L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Dall'anatomia animata alle scienze delle forze vitali
Dall'anatomia animata alle scienze delle forze vitali
Albrecht von Haller (1708-1777) nella Prefazione alle Primae lineae physiologiae in usum praelectionum academicarum (1747), per indicare nello stesso tempo la fisiologia e il suo oggetto, cioè il corpo vivente, lo studio delle sue parti, delle loro azioni e delle loro funzioni, usò l'espressione: "la fisiologia è anatomia animata". In tal senso, quella che noi consideriamo la fisiologia sperimentale del XVII e del primo XVIII sec. era allora intesa come un'anatomia che per mezzo dell'osservazione degli effetti di esperienze pratiche (exercitationes o experimenta) era volta alla comprensione del vivente o, come spesso si diceva, di 'ciò che è animato'. Del resto, nell'insegnamento medico la dissezione di cadaveri umani e animali aveva senso non tanto per conoscere i cadaveri stessi, ma in quanto forniva informazioni sulle strutture interne dei corpi viventi. 'Forza vitale' (vis vitalis o Lebenskraft) è, invece, un'espressione molto usata negli ultimi decenni del XVIII sec. da parte di numerosi fisiologi per indicare un oggetto peculiare, anche se elusivo, su cui allora insisteva l'indagine fisiologica e di cui la sola analisi delle strutture e delle funzioni non sembrava rendere conto. L'anatomia animata e le forze vitali sono dunque i due estremi di un percorso storico, avvenuto durante il Settecento, di quelle che, a posteriori, si considerano le discipline fisiologiche dell'epoca; un percorso lungo il quale l'enfasi della ricerca fisiologica si spostò gradualmente dalle strutture e dalle funzioni del vivente alle forze in atto nell'organismo (Duchesneau 1982).
'Fisiologia' è termine usato durante tutto il corso del Settecento per designare azioni e processi (actiones), operati, in stato di normalità, da organi particolari e in rapporto tra loro nel corpo vivente, come la circolazione, la secrezione, la respirazione, la digestione, la visione, la contrazione muscolare. Con tale significato il termine fisiologia è stato in uso dalla seconda metà del Seicento, ma non è stato l'unico. Ne esistettero, infatti, altri come 'economia animale', considerato suo equivalente, oppure 'fisica animale', che incluse argomenti sia di fisiologia sia di quella che, successivamente, verrà chiamata 'biologia generale'. Una terminologia analoga si riscontra anche per la fisiologia vegetale, spesso indicata con l'espressione 'economia vegetale', che può essere rintracciata nella produzione scientifica di tutta l'Europa. L'uso di termini diversi da fisiologia costituisce, soprattutto nella seconda metà del secolo, un indizio suppletivo dell'intenzione, da parte di diversi autori, di rappresentare con espressioni più adeguate sia una ricerca di proprietà e leggi fondamentali regolanti l'economia del mondo vivente, sia la loro ambizione di marcare una discontinuità di metodo e di teorie col passato, ma suggerisce anche che lo statuto disciplinare della fisiologia era ancora incerto e soltanto parzialmente autonomo.
In quanto disciplina accademica, cioè insegnata nelle Facoltà di medicina delle università europee, la fisiologia non costituiva, salvo pochissime eccezioni, un corso autonomo affidato a un unico docente. Herman Boerhaave (1668-1738), che a Leida aveva la cattedra di istituzioni di medicina, botanica e clinica medica, non ricoprì mai un insegnamento denominato 'fisiologia', ma trattò questa materia nei suoi corsi di istituzioni di medicina per i quali pubblicò, nel 1708, un manuale che riscosse molto successo: le Institutiones medicae. Friedrich Hoffmann (1660-1742) ricopriva la cattedra primaria di medicina presso l'Università di Halle, mentre colui che ne sarebbe divenuto il principale antagonista in ambito teorico, Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734), occupava la cattedra secondaria. Le problematiche fisiologiche erano dunque discusse nell'ambito dell'insegnamento generale della medicina, in particolare di quella che allora era chiamata la 'medicina teorica', nonché nei corsi di anatomia: per esempio, da parte di Giambattista Morgagni (1682-1771), titolare della cattedra di anatomia per oltre cinquant'anni presso l'Università di Padova, e del suo successore Leopoldo Marc'Antonio Caldani (1725-1813), autore di un influente manuale di fisiologia. Bernhard Siegfried Albinus (1697-1770), dal 1721 professore di anatomia e chirurgia all'Università di Leida, tenne lezioni private di fisiologia almeno a partire dal 1727. Quando, nel 1745, passò alla cattedra di medicina impartì da quest'ultima il suo insegnamento fisiologico (Punt 1983). Albrecht von Haller, chiamato nel 1736 all'Università di Gottinga come professore di anatomia, chirurgia e botanica, impartì invece il suo insegnamento fisiologico, fino al 1753, dalla cattedra di anatomia. Nella Facoltà di medicina dell'Università di Edimburgo l'anatomista Alexander Monro (1697-1767) era solito concludere i suoi corsi con lezioni generali di fisiologia, mentre Robert Whytt (1714-1766), considerato il maggiore fisiologo della scuola scozzese, insegnò per oltre vent'anni medicina teorica e pratica.
Va sottolineato che i protagonisti della ricerca fisiologica nel XVIII sec. non erano di estrazione esclusivamente medica e che proprio ad alcuni di essi, che avevano una formazione diversa ed erano noti ai loro contemporanei come naturalisti o filosofi naturali, si devono alcuni dei contributi sperimentali più duraturi nell'ambito della ricerca fisiologica di base: per esempio, il reverendo Stephen Hales (1677-1761), che misurò per primo la pressione sanguigna e dette contributi fondamentali allo studio della dinamica della circolazione e della fisiologia vegetale; Abraham Trembley (1710-1784), scopritore dei fenomeni della rigenerazione; René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), che innovò gli studi sulla fase gastrica della digestione; l'abate Felice Fontana (1730-1805), che tentando di stabilire le leggi dell'irritabilità scoprì la fase refrattaria del cuore; il sacerdote Lazzaro Spallanzani (1729-1799), che realizzò esperienze di digestione artificiale e mostrò come la respirazione fosse un fenomeno ubiquitario nel corpo animale; Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) che, con la rivoluzione da lui operata in chimica, influenzò, a partire dallo studio della respirazione, tutta la fisiologia.
Nel corso del secolo la fisiologia acquisì un'identità disciplinare sempre più definita e una parziale autonomia didattica anche attraverso la pubblicazione di numerosi manuali che ne selezionarono e sistematizzarono il sapere. Oltre alle già menzionate Institutiones medicae di Boerhaave, altri influenti manuali destinati a studenti, medici professionisti e filosofi naturali, iniziarono a essere stampati sempre più numerosi, soprattutto a partire dagli anni Quaranta: per esempio, le Primae lineae physiologiae di Haller, gli Elementa physiologiae (1749) di Joseph Lieutaud, la Physiologie (1751-1755) di Georg Heuermann, le Institutiones physiologicae (1773) di Caldani, i Nouveaux éléments de la science de l'homme (1778) di Paul-Joseph Barthez, il Grundriss der Physiologie (1778) di Johann Daniel Metzger, le Institutiones physiologicae (1787) di Johann Friedrich Blumenbach, gli Elementi di fisiologia medica (1787-1788) di Michele Attumonelli, i Principes de physiologie (1800-1803) di Charles-Louis Dumas e i Nouveaux élémens de physiologie (1801) di Anthelme-Balthasar Richerand. Molti argomenti di fisiologia continuarono, tuttavia, a essere discussi anche in una ricca serie di testi di anatomia.
Oltre a essere sistematici, i manuali potevano contenere anche i risultati di ricerche specifiche, che, però, erano generalmente pubblicate in saggi editi nei periodici di accademie o società scientifiche, o in monografie. La struttura di queste ultime assunse nel XVIII sec. la forma caratteristica di un rapporto, a volte cronologico, sulle indagini intraprese; in un certo senso, si potrebbe dire che tali monografie esponevano una storia delle ricerche condotte partendo dalle osservazioni compiute e dalle domande via via formulate, per passare poi alla dettagliata narrazione delle pratiche sperimentali adottate e delle manipolazioni effettuate, per concludersi infine con l'indicazione dei risultati che si riteneva di avere conseguito.
Gli otto volumi degli Elementa physiologiae corporis humani (1757-1766) di Haller non rientrano nella tipologia sopra indicata: essi, infatti, non costituirono solamente un manuale, ma molto di più: una summa del sapere fisiologico del tempo criticamente esaminato e sperimentalmente controllato e rinnovato. L'immensa erudizione dispiegata dall'autore ne fece un testo di consultazione obbligatorio per le ricerche di tutti i fisiologi e un modello per la manualistica successiva. Da un punto di vista storico, inoltre, gli Elementa rappresentano uno spartiacque, non soltanto simbolico, tra l'anatomia animata, di cui furono il coronamento, e la ricerca delle forze vitali che, pur tra mille cautele ed esitazioni, lo stesso Haller perseguì.
Un altro indizio del lento processo ‒ conclusosi solamente nel corso del XIX sec. ‒ tramite il quale la fisiologia acquistò un'identità disciplinare autonoma, con tematiche definite e metodi di ricerca specifici, è rappresentato dalle indagini condotte da studenti di medicina durante la stesura delle dissertazioni per il conseguimento del dottorato. Tali lavori, eseguiti nelle università olandesi e in particolare alla scuola di Albinus (van der Waa 1992), presso università tedesche come quella di Gottinga, o alla scuola di Haller, ebbero spesso un carattere sperimentale, fornirono risultati originali e contribuirono a modificare ed elevare la prassi del conferimento del dottorato nelle Facoltà di medicina. Ciò non avvenne soltanto a Leida e Gottinga, ma anche a Edimburgo dove, per esempio, nel 1754 l'allora studente di medicina Joseph Black (1728-1799) dimostrò nella sua tesi di laurea che nella fermentazione, nella combustione e nell'aria espirata vi era emissione di 'aria fissa', cioè di anidride carbonica (Foster 1970).
L'arte di scomporre il corpo dell'uomo e degli animali e quindi osservarne macroscopicamente gli organi in situ, nei loro rapporti e separatamente, per poi descriverli verbalmente o rappresentarli tramite illustrazioni o modelli in cera o legno, raggiunse il proprio apice nel XVIII secolo. Disciplina di base della medicina e della storia naturale, l'anatomia ne costituì allora la parte più scientifica, quella in cui la dimostrazione consisteva appunto nello scoprire e isolare gli organi mostrandoli sia integri sia nei loro reciproci rapporti. La dissezione, eseguita con eleganza e priva di errori, come tagli o asportazioni indebite, fu la tecnica privilegiata e gli anatomisti furono assillati da un'ansia di precisione e ossessionati da un ideale di rigorosa rappresentazione dei loro preparati con parole, disegni o plastici.
Nel corso del secolo grandi scuole anatomiche si affermarono un po' dovunque in Europa, vuoi nelle Facoltà di medicina, vuoi con l'insegnamento privato come nel caso di Frederik Ruysch ad Amsterdam o dei fratelli William e John Hunter a Londra (Persaud 1997), vuoi infine nei grandi ospedali come quelli di Parigi e di Madrid (Pardo Tomás 1997). I maestri riconosciuti della ricerca in anatomia umana e in anatomia comparata furono: in Olanda, Ruysch, Albinus, Petrus Camper ed Eduard Sandifort; nei paesi di lingua tedesca, Lorenz Heister, Abraham Vater, Albrecht von Haller, Johann Nathanael Lieberkühn e Samuel Thomas Soemmerring; in Francia, Joseph Guichard Duverney, il danese Jacques-Bénigne Winslow, Louis-Jean-Marie Daubenton, Félix Vicq d'Azyr e Marie-François-Xavier Bichat; in Italia, Antonio Maria Valsalva, Giandomenico Santorini, Domenico Cotugno, Antonio Scarpa e Paolo Mascagni; e nel mondo di lingua inglese, James Douglas, William Cheselden, Alexander Monro e suo figlio Alexander Monro jr e i fratelli William e John Hunter. Questo elenco, necessariamente contenuto, non rende giustizia ai molti che, come gli autori menzionati, compirono numerose scoperte incrementando in modo cumulativo il sapere dell'anatomia come disciplina positiva. Di tali scoperte si potrebbe redigere una lista estesa, ma è forse più rilevante, in questa sede, segnalare le tecniche che le resero possibili.
Preoccupazione costante degli anatomisti fu quella di procurarsi cadaveri per le proprie ricerche e per l'insegnamento. La legislazione in merito differiva nei diversi paesi europei; per ovviare a restrizioni o carenze, si sviluppò, soprattutto in Inghilterra, dove la pratica anatomica era anche condotta privatamente al di fuori delle istituzioni, un mercato di cadaveri trafugati, cosa che alimentò rappresentazioni pubbliche dissacranti dell'attività degli anatomisti. Questi, a loro volta, proponevano di sé un'immagine fisico-teologica argomentando che essi non facevano altro che svelare le meravigliose strutture del corpo umano, simbolo palese dell'ordine della Natura e della saggia operosità della mano di Dio. Senonché, la pratica della dissezione, oltre ad alimentare un mercato di cadaveri spesso illegale, ebbe i suoi martiri tra gli stessi anatomisti che, per ferite contratte durante il loro lavoro, potevano anche morire di setticemia, come nel caso di William Hewson (1739-1774), un brillante studioso della parte corpuscolata del sangue e dei vasi linfatici nell'uomo e nei pesci.
In sintonia col programma stabilito nel secolo precedente, il problema principale degli anatomisti fu quello di svelare, e cioè evidenziare, le strutture che sfuggivano all'osservazione macroscopica. A tale scopo, la dissezione fu integrata da tecniche più sofisticate di preparazione anatomica che richiedevano notevoli capacità manuali, raffinate da un prolungato esercizio e da moltissima pazienza. Come vedere, per esempio, nei tessuti le fini ramificazioni dei vasi che per collocazione, dimensioni e trasparenza non erano direttamente osservabili? Fin dalla seconda metà del XVII sec. la tecnica adottata era quella di iniettare nel sistema vascolare, con piccole siringhe o cannule, sostanze fluide contenenti cera liquida colorata oppure sali minerali, che avevano la proprietà di solidificarsi ponendo in tal modo in risalto quel decorso e quelle diramazioni dei vasi prima non visibili. Frederik Ruysch (1638-1731), creatore ad Amsterdam del più noto e celebrato museo anatomico privato dell'Europa del tempo, perfezionò questa tecnica e diede una superba dimostrazione della fine ramificazione delle coronarie, scoprì l'arteria centrale della retina, la fine vascolarizzazione della coroidea (la cosiddetta 'membrana ruyschiana') e le arterie bronchiali. I suoi reperti assunsero immediatamente un notevole significato fisiologico: essi, infatti, "ebbero per la dottrina della circolazione sanguigna un'importanza analoga a quella della scoperta dei capillari polmonari, poiché la dimostrazione di vasi destinati alla nutrizione dei polmoni permetteva di concludere senza dubbi di sorta che il flusso sanguigno dell'arteria polmonare era destinato a tutt'altri compiti" (Hintzsche 1951, p. 1017).
La tecnica dell'iniezione fu utilizzata anche per rilevare la presenza diffusa del sistema linfatico nel corpo umano; poiché, tuttavia, i vasi linfatici risultavano molto più fragili ed esili di quelli sanguigni, si ricorse all'utilizzazione di altro materiale e a una tecnica di immissione più dolce rispetto a quella esercitata dalla pressione di una siringa. Paolo Mascagni (1755-1815), per esempio, si servì di mercurio che, collocato in un tubo cilindrico, penetrava lentamente, per il proprio peso, nei linfatici, passando da una minuta cannula posta all'estremità inferiore del tubo stesso e inserita nel lume di un vaso. Poiché, quando se ne poteva avere la disponibilità, l'anatomista sceglieva i cadaveri su cui compiere con maggior successo le proprie indagini, per le proprie ricerche sui linfatici Mascagni scelse i cadaveri di idropici, poiché risultavano essere i più adatti (Comparini 1996).
Un'altra questione che impegnò numerosi anatomisti del Settecento fu come sezionare un organo senza modificare eccessivamente i rapporti fra le sue parti. Nel globo oculare, per esempio, la cui sclera è assai resistente, la dissezione poteva modificare invariabilmente tali rapporti, determinando, inoltre, la fuoriuscita degli umori contenuti, l'afflosciamento del bulbo e la distruzione di alcune aderenze che fissano il cristallino. Per ovviare a questi inconvenienti, François Pourfour du Petit (1664-1741) introdusse la pratica di congelare l'organo prima di procedere alla dissezione, mentre Francesco Buzzi (17511805) gli costruiva intorno un'armatura di cera solidificata. La metodica della congelazione consentì a Pourfour du Petit di stabilire definitivamente che tra iride e cristallino esisteva una camera posteriore dell'occhio ‒ cosa allora assai dibattuta ‒, di misurare le dimensioni della camera anteriore e di determinare il peso dell'umore acqueo contenuto nelle due camere, grazie alla pesatura degli aghetti di ghiaccio ivi formatisi. Buzzi, invece, riuscì a studiare meglio la retina e a osservare in essa la presenza di un'area gialliccia (macula lutea). In entrambi i casi, le osservazioni anatomiche condotte con le più raffinate metodiche portarono alla formulazione di nuovi problemi e ipotesi nell'ambito della fisiologia della visione.
Una delle tecniche più utilizzate per scomporre gli organi e penetrare nella loro intima tessitura fu la prolungata macerazione. Ciò consentiva di dividere i fasci muscolari in fibre e fibrille, o di scomporre la pelle in più strati che venivano quindi esaminati nella loro faccia anteriore e posteriore. La pratica della riduzione degli organi ai tessuti che li componevano e della successiva classificazione di questi ultimi fu fondata da Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802) non soltanto su un sapere fisiologico e clinico, ma anche sulla base di osservazioni condotte su tessuti putrefatti, essiccati e macerati in acqua pura o mista a sostanze chimiche (Lesch 1984). Fu la tecnica settoria, la manualità mista all'esperimento, dunque, a consentire di porre in evidenza strutture altrimenti invisibili e a dare fondamento a sistemi anatomici, come quello di Bichat, in cui gli organi persero quasi la loro identità per essere ridotti ai tessuti che li componevano. I progressi in quest'ambito furono di tale portata da relegare in secondo piano quella indagine microscopica su cui erano state investite tante speranze nella seconda metà del XVII sec., ma che ora molti studiosi consideravano fallace e illusoria come dimostrano le autorevoli parole di Bichat nell'Anatomie générale, appliquée à la physiologie et à la médecine (1801): "quando si guarda nell'oscurità, ciascuno vede a modo suo" (IV, p. 439). Ciò non significa, ovviamente, che alcuni anatomisti non abbiano utilizzato con successo lenti e microscopi a pochi ingrandimenti, ma soltanto che quando condussero osservazioni con ingrandimenti maggiori, essi furono a volte indotti ‒ come nel caso di Mascagni ‒ a formulare teorie sulle parti minime dei corpi organici che potevano originarsi anche da un'immagine filamentoso-reticolare-globulare priva di un preciso significato strutturale e dovuta a complessi fenomeni ottici prodotti dai microscopi utilizzati e da inadeguate tecniche di preparazione microscopica (Zanobio 1960).
Il XVIII sec. vide così il trionfo dell'anatomia macroscopica e, di conseguenza, della rappresentazione macroscopica del corpo e delle sue parti. Quest'ultima seguì due distinti schemi di visualizzazione, corrispondenti a due diverse categorie di preparazione anatomica: quello sistemico e quello topografico. Scopo del primo fu rappresentare visivamente tutti gli organi appartenenti al medesimo sistema, come muscoli, nervi, ossa, e illustrarli isolati, ma possibilmente da più di un punto d'osservazione, e nella loro completezza, ma senza relazioni con le parti contigue. Esempi celebri di rappresentazioni eseguite secondo questo schema sono l'Osteographia (1733) di Cheselden e le Tabulae sceleti et musculorum corporis humani (1747) di Albinus. A Jacques-Bénigne Winslow (1669-1760), invece, è attribuito il merito di essere stato uno dei primi autori a patrocinare il secondo schema, che rispondeva all'esigenza di rappresentare una regione corporea con gli organi in situ evidenziandone i reciproci rapporti. Esempi significativi di questa tipologia rappresentativa sono, oltre ai lavori dello stesso Winslow, le tavole degli otto fascicoli delle Icones anatomicae (1743-1756) di Haller e l'Anatomia uteri humani gravidi (1774) di William Hunter.
La realizzazione di illustrazioni tecnicamente corrette, in sintonia col gusto del tempo e pertanto visivamente attraenti, richiese che si stabilissero strette collaborazioni tra l'anatomista e uno o più artisti: cosa che fecero Albinus con Jan Wandelaar, William Cheselden con van der Gucht e Paolo Mascagni con Ciro Santi. Entrambi gli schemi, ai quali si aggiunse la terza dimensione, confluirono nelle ricche e spettacolari raccolte di modelli anatomici in cera colorata eseguite sotto la direzione di Felice Fontana per il Museo di Fisica e Storia naturale di Firenze e per il Josephinum di Vienna. Lo stesso Fontana, tuttavia, considerando la fragilità di quei modelli e il fatto che essi potevano solamente essere osservati e non maneggiati, quindi ‒ secondo il suo elevato concetto della didattica dell'anatomia ‒ erano d'uso ancora limitato, dedicò gli ultimi anni della propria vita alla produzione di modelli in legno a dimensione naturale e con tutti gli organi interni smontabili e rimontabili (Martelli 1977). Per lui, la conoscenza dell'anatomia non consisteva, infatti, esclusivamente nel saper scomporre un corpo nelle sue parti costitutive, ma anche nel saperlo ricomporre.
Nella lettera di presentazione della prima rivista esclusivamente dedicata alla fisiologia, "Archiv für die Physiologie", apparsa nel 1796, Johann Christian Reil (1759-1813), allora professore di terapeutica presso la Facoltà di medicina dell'Università di Halle, ebbe a scrivere che se dalla fisiologia si escludeva la componente anatomica, essa era, fra tutte le scienze, quella che aveva compiuto meno progressi e non conteneva "nient'altro che un deserto di ipotesi in parte infondate e in parte prive di senso". A suo avviso ciò dipendeva non soltanto dalla natura oscura e impenetrabile del suo oggetto di studio ‒ della cui difficoltà d'indagine si dichiarava ben consapevole ‒, ma anche da ostacoli soggettivi d'ogni genere. La sua fu una diagnosi impietosa:
Mancano un piano adeguatamente prescritto e regole corrette secondo le quali noi dobbiamo compiere le ricerche in fisiologia. Non abbiamo precisione e ordine nei nostri concetti, litighiamo tra noi sulle parole, compiamo ricerche secondo metodi ingannevoli, traiamo conseguenze false, deduciamo fenomeni da principî con i quali essi non hanno alcun rapporto e ci occupiamo di soluzioni di compiti tali che la ragione umana non sarà mai in grado di fondare. Cerchiamo il fondamento di fenomeni animali in un substrato sovrasensibile, in un'anima, in un generico spirito del mondo, in una forza vitale, che noi pensiamo come qualcosa di incorporeo e per questo nelle nostre ricerche siamo ostacolati e condotti fuori strada. (Zuschrift, p. 4)
Ben diverso fu il giudizio espresso da Joseph Tourdes (1770-1841) in una biografia di Spallanzani, anteposta alla prima traduzione in francese, pubblicata nel 1800, di un'opera di quest'ultimo, De' fenomeni della circolazione osservata nel giro universale de' vasi (1773). Tourdes contrappose alla fisiologia degli antichi le conoscenze acquisite dai moderni, che comprendevano la circolazione del sangue, le proprietà della fibra, le leggi della sensibilità, il funzionamento degli organi di senso, la distribuzione dei vasi linfatici, la digestione, la causa del calore animale, la composizione degli umori. Concludeva, poi, la sua breve rassegna sostenendo che "l'osservazione, senza l'esperienza, ha lasciato gli antichi nell'ignoranza delle cause veritiere; mentre l'esperienza, senza l'osservazione, sottrae troppo frequentemente ai moderni la conoscenza dei fatti, il loro ordine, la loro filiazione" (De' fenomeni, ed. Tourdes, p. 30).
Mentre è chiaro l'intento apologetico di Tourdes nei confronti di Spallanzani, che avrebbe saputo coniugare con equilibrio osservazione ed esperienza, sarebbe un errore proiettare un giudizio così severo come quello espresso da Reil su tutta la produzione fisiologica del XVIII sec. e non vedere come egli volesse, in primo luogo, legittimare la propria iniziativa editoriale e valorizzare quanto lui stesso si proponeva di fare. Si tratta, dunque, di un giudizio ispirato da motivi propagandistici piuttosto che da valutazioni storiche complessive. Esprimendo, tuttavia, un forte disagio nei confronti di contraddittorie speculazioni coeve e di una pretesa assenza di una normativa cui attenersi nell'esecuzione della sperimentazione fisiologica, tale giudizio tradisce una consapevolezza critica dei metodi utilizzati dai fisiologi nel costruire una disciplina autonoma, che è forse il suo elemento più originale. E non è certo un caso isolato, poiché nel corso del secolo i protagonisti della ricerca in anatomia, in fisiologia e in storia naturale svilupparono una riflessione sempre più approfondita sul valore dell'osservazione, dell'esperienza, degli esperimenti reiterati e variati (Grmek 1982), dell'analogia, dell'induzione, delle congetture e delle ipotesi.
Nella critica all'osservazione preconcetta per la quale si vede solamente ciò che si ha voglia di vedere, l'allievo di Haller, Johann Georg von Zimmermann (1728-1795), propose un disciplinamento dell'osservazione che consentisse, in primo luogo, di descrivere i fenomeni che si presentano in Natura così come uno li vede e non come li giudica. Felice Fontana, nel suo Traité sur le venin de la vipère (1781), riferendo del metodo da lui utilizzato nelle migliaia di esperimenti eseguiti sull'azione del veleno della vipera, ebbe a scrivere che gli bastava "poter accertare che non ho scritto se non quello che ho veduto, o almeno che ho creduto di vedere" (II, p. 63). L'osservazione priva di preconcetti, o almeno reputata tale, si impose quindi come canone procedurale primario a seguito delle riflessioni settecentesche sui metodi della ricerca anatomica e fisiologica. A essa avrebbero dovuto seguire le esperienze per interrogare la Natura e, dalle risposte ottenute, gli elementi per costruire una teoria. Un canone diverso rischiava, secondo i più, di dar luogo a 'romanzi', cioè a costruzioni artificiali e arbitrarie.
Lo studioso di fisiologia vegetale Jean Senebier (1742-1809), che per oltre trent'anni andò raccogliendo materiali per illustrare in cosa consistesse l'arte dell'osservazione e della sperimentazione, scrisse nell'edizione del 1802 (notevolmente rivista e ampliata) del suo capolavoro, Essai sur l'art d'observer et de faire des expériences:
Lo studio della Natura si limita a osservare i fatti con attenzione, a sottometterli al crogiolo dell'esperienza, a snaturarli per farne l'analisi, a riprodurli per verificare i procedimenti impiegati, a riunirli per trovare i loro rapporti, a classificarli per riunire quelli che sono analoghi, a graduare la loro importanza per distinguere quelli che sono la chiave degli altri, a legarli tra loro e a cogliere infine l'espressione dei fenomeni che la Natura pone sotto i nostri sensi. (II, p. 35)
Tale descrizione illustra un tipo ideale di metodo d'indagine piuttosto che le procedure effettivamente seguite da ogni singolo studioso, ma indica altresì un ideale allora largamente condiviso dalla comunità di riferimento. Nel corso del secolo, dunque, andò rafforzandosi un autodisciplinamento dell'osservazione e della sperimentazione da parte dei protagonisti della ricerca. Tuttavia, il ruolo svolto, in tale contesto, da concezioni generali della Natura, da ipotesi, congetture e soprattutto da analogie e modelli fu di tale portata da orientare interi ambiti di ricerca. In termini generali ed estremamente sintetici, si può affermare che nei primi quarant'anni del secolo prevalsero, nella ricerca fisiologica, due correnti: quella dei meccanicisti e quella degli animisti. Dagli anni Quaranta, invece, acquistò sempre maggior peso un indirizzo empirico, dichiaratamente impegnato più nell'accurata descrizione di fatti e di fenomeni che nella enunciazione di teorie generali. Tale indirizzo si mantenne vivo, fino al termine del secolo e oltre, fra tutti quegli studiosi che riponevano la propria credibilità scientifica innanzitutto nel corretto rilevamento e nella rigorosa esposizione di fatti e fenomeni. Contemporaneamente, diversi naturalisti come Trembley, Réaumur, Charles Bonnet (1720-1793) e John Turberville Needham (1713-1781) misero in luce l'esistenza di fenomeni della Natura animata sorprendenti per il senso comune e difficilmente inquadrabili negli schemi tradizionali di spiegazione. La ricerca di fenomeni sorprendenti divenne, anzi, un impegno specifico nella carriera scientifica di alcuni studiosi, come Fontana e Spallanzani, per esempio, convinti che la fenomenologia del mondo vivente fosse più ricca e varia di quanto non si pensasse generalmente.
Sempre a partire dagli anni Quaranta si andarono formulando e diffondendo sia concezioni materialiste, come quella di Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), sia, soprattutto tra i fisiologi, ma anche tra i filosofi e i letterati, concezioni che nel secolo successivo furono poi denominate 'vitalistiche'. Appartenenza a una tradizione di ricerca, propensione filosofica e personale credenza religiosa modularono la concezione vitalistica espressa da ogni singolo autore. Infatti, anche la religione ebbe il suo ruolo, tanto che il materialismo meccanicista e deterministico di La Mettrie fu rigettato dalla maggior parte dei fisiologi, non tanto per assenza di argomenti significativi, quanto per lo scandalo pubblico che esso suscitò. Nonostante le loro reciproche diversità, i vitalisti condivisero tuttavia alcuni elementi: essi postularono, infatti, l'esistenza di un principio vitale, di una o più forze insite nell'organismo, o a lui esterne, ma che comunque ne regolavano le funzioni, presiedevano alla formazione e conservazione delle strutture viventi e, infine, ne coordinavano le azioni reciproche. Inoltre, pur considerando inadeguate le spiegazioni meccaniciste tradizionali dei fenomeni vitali, soprattutto quando pretendevano d'essere esclusive, i vitalisti non rinunciarono a utilizzarle quando erano compatibili coi fenomeni da loro analizzati; così, le concezioni vitalistiche incorporarono, a seconda degli argomenti trattati, anche spiegazioni meccaniciste.
Le innovazioni nella continuità caratterizzarono le tecniche sperimentali del XVIII sec. rispetto a quelle sviluppate nel corso di quello precedente. Lo studio delle funzioni di vegetali e di animali si avvalse essenzialmente di tre procedure: (a) l'osservazione comparata di processi che hanno luogo in una pianta o in un animale, da un lato nel loro ambiente naturale, dall'altro in uno artificialmente modificato e soggetto a controllo; (b) la vivisezione; (c) una combinazione delle due procedure indicate nei punti che precedono. Un ambiente artificiale atto all'osservazione comparata era costituito, per esempio, da una campana di vetro, dalla quale era stata tolta aria con una pompa pneumatica oppure in cui l'aria era stata modificata allo scopo di osservare cosa succedesse a una pianta o a un animale collocati al suo interno. Così, in ambienti normali o artificialmente modificati, cioè riscaldati, raffreddati, continuamente illuminati od oscurati e alla presenza di arie variamente miscelate, divenne abituale compiere serie di misurazioni strumentali con apparati sempre più sofisticati quali pendoli, orologi, bilance, areometri, eudiometri, termoscopi, termometri e manometri. Théophile de Bordeu (1722-1776) scrisse, alla metà del secolo, che la frequenza del polso poteva essere misurata con precisione "utilizzando un orologio o una specie di pendolo" (Rudolph 1996, p. 108); alcuni decenni più tardi John Hunter (1728-1793) fece costruire termometri di forma particolare per misurare la temperatura nelle cavità corporee. Tuttavia, la tecnica privilegiata per studiare le funzioni fisiologiche degli organi rimaneva la vivisezione: l'osservazione cioè delle conseguenze di esperimenti condotti su piante e animali vivi.
Da questo punto di vista il caso esemplare è quello di Stephen Hales, autore di due opere, Vegetable staticks del 1727 e Haemastaticks del 1733, con le quali contribuì in maniera sostanziale alla ricerca in almeno tre ambiti: la fisiologia vegetale sperimentale, la fisiologia della circolazione e la chimica pneumatica. Questi testi furono considerati, da contemporanei e immediati successori, come modelli cui ispirarsi nell'arte della sperimentazione (Allan 1980). François Boissier de Sauvages scrisse nel 1744, nella prefazione alla traduzione francese, da lui stesso curata, della Haemastaticks: "Che vergogna per i medici che un teologo abbia tolto loro l'onore di scoperte così utili" (ed. 1779-1780, II, p. VII). L'ordine cronologico delle pubblicazioni di Hales è inverso a quello delle ricerche da lui condotte: egli, infatti, prima si dedicò alle indagini sperimentali sulla fisiologia della circolazione e successivamente a quelle sulla fisiologia vegetale. Tra i suoi numerosissimi esperimenti meritano un cenno almeno quelli con cui misurò direttamente e per la prima volta la pressione sanguigna. Dopo avere immobilizzato una giumenta sul dorso, egli inserì una cannula, connessa a un tubo di vetro alto nove piedi, nell'arteria femorale. Osservò quindi il sangue salire nel tubo oltre otto piedi. Con lo stesso metodo misurò la pressione venosa in animali diversi e redasse tavole statistiche con i valori ottenuti per ciascun animale. Con queste parole descrisse un esperimento:
A dicembre posi per terra un comune cancello di campo con sopra della paglia su cui fu fatta giacere sul lato destro una giumenta bianca e, in quella posizione, fu legata saldamente al cancello. Essa misurava quattordici palmi e tre pollici d'altezza, era magra, ma non troppo, e aveva dieci o dodici anni. Essa, come il cavallo e la giumenta menzionati in precedenza, era destinata a essere uccisa perché divenuta inadatta al lavoro. Quindi, aprendo la vena giugulare sinistra vi fissai, dalla parte che proviene dalla testa, un tubo di vetro della lunghezza di quattordici piedi e due pollici. Il sangue vi salì di circa un piede nell'arco di tempo di tre o quattro secondi e poi rimase stazionario per due o tre secondi; quindi, trascorsi tre o quattro secondi in più, esso salì a volte gradualmente e a volte con moto inegualmente accelerato in occasione di piccoli stiramenti della giumenta. Quindi, in seguito a stiramenti maggiori, salì di circa una iarda per poi decrescere di livello di cinque o sei pollici. Quindi, in seguito a uno stiramento più ampio o divincolamento della giumenta, il sangue salì così in alto da fluire un po' fuori dall'apice del tubo, tanto che se esso fosse stato pochi pollici più alto sarebbe probabilmente giunto a quell'altezza. (Statical essays, containing haemastaticks, 1731-1733, pp. 13-14)
Questo passo pone in risalto alcune caratteristiche della tecnica sperimentale di Hales: innanzitutto sono fornite notizie dettagliate sulle dimensioni e l'età presunta della cavia, quindi viene descritto l'esperimento con l'indicazione dell'altezza del tubo e dei tempi in cui avviene il fenomeno osservato. La cosa ovviamente più rilevante è che il dato, cioè la pressione venosa, viene visualizzato e misurato in un apparato, il tubo di vetro, che costituisce un ambiente esterno al corpo della giumenta. Hales svolse quindi una serie di esperimenti per determinare i fattori che potevano influenzare la pressione sanguigna e aprì nuove vie d'indagine nello studio della gettata cardiaca e della circolazione periferica. Egli fece un calcolo approssimativo della gettata cardiaca, moltiplicando la quantità di sangue contenuta nel ventricolo sinistro del cuore per la frequenza del battito. Facendo esperimenti su diversi animali, osservò che la frequenza cardiaca aumentava quanto più piccoli erano gli animali e notò anche che la pressione sanguigna era proporzionale alle dimensioni dell'animale.
Nello studio della circolazione periferica Hales fu in grado di osservare come la velocità del sangue diminuisse sensibilmente nelle arteriole e nei capillari, e comprese che ciò era causato anche dalla resistenza opposta dalla maggiore estensione del letto vasale man mano che si passa dai grandi vasi a quelli più piccoli. Iniettando diverse sostanze come acqua, brandy e decotti di scorza peruviana in organi isolati, ne studiò con metodo comparativo gli effetti e stabilì che alcune sostanze avevano un'azione vasodilatatrice e altre una vasocostrittrice, ricavando così suggerimenti in campo terapeutico e profilattico.
Negli ultimi decenni del XVII sec. alcuni botanici avevano dimostrato che, come gli animali, anche le piante hanno una considerevole complessità strutturale. In particolare, essi avevano posto in evidenza, anche con l'ingrandimento ottico, la presenza di una fitta trama di condotti (trachee e tracheidi) per il trasporto della linfa che, ramificandosi, ascendono dalle radici, attraverso il fusto, fino ai rami e alle foglie. Tale complessità strutturale, rendendo obsolete le spiegazioni meccaniciste di quanti interpretavano la crescita delle piante in analogia con quella dei cristalli, suggerì ad altri studiosi di ricercare nelle piante funzioni analoghe a quelle degli animali. Così, furono in molti coloro che, dalla fine del XVII sec. ai primi anni del XIX, si chiesero se anche le piante, come gli animali, non disponessero di un sistema circolatorio, respiratorio e riproduttivo, oppure non avessero proprietà come l'irritabilità o la capacità di assopirsi (Ritterbusch 1964).
Hales, che aveva già compiuto numerosi esperimenti sulla circolazione del sangue, si domandò, per esempio, se con il medesimo metodo d'indagine non potessero essere compiute col tempo considerevoli scoperte, esistendo, per molti aspetti, una grande analogia tra piante e animali. Egli indagò così un gran numero di problemi attinenti alla fisiologia vegetale con la stessa mentalità quantitativa rivelata nelle sue indagini precedenti, concentrandosi su quei fenomeni che in fase di sperimentazione potevano essere visualizzati e di cui si potevano misurare le condizioni iniziali e finali. Poiché nelle piante, la cui crescita è manifesta, non è direttamente visibile l'assimilazione di sostanze nutritizie, Hales studiò l'assorbimento e l'emissione dell'acqua. Classiche sono, da questo punto di vista, le sue dimostrazioni dell'evaporazione (traspirazione) di acqua dalle foglie. Egli coltivò piante in vasi sigillati contenenti una quantità nota di terra, irrorandole di una quantità nota di acqua. In una serie di esperimenti, della durata di dodici o quindici giorni ciascuno, si avvide che la differenza di peso tra la terra, la pianta e l'acqua versata doveva corrispondere all'acqua evaporata dalle foglie. Fissato un tubo di vetro a un ramo frondoso e immerso quest'ultimo in un recipiente pieno d'acqua, ma con il tubo, a sua volta pieno d'acqua, fuori dal recipiente, osservò che dopo due ore i canali della linfa avevano assorbito sei pollici d'acqua e nella notte altri sei pollici. Dopo tre giorni tirò fuori il ramo dal recipiente e, tenendolo sospeso in aria sempre con il tubo pieno d'acqua, misurò che in dodici ore il ramo aveva assorbito più di ventisette pollici d'acqua. Inoltre, chiudendo un ramo in un recipiente vuoto e raccogliendovi dopo un certo lasso di tempo del liquido, dimostrò che le foglie traspirano acqua.
La scoperta del meccanismo dell'evaporazione e di quello della capillarità, da lui ugualmente studiato, gli consentì di proporre una teoria meccanica dell'ascesa della linfa nelle piante, mentre con una serie di altri esperimenti dimostrò che nelle piante non vi è alcun sistema circolatorio. Hales rilevò anche che, oltre alla linfa, nei vegetali era presente dell'aria e la cosa lo colpì al punto da farne un oggetto d'indagine a sé stante. Avendo scoperto che l'aria era fissata da vegetali e altri corpi solidi, egli formulò una spiegazione fondata sul modello newtoniano della materia, essendo convinto della natura corpuscolare della materia e del fatto che le particelle fossero soggette alla legge della repulsione e dell'attrazione. Ritenne che l'elasticità dell'aria corrispondesse a una prevalenza delle forze repulsive tra le particelle aeree, e che l'aria fissata nei corpi solidi fosse dovuta invece a una prevalenza delle forze attrattive. Secondo tale modello, l'aria divenne una sostanza attiva, che poteva passare da uno stato di elasticità a uno di inelasticità e, liberata dalle sostanze solide, nuovamente all'elasticità.
Hales giunse anche a suggerire l'ipotesi che le piante traggono parte del loro nutrimento dall'aria attraverso le foglie e a ipotizzare che la luce abbia un ruolo in tale processo. I passi successivi che avrebbero condotto alla scoperta del processo della fotosintesi furono, tuttavia, compiuti soltanto circa cinquant'anni più tardi da Joseph Priestley (1733-1804), Jean Senebier e, soprattutto, Jan Ingen-Housz (1730-1799) negli anni Settanta e Ottanta del secolo, anche in questo caso con una tecnica sperimentale ispirata sostanzialmente dall'opera di Hales. Molti esperimenti di chimica pneumatica avevano mostrato che, quando l'aria comune veniva chiusa in un contenitore, la respirazione di un animale o il bruciare di una candela la modificava in aria viziata e irrespirabile. Priestley scoprì, però, che le piante verdi avevano la proprietà di rendere nuovamente respirabile l'aria viziata:
Il 17 agosto 1771 misi un ramoscello di menta in una quantità d'aria, in cui una candela di cera si era estinta, e trovai che il 27 del medesimo mese un'altra candela vi bruciava perfettamente. Ho ripetuto il medesimo esperimento senza variazione alcuna dell'evento per non meno di otto o dieci volte durante il resto dell'estate. In diverse occasioni ho diviso in due parti la quantità d'aria in cui la candela si era estinta e, ponendo la pianta in una di esse, ho lasciato l'altra nella medesima esposizione anche contenendola in un vaso di vetro immerso in acqua, ma senza pianta. Mi è sempre accaduto di vedere che una candela bruciava nell'una, ma non nell'altra. Generalmente ho trovato che cinque o sei giorni erano sufficienti per restaurare quest'aria, quando la pianta era nel suo vigore. (Observations on different kinds of air, p. 168)
Prendendo spunto da simili esperimenti, Jan Ingen-Housz ne compì circa cinquecento analoghi nel corso dell'estate del 1778, dimostrando, tra l'altro, che bastavano poche ore per ottenere il risultato descritto da Priestley, che la produzione di 'aria deflogisticata' (ossigeno) ha luogo dalle parti verdi delle piante collocate alla luce, che essa cessa immediatamente nell'oscurità, che tutte le parti delle piante producono 'aria fissa' (anidride carbonica) di notte o quando siano collocate in un luogo oscuro, che la produzione di aria deflogisticata durante il giorno supera quantitativamente quella di aria fissa durante la notte e che la produzione di aria deflogisticata non dipende dal calore, ma dall'intensità della luce (Experiments upon vegetables, discovering their great power of purifying the common air in the sunshine and of injuring it in the shade and at night, 1779). Questi risultati ottenuti da Ingen-Housz erano espressi nella terminologia della teoria, allora corrente, del flogisto; nel 1796 egli stesso li reinterpretò, aggiungendovene altri, alla luce della nuova teoria chimica. Nello stesso periodo, le tecniche della fisiologia vegetale sperimentale venivano raffinate e ordinate nelle estese e accurate ricerche di Nicolas-Théodore de Saussure (1767-1845), trovando una sistemazione nelle sue Recherches chimiques sur la végétation del 1804 (Morton 1981).
Gli esperimenti di vivisezione di Hales fecero scuola, suscitando ampi consensi assieme a critiche accese. Il tema della vivisezione animale irruppe così nello spazio pubblico: mentre, da un lato, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) giunse addirittura a suggerire nel 1752 a Federico II di Prussia di concedere che i criminali condannati a morte fossero sottoposti a studi tossicologici e di fisiologia umana, dall'altro alcuni artisti e letterati, facendo appello a una crescente sensibilità nei confronti degli animali, criticarono ferocemente questi studi sostenendo che, oltre a essere crudeli, essi erano inutili. Nel 1758 Samuel Johnson ebbe a scrivere:
Tra i professori di rango inferiore della sapienza medica, v'è una razza di sciagurati la cui vita è resa varia soltanto da diverse forme di crudeltà; il cui passatempo favorito è di inchiodare a dei tavoli dei cani e di sventrarli viventi; di vagliare quanto possa essere prolungata la vita a seconda dei gradi di mutilazione o con escissione o lacerazione di parti vitali; di esaminare se ferri incandescenti sono sentiti più acutamente dall'osso o dal tendine e se le agonie più durature sono provocate da veleno introdotto con forza nella bocca o iniettato nelle vene. (The idler and the adventurer, p. 55)
I medici risposero a simili critiche con un argomento che sarebbe poi divenuto la loro giustificazione tipica: i fisiologi sacrificano, per pubblica utilità, meno animali di quanti ogni giorno non ne sacrifichino gli uomini per la loro voracità. Ma critiche alla vivisezione furono sollevate anche da alcuni fisiologi vitalisti i quali argomentarono che con quella pratica si modificavano a tal punto le condizioni naturali dell'organismo da distruggere l'oggetto stesso che si pretendeva di studiare (Rey 1996); oppure, che i risultati di esperimenti condotti sugli animali non erano trasferibili all'uomo in quanto uomo e animali erano tra loro incommensurabili. Per questo essi opponevano alla vivisezione, interpretata come sperimentazione artificiale, l'esperienza clinica che si configurava ai loro occhi come un 'esperimento naturale'. Tuttavia, nel periodo che va dal 1745 al 1775 ca., la maggior parte delle teorie relative alla fisiologia umana fu fondata sulla sperimentazione praticata su animali vivi e, in parte, sui resoconti di operazioni chirurgiche.
Proseguendo sulla strada già tracciata nel XVII sec., vi erano due questioni che sembravano poter essere affrontate con tecniche sperimentali: la prima riguardava le proprietà che, per un certo periodo, un organo manteneva dopo essere stato asportato dall'organismo di appartenenza; la seconda, invece, l'individuazione delle funzioni specifiche di un organo, osservando cosa succedeva all'organismo quando ne fosse privato. Era stato dimostrato che in alcune specie di animali un cuore asportato e isolato dal corpo a cui apparteneva poteva continuare a mantenere i suoi moti di sistole e diastole per un certo periodo; se, come voleva la spiegazione corrente, tali moti erano dovuti agli spiriti animali, da dove provenivano nel cuore tali movimenti? Oppure, qual era la funzione vitale del cervello se una tartaruga decerebrata poteva continuare a vivere e a muoversi per un certo tempo? O ancora, quale funzione vitale aveva un organo come il pancreas se cani ai quali esso era stato asportato potevano continuare a vivere?
Nelle sue ricerche Albrecht von Haller privilegiò la vivisezione di animali, la stimolazione di organi e tessuti con agenti meccanici e chimici, l'osservazione delle reazioni conseguenti (De partibus corporis humanis sensilibus et irritabilibus, 1753). La descrizione degli effetti di una stimolazione era di tipo qualitativo e riguardava manifestazioni visibili o udibili: nel caso di strutture muscolari la reazione consisteva in spasmi e contrazioni; nel caso, invece, di strutture densamente innervate la reazione era segnalata dai lamenti della cavia per il dolore. Reiterate osservazioni di cuori asportati, soprattutto da animali a sangue freddo, che continuavano a battere a volte per 24 ore e che, avendo cessato di battere, potevano essere richiamati al moto tramite una stimolazione, così come l'osservazione che tutti i muscoli palpitano naturalmente ancora dopo la morte dell'animale e, anche privati della loro innervazione, possono essere stimolati artificialmente a contrarsi lo convinsero che essi avevano una proprietà insita, e autonoma rispetto allo stesso impulso nervoso. Haller chiamò questa proprietà 'irritabilità' o vis irritabilis e la attribuì a micromeccanismi della fibra muscolare, sostenendo cioè che questa struttura anatomica fosse la causa di quella funzione fisiologica. Ciò facendo, Haller sottrasse, contro Stahl, una proprietà del vivente al governo dell'anima sul corpo; congetturò tuttavia che ciò avvenisse per micromeccanismi che pur dichiarava inaccessibili all'indagine ottica e sperimentale (Monti 1990).
Per studiare i nervi Haller usò le medesime tecniche utilizzate per rilevare l'irritabilità muscolare e dimostrò che, contrariamente a quanto sostenuto da diversi suoi contemporanei, il nervo non era irritabile, non era elastico e non oscillava. Per Haller due erano le funzioni del nervo: di moto e di senso, esso doveva cioè eccitare il movimento nei muscoli e le sensazioni nel cervello. Egli considerò il nervo, come moltissimi prima di lui, un canale di conduzione e studiò la proprietà di tale conduzione premendo, legando o sezionando il nervo e osservando quali fossero le reazioni delle parti a monte e a valle di questi interventi. Secondo i suoi esperimenti le parti del corpo innervate e collegate al cervello risultavano sensibili, mentre risultavano insensibili se scollegate. La conduzione era assicurata, secondo Haller, da un liquido nervoso sottilissimo e impercettibile che poteva scorrere indifferentemente dalla periferia al centro, dando così luogo alla sensibilità, o dal centro alla periferia, dando luogo alla volizione e cioè al moto volontario.
Molti esperimenti di Haller e dei suoi numerosi sostenitori e avversari erano diretti a vagliare diverse ipotesi ‒ come quelle di Thomas Willis (1621-1675) ‒ relative alla localizzazione di alcune funzioni in determinate aree del cervello, ma furono spesso inficiati dalla tecnica con cui erano stati condotti (Neuburger 1981). Haller eseguì anche esperimenti su rane decapitate per chiarire la funzione del midollo spinale secondo la procedura illustrata nel 1739 da Alexander Stuart. Tale procedura fu perfezionata da Robert Whytt il quale dimostrò, nel 1751, che la stimolazione del midollo spinale in rane decapitate causava la flessione degli arti inferiori, mentre la sua distruzione impediva l'eccitazione al moto di quegli arti; egli notò, inoltre, che bastava lasciare intatto anche un solo segmento del midollo spinale, perché quei moti potessero essere eccitati. Esperimenti di tal genere (che furono alla base degli sviluppi successivi della riflessologia) rafforzarono in Whytt la convinzione che nel corpo esistesse un principio senziente che agiva in tutto il sistema nervoso e quindi anche in quei segmenti di midollo spinale di rane decapitate. I suoi avversari lo criticarono, sostenendo che, così argomentando, egli aveva diviso in parti l'unità dell'anima. Se, pertanto, questioni di metafisica risultavano intimamente connesse all'interpretazione dei dati sperimentali, va anche sottolineato come nel corso del secolo si sia individuata nella rana una cavia privilegiata per condurre determinati esperimenti, per cui non sorprende che la bioelettricità ‒ che tanti dibattiti sollevò nell'ultimo decennio del secolo ‒ sia stata rivelata da Luigi Galvani (1739-1798) nei muscoli e nei nervi di rana.
Mentre i meccanicisti del tardo XVII sec. per studiare la vita dei vegetali ne avevano equiparato la crescita a quella dei cristalli, la maggior parte degli studiosi del XVIII sec. abbandonò questo tipo di analogie meccaniciste a favore della macro-analogia tra pianta e animale. Nell'ambito del processo della scoperta questa scelta si rivelò più fertile della precedente; i campi metaforici della terminologia relativa a strutture, funzioni e processi presenti nel mondo animale risultarono infatti euristicamente più fecondi per lo sviluppo della fisiologia vegetale di quanto non lo fossero state le metafore meccaniciste. Essi da un lato suggerirono l'esistenza di una molteplicità di fenomeni del mondo vegetale prima impensati; dall'altro consentirono di stabilire differenze specifiche tra le strutture, le funzioni e i processi dei due mondi, vegetale e animale. Ciò non significa, ovviamente, che i risultati degli esperimenti ispirati da tali analogie non potessero essere interpretati meccanicisticamente, come fece appunto Stephen Hales, ma significa soltanto che il raffronto, vagliato dall'esperienza, con strutture più complesse (gli animali) invece che con strutture meno complesse (i minerali) fu in grado di evidenziare nei vegetali fenomeni prima ignoti e più in generale di avvicinare tra loro, piuttosto che allontanarli, i due mondi. Inoltre, il caso di Ingen-Housz mostra come lo stesso autore potesse interpretare i propri esperimenti prima alla luce di una determinata teoria chimica, poi, dimostrata falsa quest'ultima, alla luce della nuova teoria.
Un fenomeno analogo a quello appena descritto, cioè il passaggio dall'uso di analogie semplici ad analogie più complesse, ebbe luogo anche nello studio della fisiologia umana e animale, anche se esso appare molto meno evidente all'analisi storica. La letteratura del XVIII sec. relativa alla fisiologia umana presenta infatti, rispetto a quella del secolo precedente, un uso molto più moderato, attento e disciplinato di analogie e modelli espliciti. Del resto, fu proprio la critica ad alcune celebri analogie a segnalare le aporie del meccanicismo e l'emergere del concetto, del tutto nuovo, di organismo. Quando, infatti, alcuni meccanicisti della fine del XVII sec. trasformarono un metodo di analisi in una dottrina, un modello ipotetico in un modello sostanziale, un'analogia in una uguaglianza, affermando, per esempio, che l'uomo e i corpi viventi erano delle macchine, incorsero nella critica devastante del senso comune. Già nel 1683 Bernard Le Bovier de Fontenelle osservò ironicamente: "Voi dite che gli animali sono delle macchine, oppure degli orologi. Ma ponete una macchina di cane o una macchina di cagna l'uno accanto all'altra; ne potrà risultare una terza piccola macchina; mentre due orologi staranno l'uno accanto all'altro per tutta la vita senza mai fare un terzo orologio" (Oeuvres, II, p. 463). Poco più tardi anche Georg Ernst Stahl criticò l'analogia tra il corpo umano e l'orologio, mostrando che ciò che rendeva possibile che le parti smontate di un orologio diventassero un orologio funzionante era l'intenzione di un artigiano di costruire uno strumento per segnare il tempo. Per Stahl l'intenzionalità di un organismo era data dall'anima, il cui ruolo, nel paragone appena citato, equivaleva all'intenzione dell'artigiano. Con queste critiche Fontenelle e Stahl posero in evidenza due caratteristiche distintive degli organismi viventi rispetto agli automi: il finalismo e la riproduzione.
Nell'ambito della fisiologia umana molti autori divennero più cauti nell'uso di analogie meccaniciste, pur continuando a fare uso di termini di paragone e di modelli legati a un linguaggio con campi metaforici più complessi ‒ anche se meno evidenti ‒, sconfinanti a volte nell'allusione elusiva. L'analogia del corpo umano con una macchina, ove i meccanismi attivati da ruote, molle, pulegge e filtri erano paragonati alle azioni di organi del corpo, cedette il passo a quella in cui tali azioni erano prodotte e governate da forze o principî esterni o interni alla materia. Alla metà del secolo Maupertuis osservò che, pur essendo la parola 'forza' una delle più in voga, essa era anche una delle meno definite e che il suo uso serviva spesso a nascondere la nostra ignoranza (Jammer 1971).
Alcuni fisiologi fecero appello a una nozione di forza variamente intesa a seconda dei diversi significati che a essa attribuivano fisici e filosofi: in senso rigorosamente newtoniano, come un fatto dell'esperienza la cui natura metafisica era ignota; in senso leibniziano, come una proprietà della materia in grado di autoeccitarsi e quindi dotata di un interno dinamismo; infine, in senso relazionale. Johann Christian Reil, nell'articolo Von der Lebenskraft (1796), per esempio, indicò col termine 'forza' la relazione tra la proprietà della materia e la sua manifestazione. Tuttavia, accanto a questi significati ne esistevano altri: alcuni fisiologi, infatti, usavano la nozione di forza in modo eminentemente metaforico, rinviando per allusione al ruolo logico da essa assunto nei modelli fisici, piuttosto che al suo ruolo matematico. Del resto, a partire dalla metà del secolo si diffuse tra i fisiologi una forma di scetticismo nei confronti di una trattazione matematica dei fenomeni fisiologici. Nel 1751, recensendo l'opera di un collega, Haller scrisse con ironia che si può vedere se un muscolo agisce o no, anche senza conoscenze matematiche; nel 1800, Bichat sostenne che, applicate ai fenomeni vitali le matematiche non potevano offrire formule generali e che, essendo diverso l'oggetto della fisica da quello della fisiologia, occorreva usare un linguaggio diverso per le due discipline.
Un'analisi dell'uso del termine 'forza' da parte dei fisiologi del tempo rivela che il significato al quale esso fu più frequentemente associato è quello di 'governo': una nozione politico-sociale piuttosto che fisica. Tuttavia, sebbene non manchino alcune significative analogie bio-politiche nella letteratura fisiologica del tempo, l'analogia più profonda delle forze vitali è quella con gli attributi che Stahl aveva conferito all'anima immateriale. Ciò spiega anche perché molte dottrine, come quelle di Barthez e di Whytt, furono considerate da alcuni contemporanei quali riformulazioni aggiornate dell'animismo. Il fatto è che Stahl aveva posto in evidenza alcune caratteristiche dell'organismo che molti suoi successori tentarono di attribuire all'organizzazione della materia, senza però dover ricorrere al governo di un'anima immateriale. Rispetto alla materia passiva, rispetto a un cumulo di sabbia, la materia viva, per essere tale, apparve a molti come capace di autogoverno, di esprimere un'azione mirata a uno scopo, di elaborare, di conservarsi, di coordinarsi, di organizzarsi, di sentire, di reagire, di resistere, di acquisire risorse da distribuire alle varie parti del corpo, di difendersi, di sanarsi, di riprodursi. Colpito dalla grande diversità tra materia organica e inorganica, Maupertuis ritenne che fosse quasi necessario attribuire alle particelle elementari della materia vivente delle proprietà psichiche come il desiderio, l'avversione e la memoria. John Hunter ascrisse alla materia animale un principio vitale che si manifestava attraverso due poteri: quello della riproduzione e quello della conservazione, la capacità cioè di resistere alla decomposizione. Bichat definì la vita come l'insieme delle funzioni che resistono alla morte. Come per Hunter, anche per Bichat la manifestazione della vita è data dall'opposizione alle forze disgreganti proprie della materia inorganica. Stahl aveva attribuito questa proprietà di conservazione al governo dell'anima; la tendenza prevalente in buona parte della fisiologia del secondo XVIII sec. fu invece quella di abbandonare l'anima, perché considerata una causa occulta, trasferendone tuttavia molti attributi alla materia vivente. Fu in parte l'anima, dunque, il modello rispetto al quale fu plasmata la nozione di organismo.