre dello stesso anno un amico gli inviò un catalogo di nebulose raccolte dal 'cacciatore di comete' francese Charles Messier; durante l'autunno seguente, dalla sua nuova casa presso il castello di Windsor, egli fu finalmente in grado di dedicarsi seriamente a questi misteriosi oggetti.
La sorella Caroline nel frattempo era stata incaricata di andare alla ricerca di nuove comete e a tale scopo le era stato assegnato un piccolo telescopio, ma i primi oggetti confusi che scoprì si rivelarono essere tutti nebulose. Sorpreso da ciò, nel 1783 Herschel stesso cominciò a esplorare il cielo alla ricerca di nebulose, servendosi di un piccolo telescopio rifrattore acromatico. Mentre un telescopio di questo tipo era lo strumento adatto alla ricerca frettolosa di una nuova cometa nei cieli, le nebulose permanenti potevano tranquillamente attendere il loro turno per essere esaminate con uno strumento più grande (e Herschel in quel periodo stava ultimando l'apparecchio ideale per un simile scopo).
Il telescopio riflettore, detto 'grande 20 piedi', che egli realizzò nell'ottobre 1783, era più potente del precedente, con specchi di 18 pollici e mezzo (47 cm ca.) di diametro; fatto più importante, l'osservatore era sistemato stabilmente su una piattaforma fissa, anziché trovarsi in posizione instabile su una scala. Non appena questo 20 piedi fu operativo, Herschel iniziò un'esplorazione sistematica dei cieli visibili dall'Inghilterra a caccia di nebulose. Con il telescopio puntato a sud, affiancato dalla fedele Caroline che registrava i risultati, Herschel lasciava scorrere il cielo davanti a sé per esplorarne una striscia dopo l'altra alla ricerca di nebulose. Questo lavoro tenne occupati fratello e sorella per vent'anni, al termine dei quali essi avevano portato il numero di nebulose note dalle circa 100 registrate nell'ultimo catalogo di Messier a non meno di 2500.
Un tale campionario servì a trasformare la metodologia dell'astronomia. Per i professionisti, l'astronomia era stata lo studio di singoli oggetti appartenenti al Sistema solare, essendo ognuno un aspetto familiare del cielo notturno, con il proprio nome e le proprie caratteristiche. Herschel, che certo non aveva maggiori competenze, si comportava come un naturalista, pronto a raccogliere numerosi esemplari di nebulose, di stelle doppie, di altri oggetti, per poi classificare e ordinare la sua collezione.
La classificazione delle nebulose da lui realizzata si sarebbe dimostrata particolarmente innovativa. Una nebulosa, sia che fosse una nube di fluido luminoso o un ammasso stellare, era comunque una concentrazione di materia prodotta dall'azione di forze attrattive (presumibilmente la gravità). Basandosi sul principio che più a lungo avesse agito la gravità, maggiore sarebbe stato il grado di concentrazione, Herschel fu in grado di ordinare le sue nebulose per età; i disegni degli esemplari tipici di classi successive potevano essere paragonati ai ritratti di un uomo nel corso della sua vita: il concetto di sviluppo nel tempo aveva così fatto il suo ingresso nell'astronomia.
Quando cominciò a esplorare il cielo Herschel era convinto di aver rilevato alcuni mutamenti nella nebulosa di Orione, che quindi era formata non da stelle ma da materia luminosa diffusa. Questo gli pose il problema di come distinguere l'aspetto di un oggetto costituito di materia luminosa da quello di ciò che in realtà era un lontano ammasso stellare. Egli decise che un aspetto liscio, 'latteo', era indicativo di materia luminosa, mentre un aspetto irregolare, o 'a chiazze', denunciava la presenza di un ammasso stellare.
Appena presentò il suo primo scritto sulle nebulose alla Royal Society, nel giugno del 1784, gli capitò d'imbattersi nell'oggetto n. 17 dell'elenco di Messier, la cosiddetta 'nebulosa Omega'. Quattro settimane più tardi individuò M27, la 'nebulosa Dumbbell'. In queste nebulose egli vide che coesistevano forme di nebulosità lattea e a chiazze e, nel caso di M27, anche singole stelle. Si sentì perciò costretto a rivedere la sua precedente opinione. Dimenticandosi dei cambiamenti che aveva creduto di scorgere nella nebulosa di Orione, egli cominciò a considerare tutti gli oggetti nebulosi come sistemi stellari lontani; le differenze nell'aspetto derivavano non tanto da una diversa costituzione fisica, ma da una diversa distanza, e la nebulosità lattea indicava la presenza di stelle a grandi distanze.
La nebulosa di Orione era necessariamente un ammasso stellare del genere, ma se era così lontana che le singole stelle non potevano essere viste e così estesa da apparire tanto diffusa nello spazio, le sue dimensioni reali dovevano essere enormi. Di fatto, nebulose di questo genere "potevano benissimo superare in grandezza la nostra Via Lattea"; per questo motivo negli anni Ottanta Herschel cessò di credere nell'esistenza di altre galassie di forma simile alla nostra.
Il 13 novembre 1790 la convinzione di Herschel che le nebulose fossero tutte costituite da ammassi stellari ricevette il colpo definitivo. Egli era stato a lungo perplesso a proposito di quelle che aveva definito "nebulose planetarie", oggetti dotati della forma a disco tipica dei pianeti ma con la pallida luce peculiare delle nebulose. Quella notte stava come al solito esplorando il cielo in cerca di nebulose, quando gli capitò d'imbattersi in "un fenomeno tra i più singolari"; si trattava in effetti di un'altra nebulosa planetaria che questa volta era abbastanza vicina da poter essere vista da Herschel come una "stella nebulosa", ossia come un oggetto composto da una stella centrale circondata da un'atmosfera luminosa. "La stella è perfettamente al centro e l'atmosfera è così diluita, scarsamente luminosa e uguale in ogni sua parte, che non si può presumere che essa sia costituita da stelle; né si può dubitare dell'evidente connessione tra l'atmosfera e la stella" (On nebulous stars, properly so called, 1791, p. 82). Egli decise che l'unica interpretazione fisica possibile era che la stella stesse condensando l'atmosfera circostante; in fin dei conti, si doveva ammettere l'esistenza di una materia luminosa che si trasformava in stelle.
La sua rinuncia alla convinzione che tutte le nebulose fossero ammassi stellari resi confusi dalla distanza ebbe conseguenze fondamentali per la sua attività teorica. Per esempio, egli non poteva più affermare che un oggetto come la nebulosa di Orione fosse una galassia comparabile alla nostra; era altrettanto possibile che fosse una nube vicina di materia luminosa. Per di più, dato che ora Herschel ammetteva che i confini della nostra Galassia si estendessero al di là della portata anche dei suoi telescopi più potenti, non si poteva imporre alcun limite alle sue dimensioni. Tra le nebulose potevano esservi galassie simili alla nostra, ma egli non poteva provarlo e finì per assumere una posizione agnostica.
In ogni caso, ora Herschel poteva proporre una cosmogonia che abbracciava allo stesso tempo la materia luminosa e i sistemi stellari. Come espose in alcuni scritti pubblicati nel 1811 e nel 1814, all'inizio vi erano nubi di materia luminosa diffuse in zone di vaste dimensioni; con il tempo, la forza di attrazione gravitazionale esercitata dalle regioni in cui la nube era relativamente più densa avrebbe attratto la materia luminosa circostante e causato la suddivisione della nube in frammenti più piccoli, e questo processo sarebbe continuato fintanto che la condensazione della materia luminosa non avesse cominciato a formare le singole stelle. Nel corso del tempo queste stelle si sarebbero raccolte in ammassi sempre più concentrati, fino a quando probabilmente un collasso gravitazionale non avesse di nuovo prodotto l'espulsione di materia luminosa nello spazio circostante, permettendo così all'intero processo d'iniziare daccapo. Herschel espose questa concezione evoluzionistica illustrando ogni singola tappa del processo con numerosi esempi tratti dai suoi cataloghi di nebulose e ammassi stellari.
All'inizio del XVIII sec. gli astronomi consideravano le stelle ancora fisse, anche se era noto che alcune di esse avevano una luminosità variabile. Erano state identificate parecchie nebulose, ma poco era stato scritto su di esse. Si sapeva che la Via Lattea era composta di stelle, ma vi era uno scarso interesse per la sua forma tridimensionale o per la struttura del sistema delle stelle nella sua interezza; i pochi che riflettevano su questioni del genere erano motivati dall'ambizione di capire l'Universo divino, più che dall'ambizione d'interpretare i dati osservativi. Nelle "Philosophical Transactions", gli articoli sull'astronomia stellare erano rari e brevi.
Attorno alla fine del secolo era stata stabilita la scala delle distanze interstellari. Si sapeva che le stelle si muovevano indipendentemente e questi movimenti erano stati sfruttati per avanzare le prime ipotesi sulla direzione in cui il Sistema solare si andava spostando nello spazio. Vari tipi di stelle variabili erano stati identificati, anche se per il momento si aveva a disposizione un'unica spiegazione del fenomeno, valida per tutti gli usi. Era stato catalogato circa un centinaio di stelle doppie e vi erano buone ragioni per credere che si trattasse di coppie di stelle legate fisicamente. La spiegazione della Via Lattea come l'effetto ottico del nostro essere immersi in uno strato di stelle era stata avanzata da numerosi autori ed era stato fatto anche il primo tentativo di tracciare su una carta i suoi contorni usando un metodo basato sulle statistiche stellari. Era stato redatto un catalogo di circa un migliaio di misteriose nebulose, classificate per età e quindi inserite in un processo cosmogonico. I lettori delle "Philosophical Transactions" si stavano abituando a lunghi articoli sul contenuto e sulla 'costruzione' dell'Universo stellare.
Alcuni di questi sviluppi si basavano sull'applicazione alle stelle dei metodi tradizionali della scienza astronomica. Invece l'introduzione nell'astronomia dei metodi della storia naturale da parte di Herschel, ivi compreso il conteggio degli esemplari e la loro classificazione per tipi ed età, comportò per i contemporanei una sfida non sempre ben accetta. Le prime pubblicazioni da dilettante concedevano vantaggi ai suoi critici; infatti le sue affermazioni erano espresse rozzamente e apparivano incredibili persino quando erano pienamente giustificate. Alla Royal Society vi fu qualcuno che lo dichiarò adatto solamente per l'ospedale psichiatrico di Bethlehem. Eppure la sua scoperta di Urano fu un risultato sorprendente e inconfutabile, dato che il telescopio da lui costruito in casa gli aveva consentito di riconoscere a prima vista l'aspetto anomalo di un oggetto che fino ad allora era sembrato normale a illustri professionisti. Tuttavia, più tardi, quando apparve nelle "Philosophical Transactions" il suo resoconto delle osservazioni accumulate nel corso della campagna di ricerca sulle nebulose, persino i suoi alleati non sapevano come utilizzarne i dati, poiché soltanto lui riusciva a vedere questi misteriosi oggetti e i fortunati che avevano avuto il privilegio di poter acquistare un grande telescopio riflettore prodotto da Herschel raramente lo utilizzavano in maniera appropriata. Ancor meno i lettori sapevano interpretare i risultati da lui conseguiti, poiché Herschel aveva la duplice prerogativa di essere un grande osservatore e al tempo stesso di attribuire grande importanza alle speculazioni.
D'altra parte, il prestigio di Herschel era tale che egli godette di un diritto quasi automatico di pubblicazione sulla principale rivista scientifica del tempo ‒ le già citate "Philosophical Transactions" ‒ e i suoi scritti furono letti dai suoi contemporanei e dai loro discendenti in tutto il mondo. Il definitivo inserimento dell'opera di Herschel all'interno del filone principale dell'astronomia è dovuto però principalmente a suo figlio John Frederick William (1792-1871), il quale ottenne riconoscimenti fino a diventare un membro eminente della comunità scientifica. Dopo la morte del padre, nel 1822, egli impiegò una versione rinnovata del '20 piedi' per esplorare di nuovo i cieli visibili dall'Inghilterra, dopo di che portò lo strumento in Sudafrica dove, tra il 1834 e il 1838, si trasferì per estendere la ricerca ai cieli meridionali. Il risultato finale del lavoro di John fu il Catalogue of nebulae and clusters of stars, del 1863, l'antenato del New general catalogue, o NGC, che gli astronomi usano oggi. Il suo A treatise on astronomy, del 1833, conteneva un solo capitolo sull''astronomia siderale'; ma nelle Outlines of astronomy, del 1851, le stelle e le nebulose erano discusse con ampiezza molto maggiore e l'opera raccolse un successo immenso, fu largamente tradotta ed esercitò un'influenza che contribuì a portare a termine il riorientamento dell'astronomia inaugurato da suo padre.