L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Le scienze della Terra
Le scienze della Terra
Nel periodo fra il 1770 e il 1830 la geologia si affermò come scienza autonoma. Nel 1770 questa disciplina non esisteva come la intendiamo oggi e al suo posto vi era la mineralogia, che comprendeva tutti gli aspetti del regno minerale, mentre la botanica si occupava del regno vegetale e la zoologia di quello animale. A partire dal 1830, invece, la geologia s'impose come disciplina scientifica riconosciuta e autonoma, con propri specialisti e associazioni, riviste e istituzioni didattiche, con propri strumenti e metodi, mentre la mineralogia si ridusse a una branca particolare della geologia, quella che descriveva le proprietà chimiche e fisiche dei materiali solidi che costituiscono la crosta terrestre; tutto sommato, essa non aveva un ruolo più importante della stratigrafia, che si occupa delle rocce terrestri stratificate, della paleontologia, che studia i fossili, o di qualunque altra branca specifica della geologia.
di Rachel Laudan
Nella trasformazione della mineralogia in geologia svolsero un ruolo determinante i membri della Scuola di Freiberg, i werneriani, così chiamati dal nome di Abraham Gottlob Werner (1750-1817), professore nella famosa Accademia mineraria di Freiberg in Sassonia. Questa accademia era la più importante tra le tante scuole e cattedre minerarie istituite in tutta Europa dal 1750 in poi. Nella maggior parte dei casi le miniere erano monopolio dello Stato, poiché i governanti richiedevano minerali d'argento, creta con cui produrre porcellana fine come quella importata dalla Cina e altri minerali preziosi ed erano quindi propensi a fondare scuole per preparare specialisti addestrati allo scopo. La prima di queste scuole vide la luce appunto a Freiberg (1765), seguita da quelle di Chemnitz (negli anni Settanta), di Berlino (1770), di Parigi (1783) e di Città del Messico (1792), dove fu fondato il Collegio minerario spagnolo. In Svezia e in Italia cattedre speciali furono istituite nelle università: in Svezia, a Uppsala, professori di chimica si occupavano di mineralogia e in Italia Giovanni Arduino (1714-1795), da ispettore delle miniere della Toscana divenne professore di mineralogia e metallurgia a Venezia, mentre Giovanni Battista Brocchi (1772-1826) era ispettore delle miniere per Milano. Queste scuole di mineralogia furono tra le prime istituzioni a fondare i curricula su una solida base di conoscenza scientifica e al loro interno si formò la maggior parte dei mineralogisti e dei geologi europei.
Le lezioni tenute da Werner a Freiberg attirarono giovani da tutta Europa. Molti andarono a lavorare nei servizi minerari, mentre altri, come Leopold von Buch (1774-1853) e Alexander von Humboldt (1769-1859), utilizzarono le informazioni raccolte in miniera per le proprie ricerche indipendenti. Vi fu anche chi, come Novalis, il grande poeta del primo romanticismo tedesco, trovava affascinante quel che le lezioni di Werner lasciavano intravedere dei misteriosi recessi della Terra. Lo stesso Johann Wolfgang von Goethe accettò le teorie di Werner e ne parlò in alcuni scritti verso la fine della sua vita. In questo modo le conoscenze di mineralogia si diffondevano al di fuori della comunità degli specialisti e degli ingegneri minerari.
Nelle scuole minerarie s'insegnava la classificazione delle rocce in quattro grandi gruppi: terre, metalli, combustibili e sali. Le terre erano resistenti al calore e all'acqua, i metalli diventavano fluidi al contatto con il calore, i sali si scioglievano nei liquidi e le sostanze combustibili, come il carbone, bruciavano. Poiché la classificazione dei minerali si basava sulla chimica, gli allievi passavano molto tempo nei gabinetti o nei laboratori e sul campo, operando con sostanze chimiche e fornelli; se fossero arrivati a insegnare in una di queste scuole, con molta probabilità avrebbero aggiunto un altro volume sulla classificazione dei minerali alla mole crescente di libri sull'argomento. Una volta diventati funzionari dello Stato in qualità d'ispettori minerari o come addetti ai rilevamenti, i mineralogisti non avevano altra scelta che quella di salire sulle montagne o scendere nei pozzi. Già nella seconda metà del Settecento molti di essi, anche se in modo indipendente, erano giunti alla conclusione che le rocce potevano essere classificate in un altro modo; tra coloro che condividevano questa convinzione sono da ricordare, in particolare, Lazzaro Moro (1687-1764) e Arduino in Italia, Élie Bertrand (1712-1777) in Svizzera, Johann Gottlob Lehmann (1719-1767) in Germania e Guillaume-François Rouelle (1703-1770) in Francia. Essi, infatti, distinguevano due tipi di rocce: le 'primarie' erano dure, spesso cristalline, costituivano le matrici all'interno delle quali erano presenti di solito i metalli e i minerali preziosi e, inoltre, erano il nucleo delle catene montuose; le 'secondarie', invece, ammassate a questi nuclei montagnosi, erano più morbide, di struttura più granulare, stratificate e spesso contenevano fossili, interpretati dalla maggior parte degli studiosi come resti solidificati di animali o di piante.
Nella ricerca delle cause di questa divisione delle rocce in due classi la mineralogia trovava un fondamento comune con l'antica tradizione della cosmogonia, cioè della disciplina che studia lo sviluppo dell'Universo. Fin dal Seicento e con i grandi sistemi cosmologici di Descartes e di Newton, si era ipotizzato che un tempo la Terra fosse stata un corpo fluido; la forma rotonda era spiegata agevolmente come conseguenza del consolidamento di questo corpo fluido in rotazione. Secondo l'opinione di una minoranza di studiosi, la fluidità era dovuta al calore, mentre la maggioranza di essi optava per l'idea che originariamente il corpo fosse acquoso, opinione che aveva il vantaggio di accordarsi alla storia della creazione del mondo contenuta nella Genesi.
I mineralogisti facevano risalire la tradizione di cosmogonia chimica alla Physica subterranea (1669) di Johann Joachim Becher (1635-1682). Secondo il chimico, in origine la superficie della Terra era ricoperta da un grande oceano e le rocce primarie si erano cristallizzate in queste acque sotto forma di elevate catene montuose. Il fatto che i chimici fossero concordi nel ritenere che i cristalli potessero sedimentarsi soltanto in soluzioni acquose e non a partire da fusioni ad alta temperatura rendeva molto plausibile tale teoria. Quando l'acqua fu meno satura e le onde, i fiumi e le piogge erosero le montagne, l'oceano cominciò a depositare il limo, che poi si solidificò dando luogo alle rocce secondarie stratificate. Fin qui le lezioni di Werner a Freiberg non facevano che ripetere l'insegnamento convenzionale, tanto che egli si guadagnò, insieme ai suoi seguaci, il soprannome di 'nettunista', da Nettuno, il dio dell'oceano. Per alcuni aspetti cruciali, tuttavia, Werner rompeva con i suoi predecessori. Nella Kurze Klassifikation und Beschreibung der verschiedenen Gebirgsarten (Breve classificazione e descrizione delle diverse rocce, 1787) e nelle lezioni, che ebbero una grande influenza, egli sosteneva che le rocce non si dovessero più classificare secondo la composizione chimica e mineralogica, poiché troppo spesso rocce situate in punti diversi della sequenza stratigrafica mostravano la stessa composizione; dunque la classificazione chimica e mineralogica aveva il difetto di riunire in uno stesso gruppo rocce appartenenti a epoche diverse. Werner suggeriva invece di classificarle secondo 'formazioni', cioè sulla base del periodo in cui si erano formate.
A prima vista innocuo, il nuovo principio avrebbe avuto nel tempo conseguenze di vasta portata. In tale modo Werner e i suoi seguaci trasformarono lo studio della Terra da scienza chimica e mineralogica in scienza storica, alla quale diedero il nome di 'geognosi', vale a dire 'conoscenza della Terra'. La geognosi cominciò con l'organizzare il proprio oggetto di studio, ossia le rocce, secondo un ordine temporale, dando vita a una vera e propria cronologia. In primo luogo, dunque, i werneriani dovevano stabilire l'ordine cronologico delle rocce. Il problema nasceva dal fatto che, diversamente dalla composizione minerale, l'età relativa delle rocce non poteva essere osservata direttamente; era perciò necessario trovare un modo per dedurla da altri aspetti osservabili. Se, come tutti pensavano, le rocce secondarie si erano depositate a partire dall'acqua, le più giovani dovevano trovarsi sopra quelle più vecchie; l'ordine della sovrapposizione permetteva così di rivelare l'età relativa degli strati. Questo almeno in teoria, perché in pratica le cose non erano così semplici. In ogni parte esposta di una roccia, come il fronte di una miniera o di una cava, solamente una piccola sezione della sequenza degli strati era visibile; i werneriani dovevano quindi mettere insieme molte sequenze parziali per riuscire a stabilirne una completa di una certa roccia: tale sequenza prese più tardi il nome di 'colonna geologica'.
La decisione di Werner di classificare le rocce in base alla loro formazione e non alla loro composizione chimica rendeva il lavoro sul campo molto più importante delle ricerche di laboratorio. Per determinare la colonna geologica i discepoli di Werner si proposero un programma ambizioso: mettere in relazione le sequenze presentate dalle parti esposte delle diverse rocce non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo. Sul campo gli strumenti erano semplici: robusti stivali per camminare e un martello per staccare pezzi di roccia e portare alla luce nuove superfici. Si trattava poi di percorrere le campagne alla ricerca di rupi, solchi di canali, cave, e altri luoghi dove le rocce fossero visibili. Seguendo altri indizi ‒ come il tipo di terreno e di vegetazione, i materiali da costruzione ‒ per dedurre quali rocce vi fossero sotto quelle visibili, i werneriani costruirono gradualmente una rappresentazione di ciò che si trovava sotto il suolo e la sua vegetazione.
In Francia André-Jean-Marie Brochant de Villiers (1772-1840) utilizzò le idee di Werner come base per un rilevamento generale nel paese per conto dello Stato, mentre il naturalista Georges Cuvier (1769-1832) lavorò con il biologo Alexandre Brongniart (1770-1847) a un rilevamento molto dettagliato della successione intorno a Parigi. In Germania, Buch fece rilevamenti in Slesia prima di partire per la Norvegia, la Lapponia e le Isole Canarie. In Scozia Robert Jameson (1774-1854) fu il primo sostenitore di Werner. Nelle Isole britanniche Adam Sedgwick (1785-1873), Henry de la Beche (1796-1855) e Roderick Murchison (1782-1871) analizzarono varie zone del paese. In Messico, lo spagnolo Andrés Manuel del Río (1764-1849) insegnò le idee di Werner agli ingegneri minerari, aggiungendo dettagli particolari riguardanti il nuovo mondo. Poco più tardi Humboldt viaggiò nell'America Centrale e in Messico, e nella relazione Essai géognostique sur le gisement des roches dans les deux hémisphères (1823) propose l'esistenza di correlazioni tra il vecchio e il nuovo mondo.
I werneriani dell'Europa continentale continuavano le indagini, sicuri che grazie al confronto dei risultati la ricerca di sedimenti di minerali preziosi sarebbe stata più fruttuosa. In Gran Bretagna la situazione si presentava diversamente. I fondatori della Geological Society di Londra (1807), la prima associazione per lo studio della Terra, rifiutavano gli scopi pratici e utilitaristici delle scuole continentali, e non accettavano fra gli iscritti i diplomati di queste scuole. I membri della Geological Society scelsero la denominazione di 'geologica' e non 'geognostica' proprio per sottolineare questa differenza. La Gran Bretagna possedeva pochi giacimenti significativi. I minerali ferrosi e carboniosi che alimentavano la rivoluzione industriale erano diffusi ovunque e facili da trovare. La maggior parte dei membri della Geological Society erano gentiluomini dilettanti, che venivano da Londra o dalle città universitarie di Oxford e Cambridge, e non rientrava nelle loro preoccupazioni fornire conoscenze per l'industrializzazione del Nord del paese. Alcuni membri, come Joseph Banks (1743-1820), l'influente presidente della Royal Society di Londra, cercarono d'incoraggiare l'interesse per le applicazioni pratiche. In genere questi uomini erano grandi proprietari terrieri che avevano convenienza a sviluppare i loro possedimenti, ma non erano abbastanza autorevoli da cambiare le politiche della Geological Society.
Di conseguenza, in Gran Bretagna la geologia applicata fu lasciata a un gruppo di 'praticanti', gente priva di una regolare istruzione e che aveva appreso sul campo a compiere rilevamenti. Erano loro e non i cultori di geologia che ispezionavano il terreno per le recinzioni, progettavano i percorsi dei canali e cercavano nuovi giacimenti di carbone; e fu con questo lavoro che acquisirono una conoscenza dettagliata della topografia, dei terreni e delle rocce soggiacenti, arrivando rapidamente a conclusioni sulla struttura delle rocce molto simili a quelle dei werneriani del continente.
di Rachel Laudan
Non fu necessario molto tempo perché i praticanti inglesi e i werneriani del continente si accorgessero che occorreva aggiungere altri principî a quello della sovrapposizione. Molte formazioni presentavano piegature e faglie, a volte si capovolgevano dopo la sedimentazione e raramente erano disposte secondo semplici successioni di strati orizzontali. In pratica, dunque, tutti lavoravano a decifrare le strutture delle rocce, e soltanto dopo aver stabilito la geometria delle formazioni si poteva decidere l'ordine di sovrapposizione. Peggiorava ulteriormente la situazione il fatto che la composizione chimica e mineralogica di una data formazione variava con la grandezza (riflettendo le differenze presenti nell'ambiente nel quale si era sedimentata), con il risultato che sia i geognostici sia i praticanti trovavano difficile decidere se due rocce in due diverse esposizioni appartenessero o meno alla stessa formazione.
Geognostici e praticanti fecero perciò ricorso ai fossili per stabilire le correlazioni tra gli strati. Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), eminente anatomista e naturalista dell'Università di Gottinga, e il suo allievo Ernst Friedrich von Schlotheim (1764-1832) sostenevano infine che nel passato alcune specie viventi si fossero estinte. Se l'ipotesi fosse stata fondata, creature diverse avrebbero dovuto essersi fossilizzate in epoche differenti, e quindi ciò stava a significare che i fossili indicavano la posizione di un dato strato nella colonna geologica. Giovanni Battista Brocchi, professore di storia naturale a Brescia, studiò i fossili per descrivere la stratigrafia degli Appennini, come fecero Georges Cuvier, professore di storia naturale nell'École Normale, e Alexandre Brongniart, anch'egli professore di storia naturale, nell'area intorno a Parigi.
Nemmeno l'uso di fossili per identificare le formazioni era però scevro da problemi e anche in questo caso il dibattito fiorì. Come le specie viventi, le varie specie estinte erano vissute presumibilmente in ambienti diversi; in tal caso era possibile che i fossili variassero con l'ambiente in cui si erano sedimentati e non nel tempo? Il biologo scozzese John Fleming (1785-1857) propendeva per la variazione ambientale, mentre per la maggior parte degli altri geognostici la variazione era dovuta al tempo di formazione. Inoltre, bastava un solo tipo di fossile per identificare una formazione oppure bisognava considerarne tutti i tipi? La fauna e la flora fossili cambiavano improvvisamente e simultaneamente, come pensava Cuvier, o, al contrario, lentamente e gradualmente? A tutte queste domande i geologi dovevano rispondere prima di poter fare affidamento sui fossili.
Un altro problema che i geognostici dovevano affrontare era quello di accertare se vi erano separazioni nette tra le formazioni, o se queste si fondevano impercettibilmente con le successive. Nel primo caso, le formazioni erano effettivamente distinte e potevano essere identificate, altrimenti si trattava soltanto di convenzioni imposte alla Natura. Cuvier assunse una posizione molto decisa in proposito e, infatti, nel Discours préliminaire alle Recherches sur les ossemens fossiles des quadrupèdes (1812) sostenne che le formazioni erano distinte, suggerendo che di tanto in tanto la superficie della Terra si era sollevata e questo improvviso sollevamento del fondo del mare aveva dato origine a grandi inondazioni, che, riversandosi lungo la terra innalzatasi di recente, avevano spazzato via del tutto la fauna e la flora. I resti erano rimasti sepolti nelle formazioni di detriti sedimentati in fondo all'oceano. In seguito erano nate nuove specie, più avanzate di quelle precedenti, ma destinate a loro volta a scomparire in conseguenza di una nuova catastrofe. Benché Cuvier avesse fatto molta attenzione a non entrare nel merito della compatibilità delle sue teorie con i passi della Genesi, le sue idee, specialmente in Inghilterra, furono largamente considerate come una conferma di una libera lettura della storia biblica della Creazione.
Accantonando, pur senza risolverlo, il problema dell'affidabilità dei fossili e dell'indipendenza delle formazioni, i werneriani e i praticanti cominciarono a presentare i risultati dei loro rilevamenti sul territorio sotto forma di 'carte geologiche'. Nel 1811 Cuvier e Brongniart pubblicarono l'Essai sur la géographie minéralogique des environs de Paris avec une carte géognostique. Quattro anni più tardi un praticante, William Smith (1769-1839), pubblicò la propria carta, A delineation of the strata of England and Wales, with part of Scotland. Da allora le carte nelle quali i geognostici e i geologi riassumevano i propri risultati iniziarono a sostituire le classificazioni mineralogiche e le descrizioni delle correlazioni tra le formazioni.
Fin dalla metà del Settecento i cartografi indicavano per mezzo di simboli sulle carte topografiche i luoghi in cui si trovavano i giacimenti minerari. La più famosa di queste carte era l'Atlas et description minéralogique de la France, che cominciò a essere pubblicata nel 1780, a cura di Jean-Étienne Guettard (1715-1786) e Antoine Monnet (1734-1817), assistiti dal giovane Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794); i simboli sulla carta indicavano l'ubicazione di pietre da costruzione, minerali e terreni di particolare interesse agricolo o industriale, ma non si andava oltre ciò che si presentava alla vista. Cuvier, Brongniart, Smith e tutti i successivi disegnatori di carte geologiche fecero un passo avanti: estrapolando da quanto era visibile, avanzavano ipotesi sull'ubicazione e sulla struttura delle formazioni nascoste; dopo il rilevamento sul campo i geologi coloravano sulla carta topografica l'intera area, mettendo in rilievo le formazioni che ritenevano si trovassero sotto la superficie del terreno e sotto la vegetazione. Aggiunsero quindi alle carte sezioni della superficie della Terra che mostravano la struttura e la successione delle rocce. Con l'esercizio, un osservatore poteva farsi un'idea della struttura tridimensionale degli strati, essendo così in grado d'intuire quali formazioni si sarebbero trovate in superficie e più in profondità in ogni punto dell'area in cui era stato compiuto il rilevamento. Nei 150 anni successivi i geologi si preoccuparono sempre più di tracciare carte e, poiché quelle geologiche erano molto importanti per lo sviluppo delle risorse minerarie di un paese, i rilevamenti divennero, alla metà dell'Ottocento, un servizio dello Stato.
di Rachel Laudan
Nel frattempo i werneriani rivedevano le vecchie teorie sulle grandi strutture terrestri, in particolare sulle montagne. Negli anni Trenta del XIX sec. avevano già abbandonato l'idea che le catene montuose emergessero per cristallizzazione da un oceano primordiale. Il lavoro sul campo aveva chiaramente dimostrato che alcune rocce giacevano in un oceano nel quale era scorsa la lava da vulcani estinti. Allo stesso tempo i chimici cominciarono ad accorgersi che in opportune condizioni di temperatura e di pressione i cristalli potevano formarsi non soltanto in una soluzione acquosa, ma anche in una fusione e, di conseguenza, cominciò a sembrare possibile che la Terra avesse una parte interna calda e che questo fatto non fosse estraneo alla formazione delle montagne.
Buch, uno degli allievi più influenti di Werner, suggerì due possibilità riguardo al modo in cui il calore poteva aver fatto sorgere le montagne. La prima spiegava le grandi cupole tettoniche. In Europa i vulcani sono pochi e si trovano sul lato più breve del continente, e per questo motivo ‒ secondo i vecchi werneriani ‒ la nascita dell'Etna e del Vesuvio era avvenuta grazie all'accumulazione di pietre e di ceneri di un fuoco che si trovava sotto la superficie terrestre, in un punto non molto profondo. Quando Buch però intraprese un viaggio nell'isola atlantica di Tenerife, trovò una cupola vulcanica molto grande, mentre Humboldt riferì l'esistenza di grandi cupole vulcaniche anche in Messico. Queste sembravano troppo grandi per poter essere formate dall'accumulo di materia espulsa da un foro; Buch suggerì invece che si trattasse di rigonfiamenti, dovuti all'intrusione di rocce vulcaniche e di basalto e al vapore che si era sviluppato quando il basalto era penetrato sotto l'oceano. Il cratere sulla cima non era quindi la sorgente principale da cui era uscito il materiale di cui era costituita la montagna, bensì l'apertura che era venuta a crearsi quando le rocce furono spinte verso l'alto. Questa teoria, nota come 'teoria dei crateri di elevazione', fu quasi universalmente accettata fino agli anni Settanta dell'Ottocento. Vi era però per Buch un secondo problema, che non era legato alla cupola vulcanica isolata bensì alle catene montuose. Per spiegare queste ultime egli propose nel 1820 la 'teoria della dolomitizzazione' (così chiamata dalle Dolomiti), secondo la quale il porfido, un altro tipo di roccia ignea, era penetrato nella crosta terrestre attraverso crepe spingendo verso l'alto grandi catene di montagne e trasformando calcare ordinario (carbonato di calcio) in dolomite (una roccia in cui una parte del calcio è stata sostituita dal magnesio, causando così un'espansione). Questa teoria servì più ad attirare l'attenzione sul problema del sollevamento delle montagne che a risolverlo.
Molti geologi accolsero perciò con favore l'alternativa, ben più soddisfacente, proposta in una serie di articoli pubblicati intorno al 1830 da Jean-Baptiste-Léonce Élie de Beaumont (1798-1874), ex allievo dell'École Polytechnique, che poi fece parte del Corps des mines francese. Élie de Beaumont abbandonò la lunga tradizione che spiegava la struttura della Terra come risultato di processi chimici; si rivolse invece alla fisica e alla geofisica, in particolare ai recenti risultati di Jean-Baptiste-Joseph Fourier (1768-1830) esposti nella Théorie analytique de la chaleur, pubblicata nel 1822, e agli studi successivi di Louis Cordier (1777-1861). Questi risultati confermavano l'ipotesi, sostenuta da una minoranza di studiosi fin dal Seicento, che la Terra si fosse formata dal raffreddamento di un corpo fuso. Raffreddandosi aveva sviluppato una crosta solida intorno a una parte interna fusa. Élie de Beaumont suggerì che quando le sollecitazioni sulla sottile crosta solida superavano una certa soglia, la crosta si deformava, raggrinzendosi e dando origine in questo modo alle catene montuose. Quando il fondo dei mari si sollevò, le acque precipitarono dai pendii, scavando profonde vallate e sommergendo interi gruppi di creature viventi: questa spiegazione si accordava bene con quanto aveva detto Cuvier a proposito dell'estinzione di intere specie. In questo modo Élie de Beaumont forniva una sintesi generale delle ricerche di geologia storica e causale svolte nel cinquantennio precedente. La teoria del raffreddamento e della contrazione della Terra ha avuto una vita molto lunga, in quanto ha rappresentato il quadro esplicativo dominante nella geologia fino a quando non fu avanzata, nel 1960, la teoria della 'tettonica a zolle' ora universalmente accettata.
In alcune rassegne pubblicate nel "British Critic" e nella "Quarterly Review" nel 1831 e nel 1832, il filosofo della scienza inglese William Whewell (1794-1866) definì 'catastrofiste' le teorie di Cuvier e di Élie de Beaumont. Il termine non aveva, in questo caso, valore spregiativo, né per quest'ultimo né per i molti sostenitori di quelle teorie, e non evocava necessariamente un intervento divino o extraterrestre, in quanto significava semplicemente che grandi cataclismi si erano verificati nel tempo e che questa era la causa principale delle modifiche subite dalla superficie della Terra, dalla sua flora e fauna.
di Rachel Laudan
Vi furono alcuni oppositori della teoria precedentemente esposta, che Whewell chiamò 'uniformisti', tra cui il più importante fu l'inglese Charles Lyell (1797-1875), dapprima avvocato, poi geologo e autore di un'opera in tre volumi, Principles of geology (1830-1833). Lyell guardava a James Hutton (1726-1797), fisico e membro della cerchia ristretta dell'Illuminismo scozzese, come al proprio naturale precursore. Theory of the earth, l'opera di Hutton pubblicata nel 1795, è una disquisizione in tre volumi sul modo in cui la superficie della Terra si è continuamente rinnovata, permettendo all'uomo di vivere sempre in un ambiente a lui confacente. Un'idea poco ortodossa in un'epoca in cui era molto diffusa la credenza che l'uomo fosse stato creato soltanto alcune migliaia di anni prima e che si spiega con il credo religioso di Hutton. Come molti suoi amici, compresi il filosofo David Hume, il chimico Joseph Black e l'economista Adam Smith, Hutton era deista e non cristiano; egli rifiutava le rivelazioni della Bibbia, pur credendo in un potere supremo. Questo potere ‒ la divinità ‒ si poteva comprendere al meglio mediante la ragione e l'esame della sua opera, cioè con l'indagine del mondo naturale. Certamente, dice Hutton, nessuna divinità avrebbe mai creato un mondo che avesse in sé i semi della propria distruzione. Al contrario, essa ne avrebbe creato uno che, durando indefinitamente, avrebbe manifestato la sua potenza. Di conseguenza Hutton era incline ad affermare l'uniformità delle cause geologiche e l'immensità del tempo geologico. In ciò si distingueva dai geologi cristiani, per i quali, invece, la storia della Terra aveva un inizio ben definito, la Creazione divina, e una fine già prevista.
Hutton è debitore a Newton del contenuto scientifico con il quale dava forza alla propria visione religiosa. Un'interpretazione di Newton, comune nel Settecento, suggeriva che l''etere' o i 'fluidi sottili' fossero all'origine di un ampio spettro di fenomeni fisici, che spaziavano dalla gravitazione al calore, dall'elettricità al magnetismo. La teoria della Terra di Hutton, basata sul ciclo consolidamento-sollevamento-erosione delle rocce, si fondava su una complessa teoria della circolazione del fluido sottile del calore. Emanato in prima istanza dal Sole, il fluido del calore si tramutò sulla Terra da tangibile in 'latente' (un concetto sviluppato poi da Black, amico di Hutton); esso trasformò i detriti sparsi, dovuti all'erosione e sedimentati in fondo all'oceano, in un fluido che successivamente si consolidò; a questo punto il calore da latente divenne 'specifico', causando fenomeni di espansione e di sollevamento. Poiché questi processi avevano luogo nelle profondità della Terra, questo sistema fu detto 'plutonista', da Plutone, il dio greco del mondo sotterraneo. Nello schema di Hutton, quindi, la superficie terrestre si sarebbe conservata indefinitamente, e così la vita, in particolare quella umana. In una frase molto citata Hutton riassumeva questa idea affermando che la Terra non mostrava "né vestigia di un inizio né previsioni di una fine". Tuttavia, al contrario dei werneriani, Hutton non intraprese mai lo studio delle testimonianze fossili, né suggerì a quando risalisse la presenza dell'uomo sulla Terra.
Anche se come proprietario terriero egli poteva avere interesse a sfruttare le proprie terre, le applicazioni pratiche che per i werneriani avevano grande importanza erano del tutto estranee alla sua geologia. Eminenti werneriani, come il chimico dublinese Richard Kirwan (1733 ca.-1812), attaccavano le idee huttoniane o plutoniste, sostenendo che Hutton aveva basato il suo sistema su una peculiare chimica del consolidamento che semplicemente non reggeva a un'analisi accurata; troppe rocce, in particolare calcaree, con il calore si decomponevano piuttosto che consolidarsi. Il matematico John Playfair (1748-1819), in un classico della letteratura scientifica, Illustrations of the Huttonian theory of the Earth (1802), vede nel lavoro di Hutton il risultato di attente osservazioni piuttosto che di speculazioni basate su credenze religiose o teorie fisiche. Questa interpretazione rese le idee di Hutton molto più accettabili in un'epoca nella quale per gli scienziati la scienza doveva basarsi più sull'induzione dall'esperienza che sulla teoria.
Tuttavia, nonostante il sostegno degli amici, il sistema di Hutton languì, finché Lyell non se ne fece paladino. Come Hutton, egli era deista e credeva ‒ benché l'uomo fosse un abitante recente della Terra ‒ che tutte le classi più importanti di piante e di animali avessero sempre trovato ambienti favorevoli, per quanto indietro nel tempo geologico si riuscissero a spingere le ricerche. Quando una specie si estingueva, la divinità ne creava una simile che ne prendeva il posto. Lyell si opponeva duramente all'idea catastrofista, secondo la quale dopo ogni rivoluzione erano introdotte sulla Terra una flora e una fauna più progredite. Rifiutava anche l'idea che il passato della Terra fosse costellato di catastrofi improvvise e sconvolgenti, sottolineando, invece, l'effetto di cause che si accumulano lentamente in lunghi periodi di tempo. Queste conclusioni derivavano dalla sua posizione 'uniformista', basata su tre tesi, che si possono definire come 'uniformismo della legge', 'uniformismo del tipo' e 'uniformismo del grado'. Esse sostenevano, rispettivamente, che le leggi della Natura erano sempre le stesse, che le cause che operavano sulla superficie della Terra erano sempre del medesimo tipo e che era sempre la stessa anche la loro intensità.
I contemporanei di Lyell accettarono unanimemente l'uniformismo delle leggi, salvo per quanto riguardava la creazione di nuove specie (su questo problema, come abbiamo visto, anche Lyell si allontanava dalla posizione uniformista), ma nutrivano molti dubbi sull'uniformismo del tipo; per esempio, se la Terra ‒ come pensavano molti geologi ‒ si era raffreddata, allora doveva esserci stato un tempo in cui non c'erano ghiacciai a scavarne la superficie. Anche l'uniformismo del grado li lasciava scettici; infatti, supporre che l'intensità delle cause geologiche non avesse mai subito variazioni sembrava arbitrario e improbabile. Tutto ciò spiega perché quasi tutti i geologi alla fine abbiano rifiutato l'uniformismo, restando catastrofisti.
C'è da chiedersi per quale motivo Lyell sostenesse una tesi così improbabile come quella dell'uniformismo del grado. La spiegazione più plausibile è che egli volesse adattare al caso particolare della geologia una metodologia ben nota, quella della vera causa, sostenuta per la prima volta da Newton nelle Regulae philosophandi dei Principia e che aveva assunto forma canonica nel Settecento a opera del filosofo scozzese Thomas Reid (1710-1796), per essere poi aggiornata al tempo di Lyell dall'insigne scienziato John Herschel (1792-1871). Tale principio affermava che, se si vuole ammettere una causa, questa deve soddisfare due condizioni: deve esserne effettivamente nota l'esistenza e dev'essere adeguata a produrre l'effetto. Lyell modificò questo principio alla luce dei problemi particolari posti dalla scienza geologica. Osservare insieme cause ed effetti nella geologia era molto più difficile che nella fisica, perché nella geologia le cause agiscono sul lungo periodo o sono occultate al centro della Terra. Come poteva il geologo essere sicuro che l'esistenza della causa da lui ipotizzata fosse nota? Soltanto osservandola in qualche parte del mondo, e ciò significava che esclusivamente le cause che continuavano ad agire nel presente, ed erano perciò osservabili, potevano essere invocate. Come essere sicuri che la causa fosse adeguata a produrre l'effetto? Ancora una volta, osservandola mentre produceva l'effetto, e ciò limitava le cause a quelle la cui intensità era attuale.
L'uso del principio della vera causa da parte di Lyell era ingegnoso, ma per la maggior parte dei geologi troppo restrittivo. Ammettendolo, si sarebbe dovuta dichiarare inaccettabile la teoria di maggior successo della disciplina, quella del raffreddamento e della contrazione della Terra, con le sue esplosioni intermittenti di montagne ed estinzioni di specie.
di Rachel Laudan
Il dibattito tra uniformisti e catastrofisti era strettamente legato al problema del ruolo della religione in geologia. Anche se nessun geologo riteneva che fossero vere alla lettera le storie della Creazione e del diluvio di Noè così come erano riferite nel libro della Genesi, e anche se nessuno di loro credeva che Dio avesse creato la Terra in sette giorni o che essa avesse soltanto qualche migliaio di anni, le differenze tra deisti e cristiani erano alla base della controversia tra le due scuole.
I deisti negavano la verità delle rivelazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, considerandole storie per gente ignorante e superstiziosa. Non vi era alcuna ragione di supporre che la storia della Terra avesse una qualche direzione; al contrario, la divinità non avrebbe mai creato un mondo che avesse in sé i semi della propria distruzione. Molti altri geologi, cattolici o protestanti, pensavano che le testimonianze geologiche fossero coerenti con un'interpretazione non conformista della Bibbia. Sedimenti superficiali sparsi e disordinati e massi tondeggianti 'vaganti' (massi di cui la mineralogia suggeriva che fossero stati depositati lontano dal luogo di origine) facevano pensare a un'inondazione molto estesa. Soltanto una generazione più tardi si pensò a sedimenti e massi spostati dal ghiaccio durante l'Era glaciale. Quanto diceva la Genesi, in una lettura non conformista, sembrava anche confermato dal fatto che le testimonianze fossili erano sempre più complesse e sofisticate. L'origine apparentemente recente della razza umana confermava la particolarità del posto che essa occupava nell'Universo. Se evitavano interpretazioni fondamentaliste delle Scritture, i geologi di fede cristiana potevano vedere nella geologia una delle prove della verità del cristianesimo.
Negli anni Trenta dell'Ottocento la direzione che avrebbe preso lo sviluppo della geologia fino alla fine del secolo era già ben determinata. Nell'Europa continentale e nelle Americhe l'origine delle montagne costituiva il problema principale della geologia. Fu affrontato da studiosi secondo i quali il corso della storia della Terra era stato interrotto da cataclismi e che consideravano la mineralogia, al pari della paleontologia e della stratigrafia, una parte essenziale della geologia. In Gran Bretagna, Lyell ebbe un certo numero di seguaci, tra cui Charles Darwin (1809-1882), che nel frattempo continuava a occuparsi dell'origine delle specie e della loro distribuzione nelle parti abitabili della Terra. Sia in Europa sia in America si pensava che le carte geologiche fossero il modo migliore di esporre le conoscenze geologiche più recenti; interessati alle informazioni pratiche fornite da queste carte, i vari governi furono sempre più propensi a organizzare rilevamenti geologici. Con la garanzia di una professione ufficialmente riconosciuta, gli sforzi dei geologi per la fondazione di una disciplina autonoma erano finalmente coronati da successo.
di Theodore S. Feldman
All'inizio dell'Età moderna il magnetismo terrestre, studiato principalmente per le sue applicazioni alla navigazione, apparteneva a quel complesso di materie che andavano sotto il nome di 'matematica mista': astronomia, geodesia e cartografia, navigazione e altre discipline, che attualmente si potrebbero classificare nell'ambito della matematica applicata. Il settore era dominato dai cosiddetti 'matematici professionisti', i cui strumenti ‒ le bussole ‒ erano considerati matematici, piuttosto che filosofici (vale a dire pertinenti alla filosofia naturale).
In Occidente, i marinai e i filosofi naturali alla fine del XVI sec. avevano ormai appreso che l'ago magnetico non puntava esattamente verso il Nord geografico. Grazie alle cosiddette 'bussole azimutali', navigatori e scienziati riuscirono a registrare la variazione magnetica o declinazione, ovvero l'angolo di deviazione del Nord magnetico da quello geografico. Essi avevano poi scoperto l'inclinazione magnetica ‒ l'angolo che la direzione del campo magnetico terrestre forma con il piano dell'orizzonte ‒ e per misurarla avevano costruito delle 'bussole di inclinazione'. In seguito alla diffusione di mappe della declinazione magnetica divenne possibile, con l'ausilio di questi strumenti, seguire più fedelmente una rotta precisa, e si rafforzò la speranza di poter determinare la longitudine di un luogo a partire dalla sua declinazione magnetica. Intorno alla metà del Seicento, centinaia d'anni di osservazioni avevano ormai svelato l'esistenza della variazione secolare: la lenta modificazione cui va incontro nel tempo la declinazione magnetica. L'astronomo reale inglese Edmond Halley (1656-1742) pubblicò alla fine del secolo le misure effettuate durante i suoi tre viaggi nell'Atlantico, ricavandone una mappa delle linee di uguale declinazione magnetica (isogone di declinazione). Le spedizioni di Halley inaugurarono una tradizione di esplorazioni geofisiche; sul suo esempio, sperimentatori inglesi e francesi portarono a termine migliaia di osservazioni e pubblicarono ulteriori carte isogoniche. Nel 1722, il costruttore di strumenti londinese George Graham (1674 ca.-1751) rilevò la variazione diurna, ossia l'alterazione ciclica della declinazione magnetica nell'arco delle ventiquattr'ore. Nel 1768, Johann Carl Wilcke (1732-1796) pubblicò la prima mappa che riportava i valori dell'inclinazione magnetica su tutto il globo terrestre.
Alla fine del XVIII sec., erano state scoperte le caratteristiche fondamentali del magnetismo terrestre: la declinazione, l'inclinazione, la variazione diurna e secolare, e anche l'intensità magnetica. Sull'argomento tuttavia regnava una notevole confusione. I magneti artificiali ‒ la conditio sine qua non per navigare con sicurezza e ottenere risultati nelle ricerche ‒ erano di qualità scadente e la principale fonte di magnetismo era costituita dalle calamite naturali; esse generavano un campo di forma irregolare e venivano rivestite di un'armatura in ferro dolce, allo scopo di aumentarne l'intensità. Strofinati con una calamita, gli aghi di ferro dolce si comportavano come deboli magneti temporanei. Il cartoncino e il perno che nella bussola fungevano da supporto all'ago sviluppavano attrito e altre forze, la cui entità era tale da mascherare effetti come quello della variazione diurna. Attorno al 1770, quando cominciarono a preoccuparsi di simili questioni, i filosofi naturali si erano ormai resi conto dell'inaffidabilità degli strumenti magnetici e se ne dolevano amaramente.
Anche la teoria del magnetismo doveva far fronte a varie difficoltà, dato che i filosofi naturali non erano in grado di distinguere tra la forza macroscopica generata da un intero magnete e la forza microscopica esercitata da elementi di carica magnetica matematicamente infinitesimi. In effetti, le interazioni del primo tipo resistevano a ogni tentativo volto a ricondurle a una legge matematica. Sembra che il filosofo naturale inglese John Michell (1724-1793) sia stato il primo, nel 1750, ad affermare per la forza magnetica la legge dell'inverso del quadrato, confermata nel 1760 da Tobias Mayer (1723-1762), professore a Gottinga. Analogamente a Newton, egli suddivise idealmente la carica di un magnete macroscopico in elementi infinitesimi, ma non visse abbastanza a lungo da far pubblicare il suo lavoro, che rimase in gran parte sconosciuto.
Negli anni Sessanta del XVIII sec., il governo francese e l'Académie Royale des Sciences avevano finanziato numerose spedizioni per mare, nel tentativo di misurare le caratteristiche del campo magnetico ‒ declinazione, inclinazione e intensità ‒ in ogni punto della superficie terrestre. Secondo i risultati riportati nel 1769 dall'esploratore Jacques-André Mallet, l'intensità magnetica non variava con la latitudine, ma tale ipotesi venne messa in dubbio su basi teoriche da due scienziati dell'Académie, Jean-Charles Borda (1733-1799) e Louis-Guillaume Le Monnier (1717-1799). Nel corso di un viaggio lungo le coste africane, Borda utilizzò il proprio magnetometro a inclinazione per fare egli stesso delle misurazioni, che però risultarono alterate a causa dell'attrito dell'ago con il perno. Le motivazioni che spingevano a migliorare questo stato di cose erano di estrema importanza; nel Settecento, con l'espandersi del commercio marittimo, divenne inaccettabile il numero di imbarcazioni naufragate a causa dell'inaffidabilità degli strumenti di bordo. Una squadra navale inglese subì gravi perdite nel 1707, quando l'ammiraglio Clowdisley Shovell scambiò il Canale della Manica per il Canale di Bristol. Sul finire del secolo, diversi esploratori si avventurarono verso le alte latitudini in acque sconosciute alla ricerca del famoso 'passaggio di nord-ovest' e di territori in cui cacciare balene e foche. Il cielo di queste regioni era spesso oscurato da nebbia e da nuvole, e ciò rendeva ancora più importante possedere misure attendibili del campo magnetico. Nell'intraprendere un viaggio i rischi erano elevati, e la Royal Navy così come i privati proprietari di un'imbarcazione richiedevano strumenti di misura affidabili.
Tramite le accademie scientifiche, i governi europei offrirono premi per incentivare lo studio del magnetismo; per esempio, nel 1720, a Parigi, l'Académie Royale des Sciences offrì la somma di 2000 livres a chi avesse escogitato il miglior metodo nautico di osservazione della declinazione magnetica e, nel 1743, la somma di 2000 franchi per la progettazione di una bussola di inclinazione. Senza dubbio, i vari premi offerti dai governi francese e inglese a chi avesse fornito dei metodi per determinare la longitudine ebbero anche l'effetto di favorire le ricerche sul magnetismo terrestre e, a partire dalla metà del secolo, si assisté a una rapida crescita della letteratura scientifica riguardante il geomagnetismo.
I nuovi approcci matematici e sperimentali del tardo XVIII sec. risolsero molti degli inconvenienti che affliggevano la ricerca sul magnetismo. L'inglese Gowin Knight (1713-1772), esperto in meccanica, aveva ideato un metodo per magnetizzare intensamente aghi e barrette ‒ un'invenzione che il filosofo naturale francese Henri-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782) sostenne di avere messo a punto nello stesso periodo. Lavorando come consulente della Royal Navy, e dopo uno studio sistematico delle fonti di errore, Knight elaborò il progetto di una bussola, poi realizzato da William Smeaton (1724-1792), un esponente della nuova generazione inglese di costruttori di strumenti di precisione. Il metodo di Knight, largamente imitato, rese possibile la costruzione di bussole con aghi molto lunghi, il cui campo magnetico era ben localizzato in corrispondenza delle loro estremità. Bussole di questo tipo, equipaggiate con lenti di ingrandimento e con un nonio, erano in grado di leggere la declinazione magnetica fino a un minuto d'arco.
In Francia, l'Académie Royale des Sciences, nel tentativo di trovare una soluzione alle questioni sollevate da Borda, nel 1773 indisse un concorso sul tema: "Qual è il metodo migliore per realizzare un ago magnetico, mantenerlo sospeso, accertarsi che sia effettivamente nella direzione del meridiano magnetico e tener conto infine delle sue regolari variazioni diurne?". Il concorso ebbe tre vincitori, che rappresentavano diverse correnti della filosofia naturale del tardo Settecento: al francese Alexis Magny (1712-1777), esponente di spicco della scuola ‒ allora in piena fioritura in Francia ‒ che riuniva i costruttori di strumenti di precisione, fu assegnato un sesto del premio per la realizzazione di una bussola di precisione; Jan Hendrik van Swinden (1746-1823) e Charles-Augustin Coulomb (1736-1806), si divisero il resto del premio. Dall'esame di circa 40.000 risultati osservativi, 18.000 dei quali ottenuti da lui personalmente, van Swinden fu in grado di confermare l'esistenza della variazione della declinazione magnetica e di tracciarne l'andamento nell'arco del giorno e dell'anno. Questo approccio assolutamente empirico, che utilizzava enormi quantità di dati ricavati per mezzo di una sperimentazione accurata e minuziosa, è un esempio del metodo che molti filosofi naturali privi di solide competenze matematiche applicavano a discipline come la meteorologia e il magnetismo terrestre. Per lungo tempo, in effetti, tali scienze sfuggirono a ogni tentativo di descrizione matematica. Coulomb rappresenta invece l'unione dell'ingegneria e dell'alta matematica con la fisica sperimentale esatta; sfruttando le proprie conoscenze nel campo della resistenza dei materiali, acquisite esercitando la professione di ingegnere militare, egli costruì una bussola il cui ago era sospeso per una lunghezza pari a quella di un'intera corda di pianoforte e sottoposto a torsione. Uno strumento del genere, tanto delicato da risultare sensibile persino agli starnuti degli assistenti di Coulomb, sarebbe stato di scarsa utilità a bordo di una nave; esso rappresentò piuttosto una specializzazione orientata a una meticolosa indagine di laboratorio, che andava al di là del contesto della navigazione o dei viaggi via terra. Coulomb non sottomise il magnetismo terrestre al dominio delle proprie conoscenze matematiche; tuttavia, applicando i metodi del calcolo matematico ai risultati ottenuti in laboratorio, egli riuscì a confermare per la forza magnetica la legge dell'inverso del quadrato della distanza.
Verso la fine del XVIII sec., i Francesi detenevano il primato negli studi sul magnetismo terrestre. Il Bureau des Longitudes, fondato nel 1795, portò avanti la tradizione delle osservazioni geomagnetiche avviata dall'Osservatorio di Parigi, mentre Jean-Joseph-Étienne Lenoir, membro importante di un fiorente gruppo francese di fabbricanti di strumenti, progettò e costruì il primo accurato magnetometro a inclinazione. In Francia, si rafforzò il legame fra il magnetismo terrestre e l'astronomia; in effetti, data l'importanza di quest'ultima per la navigazione e della bussola per la topografia (parente prossima dell'astronomia), era naturale che fra le due scienze esistesse una stretta relazione. Gli astronomi con gli strumenti a loro disposizione erano in grado di affrontare anche lo studio di discipline come il magnetismo terrestre e la meteorologia, che richiedevano osservazioni regolari e frequenti su lunghi periodi. La topografia venne sempre più utilizzata come uno strumento dell'imperialismo europeo, e durante l'Ottocento, a mano a mano che gli Stati europei estendevano il loro dominio attraverso la terra e i mari, progredirono di pari passo anche le conoscenze nel campo del magnetismo terrestre.
Alexander von Humboldt s'inserì in questo contesto agli inizi del XIX sec., epoca in cui si preparava per una spedizione sul fiume Nilo. La campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte lo costrinse ad accantonare i propri progetti avventurosi, e a immergersi invece nell'intensa vita scientifica della Parigi napoleonica. L'interesse di Humboldt per la geofisica risaliva agli anni del suo precedente lavoro nell'amministrazione mineraria, durante i quali aveva intrapreso una serie di studi geomagnetici, geologici e meteorologici, che definirono il modello di quella che egli chiamò physique générale: una scienza unitaria della Terra. A Parigi cominciò a collaborare con Borda, che incoraggiò ulteriormente il suo interesse per il magnetismo terrestre. Nel 1798, quando partì per il famoso viaggio in Sudamerica, uno dei principali obiettivi di Humboldt erano le osservazioni magnetiche: aveva infatti portato con sé uno dei magnetometri di Borda. Gli esperimenti effettuati in quell'occasione sembrarono confermare la teoria di Jean-Baptiste Biot (1774-1862), secondo cui il campo magnetico terrestre era originato da un dipolo magnetico situato al centro della Terra, e dimostrarono in modo definitivo e conclusivo che l'intensità magnetica aumenta con la latitudine; Humboldt considerò questa legge come il risultato più importante della sua spedizione.
La legge che metteva in relazione l'intensità magnetica con la latitudine è un esempio della notevole abilità di Humboldt nello scoprire leggi semplici e generali a partire da una gran mole di osservazioni. Leggi simili erano un obiettivo primario del suo programma di ricerca, ed egli, come altri filosofi naturali del periodo romantico, sperava che esse avrebbero rivelato le interconnessioni tra le forze esistenti nell'Universo ‒ come l'elettricità, le interazioni chimiche, il calore e la luce ‒ aiutando così a costruire una fisica unitaria della Terra: la sua physique générale. Le indagini sui fenomeni termoelettrici, allora appena scoperti, incoraggiarono la fiduciosa aspettativa che il geomagnetismo nascesse da un'interazione termoelettrica fra l'atmosfera e la Terra. Molti ritenevano che il campo magnetico terrestre fosse l'ultimo grande mistero rimasto insoluto, da quando Newton aveva fornito una soluzione al problema della gravitazione. Tuttavia, le guerre del periodo napoleonico e la scoperta di nuove stimolanti interrelazioni fra realtà fisiche diverse, come per esempio l'elettromagnetismo, distolsero l'attenzione degli studiosi dai fenomeni geomagnetici.
La fine dell'età napoleonica portò a una ripresa dei viaggi scientifici e alla nascita di una competizione politica e scientifica tra Inghilterra e Francia. Sempre in questo periodo, il ghiaccio allentò la sua morsa sul Mar Glaciale Artico, e l'Ammiragliato britannico inviò una serie di spedizioni alla ricerca di un passaggio di nord-ovest o di una via per raggiungere il Pacifico attraverso il Polo Nord. Secondo la tradizione inaugurata alla fine del secolo precedente dal capitano James Cook, in questi viaggi si intraprendevano ricerche scientifiche di notevole importanza, e tra queste il geomagnetismo occupò una posizione di rilievo. Edward Sabine (1788-1876), direttore scientifico della spedizione organizzata nel 1818 da John Ross (1777-1856) alla ricerca del passaggio di nord-ovest e di quella di William Edward Parry (1790-1855) al Polo l'anno successivo, divenne il maggior propugnatore della ricerca geomagnetica in Inghilterra e l'ispiratore di quella sorta di 'crociata per il magnetismo' che la Gran Bretagna condusse tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta del XIX secolo. È interessante notare che Sabine utilizzò una bussola fabbricata nel 1772 dagli inglesi Edward Nairne e Thomas Blunt e un'altra progettata da Mayer, una conferma dell'eccellenza raggiunta dagli strumenti di misura di fine Settecento. Nel 1831, dopo varie spedizioni, gli Inglesi avevano stabilito l'esatta posizione del Polo Nord magnetico, definito dall'esploratore James Clark Ross (1800-1862) "il luogo che [la Natura] aveva eletto a sede di uno dei suoi grandi e oscuri poteri", mentre nella spedizione francese di Louis-Claude Freycinet (1779-1842) furono ripetute le misurazioni effettuate da Humboldt in Sudamerica, estendendole su un ampio intervallo di valori della latitudine. Ciò fornì una fonte di dati sperimentali che permisero di verificare le ipotesi teoriche di Biot riguardo all'intensità del campo magnetico. Parigi si distinse nella produzione degli strumenti magnetici di precisione e nella definizione delle unità di misura e della nomenclatura relative al magnetismo. Fra il 1820 e il 1835, Dominique-François Arago (1786-1853), uno stretto collaboratore di Humboldt che lavorava presso l'Osservatorio di Parigi, ottenne più di 50.000 misure della declinazione magnetica. L'obiettivo di questo lavoro di ricerca, che potremmo definire di tipo humboldtiano, era trovare un insieme di leggi semplici in grado di svelare il mistero delle origini del campo magnetico terrestre e delle sue relazioni con gli altri fenomeni geofisici. Sulla base delle proprie osservazioni e di altri dati risalenti al 1580, Arago arrivò effettivamente a formulare quattro leggi fenomenologiche, smentite di lì a poco da ulteriori misure; riuscì a spiegare però la variazione diurna della declinazione e dell'intensità magnetica.
Nel frattempo, un terzo polo della ricerca sul magnetismo era sorto in Norvegia, dove Christopher Hansteen (1784-1873) vinse un concorso bandito dalla Reale Accademia delle Scienze danese, proponendo una teoria che ipotizzava l'esistenza di due assi magnetici terrestri (e quindi di quattro poli). Egli, però, non fu in grado di ricavare una dimostrazione matematica a sostegno della sua teoria; per la formulazione di un modello matematico soddisfacente, si dovrà attendere il lavoro di Carl Friedrich Gauss (1777-1855). Nel 1819 e nel 1826, Hansteen pubblicò alcune mappe magnetiche della superficie terrestre, quindi, nel 1828, partì per la Siberia alla ricerca del secondo dei due poli Nord previsti dalla sua teoria ‒ quello più orientale ‒ ed effettuò svariate centinaia di misurazioni del campo magnetico. Inventò inoltre uno strumento per misurare l'intensità magnetica, per il quale coniò il termine 'magnetometro'. Hansteen estese alle grandi lunghezze il principio di Knight, usando un cilindro magnetizzato d'acciaio lungo circa 30 pollici (80 cm ca.), e definì alcuni criteri di utilizzazione dello strumento; la durata temporale di 300 oscillazioni dell'ago del magnetometro poteva essere assunta come una misura dell'intensità del campo magnetico in un determinato punto della superficie terrestre. Il metodo di Hansteen fu largamente adottato per parecchi decenni.
Humboldt si era a lungo interessato alle variazioni temporali del campo geomagnetico, e in particolare alle violente variazioni su tempi brevi, che egli chiamò 'tempeste magnetiche'. Aveva quindi incoraggiato lo svolgimento di campagne osservative simultanee, in parte con l'obiettivo di scoprire se queste tempeste si verificassero contemporaneamente su tutta la superficie terrestre. Nel 1824, Arago e A.T. Kuppfer dell'Università di Kazan, in Russia, iniziarono una serie di osservazioni coordinate. Nel 1829, quando partì per una spedizione nell'Asia centrale finanziata dalla Russia, Humboldt aveva inaugurato una rete di osservatori magnetici permanenti, che nel 1830 includeva numerose stazioni, undici delle quali dislocate su un'area che si estendeva attraverso i possedimenti europei e asiatici della Russia, e nove sparse un po' ovunque, fra cui l'Osservatorio di Sitka, nei territori americani della Russia, e il proprio osservatorio personale, costruito espressamente per Humboldt a Berlino, nel giardino della casa di Abraham Mendelssohn-Bartholdy, padre del compositore. Per molto tempo, Humboldt aveva cercato di attirare Gauss a Berlino dall'Università di Gottinga, e nel 1828 convinse il matematico tedesco a partecipare al convegno inaugurale della Deutsche Naturforscherversammlung (Società Tedesca di Naturalisti). Il contatto con Humboldt offrì a Gauss gli strumenti e i metodi per misurazioni esatte del campo magnetico, senza le quali i suoi studi sul geomagnetismo, risalenti a parecchi anni addietro, non riuscivano a progredire. A Berlino, Gauss incontrò anche Wilhelm Weber (1804-1891), con cui iniziò una collaborazione che si prolungò fino al 1837, quando Weber fu espulso da Gottinga.
Il magnetismo terrestre divenne uno dei principali interessi dei due scienziati. Sotto la loro guida, Gottinga diventò il centro del Magnetischer Verein (Unione Magnetica), che ereditò l'organizzazione degli osservatori magnetici creata da Humboldt. Fra i risultati delle ricerche di Gauss e Weber, va ricordata la definizione di unità di misura assolute per l'intensità del campo magnetico. In effetti, i metodi precedenti, compresi quelli di Hansteen, potevano solamente fornire valori relativi dell'intensità del campo, determinati a partire da misure eseguite con uno stesso ago magnetico, o ricorrendo a qualche standard di riferimento; questo sistema era sostanzialmente inattendibile, in quanto con l'andare del tempo gli aghi si smagnetizzavano. Gauss dimostrò che il valore assoluto dell'intensità poteva essere ricavato combinando una misura della deflessione angolare dell'ago con la consueta lettura del suo periodo di oscillazione intorno al meridiano magnetico. Nel più importante lavoro da lui pubblicato sul geomagnetismo, intitolato Allgemeine Theorie des Erdmagnetismus (Teoria generale del magnetismo terrestre, 1839), egli abbandonò l'approccio induttivo caratteristico dell'epoca di Humboldt e anche l'interesse per le interrelazioni con i fenomeni tellurici, mettendo a punto il primo modello matematico del campo magnetico terrestre. A tale scopo, elaborò il metodo dell'analisi in armoniche sferiche e derivò il potenziale magnetico in ogni punto della Terra a partire da funzioni sferiche, i cui coefficienti furono calcolati utilizzando i dati raccolti dal Magnetischer Verein.
Prima della scoperta dell'elettromagnetismo da parte di Hans Christian Oersted (1777-1851), avvenuta nel 1820, quello terrestre era il campo magnetico più intenso che gli sperimentatori avessero a disposizione, e non era possibile studiare i fenomeni magnetici separatamente da quelli geomagnetici. Soltanto in seguito, quando furono realizzati gli elettromagneti, i due fenomeni divennero argomenti d'indagine distinti. Il nuovo approccio al magnetismo, sia matematico sia sperimentale, rappresentò la fine di un'epoca e, più avanti nel secolo, preparò la strada ai successi dell'elettromagnetismo classico.
di Theodore S. Feldman
Sin dall'inizio della Rivoluzione scientifica, i filosofi naturali avevano nutrito grandi speranze per il futuro della meteorologia: l'introduzione di osservazioni pianificate sarebbe stata utile per decifrare e prevedere il comportamento del tempo atmosferico; la conoscenza degli effetti meteorologici sulle coltivazioni avrebbe contribuito a perfezionare l'agricoltura; la scienza medica, in un'epoca in cui la tradizione dominante si ispirava ancora al trattato di Ippocrate De aëre, aquis, locis, avrebbe tratto beneficio dalla conoscenza degli influssi del clima sulla salute. Così com'era concepita nel primo periodo moderno, la meteorologia comprendeva questi e molti altri argomenti, e le ricerche degli studiosi si estendevano anche alla chimica dell'atmosfera e alle sue caratteristiche elettriche e ottiche: i fulmini e i lampi; il comportamento dei gas; la rifrazione; l'arcobaleno e gli aloni. La meteorologia, dunque, aveva un vasto campo d'azione, che comprendeva numerose aree proprie della filosofia naturale e della matematica (o di ciò che oggi chiameremmo matematica applicata).
In un'epoca in cui era molto forte la speranza che la filosofia naturale ‒ e, più in generale, la ragione ‒ avrebbe contribuito al progresso fisico e morale del genere umano, la meteorologia divenne una materia largamente popolare. Era abbastanza semplice procurarsi un termometro o un barometro, cioè i due strumenti essenziali per il rilevamento delle condizioni climatiche; essi, del resto, non erano troppo costosi per una famiglia della classe media (naturalmente, nel caso di osservazioni elementari, si poteva addirittura fare a meno di qualsiasi strumento di misura). Gli agricoltori benestanti cominciarono a prendere in considerazione le osservazioni meteorologiche nei loro sforzi per riformare l'agricoltura, e, analogamente, su un altro versante, i medici, utilizzando le stesse osservazioni, si preoccupavano di migliorare la salute pubblica. Un diario delle osservazioni tenuto con cura aveva buone possibilità di essere pubblicato sul periodico di qualcuna delle numerose società letterarie, agrarie e scientifiche del tardo Illuminismo; esso era in sintonia con lo spirito burocratico dell'assolutismo illuminato: le righe e le colonne ordinate di numeri incoraggiavano l'aspettativa che i fenomeni meteorologici potessero essere assoggettati allo stesso grado di controllo che i governanti intendevano esercitare sulla società.
Nella prima metà del Settecento, si era più volte tentato di organizzare le osservazioni meteorologiche su scala nazionale e internazionale, ma i risultati erano stati modesti, poiché si era trattato principalmente di iniziative spontanee, senza il patrocinio dello Stato: in effetti, pochi governi sarebbero stati in grado, all'epoca, di realizzare una campagna di rilevamenti a livello nazionale. D'altra parte, a coloro che erano occupati nelle osservazioni, in genere mancava la disciplina necessaria per eseguire con continuità misurazioni regolari su lunghi periodi di tempo, e spesso i dati ottenuti da persone diverse non erano confrontabili. Un problema assai rilevante, poi, era quello costituito dalle scale termometriche: in tutta l'Europa ne esistevano letteralmente a dozzine, e ciò creava una certa confusione nei rilevamenti della temperatura. Anche le letture barometriche presentavano qualche difficoltà, dal momento che ogni regione possedeva le proprie unità di misura per la lunghezza, cosicché l'altezza di 30 pollici (80 cm ca.) di mercurio risultava diversa a seconda dei luoghi. A volte, a inficiare la precisione erano le stesse tecniche di fabbricazione degli strumenti; nel caso dei termometri, per esempio, era frequente che la composizione dell'alcol subisse qualche variazione, ma gli sperimentatori non si rendevano conto che ciò potesse avere effetti sulle misure. Qualunque lettura fatta con i termometri di Réaumur ‒ ad alcol ‒ era dunque imprecisa, mentre l'aria e le impurità disciolte nel mercurio vanificavano gli sforzi di quanti cercavano di dare un senso ai dati raccolti con i termometri di Fahrenheit. Tutto sommato, però, nella prima metà del secolo la precisione non rientrava tra gli obiettivi della meteorologia e della fisica sperimentale. Anzi, i meteorologi si accontentavano di descrizioni di natura essenzialmente qualitativa, di scoprire alcune caratteristiche da cui derivare regole empiriche per prevedere il tempo atmosferico, come quella contenuta nell'espressione "nubi da ponente, forte vento", e di annotare certe coincidenze che si verificavano in regioni dell'Europa molto lontane fra loro, usando affermazioni del tipo: "Sì, spesso certe condizioni meteorologiche rilevanti si verificano sia nell'uno sia nell'altro luogo".
La meteorologia del primo Settecento rappresenta un tipo di approccio al mondo naturale che Michel Foucault ben descrive nella sua Naissance de la clinique (1963) quando, riferendosi alla pratica medica dell'epoca, parla di percezione "di spazio […] senza profondità, di coincidenze senza sviluppo". In maniera analoga, all'inizio del secolo i meteorologi non percepivano la separazione spaziale fra i luoghi della superficie terrestre come qualcosa che potesse in qualche modo influire sulle condizioni del tempo, né dal punto di vista delle caratteristiche del territorio, né da quello della semplice sua estensione. Essi potevano confrontare il tempo di Upminster, in Inghilterra, con quello di Zurigo, senza alcuna considerazione della differenza geografica esistente fra le due città, oppure della varietà ed estensione dello spazio che le separava. Similmente, gli studiosi vedevano nei modelli meteorologici delle mere coincidenze senza sviluppo, e il fatto che cercassero delle regole empiriche costituisce un esempio di questo modo di ragionare. L'espressione "nubi da ponente, forte vento" segnalava una coincidenza, ma essa era priva di qualunque significato riguardante lo sviluppo temporale dei processi meteorologici. Foucault definì "classico" tale approccio.
Il tardo Illuminismo
La situazione cambiò radicalmente negli ultimi trent'anni del XVIII secolo. La precisione divenne un'ossessione per i filosofi naturali, non soltanto nel campo della meteorologia, ma in tutti i settori di ricerca. I fabbricanti di strumenti impararono a progettare e costruire prodotti in grado di raggiungere un'accuratezza senza precedenti ‒ barometri, termometri e igrometri per la meteorologia, ma anche strumenti per i campi più disparati, come la topografia e la chimica. Il maggior fabbricante di strumenti del secolo, il londinese Jesse Ramsden (1735-1800), vendeva barometri che raggiungevano la precisione di 1/1000 di pollice. Non è sufficiente, però, procurarsi una strumentazione accurata, occorre anche adoperarla in modo tale da garantirsi risultati attendibili. I filosofi naturali impararono a farlo, dedicando una cura eccezionale alla realizzazione degli strumenti, impiegandoli in serie esaurienti di osservazioni ripetute, spingendosi a durate straordinarie per evitare i fattori di disturbo, e sviluppando correzioni per gli effetti perturbativi impossibili da eliminare, come quelli derivati dalla temperatura. Maestro in questo tipo di attività fu Jean-André Deluc (1727-1817), le cui Recherches sur les modifications de l'atmosphère (1772) furono ampiamente considerate un'opera che stabiliva un modello per fare ricerca sia in campo meteorologico sia nell'intera fisica sperimentale. Egli portò a ebollizione il mercurio dei barometri per rimuovere l'aria che vi era disciolta, eliminò i problemi di parallasse nella lettura degli strumenti e ricavò alcune formule per correggere l'effetto della temperatura sugli strumenti. Durante una famosa campagna di rilevamento, Deluc registrò oltre 400 letture della temperatura e della pressione in quindici stazioni meteorologiche situate su un monte vicino a Ginevra.
L'organizzazione sistematica e l'aspirazione alla precisione nel campo della fisica sperimentale si intrecciarono strettamente con gli impulsi burocratici e riformistici del tardo Illuminismo. Da una parte all'altra d'Europa, le società scientifiche, sorte su iniziativa privata o statale con l'obiettivo di riformare l'agricoltura o la medicina, inserirono fra le attività di propria competenza le osservazioni meteorologiche. Le società agrarie, come la Société Royale d'Agriculture di Parigi, incoraggiarono i loro membri a raccogliere dati sul tempo atmosferico e a studiare gli effetti climatici sugli animali e sul raccolto. Nel 1778, in seguito alle riforme del ministro Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781), fu fondata la Société Royale de Médecine, con l'incarico di occuparsi dell'organizzazione della salute pubblica in Francia. A tale scopo essa impiegò una rete di medici, diffusa in tutto il paese, che, fra l'altro, aveva il compito di redigere mappe topografico-mediche di ispirazione ippocratica, in cui si descrivevano le caratteristiche topografiche, climatiche ed epidemiologiche delle varie località della Francia. Il monito di Louis Cotte (1740-1815), direttore della Société, potrebbe essere assunto come motto dell'epoca: "Grande rigore e spirito d'ordine".
Negli Stati germanici, la Societas Meteorologica Palatina di Mannheim (1780) aveva l'onore di essere annoverata fra le molte 'società patriottiche' votate alle riforme e al progresso che si dedicavano alle ricerche meteorologiche. Per le proprie campagne di rilevamento, la Societas non si rivolgeva ai singoli individui, ma ad accademie scientifiche e organizzazioni di tutto il mondo, cui inviava confezioni di strumenti "di provata comparabilità, senza badare a spese", ricevendo in cambio esaurienti serie di dati ottenute seguendo un comune progetto di ricerca. Pianificare le osservazioni in corrispondenza di certi orari stabiliti e facendo riferimento sempre a una stessa scala era un'importante novità; ciò è testimoniato dal fatto che le cosiddette 'ore di Mannheim' e 'scale di Mannheim per il tempo ventoso e nuvoloso' furono diffusamente adottate per oltre un secolo.
La quantità e la ricchezza dei dati raccolti da queste organizzazioni costituirono le fondamenta dell'allora nascente scienza quantitativa del clima. I collaboratori delle "Effemeridi" di Mannheim, per esempio, analizzarono i propri dati in funzione delle massime e minime periodiche e stagionali, degli intervalli di temperatura, della pressione, della variazione magnetica e di altre variabili climatiche. I risultati che ottennero furono sufficienti a risolvere questioni a lungo dibattute, come quella dell'influenza della Luna sul tempo atmosferico ‒ ipotesi che respinsero ‒ e della variazione barometrica diurna ‒ ipotesi che confermarono. A partire da gruppi di osservazioni coordinate, i meteorologi iniziarono a formulare descrizioni del clima a carattere regionale, mentre la Société Royale de Médecine aspirava a realizzare una mappa medica e meteorologica di tutta la Francia, da ottenere mettendo insieme le topografie mediche compilate dai propri membri.
Grazie ai nuovi dati, inoltre, i meteorologi cominciarono a rendersi conto del ruolo creativo dello spazio in meteorologia; per esempio, furono in grado di tracciare l'andamento delle temperature in tutta Europa durante il grande freddo del 1775-1776, o di ricostruire il percorso della tempesta di grandine del 13 luglio 1788, che, distruggendo i raccolti della Francia, nella primavera successiva contribuì a fare scoppiare la rivoluzione in quel paese. Le variazioni barometriche iniziarono a essere considerate non come un fenomeno locale, ma regionale e continentale. Come sottolineava uno dei collaboratori delle "Effemeridi" della Societas di Mannheim, chiunque avesse esaminato e confrontato attentamente le osservazioni barometriche nelle "Effemeridi" non avrebbe potuto fare a meno di concludere che le oscillazioni della pressione di durata maggiore di un giorno "si verificano contemporaneamente in più luoghi di diversa latitudine e longitudine". Con ogni probabilità, le descrizioni climatologiche regionali e quelle medico-topografiche fecero sì che nella scienza del clima fosse attribuita la giusta importanza al fattore spaziale, contribuendo in tal modo ad avviare un processo di superamento della concezione classica del mondo naturale.
La Rivoluzione francese pose fine a queste fatiche. La rete di collaborazioni scientifiche fu mandata in frantumi da un quarto di secolo di guerre e di disordini. Nel 1793, il governo rivoluzionario francese chiuse la Société Royale de Médecine, e insieme a essa tutte le accademie scientifiche francesi dell'Ancien Régime; due anni dopo, l'esercito giacobino occupò la città di Mannheim e disperse la Societas Meteorologica Palatina. Il dispotismo illuminato, che si era fatto promotore di queste istituzioni, fu cancellato dalla storia; dovette passare mezzo secolo prima che gli Stati nazionali fondassero altre istituzioni paragonabili alla Societas di Mannheim. In ogni caso, il programma meteorologico del tardo Illuminismo era in gran parte fallito: la meteorologia non aveva apportato "il perfezionamento delle scienze dell'agricoltura e della medicina", e la ricerca di regole meteorologiche non aveva dato alcun frutto. "Tutti i tentativi di scoprire le regole che governano il tempo sono stati vani", lamentava l'astronomo Johann Elert Bode (1747-1826) parecchi decenni più tardi. Nonostante i progressi conseguiti nella strumentazione e nella sistematicità dei metodi osservativi, i meteorologi che operavano al di fuori dei principali centri della cultura scientifica europea non erano aggiornati sugli ultimi sviluppi. La raccolta dei dati meteorologici era ancora una pratica sporadica e, per molti, restava un'attività inutile.
Il lavoro di Alexander von Humboldt rappresentò per la scienza del clima un notevole cambiamento di prospettiva e contribuì a un rinnovamento del settore. Egli seppe coniugare la precisione tardo-illuministica dei metodi sperimentali con una concezione romantica dell'unitarietà del mondo naturale. Ciò che lui e molti dei suoi colleghi chiamavano physique générale era una disciplina che tendeva all'interpretazione onnicomprensiva e unificata di tutti i fenomeni naturali della Terra. Humboldt si accostò alla geografia delle piante, che, grazie a scienziati settecenteschi come Georg Forster (1754-1794) e Karl Willdenow (1765-1812), aveva già sviluppato il concetto di comunità di piante come un unicum integrato con l'ambiente e sensibile ai fattori climatici e fisici. In questo campo, Humboldt espresse molte delle sue iniziali convinzioni sull'integrazione del clima con la fisica e con la biogeografia. Al tempo stesso, le domande che lo scienziato si poneva riguardo alla Natura erano le stesse che un gruppo di eruditi e geografi umanisti di Gottinga, cui apparteneva anche suo fratello, si poneva riguardo alle nazioni e agli Stati. In tal modo, Humboldt combinò la tendenza a quantificare, propria del tardo Illuminismo, con la visione geografica e storica dell'età romantica. Il più noto contributo di Humboldt alla meteorologia, la scoperta delle isoterme (linee di temperatura costante), è un tipico esempio di questo approccio, nel senso che in essa erano state utilizzate misure quantitative e, al tempo stesso, tali linee esprimevano una concezione unitaria di aspetti della geografia fisica, di quella umana e della biogeografia.
Humboldt, naturalmente, non fu l'unico filosofo naturale che cercasse di dare un significato unitario ai risultati delle osservazioni meteorologiche. Heinrich Wilhelm Brandes (1777-1834), scavando nell'imponente mole di dati pubblicati dalla Societas di Mannheim, ebbe l'idea di ricavarne delle mappe del tempo atmosferico in Europa ‒ che probabilmente disegnò egli stesso ‒, in cui si ricostruivano le condizioni meteorologiche per ciascun giorno dell'anno 1783 e si riportavano le linee di uguale deviazione dalla norma barometrica. Consapevole della novità del suo lavoro, e temendo che potesse apparire banale o privo di senso, Brandes tracciò inoltre l'andamento delle variazioni della temperatura attraverso il continente, scoprì la distribuzione geografica della pressione, e vide che la direzione del vento dipendeva in gran parte dalle differenze di pressione. Questo lavoro costituisce un primo esempio di meteorologia sinottica, e non è esagerato dire che egli fu il primo a considerare fenomeni quali le tempeste e le violente oscillazioni barometriche come entità geografiche coerenti. Se Brandes affrontò il problema dell'integrazione spaziale delle osservazioni meteorologiche, Heinrich Wilhelm Dove (1803-1879) si concentrò sulla loro integrazione temporale. Egli scoprì una regolarità ‒ che chiamò Drehungsgesetz (legge della rotazione) ‒ esistente nella relazione fra direzione del vento, altezza barometrica e condizioni meteorologiche, nell'intervallo di tempo compreso fra un minimo barometrico e il successivo: a mano a mano che il barometro risale dopo aver toccato il minimo, i venti cominciano a ruotare in senso orario da sud, raggiungendo il quadrante di nord-est in corrispondenza del punto di massima barometrica; contemporaneamente, la temperatura diminuisce e il tempo gradualmente migliora. Quando il barometro torna a scendere, i venti continuano a ruotare, mentre il cielo si copre di nuvole e la temperatura aumenta. Come Humboldt e Brandes, anche Dove propose di dare un senso alla congerie di dati meteorologici studiando l'andamento temporale della pressione, della temperatura e dei venti, e combinando fra loro i risultati ottenuti. Sfortunatamente, le misure su cui si basava la sua Drehungsgesetz erano state registrate presso stazioni meteorologiche situate a sud della traiettoria della tempesta oggetto dei suoi studi ‒ le stazioni dell'Europa centrale si trovano generalmente a sud dei centri delle tempeste; a nord, invece, la rotazione avviene nella direzione opposta. Il lavoro di Dove inaugurò un periodo di dibattiti intorno alla cinetica delle tempeste che durò molti decenni.
La meteorologia fisica
Prima che fosse possibile iniziare a discutere le caratteristiche cinematiche delle tempeste e ad applicare la termodinamica ‒ una volta sviluppati i principî fisici dell'energia ‒ a questo e ad altri settori della meteorologia, gli studiosi dovettero imparare a considerare le tempeste nella loro dimensione geografica. La meteorologia fisica prese avvio soltanto negli anni Quaranta dell'Ottocento; prima di allora il rompicapo principale da risolvere era la presenza di vapore acqueo nell'atmosfera, un fatto che per tutto il XVIII sec. rappresentò una seria sfida per i filosofi naturali. Come era possibile che le particelle d'acqua, più 'grossolane' di quelle dell'aria, e con una maggiore densità relativa, restassero sospese nell'atmosfera? Se l'acqua era più pesante dell'aria, come mai con la pioggia il barometro scendeva? I filosofi naturali, soprattutto nella prima metà del Settecento, ricorrevano nelle loro spiegazioni a modelli per immagini e alle familiari proprietà macroscopiche dell'aria, dell'acqua e del fuoco, che ritenevano costituito da particelle; per esempio, ipotizzavano che le particelle di fuoco, nel salire verso l'alto, collidessero con quelle d'acqua contenute nell'atmosfera o le trascinassero per adesione, oppure che le particelle di vapore fossero delle bolle vuote, dette 'vescicole', più leggere rispetto all'aria. Tali immagini, definite 'meccaniche' dai contemporanei e spesso etichettate come 'cartesiane' dagli storici della scienza, si ritrovano in tutta la filosofia naturale del tempo.
Nel 1751, Charles Le Roy (1726-1779), dell'Università di Montpellier, abbandonando esplicitamente le immagini meccaniche concrete, avanzò l'ipotesi che il vapore fosse una soluzione di acqua in aria. Questa "teoria della soluzione" apriva il campo alla quantificazione in un modo semplice, che sarebbe stato impossibile con i precedenti modelli di spiegazione per immagini; questi, infatti, erano molto più complicati e implicavano quella che si potrebbe chiamare una complessa dinamica dei fluidi. Anche Joseph Black, nei primi anni Sessanta del Settecento, respinse in maniera analoga le teorie meccaniche, e propose un'interpretazione del calore latente di fusione e di ebollizione, limitandosi a osservare che nella liquefazione e nella vaporizzazione l'acqua assorbiva una grande quantità di calore. Black, inoltre, fece notare che tutte le nostre nozioni, vale a dire le interpretazioni meccaniche, riguardo a questo assorbimento "devono essere ipotetiche". Egli misurò in quanto tempo una certa quantità di calore della propria stufa faceva evaporare completamente una data quantità d'acqua, e mise a confronto il valore ottenuto con il tempo impiegato dalla stessa quantità di calore per portare la medesima quantità d'acqua a una temperatura prestabilita. In questo modo, egli pervenne a un metodo di misurazione semplice del calore latente di evaporazione. Il lavoro di Black metteva in discussione la teoria della soluzione, individuando nel calore l'unica causa dell'evaporazione. Black era consapevole dell'importanza del proprio lavoro dal punto di vista delle applicazioni industriali; i suoi assistenti provenivano principalmente dal settore industriale, egli stesso trasse molti esempi relativi al vapore e al calore latente dal mondo delle distillerie, e fu un distillatore a fornirgli l'idea per misurare il calore latente di evaporazione. James Watt (1736-1819), spinto anch'egli da interessi industriali, proseguì in questo programma di sperimentazione, misurando il calore latente di evaporazione per un ampio intervallo di pressione e di temperatura e dimostrando che l'acqua esercita una pressione a tutte le temperature e in vacuo. Nonostante ciò, Watt credeva alla teoria della soluzione. Nel frattempo, James Hutton, meglio noto tra i geologi per aver formulato per la prima volta l'ipotesi uniformista, ricorse alla teoria della soluzione per spiegare l'origine della pioggia. Hutton, infatti, supponeva che il potere dissolvente dell'aria aumentasse con la temperatura in maniera più che lineare; e che quando due volumi d'aria, saturati con vapor d'acqua a diverse temperature, erano mescolati insieme, la miscela ottenuta sarebbe risultata sovrassatura, facendo così precipitare il vapore. Negli ultimi decenni del secolo, molti studiosi di meteorologia, influenzati dagli entusiasmanti progressi della chimica, avanzarono l'ipotesi che l'evaporazione comportasse un legame a livello chimico fra l'acqua e le particelle dell'atmosfera.
A partire dal 1770 circa, Johann Heinrich Lambert (1728-1777), Deluc e Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799) progettarono igrometri sempre più precisi, con cui misurarono la velocità di evaporazione e la quantità di vapore dell'atmosfera. Misurazioni eseguite con un barometro mostrarono a de Saussure che la pressione dell'aria saturata con il vapor d'acqua era la somma delle pressioni indipendenti del vapore e dell'aria secca. Così, negli Essais d'hygrométrie (1783), egli giunse, per il caso del vapore acqueo, a una conclusione equivalente a quella espressa da John Dalton (1766-1844) nella legge delle pressioni parziali. Deluc alcuni anni dopo e Alessandro Volta negli anni Novanta del Settecento, arrivarono allo stesso risultato. Come scrisse Volta, la quantità di vapore che si forma sommata alla sua pressione "è sempre la stessa in un dato spazio, sia vuoto che riempito d'aria di qualunque densità". Egli estese poi questo risultato a un gran numero di liquidi diversi. Tuttavia, nessuno di questi scienziati pubblicò le proprie scoperte in modo chiaro ed esplicito. Neppure Dalton lo fece, quando, nel 1793, enunciò per la prima volta la sua legge. Dieci anni dopo, però, la trattazione chiara e completa dell'argomento fatta da Dalton fu pubblicata e diffusa e venne da tutti considerata come definitiva. La legge delle pressioni parziali e le corrispettive misure della densità relativa del vapore acqueo rivelarono che, dopo tutto, le particelle di vapore non erano più pesanti o più 'grossolane' dell'aria, ma, al contrario, più leggere. I nuovi metodi sperimentali del tardo Illuminismo avevano dimostrato perché il vapore acqueo rimaneva in sospensione nell'atmosfera e come mai il barometro segnava valori più bassi con la pioggia che con il bel tempo.