L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. I motori primi
I motori primi
Nel corso del XVIII sec., un piccolo gruppo di ingegneri era giunto a conoscenza, attraverso il sistema scolastico, le relazioni sociali oppure l'appartenenza alle associazioni scientifiche, dei recenti progressi nel campo delle scienze della Natura dovuti all'introduzione dei metodi di indagine formale e quantitativa. Il gruppo cominciò così ad applicare tecniche analoghe alla tecnologia, ponendo le basi di quelle che furono in seguito chiamate le 'scienze ingegneristiche'.
Le nuove scienze ingegneristiche presentavano molti punti di contatto con le scienze della Natura, ma anche alcune importanti differenze. La loro struttura non dipendeva tanto da processi di deduzione logica a partire da alcuni principî fondamentali, quanto piuttosto dalla sperimentazione e dai procedimenti induttivi; le formule matematiche utilizzate contenevano spesso coefficienti di origine empirica o erano espresse sotto forma di grafici e tabelle. Anche nelle scienze ingegneristiche si incontravano formule analoghe a quelle delle scienze della Natura ma, a differenza di queste ultime, esse si riferivano alle proprietà di oggetti artificiali piuttosto che a quelle di enti fondamentali; il loro scopo non era quindi quello di migliorare la comprensione della realtà, piuttosto quello di servire da guida alla progettazione e al funzionamento di una apparecchiatura specifica come, per esempio, una ruota idraulica 'per disotto'.
Il ruolo svolto da queste scienze nello sviluppo della tecnologia non fu lo stesso in tutti i campi: in quello dell'energia idraulica, per esempio, le fondamenta di una scienza ingegneristica erano già state gettate nel 1770 e nel 1810 essa poteva considerarsi una realtà autonoma. In molti paesi, e in particolare in Francia dove l'educazione tecnica fu istituzionalizzata prima che altrove, gli ingegneri potevano disporre di un solido patrimonio di conoscenze, distinto da quello delle scienze della Natura. Nel caso dei motori a vapore, invece, occorre attendere il 1850: in questo campo infatti un pieno sviluppo di una scienza ingegneristica fu ostacolato dalla mancanza di un'adeguata scienza del calore e dal perdurare dell'empirismo. Anche molto prima di quella data, tuttavia, è possibile trovare esempi di applicazione dei metodi quantitativi secondo il modello delle scienze della Natura.
Intorno alla metà del XVIII sec., grazie ai lavori di ingegneri come John Smeaton (1724-1792), Antoine de Parcieux (1703-1768) e Jean-Charles Borda (1733-1799), la scienza dell'energia idraulica poteva contare già su una solida base di conoscenze matematiche e formali. In seguito, la ricerca in questo campo si mosse lungo quattro direzioni fondamentali: l'elaborazione teorica delle equazioni fondamentali di Borda; l'aggiunta di coefficienti di origine empirica alle stesse equazioni; l'utilizzazione di ruote idrauliche a grandezza naturale al posto dei modelli in scala ridotta; la progettazione di nuove apparecchiature basate sui principî della scienza ingegneristica.
Nel 1782 l'ingegnere francese Lazare Carnot (1753-1823), nel suo Essai sur les machines en général, formulò il primo ampliamento teorico dell'analisi delle ruote idrauliche portata a termine da Borda nel 1767. Egli diede forma esplicita ai criteri di massima funzionalità delle ruote enunciati da Borda, "assenza di impatto all'ingresso, assenza di velocità all'uscita", estendendone la validità a tutti i tipi di macchine; le scoperte di Borda, tuttavia, furono universalmente accettate solamente dopo il 1800. Una delle direzioni imboccate dalla ricerca dopo questa data fu quella di aggiungere alle relazioni fondamentali di Borda equazioni che consentissero di calcolare le perdite di rendimento, causate dalla forza centrifuga e dal trabocco delle cassette.
Altri ingegneri preferirono adottare un approccio molto più semplice e diretto, basato sull'introduzione di coefficienti empirici in aggiunta alle suddette relazioni fondamentali. L'uso di questi coefficienti nel calcolo dell'energia idraulica, già implicito nei lavori di Smeaton, cominciò ad assumere un carattere sistematico nelle opere dell'ingegnere francese Pierre-Louis-Georges Du Buat (1734-1809), in particolare nei Principes d'hydraulique, vérifiés par un grand nombre d'expériences faites par ordre du Gouvernement, del 1786; nel 1830 l'utilizzazione di tali coefficienti era divenuta la norma. Il Traité d'hydraulique, à l'usage des ingénieurs di Jean d'Aubuisson (1769-1841), pubblicato per la prima volta nel 1834 e ampiamente utilizzato, conteneva numerose equazioni con coefficienti empirici. Il punto debole di questo metodo, spesso sottolineato dai suoi critici, era di riunire tutte le perdite di energia in un unico blocco indistinto, rendendo impossibile l'identificazione della loro origine e contribuendo ben poco alla comprensione dei processi fisici sottesi. Per gli ingegneri, tuttavia, il risparmio di tempo e fatica assicurato da questo tipo di equazioni e da altri metodi di approssimazione compensava ampiamente la mancanza di un'analisi teorica approfondita.
Il metodo dei coefficienti presupponeva l'esistenza di un'accurata attività di sperimentazione. La maggior parte delle ricerche sperimentali del XVIII sec. erano state condotte utilizzando modelli in scala, meno costosi e più maneggevoli delle ruote idrauliche reali, nonostante fosse ben noto che i risultati ottenuti per questa via non potevano essere estesi automaticamente alle ruote reali. Tale pratica proseguì tuttavia a lungo: un programma di ricerca sperimentale su vasta scala sulle ruote reali, infatti, poteva essere reso possibile solamente con un sostanzioso contributo da parte delle istituzioni; condizione, questa, che cominciò a realizzarsi solo intorno al 1820. Il più vasto programma di esperimenti su ruote idrauliche di dimensioni reali fu quello intrapreso alla fine degli anni Venti dal Franklin Institute di Filadelfia, che portò a termine una raccolta di fondi tra i fabbricanti di mulini e le industrie per la realizzazione di un grande apparato di controllo sperimentale. Tra il 1829 e il 1831 l'istituto analizzò il funzionamento di quattro ruote idrauliche con un diametro compreso tra 6 piedi (1,8 m) e 20 piedi (6,1 m); gli esperimenti permisero di stabilire, tra l'altro, che una ruota idraulica 'per disopra' di grandi dimensioni poteva raggiungere, se ben progettata, un rendimento dell'80%, mentre per le ruote più piccole si registrava un rendimento non inferiore al 67%. Il rendimento medio delle ruote 'per disotto' era del 28,5%. Per calcolare il rendimento di una ruota verticale, l'Istituto consigliava l'uso di due diversi coefficienti: 0,28 per la parte dovuta all'impatto dell'acqua in caduta; 0,90 per la parte dovuta al solo peso dell'acqua. La potenza in uscita P era quindi calcolata in base a una versione modificata della formula di Borda, e cioè P=0,90KHh+0,28Kh, dove K è il peso dell'acqua, H l'altezza totale del salto, e h è la frazione del percorso di caduta in cui l'acqua agisce per impatto. Secondo il Report del Comitato del Franklin Institute del 1831-1842, questa formula produceva risultati con un margine di errore di appena il 4% e in genere molto minore.
In Francia, Arthur Morin (1795-1880), istruttore alla Scuola di artiglieria e ingegneria militare di Metz, condusse tra il 1818 e il 1835, con il sostegno governativo, un vasto programma di esperimenti su nove ruote idrauliche utilizzate nelle fabbriche governative di armi e munizioni e in numerose industrie private fornitrici dell'esercito. Per misurare il rendimento delle ruote, gli esperimenti di Morin prevedevano l'uso di un dinamometro; essi fornirono coefficienti di correzione (per le ruote alimentate 'di fianco') compresi tra 0,755 e 0,799 a seconda del tipo di paratia utilizzato; tali coefficienti, inseriti nelle formule fondamentali per questo tipo di ruote, portavano a risultati con un margine di errore del 5%. Per le ruote 'per disopra' Morin calcolò un coefficiente di 0,78, molto vicino a quello ottenuto dal Franklin Institute (0,80).
L'introduzione di questi accurati coefficienti di rendimento, che fornivano agli ingegneri un mezzo semplice ma preciso per calcolare tutti i parametri delle ruote idrauliche, non rappresentava però la prima applicazione della nuova scienza ingegneristica alla pratica tecnologica. Gli esperimenti condotti da Smeaton intorno alla metà del Settecento avevano dimostrato la superiorità delle ruote nelle quali, oltre all'impatto, era sfruttata anche la caduta dell'acqua; di conseguenza, Smeaton utilizzò le ruote alimentate 'di fianco' solo nei casi in cui il dislivello utilizzabile non era sufficiente per azionare una ruota dall'alto. Nel linguaggio tecnico, una ruota è detta 'di fianco' quando riceve l'acqua in un punto compreso tra l'estremità superiore (ruote alimentate dall'alto o 'per disopra') e quella inferiore (ruote alimentate dal basso o 'per disotto'). Con i suoi esperimenti Smeaton dimostrò che, dotando una ruota 'di fianco' di un'intelaiatura ricurva con un profilo adeguato, in grado di trattenere l'acqua sulle pale o nelle cassette, era possibile utilizzare anche il peso dell'acqua. Le ruote 'di fianco' fabbricate da Smeaton avevano un rendimento compreso almeno tra il 40% e il 50%, ossia quasi il doppio di quello delle ruote 'per disotto'. In un articolo pubblicato nel 1813 nei "Memoirs" della Società scientifica di Manchester, Peter Ewart (1767-1842), un importante progettista di mulini, sostenne che l'appassionata illustrazione dei vantaggi della ruota 'di fianco' effettuata da Smeaton aveva portato alla virtuale scomparsa delle ruote 'per disotto' in tutta l'Inghilterra.
Gli esperimenti condotti da Jean-Victor Poncelet (1788-1867) rappresentano un altro esempio di applicazione delle scienze ingegneristiche alla pratica tecnologica. Poncelet, un ingegnere militare francese, cercò di migliorare il rendimento delle ruote idrauliche che sfruttavano dislivelli di ampiezza modesta, adottando un approccio più teorico di quello di Smeaton. Egli riteneva che le ruote 'per disotto', pur avendo uno scarso rendimento, possedessero numerosi vantaggi pratici, quali la semplicità, i bassi costi di produzione e l'elevata velocità di rotazione, che comportava la riduzione del numero di ingranaggi. Basandosi sulla teoria di Borda, Poncelet propose nel 1823 di sostituire le pale radiali piatte di questo tipo di ruote con pale ricurve. Le pale ricurve, se di dimensioni adeguate, potevano ricevere l'acqua senza alcun impatto, consentendo al liquido di scivolare dolcemente lungo la loro superficie e, quindi, di cedere gradualmente la propria energia. Inoltre, se di lunghezza appropriata, le pale avrebbero consentito all'acqua di abbandonare la ruota con una velocità uguale a quella della ruota stessa, anche se in direzione opposta al suo moto: la velocità relativa era così pari a zero. In teoria, dunque, questo tipo di ruote avrebbe potuto raggiungere un rendimento del 100%. In pratica, le ruote costruite da Poncelet avevano un rendimento di oltre il 60%, paragonabile a quello delle migliori ruote 'di fianco' e di gran lunga superiore a quello delle normali ruote 'per disotto', come egli scrisse in Mémoire sur les roues hydrauliques à aubes courbes, mues par-dessous del 1827.
Le scoperte di Poncelet furono però ben presto messe in ombra dai risultati ottenuti da altri ingegneri francesi, che applicarono la scienza ingegneristica alle ruote orizzontali, un tipo di ruota utilizzato da moltissimo tempo e presente in un'ampia varietà di forme. Gli ingegneri francesi erano i più interessati a sviluppare le possibilità offerte dalle ruote orizzontali, a causa della forte dipendenza, protrattasi per tutto l'Ottocento, dell'industria statale dall'energia idraulica. Nel 1826, la Société d'Encouragement pour l'Industrie Nationale mise in palio un premio per la migliore applicazione industriale della ruota orizzontale a pale ricurve.
Claude Burdin (1790-1873), un ingegnere dei corpi regi delle miniere e insegnante all'École des Mines, fu tra i primi a reclamare l'assegnazione del premio. Nel 1822 egli aveva infatti messo a punto un modello di ruota orizzontale a pale ricurve e dimostrato, in linea teorica, che esso avrebbe potuto soddisfare i due requisiti di Borda e Carnot: ingresso senza impatto e uscita senza velocità. Burdin, che fu anche il primo ad adottare il termine 'turbina' per la ruota orizzontale ad alta velocità di rotazione, avrebbe in seguito progettato e installato numerosi esemplari; a quanto sembra, però, i giudici della Société non ritennero che le sue macchine avessero un rendimento tale da giustificare l'assegnazione del premio.
Il successo arrise infine a Benoît Fourneyron (1802-1867), il quale agli inizi della sua carriera si era occupato prevalentemente della progettazione di impianti minerari e metallurgici. Il suo interesse per l'energia idraulica nacque nei primi anni Venti, quando fu incaricato della costruzione di un laminatoio. Data la scarsa ampiezza del salto disponibile, Fourneyron, che conosceva i lavori di Burdin, analizzò la possibilità di utilizzare una turbina al posto di una normale ruota 'per disotto' o 'di fianco'. Il suo progetto prevedeva che l'acqua fosse fatta discendere all'interno di una grossa conduttura e poi convogliata verso le pale ricurve di una ruota orizzontale fissa: queste avevano il compito di guidare l'acqua in modo tale che essa raggiungesse simultaneamente le pale ricurve di una seconda ruota, stavolta mobile, lungo la sua intera circonferenza. Le dimensioni delle pale ricurve della prima e della seconda ruota erano calcolate in modo da minimizzare l'impatto e imprimere all'acqua in uscita una velocità pari a quella della turbina, ma in direzione opposta. In questo modo la ruota riusciva a soddisfare entrambi i requisiti di Borda-Carnot. Anche se probabilmente nessuno degli elementi di base del progetto era del tutto originale, Fourneyron fu il primo a combinarli per produrre una macchina reale ad alto rendimento. Egli collaudò la sua prima turbina a Pont-sur-l'Ognon, in Francia, tra il 1823 e il 1827. Azionata da un salto di appena 1,4 m e dotata di un diametro relativamente piccolo (2,9 m), la ruota raggiunse un rendimento dell'80% a pieno regime, di gran lunga superiore a quello di ogni altra ruota orizzontale precedente: inoltre, la ruota era in grado di funzionare anche se interamente sommersa. Fourneyron costruì e collaudò in seguito altre due turbine più grandi, azionate da salti di modesta altezza. Nel 1832, inviò alla Société d'Encouragement una relazione dal titolo Mémoire sur l'application en grand, dans les usines et manufactures, des turbines hydrauliques ou roues à palettes courbes de Bélidor, contenente la descrizione delle tre turbine e le basi teoriche del progetto: l'anno successivo gli fu assegnato il premio.
Nel 1837, Fourneyron dimostrò che la sua turbina poteva essere utilizzata con profitto anche nei salti di grande altezza, avendone installata una nella cascata di St. Blasien nella Foresta Nera, alta 108 m: i risultati ottenuti stupirono gli osservatori dell'epoca. La minuscola ruota di appena 0,46 m di diametro sviluppò la sorprendente potenza di 80 CV, con un rendimento dell'80%. L'ingegnere tedesco Moritz Rühlmann (1811-1896) confessò in seguito, nel lavoro On horizontal water-wheels, especially turbines or whirl-wheels: their history, construction, and theory, pubblicato nel 1846, di essere rimasto talmente sorpreso dall'efficienza della ruota da non riuscire a credere ai propri occhi: "più volte, uscendo dalla stanza della turbina e osservando l'enorme altezza dei tubi convogliatori, non riuscivo a scacciare l'idea che si trattava di un fatto impossibile […]" (p. 18). Il progetto della turbina di Fourneyron era suscettibile di numerose varianti e lasciava ampio spazio all'innovazione; i suoi successori continuarono a utilizzare gli elementi di base della turbina da lui realizzata, modificandoli per migliorarne l'efficienza e la potenza fino alla fine del secolo, quando la turbina sostituì definitivamente la ruota verticale come motore d'elezione per l'energia idraulica.
Nel 1840 la produzione di energia idraulica poteva contare su una tecnologia sofisticata, associata a un maturo corpus di conoscenze di tipo quantitativo e sistematico. Gli specialisti si servivano di questa branca dell'ingegneria per progettare macchine idrauliche calcolando come sfruttare al meglio salti di qualunque altezza, e come guida nella ricerca di motori primi di nuova concezione. Dal 1810 in poi, la tecnologia dell'energia idraulica aveva raggiunto uno stadio così avanzato da non richiedere alcun ulteriore contributo da parte delle scienze della Natura. La presenza di una scienza ingegneristica pienamente sviluppata ridusse anche il peso delle conoscenze tratte dall'esperienza nello sviluppo di questa tecnologia, anche se non si deve sottovalutare l'importanza di alcune innovazioni di origine puramente empirica nella costruzione delle ruote, quali la sostituzione del legno con il ferro, quella dei pesanti raggi con sottili tondini di ghisa (per es. nella cosiddetta 'ruota a sospensione'), la ventilazione delle cassette, i miglioramenti delle paratie che regolavano l'immissione dell'acqua e le modifiche empiriche apportate ai componenti delle nuove turbine.
Nonostante i continui perfezionamenti, la posizione della ruota idraulica come motore primo d'elezione dell'industria europea cominciò a essere minacciata già a partire dal 1780. In Gran Bretagna, notoriamente priva di grandi risorse di energia idrica, il sorpasso del vapore sull'acqua si verificò intorno al 1815. In altri paesi la transizione avvenne più lentamente; in alcune aree non vi era sufficiente disponibilità delle materie prime necessarie, come legno o carbone a buon mercato, mentre in altre non esisteva l'infrastruttura industriale necessaria alla produzione dei motori a vapore. Tuttavia, i limiti fisici inerenti alla natura dell'energia idraulica e l'applicazione del vapore alla locomozione ‒ un ambito in cui l'energia idraulica non poteva competere ‒ resero inevitabile la transizione dall'acqua al vapore.
Prima del 1840, la situazione nel campo della tecnologia del vapore era paragonabile a quella della tecnologia idraulica prima del 1770. Due gruppi distinti (anche se in parte sovrapposti) di ricercatori cominciarono ad adottare un approccio quantitativo in questo settore della ricerca tecnologica. Nel caso del vapore, uno dei due gruppi era dominato dai filosofi naturali, motivati prevalentemente da interessi intellettuali; la loro influenza rimase tuttavia limitata, soprattutto a causa della mancanza di un'adeguata scienza quantitativa del calore, che cominciò ad assumere contorni più definiti solo intorno al 1850. L'altro filone di ricerca era composto principalmente da ingegneri e artigiani altamente specializzati, il cui interesse era rivolto, più che alla teoria, alla ricerca di soluzioni pratiche. Usando i metodi quantitativi delle scienze fisiche, essi posero le basi di una nuova branca dell'ingegneria, che tuttavia divenne operativa solamente dopo il 1840. L'empirismo giocò dunque nello sviluppo dei nuovi motori a vapore un ruolo più importante di quello avuto negli stessi anni nello sviluppo dei motori a energia idraulica.
Il primo motore a vapore commercialmente valido fu realizzato da Thomas Newcomen (1663-1729), un commerciante di ferramenta dell'Inghilterra sudoccidentale, una regione mineraria con un disperato bisogno di un mezzo efficace per aspirare l'acqua dalle gallerie. Intorno al 1700, Newcomen cominciò a lavorare su un metodo per pompare l'acqua per mezzo del calore, ricorrendo all'espediente ingegneristico della costruzione di un modello sperimentale. Dopo un decennio di ricerche, nel 1712 realizzò il primo apparecchio funzionante, costituito da un grosso cilindro metallico verticale dotato di un pistone, collegato per mezzo di una catena a un braccio oscillante; una caldaia, posta sotto il cilindro e a esso collegata tramite una conduttura, forniva al cilindro il vapore necessario. Quando il pistone era all'apice della sua corsa, un getto di acqua fredda provocava la condensazione del vapore contenuto nel cilindro, creando una condizione di vuoto parziale; la pressione atmosferica causava quindi la discesa del pistone, abbassando una delle estremità del braccio e sollevando le aste della pompa collegate all'estremità opposta. Quando, in seguito all'apertura di una valvola, il vapore faceva un'altra volta ingresso nel cilindro, le aste della pompa sollevavano di nuovo in alto il pistone che, a sua volta, aspirava altro vapore nel cilindro; a questo punto il ciclo era completato e il processo poteva essere ripetuto.
L'idea di base era semplice, e quasi certamente il concetto di pressione atmosferica e l'idea di utilizzare il vapore per creare il vuoto erano presi a prestito, più o meno direttamente, dalle conoscenze scientifiche contemporanee. Newcomen non era un filosofo naturale e non intratteneva rapporti stretti con la comunità scientifica del tempo; egli aveva però ricevuto una buona istruzione, aveva viaggiato a lungo e lavorava in un ambiente in cui le scoperte scientifiche si diffondevano piuttosto rapidamente. Tuttavia, egli dedicò la maggior parte del tempo e dell'attenzione alla messa a punto dei dettagli tecnici necessari a conferire un'utilità pratica alla sua invenzione, tralasciando l'analisi teorica dei principî della pressione atmosferica o della creazione del vuoto. Tra le innovazioni tecniche introdotte da Newcomen vi furono: la scoperta della possibilità di provocare una rapida condensazione del vapore mediante l'iniezione di un getto d'acqua fredda all'interno del cilindro; l'invenzione di meccanismi atti a regolare automaticamente l'apertura e la chiusura delle valvole dell'acqua e del vapore; la determinazione dei diametri ottimali del tubo e dell'ugello dell'iniettore e quella del carico dei cavi della pompa; l'individuazione di un metodo per rimuovere dal cilindro l'aria e l'acqua condensata; infine la ricerca di un sistema per sigillare ermeticamente la superficie di contatto tra il pistone e il cilindro. Le scienze della Natura non ebbero alcun ruolo, né diretto né indiretto, in queste ricerche. Nonostante il notevolissimo consumo di combustibile, la macchina di Newcomen era sicura e affidabile e si diffuse rapidamente, soprattutto nelle regioni carbonifere dove l'elevato consumo non rappresentava un problema; nel 1730 si contavano più di venti macchine di Newcomen nella sola Inghilterra e altre erano in funzione in Ungheria, Russia, Germania, Francia e Svezia.
L'invenzione di Newcomen lasciò per così dire spiazzati i filosofi naturali contemporanei, principalmente a causa della mancanza di un'adeguata teoria quantitativa del calore. Solo qualche ingegnere, che aveva assimilato il metodo quantitativo delle scienze della Natura, cominciò a sviluppare procedure elementari per un'analisi quantitativa dei diversi elementi del progetto di queste macchine. Per esempio, Henry Beighton (1686-1754), un ingegnere del Warwickshire, pubblicò nel 1721 sul "Ladies' Diary" una tabella dove erano specificate le dimensioni dei cilindri del motore e della pompa, in base al volume dell'acqua e alla profondità da cui doveva essere aspirata.
Negli anni Sessanta del Settecento, l'uso delle tecniche quantitative nel campo della tecnologia del vapore ricevette un notevole impulso dai lavori di due ingegneri dotati di solidi agganci con il mondo scientifico: John Smeaton e James Watt. Smeaton, un costruttore di strumenti divenuto in seguito ingegnere civile e membro della Royal Society, si era dedicato negli anni Cinquanta allo studio sistematico delle ruote idrauliche, servendosi di un modello sperimentale per analizzarne il funzionamento secondo criteri quantitativi. Deluso dalle prestazioni di un motore di Newcomen che aveva installato nel 1768, Smeaton decise di servirsi delle stesse tecniche per indagare a fondo tutti gli aspetti della tecnologia di queste macchine. Per prima cosa, iniziò una raccolta sistematica di tutti i dati riguardanti quindici pompe atmosferiche operanti nell'Inghilterra settentrionale e di altri dati sparsi, relativi a congegni dello stesso tipo. Avvertendo la necessità di uno strumento quantitativo che gli consentisse di valutare obiettivamente il rendimento di queste macchine, e non essendo a conoscenza di alcuna teoria che stabilisse i limiti assoluti delle loro prestazioni, Smeaton creò una nuova unità di misura comparativa, il duty, equivalente al numero di libbre d'acqua che una pompa era in grado di sollevare di un piede, bruciando un secchio (ossia 84 libbre o 38,1 kg) di carbone.
Smeaton costruì un modello di pompa atmosferica dotato di un cilindro di 10 pollici (25,4 cm) di diametro: dopo averlo messo in funzione, iniziò a variare un elemento alla volta ‒ la pressione interna, la regolazione delle valvole oppure la forma dell'ugello di iniezione ‒ misurando accuratamente gli effetti di ogni modifica. In questo modo poté stabilire, per esempio, che la pressione ottimale del cilindro era di circa 8 psi (5,63 g/mm2): una pressione maggiore o minore incideva negativamente sulle prestazioni della macchina. Sulla base di queste prove, Smeaton redasse una tabella in cui erano specificati la lunghezza ottimale della corsa del pistone, il numero di giri, la quantità d'acqua iniettata, il consumo di carbone, la potenza e il duty per le macchine dotate di stantuffi con un diametro compreso tra 10 pollici (25,4 cm) e 72 pollici (183 cm). Le pompe di Newcomen installate da Smeaton negli anni Settanta, rispondenti alle caratteristiche indicate nella tabella, avevano un duty di circa il doppio della media registrata in precedenza dallo stesso Smeaton per questo tipo di macchine.
James Watt (1736-1819), un costruttore di strumenti per l'Università di Glasgow, discendente da una famiglia di tecnici specializzati, fece ricorso in modo ancora più sistematico alle tecniche quantitative, probabilmente a causa dei suoi stretti rapporti con la brillante comunità scientifica di Glasgow, che contava tra i suoi membri Joseph Black (1728-1799) e William Cullen (1710-1790) i quali, intorno agli anni Cinquanta, avevano cominciato a porre su una solida base quantitativa la nascente scienza del calore. Nell'inverno del 1763-1764, un professore di Glasgow chiese a Watt di riparare un modello di macchina di Newcomen. Watt cominciò a correggerne alcuni evidenti difetti meccanici; tuttavia ben presto si rese conto che, malgrado tutti i suoi sforzi, la caldaia non riusciva a fornire al cilindro una quantità di vapore sufficiente, anche se le proporzioni del modello sembravano corrette. Servendosi delle tecniche sperimentali quantitative che aveva assimilato grazie ai suoi rapporti con la comunità scientifica di Glasgow, Watt cominciò a misurare sistematicamente tutte le variabili fondamentali del modello: il volume di vapore prodotto facendo evaporare una data quantità d'acqua, quello del cilindro del modello e quello del vapore consumato durante il suo funzionamento; la quantità d'acqua necessaria a produrre la condensazione del vapore nel cilindro.
Gli esperimenti di Watt misero in luce un grave difetto del motore di Newcomen: una notevole percentuale di vapore si condensava inutilmente non appena penetrava nel cilindro, le cui pareti erano raffreddate dal contatto con l'atmosfera esterna e dall'acqua iniettata al suo interno a ogni corsa del pistone. Quando Watt tentò di correggere questo inconveniente utilizzando un cilindro fabbricato con un materiale dotato di scarsa conducibilità termica, come il legno, si evidenziarono altri problemi. A causa del maggior calore del cilindro e del vuoto parziale creato dall'iniezione di acqua fredda, il residuo di acqua condensata presente sul fondo tornava a bollire, provocando un aumento della pressione che ostacolava notevolmente la corsa del pistone. Watt individuò la causa del problema nel principio scoperto da Cullen, il quale aveva dimostrato che l'acqua bolle a temperatura più bassa in condizioni di vuoto parziale; questo insieme di circostanze creava un problema apparentemente insolubile. Per economizzare vapore era necessario mantenere il cilindro più caldo possibile, ma in questo modo si produceva un aumento di pressione che diminuiva fortemente la potenza del motore. Nella primavera del 1765, con un lampo di genio, Watt intuì la soluzione giusta: i cilindri del motore atmosferico dovevano essere due, uno caldo e l'altro freddo. Il vapore doveva essere immesso in un primo cilindro mantenuto ad alta temperatura e poi trasferito in un secondo (il cosiddetto 'condensatore separato'), mantenuto artificialmente a bassa temperatura. Questa scoperta richiedeva una profonda trasformazione del progetto originale. Esporre all'atmosfera esterna l'interno del cilindro a ogni corsa del pistone produceva tra l'altro il suo raffreddamento e quindi uno spreco di vapore; Watt decise quindi non solo di isolare il cilindro operativo, ma di chiuderlo ermeticamente, in modo da causare la discesa del pistone usando, al posto dell'atmosfera, il vapore con una pressione leggermente superiore a quella atmosferica. Egli comprese inoltre che la pressione residua del vapore in uscita dal cilindro al termine di ogni corsa del pistone rappresentava uno spreco di lavoro utilizzabile. Nel 1769 propose, e alcuni anni più tardi cominciò ad applicare, il cosiddetto 'principio espansivo'. Il vapore era immesso nel cilindro solamente durante la prima fase della corsa del pistone, quindi era lasciato espandere fino a riempire da solo il resto del cilindro, producendo una pressione decrescente sul pistone. Quando fuoriusciva dal cilindro al termine della corsa, il vapore era praticamente privo di pressione residua, un po' come l'acqua rilasciata da una ruota idraulica ben progettata.
Watt impiegò dieci anni per trasformare le sue idee in un motore realmente funzionante. Le maggiori difficoltà derivavano dalla necessità di rendere automatico il funzionamento del condensatore e della relativa pompa, di individuare la pressione operativa ottimale e di realizzare un'efficace guarnizione a tenuta stagna tra cilindro e stantuffo. Nel 1775 egli diede inizio alla produzione commerciale dei suoi motori. Negli anni Ottanta, con il socio Matthew Boulton (1728-1809), apportò ulteriori miglioramenti al progetto, basati principalmente sull'osservazione empirica; per esempio, modificò la disposizione delle condutture, in modo da permettere al vapore di agire alternativamente sulle due facce del pistone, convertendo così quella che era ancora in sostanza una pompa aspirante in un motore capace di produrre direttamente un moto rotatorio. Per assicurare la trasmissione uniforme del moto, Watt introdusse altre innovazioni, tra cui un ingegnoso sistema di trasmissione tra l'asta del pistone e il braccio oscillante (il 'parallelogramma articolato'), un ingranaggio di tipo 'planetario' e un regolatore di velocità a sfere basato sulla forza centrifuga. Nel 1790 i motori di Watt non solo facevano registrare un duty doppio di quello dei motori di Newcomen modificati da Smeaton, ma erano anche in grado di fornire movimento a qualunque macchina, comprese quelle azionate fino ad allora dalle ruote idrauliche.
L'applicazione dei metodi quantitativi allo studio del motore a vapore, allo scopo di migliorarne le prestazioni, fu proseguita dai successori di Watt, anche se indipendentemente dallo sviluppo della scienza del calore. Nel 1796, per esempio, John Southern, un ingegnere alle dipendenze di Boulton e Watt, aggiunse un pennino azionato da una molla a un manometro collegato al cilindro, ottenendo il grafico delle variazioni dei rapporti tra pressione e volume su una tabella mossa avanti e indietro dal moto stesso del pistone. Southern e altri non tardarono a comprendere che la misura dell'area della curva chiusa disegnata da un ciclo completo del pistone (il cosiddetto 'diagramma indicatore') forniva una valutazione diretta del rendimento del motore.
Negli anni Novanta, mentre Watt e i suoi collaboratori cominciavano a servirsi dei diagrammi indicatori per l'installazione e la manutenzione dei motori, le ricerche degli ingegneri appartenenti alle ditte concorrenti portarono alla realizzazione di una grande varietà di nuovi motori a vapore, funzionanti, nella maggior parte dei casi, con vapore ad alta pressione ‒ una soluzione scartata da Watt, principalmente per motivi di sicurezza. Tra i primi a tentare questa nuova strada furono un ingegnere americano, Oliver Evans (1755-1819) e due della Cornovaglia, Richard Trevithick (1771-1833) e Arthur Woolf (1776-1837). Il caso di Trevithick è esemplare. Anche se le sue conoscenze dei principî teorici che regolavano il funzionamento dei motori che costruiva erano piuttosto approssimative, egli intuì ugualmente i vantaggi pratici, in termini di semplicità di progettazione, compattezza e manovrabilità, dell'uso del vapore ad alta pressione; intorno al 1800 realizzò una caldaia in grado di produrre vapore e avviò la costruzione dei nuovi motori. Intorno agli stessi anni, Woolf ideò un moderno tipo di motore composto, dotato di due cilindri operativi: il vapore ad alta pressione era lasciato espandere inizialmente in un cilindro più piccolo e quindi era trasferito in uno di maggiori dimensioni, dove l'espansione era portata a termine. Pur avendo concepito e realizzato i propri motori senza alcun contributo diretto delle teorie scientifiche esistenti, sia Evans sia Trevithick e Woolf avevano assimilato, in misura diversa, l'ideale quantitativo delle scienze della Natura. Woolf, per esempio, aveva basato in parte il suo progetto di motore composto su una legge che egli credeva di aver scoperto per via sperimentale, secondo la quale il potere espansivo del vapore sarebbe stato direttamente proporzionale alla sua pressione.
A partire dal 1810, cominciarono a emergere indizi sempre più evidenti del fatto che i motori ad alta pressione prodotti in Cornovaglia, sia a uno sia a due cilindri, non solo offrivano molti vantaggi pratici rispetto a quelli a bassa pressione, ma erano anche più convenienti dal punto di vista economico. La conferma definitiva venne nel 1811, quando gli ingegneri della Cornovaglia cominciarono a pubblicare mensilmente i dati relativi alle prestazioni delle pompe aspiranti: mentre i motori di Watt registravano un duty di circa 20 milioni di libbre per piede a secchio di carbone, un motore composto di Woolf superava già nel 1815 i 50 milioni. Negli anni Trenta, i motori ad alta pressione prodotti in Cornovaglia raggiunsero per il duty, sia pure in situazioni di laboratorio, valori di 125 milioni di libbre per piede a secchio di carbone.
Dagli anni Novanta del Settecento fino al 1815, le guerre napoleoniche avevano impedito il passaggio sul Continente delle scoperte britanniche sui motori a vapore; quando le normali comunicazioni furono ristabilite, gli scienziati e gli ingegneri francesi rimasero stupiti dai bassi consumi dei nuovi motori ad alta pressione. In Francia, dove i giacimenti di carbone erano meno diffusi che in Gran Bretagna, il risparmio di carburante assunse un'importanza ancora maggiore. Il forte interesse dei Francesi per i nuovi motori a vapore britannici ebbe riflessi sia sul piano pratico sia su quello teorico; dal punto di vista pratico, i motori composti di Woolf, che vantavano i maggiori risparmi, divennero ben presto più diffusi in Francia che in Gran Bretagna; dal punto di vista teorico, all'inizio dell'Ottocento nessun fisico francese di un certo prestigio poté esimersi dall'analizzare il funzionamento del motore a vapore.
La storia di Alexis-Thérèse Petit (1791-1820), un fisico-chimico, costituisce un esempio perfetto dei tentativi dei Francesi di elaborare una teoria scientifica del motore a vapore e dei loro insuccessi. In una memoria del 1818, Sur l'emploi du principe des forces-vives dans le calcul de l'effet des machines, Petit tentò di ricavare matematicamente il rendimento massimo ottenibile da un motore a vapore. Egli concepì un motore a vapore immaginario, composto da un cilindro orizzontale di lunghezza infinita, chiuso da un lato e munito di uno stantuffo privo di attrito dall'altro. Quindi calcolò la quantità di calore necessaria per portare un grammo di acqua da 0°C alla temperatura di vaporizzazione e il lavoro compiuto dalla stessa quantità di acqua per espandersi nel cilindro e spingere lo stantuffo contro l'atmosfera. Tradotti in duty, i calcoli di Petit indicavano che il massimo valore possibile nel caso di un motore a vapore perfetto era di 46 milioni di libbre per piede a secchio di carbone, un livello già ampiamente superato in diverse occasioni dai nuovi motori ad alta pressione.
Gli sforzi compiuti dai ricercatori francesi per elaborare una teoria del motore a vapore raggiunsero il loro apice con il lavoro compiuto negli anni Venti da Sadi Carnot (1796-1832), il figlio di Lazare Carnot. Pur avendo studiato ingegneria, Sadi Carnot si dedicò poco alla professione; preferì infatti ritirarsi dal suo incarico di ingegnere militare nei primi anni Venti, pur rinunciando a metà del suo stipendio. In un certo senso, egli fu un fisico piuttosto che un ingegnere, anche se la sua opera era dedicata, più che alla fisica contemporanea, alla tecnologia del vapore e dell'energia idraulica. Carnot tentò di fare per il motore a vapore ciò che suo padre aveva fatto per l'energia idraulica: sviluppare una teoria generale in grado di stabilirne le condizioni ottimali di funzionamento. Egli accettò le idee scientifiche sul calore che circolavano in quel periodo, come la nozione secondo la quale il calore era un fluido sottile e imponderabile, chiamato calorico. Inoltre, prese a prestito molte idee dalla tecnologia dell'energia idraulica del tempo, basando le sue argomentazioni su un'analogia tra il funzionamento dei motori a vapore e quello delle ruote idrauliche. L'azione del calorico, in quanto fluido, era concepita come analoga a quella dell'acqua; come questa, cadendo da una determinata altezza, esercitava una certa pressione su una ruota, producendo una certa quantità di lavoro, così il calorico, cadendo da una temperatura più elevata a una più bassa, consentiva al motore a vapore di produrre lavoro.
Sulla base di questa analogia, Carnot dimostrò, nel suo famoso trattato Réflexions sur la puissance motrice du feu et sur les machines propres à développer cette puissance, pubblicato nel 1824, che il rendimento dei motori termici aveva un limite teorico inferiore all'unità e descrisse le condizioni in cui tale limite poteva essere raggiunto. Queste condizioni erano analoghe a quelle richieste dalla teoria Borda-Carnot per le ruote idrauliche. In altri termini, i motori a calore dovevano assorbire il calore alla stessa temperatura della sorgente calda (il che equivaleva all'eliminazione dell'urto violento tra l'acqua e le pale della ruota) e cederlo alla stessa temperatura della sorgente fredda (e ciò equivaleva alla velocità relativa nulla dell'acqua che lasciava la ruota). Egli dimostrò inoltre in quale modo il principio espansivo si ricollegava a questa teoria; infine, con il suo famoso 'teorema', dimostrò che, dal punto di vista teorico, la natura della sostanza utilizzata per produrre lavoro era indifferente.
Alcuni decenni più tardi, le ricerche di Sadi Carnot avrebbero condotto alla nascita della scienza della termodinamica, ma il loro impatto sulla tecnologia pratica fu nullo; in sostanza, egli fornì una spiegazione scientifica dei fenomeni che gli ingegneri britannici avevano già scoperto empiricamente. Essi sapevano che non vi era alcuna sostanza superiore al vapore per azionare un motore a calore; sapevano che l'uso di condensatori, del principio espansivo e del vapore ad alta pressione produceva risultati molto superiori a quelli dei motori a vapore che non utilizzavano questi espedienti. Inoltre, la maggior parte dei progressi nel rendimento dei motori a vapore fu dovuta a graduali innovazioni nate dall'osservazione empirica e non da considerazioni teoriche. Gli ingegneri preferirono quindi ignorare il lavoro di Sadi Carnot, anche dopo che, nel 1834, Émile Clapeyron (1799-1864) gli diede una veste matematica più rigorosa.
Per molti aspetti, il Borda della tecnologia del vapore non fu Sadi Carnot, ma il conte François-Marie Guyonneau de Pambour (n. 1795). Diplomatosi all'école Polytechnique e rimasto per tutta la vita, a differenza di Carnot, un ingegnere praticante, Pambour pubblicò negli anni Trenta dell'Ottocento due libri sulla teoria del vapore, il Traité théorique et pratique des machines locomotives (1835) e la Théorie de la machine à vapeur (1837). Facendo ricorso alle leggi fondamentali dei gas, alla meccanica newtoniana e alle conoscenze di origine empirica, Pambour elaborò una formula generale per stabilire la relazione tra la velocità di operazione, la resistenza incontrata e la quantità di vapore prodotto dalla caldaia. Mostrò quindi come questa formula, modificata per i diversi tipi di motore, consentisse di calcolare la pressione del vapore in un punto qualsiasi di un motore, in determinate condizioni di carico e velocità, senza dover ricorrere a una sperimentazione lunga e costosa. Con le formule di Pambour, la progettazione dei motori assunse un carattere razionale più che empirico.
Benché di tipo matematico e analitico, l'approccio di Pambour rientrava chiaramente nella tradizione della scienza ingegneristica, piuttosto che in quella delle scienze della Natura. Anche se egli condannava l'uso di coefficienti empirici come mezzo per riconciliare la teoria con la pratica, non giunse mai a eliminarli del tutto; alcune delle sue formule, per esempio, contengono costanti ottenute dall'osservazione empirica dei diversi motori. A differenza di Carnot, Pambour non era interessato alla soluzione di questioni universali come la natura del calore o del lavoro; il suo scopo principale non era quello di risolvere problemi fondamentali, bensì quello di analizzare il funzionamento dei motori a vapore in condizioni normali e di trovare una risposta ai problemi specifici che li riguardavano. Neppure le ricerche di Pambour riuscirono tuttavia a colmare il divario tra la teoria e la pratica; intorno alla metà del secolo i collaudi sperimentali producevano a volte valori di rendimento quasi doppi rispetto a quelli considerati invalicabili dalla teoria. Solo dopo il 1850, grazie a Gustave-Adolphe Hirn (1815-1890) e a William John Macquorn Rankine (1820-1872), la teoria ingegneristica cominciò a riflettere in modo soddisfacente la pratica: ma fu comunque Pambour a gettare le basi della nuova scienza.
Lo sviluppo dei motori primi ad acqua e a vapore dipese da pressioni di carattere economico (come l'insufficienza di fonti energetiche), da innovazioni empiriche e dalla nascita di una nuova scienza ingegneristica, molto più che dall'applicazione della teoria scientifica. Il contributo diretto della scienza fu limitato alla fornitura di occasionali brandelli di sapere; di gran lunga più importante fu il contributo indiretto fornito dalle scienze della Natura. I metodi quantitativi e le leggi generali utilizzati in questo campo fornirono il modello a cui si ispirarono i fondatori delle scienze ingegneristiche. Inoltre, l'ideale della quantificazione, mutuato dalle scienze della Natura, aveva permeato così a fondo l'ingegneria che alla voce Canals della sua Cyclopedia (1819), Abraham Rees (1743-1825) giunse ad affermare: "È fuor di dubbio che un ingegnere esperto debba possedere una notevole conoscenza della matematica. La necessità di eseguire calcoli […] si presenta di continuo nel suo lavoro e pertanto è opportuno che egli abbia familiarità con i principî sui quali ogni calcolo deve fondarsi e che consentono di applicarlo correttamente nella pratica".