L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Dall'epigenesi al preformismo, all'epigenesi riformata
Dall'epigenesi al preformismo, all'epigenesi riformata
Il problema della generazione animale è uno dei più delicati e discussi della medicina e della 'storia naturale' sei-settecentesche, e nel contempo uno dei più interessanti sia dal punto di vista storiografico sia da quello epistemologico. Ciò è dovuto, in parte, all'intreccio della ricerca sperimentale, favorita dai rapidi progressi della microscopia, con le opzioni teoriche, le immagini della Natura, le scelte ideologiche, le prospettive metafisiche, le convinzioni religiose, le implicazioni teologiche. Per quanto la prima giungesse presto a rivendicare la priorità sulle altre, la storia dell'embriologia di questo periodo è costellata di esempi che rivelano chiaramente come talvolta le contrapposizioni fossero più sul piano dei sistemi filosofici che su quello dei dati empirici.
Fin verso il 1650 domina pressoché incontrastata la teoria dell'epigenesi (dal greco: ἐπί 'dopo' e γένεσιϚ 'generazione'), che era stata ispirata da Aristotele, ripresa da Galeno e, in epoca moderna, autorevolmente sostenuta da René Descartes e William Harvey. Essa postula: (a) che dell'embrione non esista alcunché prima dell'accoppiamento; (b) che esso si formi nella miscela e per il concorso dei liquidi seminali, indifferenziati, dei due genitori; (c) che l'embrione si sviluppi per differenziazione e apposizione di parti. Nei termini di Harvey, che fu forse il più lucido ma, come si vedrà (e non è un paradosso), anche il più tormentato sostenitore dell'epigenesi, la teoria, da lui esposta nelle Exercitationes de generatione animalium (1651), consiste nel ritenere che gli organi si formino "ad uno ad uno", ossia "l'uno dopo l'altro", e che l'individuo si costruisca "per progressiva aggiunzione di parti". Che il pulcino, per esempio, si formi e si sviluppi per epigenesi significa che "tutte le sue parti non si costituiscono contemporaneamente, ma gradualmente compaiono l'una dopo l'altra: e l'accrescimento e la formazione vanno di pari passo, e le parti si aggiungono via via e si distinguono rispetto a quelle già esistenti; l'inizio, l'aumento di volume e il perfezionamento avvengono per gradi ed è solo alla fine che ne risulta il feto. La forza che crea il pulcino anziché trovare una materia già bell'e pronta se la fabbrica"; in breve, "il tutto si compone e si forma gradatamente" (Exercitationes, ex. XLV), ma per alcuni epigenisti ciò avviene sfruttando l'azione di principî vitali, mentre per altri ‒ e questo contrasto indebolì la teoria ‒ servendosi unicamente delle leggi universali del moto.
Già nell'Antichità, del resto, erano affiorate non soltanto prospettive generali ma anche soluzioni particolari molto diverse se non antitetiche. Aristotele aveva attribuito una funzione privilegiata allo sperma, da lui considerato principio di vita, e giudicava che avesse la funzione di animare l'inerte sangue mestruale, il quale non avrebbe svolto, poi, che il compito di nutrire l'embrione (De generatione animalium). Galeno aveva invece postulato un concorso paritetico del seme maschile e di quello femminile provenienti dai rispettivi 'testicoli' (come per lungo tempo vennero chiamate anche le ovaie): l'embrione si sarebbe formato per il tramite della loro fusione (De foetus formatione).
Descartes sembrò rifarsi al modello galenico della 'doppia semenza': occupatosi di teoria della generazione a più riprese, fra il 1629 e il 1649, nella Description du corps humain (1647-1648), egli giunse alla conclusione che, nelle sue forme più elementari, la vita prende origine spontaneamente dalla materia (è sufficiente che il calore agisca su determinate sostanze in putrefazione) e che la generazione degli animali superiori deriva invece "dalla congiunzione dei due sessi", "dalla mescolanza dei due liquori che, servendo di lievito l'uno all'altro, si riscaldano in modo che alcune loro particelle [...] si dilatano e pressano le altre, e così le dispongono a poco a poco nel modo che è richiesto per formare le membra" (Opere scientifiche, I, pp. 217-218). Tuttavia la teoria risentiva pesantemente del più generale progetto epistemologico del filosofo francese (soprattutto dell'ambizione di fondare una scienza unitaria, che derivasse tutte le sue leggi dai principî universali della materia e del movimento), così che, nonostante certe osservazioni, come quelle sullo sviluppo del pulcino, sembrassero effettuate personalmente, l'insieme delle sue ipotesi particolari ‒ circa la formazione successiva del cervello, della cute, dell'addome, delle gambe, dei piedi, ecc. ‒ espresse nelle Primae cogitationes circa generationem animalium, 1629-1632, parve avere tutta la vaghezza e il carattere artificiale della costruzione a tavolino.
Ben diverso l'approccio realizzato da William Harvey, in primo luogo perché egli volle sì mantenere, come punto di riferimento, la tradizione aristotelica (come testimonia la sua adesione alla dottrina della generazione spontanea), ma piegandola agli esiti della ricerca sperimentale; in secondo luogo perché questa lo portò a privilegiare, primo fra tutti, l'oggetto che avrebbe determinato il superamento della prospettiva epigenetica: l'uovo.
Confrontando i dati raccolti sullo sviluppo embrionale del pollo e sulla riproduzione di vari mammiferi, Harvey giunse alla conclusione che tanto negli ovipari quanto nei vivipari avvengono sostanzialmente gli stessi fenomeni ("uno e identico è il processo della generazione", poiché "ciò che gli ovipari fanno durante l'incubazione riscaldando l'uovo con il proprio corpo, i vivipari lo fanno tenendosi il concepimento nell'utero") e in particolare che ex ovo omnia ‒ significativamente rappresentato in forma iconografica nel frontespizio delle sue Exercitationes de generatione animalium. Il problema della fecondazione dell'uovo gli creò, tuttavia, non poche difficoltà poiché, sprovvisto di microscopio, egli non riuscì a trovare tracce di sperma nell'utero di cerve sezionate immediatamente dopo il coito. Harvey fu allora costretto a pensare che la fecondazione dell'uovo avvenisse non per un suo contatto materiale con lo sperma, ma in virtù del fatto che questo emette uno spirito volatile che feconda l'utero, e indirettamente l'uovo, a distanza ‒ "per una specie di contagio [...] simile a quello che i medici osservano nel diffondersi di alcune malattie". Dunque, "il seme non penetra entro le uova", e, per fare un esempio, "il gallo non feconda la gallina o le uova per semplice eiaculazione di sperma, ma in quanto lo sperma eiaculato contiene forza creatrice" la quale agisce "così come la scintilla che scocca dalla selce o la folgore che sprizza improvvisamente da una nube accende subitamente le cose" (Exercitationes, exx. XL, XLIX, LXIII).
Orbene, per ammissione dello stesso Harvey quest'ovismo epigenetico non soltanto contrastava con il giudizio dell'ispiratore dell'epigenesi (Aristotele), "secondo cui il maschio costituisce la causa efficiente e il sangue mestruale la causa materiale", ma indeboliva la teoria epigenetica in quanto tale poiché, privilegiando l'uovo, finiva con il negare il principio "che la generazione deriva dalla fusione dei semi dei due sessi". La indeboliva non soltanto contrastandone un principio ma anche ridimensionandone la portata, ossia escludendone il carattere universale. Harvey giungeva infatti ad ammettere che solamente alcuni esseri viventi si riproducono per epigenesi: tutti gli "insetti" (vale a dire la maggior parte degli invertebrati) lo fanno "per metamorfosi", ovvero "si formano con materia già pronta e acquistano soltanto nuova figura; tutte le parti dell'animale nascono da un puro e semplice processo di trasformazione (metamorfosi) del materiale, da cui l'animale completo si sviluppa" (ibidem, exx. XLV, XLIX). Essi si formano "con materia già pronta" e subiscono un semplice "sviluppo": in questo modo il grande fisiologo apriva la porta all'alternativa della preformazione e della preesistenza dei 'germi'.
La teoria della preformazione dei 'germi' fu avanzata dal medico Giuseppe degli Aromatari nell'Epistola de generatione plantarum (1625) e consiste nell'assumere che: (a) l'embrione sia già presente, nell'uovo o nello spermatozoo, "prima del coito" (Graaf); (b) vi sia presente già completamente formato, anche se "prodigiosamente più piccolo" (Réaumur); (c) il suo sviluppo, innescato dalla fecondazione, consista in un mero accrescimento, un semplice ingrandimento, detto evolutio (Bonnet).
Gli 'evoluzionisti' (che, per uno dei tanti paradossi semantici della storia della scienza, erano i più lontani da quel che oggi intendiamo per evoluzionismo) si divisero presto in due scuole: l'ovismo, che teorizzava che fosse l'uovo femminile a contenere l'embrione preformato, e che il "verme" maschile (lo spermatozoo) avesse semplicemente la funzione di "vivificarlo" (Réaumur), e il vermismo o animalculismo, che teorizzava che fosse invece l'"animaletto spermatico" a contenere l'embrione preformato, e che l'uovo avesse la mera funzione di "servirgli da nutrimento" (Leeuwenhoek).
La teoria della preesistenza dei 'germi' fu proposta dall'anatomista olandese Jan Swammerdam nell'Historia insectorum generalis (1669) e si basava sull'assunto che, oltre a essere preformato, l'embrione preesistesse al suo stesso portatore: incapsulati l'uno dentro l'altro, progressivamente miniaturizzati, tutti gli embrioni esistevano già nel primo individuo di ciascuna specie comparso sulla superficie terrestre ‒ per quanto riguarda l'uomo, nelle ovaie di Eva secondo gli ovisti, negli spermatozoi di Adamo secondo gli animalculisti.
Il preformismo ovista affonda le radici nell'idea, maturata in ambito filosofico ancor prima di essere corroborata dalla ricerca sperimentale, che anche i vivipari si riproducano mediante uova. Intorno al 1650, questa idea era relativamente diffusa e ricevette un nuovo impulso, ancorché indiretto, dagli esiti delle esperienze di Francesco Redi sulla presunta generazione spontanea di determinati insetti: il naturalista aretino la confutò (Esperienze intorno alla generazione degl'insetti, 1668), ottenendo per un verso di rendere più fragile la teoria epigenetica (cui la dottrina della generazione spontanea era, come si è ricordato a proposito di Descartes e Harvey, funzionale) e per un altro, avendo verificato che la putrefazione di sostanze organiche costituiva soltanto l'ambiente favorevole e non la causa della comparsa di quegli insetti, di confermare che omne vivum e vivo e, in particolare, ex ovo.
L'atto di nascita dell'ovismo, tuttavia, è comunemente individuato nell'appendice all'Elementorum myologiae specimen (1667) del naturalista danese Niels Steensen (Stenone), che non si limitò a nebulose e fragili considerazioni analogiche ma informò dei risultati della dissezione di un pescecane femmina esprimendo il convincimento che i "testicoli dei vivipari" avessero la stessa struttura e la medesima funzione delle ovaie degli ovipari. "Avendo osservato che i testicoli dei vivipari contengono uova, e notato che il loro utero, a somiglianza di un ovidotto, si apre ugualmente nell'addome, non ho più alcun dubbio che i testicoli femminili siano analoghi alle ovaie" (Elementorum, p. 117).
Alle sue stesse conclusioni giunse, per la specie umana, il naturalista olandese Johannes van Horne nell'Observationum circa partes genitales in utroque sexu prodromus (1668): "quel che sono le ovaie negli ovipari sono i testicoli nelle donne, cioè contengono in sé 'uova perfette', piene di umore e circondate da una loro propria pellicola" (p. 15). Ciò spinse, nel 1671, Theodor Kerckring a 'scoprire' di lì a poco un feto umano miniaturizzato in un uovo "grosso come una di quelle ciliege nere dal sapore aspro" caduto dai 'testicoli' nell'utero di una donna morta per cause accidentali da "appena tre, al massimo quattro giorni" (Anthropogeniae ichnographia, in Opera, p. 292).
Chi fornì il contributo scientificamente decisivo all'affermazione dell'ovismo fu Reinier de Graaf con la pubblicazione del De mulierum organis generationi inservientibus tractatus novus (1672). L'anatomista olandese osservò infatti la trasformazione delle vescicole ovariche (poi dette, in suo onore, 'follicoli di Graaf') in quelli che Marcello Malpighi avrebbe chiamato "corpi lutei", e scoprì una corrispondenza fra il numero dei feti presenti nell'utero e quello dei corpi lutei nel 'testicolo'. Ma soprattutto Graaf convinse, grazie alla sua autorevolezza, che "le uova si trovano in ogni specie di animali" ("sono visibili con grande evidenza non solo negli uccelli e nei pesci, sia ovipari sia vivipari, ma anche nei quadrupedi e nello stesso uomo") e firmò la più risoluta condanna dell'epigenesi: "tutti gli animali senza distinzione, compreso l'uomo, traggono origine non dall'uovo plasmato nell'utero dal seme (come dice Aristotele) o dalla sua virtù (come sembra suggerire Harvey), ma dall'uovo esistente nei testicoli femminili prima del coito" (De mulierum organis, p. 181).
Il 1672 segna l'inizio del radicamento dell'ovismo nella comunità scientifica europea anche per la stesura delle osservazioni, da una parte, e per la proposta, dall'altra, delle valutazioni di Malpighi che nella Dissertatio epistolica de formatione pulli in ovo‒ pubblicata a Londra nel 1673 ‒ sembrò ottenere una verifica sperimentale della preformazione del pulcino nell'uovo. Dopo aver rilevato, infatti, che "fra le parti di cui l'uovo si compone, il primo posto spetta alla cicatricula, o macchia circolare", all'interno della quale si scorge "un sacculo di color cinereo [...] o follicolo", Malpighi comunicò che, "esponendolo ai raggi del sole, scorsi il feto racchiuso nel sacculo, come in un amnio: e il capo del feto chiaramente emergeva assieme agli abbozzi della appesa carena", concludendo che pertanto "è il caso di riconoscere che gli abbozzi del pulcino preesistono nell'uovo" (Opere, pp. 224-226).
In questo modo veniva suggerita, anche se soltanto indirettamente, la soluzione dell'incapsulamento dei germi preformati, progressivamente miniaturizzati, l'uno nell'altro, ovvero l'idea della loro preesistenza nel primo individuo femminile della specie. Sviluppando considerazioni di Swammerdam, Antonio Vallisnieri (1661-1730) fu il primo a esplicitare questa idea estendendola anche alla specie umana. Nell'Istoria della generazione dell'uomo, e degli animali (1721) il naturalista italiano assicurò che "nell'ovaia di ogni e qualunque femmina stanno nascosti tutti i feti, che di mano in mano vengono a salutare il giorno, per essere tutti stati creati in un colpo dall'onnipotente e sapientissima mano di Dio nella prima Madre, onde il nascere degli uomini, degli animali, e diremo ancor delle piante, e di quanto è sopra la Terra, non è che un manifestarsi di ciò ch'era involto, occultato e in angustissimo spazio ristretto" (Opere fisico-mediche, p. 194).
Vallisnieri non si nasconde, d'altra parte, le difficoltà della soluzione:
pare a prima vista incredibil cosa, e più de' bizzarri poeti che de' savi filosofanti degna, il dire che tutto il genere umano ch'è stato, che è e che sarà fino al finire de' secoli, stesse rinchiuso nelle ovaie d'Eva, di maniera che, quando l'Altissimo creò la grande Madre dalla costa d'Adamo, ponesse in essa nello stesso tempo un numero d'uova al nostro intendimento infinito, altre delle quali i maschi, altre le femmine contenessero: e di più nelle uova delle femmine nascondesse altre uova, e poi altre, che conservassero in sé l'uno e l'altro sesso, e così di mano in mano nelle seguenti; di maniera che in questo sistema conchiudere si possa che Eva nelle sue ovaie tutta quanta intera la posterità tenesse inviluppata e ristretta, lo che parimenti si dice di tutte le femmine degli animali e di tutte le piante. Proposizione che subito apparisce formidabile alla fantasia. (ibidem, p. 204)
Pur riconoscendo che tale soluzione "appresso alcuni riesce improbabile, appresso altri ridevole", la considera tuttavia una scelta obbligata dal momento che l'alternativa dell'epigenesi è non solo altrettanto contestabile, ma scientificamente improponibile: "gli animali non possono formarsi per accoppiamento di parti, non avendo questo accoppiamento né principio meccanico né principio metafisico che lo determini". La soluzione dell'incapsulamento di germi completamente preformati e progressivamente miniaturizzati è invece ‒ egli rileva insistentemente ‒ resa meno problematica dai progressi della microscopia: "non è egli vero che in un piccolo spazio di materia noi veggiamo adesso col microscopio tanti animali, quanti dianzi ne vedevamo con l'occhio nudo in tutta la terra, e che se i microscopi fossero più acuti molti altri se ne scoprirebbero ancora?". Né va sottovalutata, in favore di questa ipotesi la circostanza che essa appare come la soluzione epistemologicamente più soddisfacente e filosoficamente più ortodossa essendo "la più semplice, la più chiara, la più sbrigativa, la più nobile e finalmente la più decorosa all'infinita onnipotenza e sapienza di Dio, e in conseguente la più vera e degna di noi" (ibidem, p. 207).
Vi tornerà successivamente René-Antoine Ferchault de Réaumur nei Mémoires pour servir à l'histoire des insectes (1734-1742): quella della preformazione e della preesistenza dei germi, con il corollario del loro incapsulamento, è una scelta obbligata perché la generazione è "un'opera così grande" che "poteva essere realizzata solo da un'intelligenza superiore" (VI, 2, p. 370). L'entomologo francese si sforza, comunque, di renderla più accettabile anche dal punto di vista propriamente scientifico, rifacendosi sia a considerazioni teoriche sia a dati empirici. Per quanto riguarda le prime, egli afferma che "è soltanto l'immaginazione che si spaventa a questo proposito" (l'emboîtement dei germi): "la ragione non è per niente stupita di tutte queste enormi piccolezze, perché si è convinta della divisibilità della materia all'infinito" (ibidem, II, 1, p. 39). In effetti quest'approdo delle scienze fisiche e matematiche rendeva meno problematica la soluzione dell'incapsulamento.
Per quanto riguarda i dati empirici, Réaumur fa rilevare che "un insetto, il quale vive per noi solo qualche mese, può essere vissuto in precedenza parecchi anni dentro un uovo" e quindi non v'è alcuna difficoltà a pensare "che ci siano stati tempi in cui esso, prodigiosamente più piccolo di quanto sia nell'uovo, stesse racchiuso in un involucro di una piccolezza indeterminabile [...] e abbia potuto starvi racchiuso durante secoli e successioni di secoli senza crescere sensibilmente". Ciò è confermato anche dalla botanica, perché "è risaputo che certi semi possono germogliare dopo essere stati conservati più di vent'anni, cioè che la piccola pianta è potuta restare racchiusa nel seme per più di vent'anni senza perire": orbene, "che cos'è la grandezza di una pianta racchiusa in un seme d'olmo [...] in rapporto a quella che deve raggiungere?". Dunque "possono ben esserci stati tempi in cui l'albero stava racchiuso in un seme di dimensioni invisibili, tempi in cui era tanto piccolo in rapporto a ciò che è dentro un seme ordinario, quanto è piccolo dentro questo seme in rapporto all'olmo più grosso" (ibidem, II, 1, pp. 38-39).
Tuttavia le difficoltà dell'ovismo divennero gravi proprio dal punto di vista empirico e proprio sulla questione centrale: il postulato dell'esistenza di uova nei vivipari. Già nel 1681 Malpighi, cui si deve fra l'altro il passaggio concettuale da 'testicoli femminili' a 'ovaie' e l'attenta considerazione dello sviluppo di quel che egli chiamò "corpo luteo" (da dimensioni "a malapena superiori al seme del miglio" a quelle "di un cece", infine "di una ciliegia"), dovette ammettere che i follicoli di Graaf, quelle "vescicole di varie dimensioni e piene di colliquamento coagulabile, che in qualsiasi tempo abbondano nelle ovaie, non siano le vere uova, destinate a venir fecondate, bensì la materia onde avrà origine il corpo ghiandolare e giallo [...] deputata a secernere l'uovo, ad averne cura e ad espellerlo al tempo debito" (Malpighi a Spon, 1° novembre 1681, Opere, p. 293).
Fu dunque riaperta la "caccia all'uovo" (Bernardi 1980), che proseguì ininterrotta per tutto il Settecento senza che nessuno riuscisse a individuare l'embrione dei vivipari, il quale, per le sue piccole dimensioni e per i limiti della microscopia dovuti non tanto al potere di ingrandimento degli strumenti quanto al loro grado di definizione, sarebbe sfuggito fino all'Ottocento inoltrato.
Del carattere affannoso di questa ricerca testimoniano nel modo più eloquente le pagine dell'Istoria della generazione dell'uomo di Vallisnieri, il quale riferisce di numerosissime dissezioni ("tante stragi di femmine": cagne, volpi, lupe, vacche, scrofe, cavalle, asine), dell'uso di svariate metodiche e strategie d'intervento (dapprima spreme i "corpi glandulosi", poi li incide, infine li lessa), dell'utilizzo dei migliori strumenti ("lenti ora più ora meno acute"), delle grandi aspettative riposte nella ricerca ("ardentemente sospirava" e "tutto mi struggeva di vedere un uovo") e, infine, di un'avvilente frustrazione: "non ebbi mai la sorte (con tutto che oculatissimo, e con l'occhio armato di vetro ogni più gelosa attenzione adoprassi) di veder sortir uovo alcuno [...] e né meno corpicello che lo somigliasse" (Opere fisico-mediche, pp. 158, 160).
Ispirato, come altri suoi contemporanei, da un principio che è stato definito 'della visibilità debole' (Bernardi 1986), in virtù del quale si poteva ammettere l'esistenza di oggetti e fenomeni che pure (ma soltanto ‒ veniva teorizzato ‒ per carenze strumentali) non apparivano, ma forse testimoniando anche della persistente prevalenza, nel suo pensiero, delle componenti dogmatiche sugli argomenti fattuali, Vallisnieri non rinuncia alla teoria dell'uovo ("non ostante queste difficoltà, [...] io sono persuaso che vi sia"), ma la sua delusione per il fallimento della ricerca è tale che egli giunge al limite della bestemmia:
in questo calice [il corpo luteo] sta tutto l'ultimo artifizio della generazione, in questo è nascosto, come nel grano di una pianta tutto il segreto della futura pianta, ma Dio buono!, con così fina e minutissima maestria che si stancano gli occhi e le mani per iscoprirlo, e quando sovente ci crediamo d'averlo scoperto, noi dolenti, ci fugge e siamo sforzati tornar da capo per ritrovarlo. Io sono persuaso che l'uovo, o l'invoglio contenente il feto, sia nel centro di questo calice; io benissimo veggo che qui la macchinetta si genera, o si sviluppa, e matura, e che per le trombe in grembo all'utero discende; io pure ottimamente veggo che senza quello non si dà generazione né fecondazione nell'ovaia; ma con tutte queste vedute, che sono infallibili, io non veggo con quella chiarezza che desidero l'uovo spuntar dal calice, attaccato al calice, cresciuto, spiccato e dal medesimo uscente. E pure io sono sicuro, arcisicuro, che colà vi è questo lavoro. (ibidem, p. 185)
Il preformismo animalculista non si diffonde per il fallimento della 'caccia all'uovo' ma, indipendentemente da quello, per la scoperta degli 'animalculi spermatici' fatta da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723) nell'autunno del 1677. Il naturalista dilettante (ma abilissimo microscopista) olandese, che tre anni prima aveva scoperto gli infusori, si giovò in questo caso della circostanza, fortuita, che un giovane studente gli aveva portato un'ampolla contenente sperma umano "emesso spontaneamente ‒ s'era premurato di precisare ‒ da un uomo sofferente di gonorrea" (Observationes de natis e semine genitali animalculis, p. 278), che pullulava, a suo dire, di curiosi microorganismi. Leeuwenhoek riuscì a vedervi soltanto poche "creature viventi", ma queste furono sufficienti a determinarlo a effettuare sistematiche osservazioni, che fecero slittare la comunicazione della scoperta alla comunità scientifica (per il tramite della Royal Society di Londra) al 1679.
Essendo il materiale delle osservazioni fra i più scabrosi e richiedendosi che "non provenisse da un individuo malato, né fosse corrotto da una lunga conservazione o reso più fluido dall'intervallo di tempo, ma fosse fornito da un uomo sano immediatamente dopo l'eiaculazione", Leeuwenhoek comunicò di essersi sempre servito di "quanto, senza alcuna macchia peccaminosa da parte mia, resta naturalmente dopo un coito coniugale" e informò che al suo interno si trova "una tal moltitudine di animalculi viventi, che talvolta in una quantità di seme pari a un granello di sabbia ne formicolava più di un migliaio". Con il suo potente microscopio semplice il naturalista olandese riuscì a descriverne abbastanza correttamente sia la grandezza, sia la forma, sia il movimento: "più piccoli dei globuli che conferiscono un colore rosso al sangue", gli spermatozoi "avevano il corpo rotondo, la parte anteriore smussata e quella posteriore terminante con una specie di aculeo; erano dotati di una coda sottile, la cui lunghezza superava cinque o sei volte il corpo, trasparente, di spessore pari alla venticinquesima parte del corpo", e "avanzavano con moto serpentino della coda, simile a quello delle anguille che nuotano nell'acqua" (ibidem, pp. 288-296).
Questo loro movimento spontaneo portò Leeuwenhoek ad assumere immediatamente e senza alcuna indecisione che gli spermatozoi fossero veri e propri animaletti "che si potrebbero benissimo chiamare serpentelli in considerazione del loro aspetto" (Leeuwenhoek a Hooke, 5 aprile 1680, in The collected letters, III), caratterizzati da un ciclo fisiologico che egli studiò attentamente dopo averne prelevati soprattutto da cani, conigli, topi, merluzzi. Avendone calcolato il tempo di sopravvivenza fuori dall'organismo ("il primo giorno molti animalculi erano morti; il secondo e il terzo ne erano morti molti altri; il quarto vidi solo pochi animalculi vivi"), egli ipotizzò che ben più a lungo si conservassero nell'utero, "che è fatto apposta per accoglierli e nutrirli", dove li ricercò sistematicamente "con una grossa lente d'ingrandimento" e "con mia grande soddisfazione ne scoprii sempre in abbondanza" (Leeuwenhoek alla Royal Society, 30 marzo 1685, ibidem, V).
La loro elevata capacità di sopravvivenza e di motilità nell'apparato genitale femminile, unita alla certezza della loro origine nei testicoli, "che non sono stati fatti per alcun altro scopo che quello di produrre i piccoli animali che vi rinveniamo, e di conservarli fino al momento dell'eiaculazione" (Leeuwenhoek a Grew, 25 aprile 1679, ibidem, II) tolsero a Leeuwenhoek ogni dubbio circa il loro ruolo ‒ determinante ‒ nella riproduzione.
La teoria, che venne precisandosi fra il 1683 e il 1685, ebbe quale premessa l'asserita confutazione sperimentale dell'ovismo di Graaf. Osservate pretese uova di donna, vacca, cagna, pecora, coniglia, Leeuwenhoek giudicò impossibile, fin dal 1678, la dinamica ipotizzata dall'anatomista olandese: "per assolvere alla funzione descritta dal Dott. Graaf, le cosiddette uova avrebbero dovuto separarsi nel corso della copula dalle loro robuste pareti, forare il tegumento del testicolo e disporre nello stesso tempo la tuba falloppiana con la sua apertura sopra l'uovo distaccato, allo scopo di accoglierlo. A me tutto questo sembra essere completamente in contrasto con la Natura" (Leeuwenhoek a Grew, 18 marzo 1678, ibidem, II), egli concluse, anche perché il presunto uovo è molto grosso e la tuba molto stretta, come osservò successivamente (Leeuwenhoek a Wren, 22 gennaio 1683, ibidem, IV), oltre che "molto corrugata" (Leeuwenhoek alla Royal Society, 30 marzo 1685, ibidem, V).
Leeuwenhoek teorizzò pertanto "che è esclusivamente il seme maschile a formare il feto, e che tutto quanto può fornire la femmina serve solo a ricevere il seme e a nutrirlo" (Leeuwenhoek a Grew, 18 marzo1678, ibidem, II; Leeuwenhoek a Wren, 16 luglio 1683, ibidem, IV): nel caso degli ovipari l'uovo, in quello dei vivipari semplicemente la zona della parete uterina in cui lo spermatozoo può annidarsi. Come rilevò Nicolas Andry de Boisregard in De la génération des vers dans le corps de l'homme (1700) a proposito della nostra specie, secondo Leeuwenhoek "in tutta la matrice della donna esiste solo un punto atto a nutrire e custodire il verme spermatico: di modo che, fra tutti questi vermi, solo quello che riesce a incontrare questo punto cresce e diventa un bambino, mentre gli altri muoiono per mancanza di nutrimento, come semi che non si trovano in buona terra" (ed. 1741, I, p. 160). Orbene, il fatto che il microscopista olandese fosse costretto a teorizzare che "la generazione non avviene in un unico e identico modo" (Leeuwenhoek a Wren, 16 luglio 1683, in The collected letters, IV) certamente non contribuì alla diffusione delle sue ipotesi, tuttavia gli consentì ugualmente di fornire precise risposte tanto al problema della sterilità dell'uovo quanto a quello della determinazione del sesso del nascituro.
Riguardo al primo problema, egli espresse la convinzione "che se, negli ovipari, nessun animalculo dello sperma maschile raggiunge la macchia del tuorlo dell'uovo [...], questo rimarrà sterile", si disse certo che "è per ciò che nello sperma maschile degli animali e dei pesci le cui femmine depongono uova ci sono tante migliaia di animalculi [...]: affinché un animalculo fra i tanti possa raggiungere la macchia del tuorlo"; e poté corroborare la teoria ricordando che "quando un gallo copula una gallina anche una sola volta, vengono fecondate molte uova [...]: la ragione di ciò sta nel fatto che molti tuorli destinati a diventare uova riceveranno ciascuno, mentre stanno ancora attaccati all'ovaia, un animalculo proveniente dallo sperma maschile" (ibidem).
Quanto poi al problema della determinazione del sesso del nascituro, egli aveva sostenuto che se era giunto a convincersi che "l'essere umano viene generato non da un uovo, ma da un animalculo che si trova nello sperma maschile", ciò era stato anche "per aver visto che nello sperma di un uomo, e pure di un cane, v'erano due specie di animalculi" e "per aver subito pensato, guardandoli, che una specie fossero maschi, e l'altra femmine" (Leeuwenhoek a Wren, 22 gennaio 1683, ibidem). La conclusione era venuta spontanea: "se uno o più animalculi di genere maschile provenienti dallo sperma si fissano nell'utero e vi si sviluppano, la progenie sarà di sesso maschile; viceversa, se penetrano nell'utero animalculi femminili e vi si sviluppano, nasceranno creature di sesso femminile" (Leeuwenhoek alla Royal Society, 30 marzo 1685, ibidem, V).
Leeuwenhoek riconobbe, d'altra parte, alcune difficoltà della teoria. Egli non riuscì, in particolare, a osservare la penetrazione dell'animalculo nell'uovo di gallina (Leeuwenhoek a Wren, 16 luglio 1683, ibidem, IV) ‒ ciò che riuscirà soltanto a Wilhelm August Oscar Hertwig nel 1875 ‒ e non vi riuscì neanche dopo essere passato a indagini su specie in teoria più promettenti: "in seguito [...] sono passato alla ricerca dell'animalculo maschile nell'uovo di una pulce e di un pidocchio, perché queste uova sono piccolissime e perciò avrei potuto scorgere più facilmente l'animalculo: ma anche in questo caso finora non ho avuto successo" (ibidem). Così un elemento essenziale della teoria animalculista rimase affatto privo di verifica sperimentale. Tuttavia, il naturalista olandese poté tentare di controbilanciare quest'insuccesso diffondendosi, da una parte, nella replica alle obiezioni rivolte all'animalculismo e dall'altra, e soprattutto, nell'illustrazione di sue presunte verifiche sperimentali d'altra natura.
Fra le obiezioni rivolte alla teoria animalculista la più incisiva sembrava essere quella che lo stesso Leeuwenhoek formulò nei termini seguenti: "perché vi sono tante migliaia di animalculi in una goccia di sperma umano, se un solo piccolo animale è sufficiente alla procreazione di un uomo?". Il naturalista olandese rispose istituendo un parallelo (all'epoca pregnante, perciò frequente e insistito) con quanto avviene nel mondo vegetale: "non vediamo forse che un melo, anche se può raggiungere l'età di cent'anni e più, produce ogni anno centinaia di fiori, e ogni fiore può diventare un melo, e ogni mela contiene sei o sette semi, e ogni seme può diventare un albero? Supponiamo ora che sotto quest'albero crescano disordinatamente erba ed erbacce, e che tutte le mele prodotte da quest'albero cadano nell'erba. Forse che tutti i semi prodotti diventeranno alberi? La risposta è no, perché l'ombra dell'albero, e ancor più le erbacce e il prato soffocheranno i semi nel caso che qualcuno germogli, e li priveranno del nutrimento". E se si chiedesse ‒ proseguì Leeuwenhoek ‒ "perché una donna non generi ad ogni parto molti figli, [...] potrei rispondere così: facciamo un piccolo buco in terra delle dimensioni di una pagliuzza, e mettiamoci sei o otto semi di melo. Essi non daranno vita a sei od otto alberi, ma il seme che avrà gettato fuori per primo la radice più grossa diventerà un albero e schiaccerà tutti gli altri: ebbene questo è quanto io immagino che accada agli animalculi" (ibidem). Quel che potrebbe sembrare un inammissibile spreco di materia e di energia è dunque per Leeuwenhoek, in realtà, il requisito minimale per la propagazione della vita.
Le presunte verifiche sperimentali con cui il naturalista olandese tentò di controbilanciare alcuni insuccessi possono lasciare perplessi ma sono preziose testimonianze dello stato delle conoscenze dell'epoca. Esse riguardano la conferma della preformazione dell'embrione. Leeuwenhoek può dare a intendere che nell'utero di una coniglia, "che si era accoppiata sei giorni prima", ha trovato "una vescicola rotonda", delle dimensioni "di un chicco di miglio", all'interno della quale era visibile "una minuscola figura, un migliaio di volte più piccola di un granello di sabbia e modellata come un coniglio". Oppure che nell'utero di una pecora, "copulata da un ariete tre giorni prima", ha rinvenuto "un piccolo corpo non più grosso di un granello di sabbia comune", e che esaminatolo al microscopio ha visto "con piacere che era un piccolo agnello, il quale stava raggomitolato con la schiena e la testa inclinate", del quale erano visibili anche molti particolari: "vidi la sua mandibola e i suoi occhi in modo molto distinto, e credetti di scorgerne anche la spina dorsale" (Leeuwenhoek alla Royal Society, 30 marzo 1685, ibidem, V).
Nonostante l'autorevolezza di Leeuwenhoek, che aveva negato l'esistenza di uova nei vivipari, e nonostante le difficoltà incontrate dagli stessi ovisti, la cui 'caccia all'uovo' permaneva infruttuosa, l'animalculismo si sviluppò sì tenendo fermo che l'embrione esistesse preformato nello spermatozoo, ma assumendo che gli fosse comunque necessario ‒ anche nei vivipari ‒ l'incontro con l'uovo. Questa forma di ovo-vermismo caratterizza le teorie esposte tanto dall'inglese George Garden, quanto dall'olandese Nicolaas Hartsoeker e dal francese Andry de Boisregard.
George Garden (1649-1733), che significativamente cita con favore le considerazioni di Harvey, Malpighi, Graaf, nel suo A discourse concerning the modern theory of generation (1691) così espone i capisaldi del preformismo animalculista: "1° gli animali derivano ex animalculo; 2° questi animalculi si trovano originariamente nel seme dei maschi e non nelle femmine; 3° essi non possono mai svilupparsi né essere formati negli animali della rispettiva specie senza le uova delle femmine" (p. 473).
Il primo è il caposaldo del preformismo tutto, in quanto consiste semplicemente nell'assunzione che le parti dell'embrione "non si formino sul momento", come avevano affermato gli epigenisti, "ma da filamenti già esistenti", ovvero che esse siano "parti non nuovamente formate, ma soltanto più dilatate e sviluppate in seguito al nutrimento ricevuto dal colliquamentum". Al preformismo Garden associa la versione forte della preesistenza, secondo cui "i filamenti di tutte le piante e di tutti gli animali che sono stati o saranno mai al mondo sono stati formati ab origine mundi dall'onnipotente Creatore nel prototipo di ogni specie" (ibidem, pp. 475-477).
La seconda tesi del naturalista inglese poggia, naturalmente, sulle osservazioni di Leeuwenhoek ma anche, sagacemente, su quelle di un autorevole avversario: "l'osservazione dei rudimenti del feto nelle uova che sono state fecondate dal maschio, e la constatazione che niente di simile esiste in quelle che non sono state fecondate, così come appare dalle osservazioni di Malpighi, rende molto probabile il fatto che questi rudimenti derivino originariamente dal maschio, e non dalla femmina" (ibidem, p. 477). Fondare l'animalculismo sugli esiti delle ricerche di un celebrato ovista fu un'operazione tanto impertinente quanto produttiva che Garden, per chiudere il cerchio, volle comunque significativamente appoggiare non soltanto ai dati della botanica, di cui era specialista, ma anche all'autorità delle Scritture. L'animalculismo, egli affermò, "getta nuova luce sulla prima profezia concernente il Messia, e cioè che il seme della Donna avrebbe schiacciato la testa del serpente, dato che tutto il resto dell'umanità è così, in modo corretto e verace, il seme dell'Uomo" (ibidem, pp. 477-478).
La terza tesi di Garden ("gli animali non possono essere formati dagli animalculi senza l'intervento delle uova femminili"), che restituisce unità alla teoria del preformismo animalculista, poggia principalmente su un argomento che ebbe qualche fortuna e val la pena di riportare per esteso:
se non ci fosse bisogno di nient'altro che spargerli nell'utero, non riesco a vedere perché non si dovrebbero sviluppare nello stesso tempo molte centinaia di animalculi. Il fatto che, a quanto dice il Sig. Leeuwenhoek, uno di loro impedisca e blocchi il passaggio al resto potrebbe infatti accadere con il passare del tempo: ma all'inizio non riesco a vedere la ragione per cui molti non avrebbero potuto crescere insieme, anche se sparpagliati in uno spazio così ampio, se non ci fosse un'assoluta necessità di una cicatricula per il loro sviluppo. (ibidem, pp. 479, 481)
Analogo fu l'approccio di Nicolaas Hartsoeker (1656-1725) che aveva fornito una descrizione degli spermatozoi già nel 1678, poco dopo Leeuwenhoek, paragonandoli a girini ("animali simili a rane appena nate"), piuttosto che a "serpentelli", ed è noto soprattutto per aver espresso le idee più radicali sulla preformazione e l'incapsulamento degli embrioni negli animalculi. Nell'Essay de dioptrique (1694) il fisico olandese non si era limitato, infatti, a sostenere che "ogni animalculo racchiude, in piccolo, un animale maschio o femmina della stessa specie di quello nel cui seme si trova", e ad affermare che "ciascuno di questi animali maschi racchiude esso stesso un'infinità di altri animali maschi e femmine della stessa specie, ma infinitamente piccoli, e questi animali maschi ancora altri animali maschi e femmine della stessa specie, e così di seguito, di modo che i primi maschi furono creati insieme a quelli che hanno generato e genereranno fino alla fine dei secoli", giungendo fino ad assicurare che "quando si esamina con un microscopio un seme in cui il germe è un po' visibile, vi si scopre la pianta tutta intera, nella quale ci sono sicuramente altri semi che contengono altri germi, e questi germi altre piante con i loro semi, e così di seguito", ma azzardò anche una raffigurazione dell'omuncolo preformato nello spermatozoo, in un'incisione divenuta giustamente famosa (pp. 227-228, 231-232).
Val la pena, tuttavia, di sottolineare che a Hartsoeker si deve una felice intuizione circa il meccanismo della fecondazione dell'uovo. Anche questo venne ipotizzato in via puramente teorica, ma costituì una buona ipotesi di lavoro. Nello stesso Essay de dioptrique il fisico olandese affermò che "quando il maschio getta il seme nell'ovaia della femmina, questo seme circonda le uova che vi si trovano, e ogni verme del seme cerca di introdursi in una delle uova per esservi nutrito e svilupparvisi"; ebbene, sostenne Hartsoeker, "ogni uovo ha solo un'apertura per lasciar entrare un verme [...], e appena uno solo vi è penetrato quell'apertura si chiude e impedisce il passaggio ad ogni altro verme". Interessante è anche l'ipotesi del fisico olandese relativa alla simbiosi che viene poi a instaurarsi fra il 'verme', l'uovo e la 'matrice' della femmina: "l'animalculo si unisce all'uovo mediante la parte più tenera del suo corpo, e l'uovo si unisce alla matrice", in modo che i tre elementi "possono essere considerati un sol corpo, dato che il sangue passa [...] dalla femmina all'uovo, dall'uovo al piccolo animale, dal piccolo animale all'uovo, e dall'uovo alla femmina" (ibidem, pp. 228-229).
Qualche anno più tardi vi tornerà Nicolas Andry de Boisregard, prendendo egualmente le mosse da una critica della negazione leeuwenhoekiana dell'esistenza di uova nei vivipari ma supponendo, in De la génération des vers dans le corps de l'homme (1700), un diverso meccanismo di penetrazione dello spermatozoo:
quando l'uovo si è staccato dall'ovaia ed è caduto nella matrice, i vermi spermatici, che sono in continuo movimento, si spargono per tutta la matrice, incontrano l'uovo, corrono sulla sua superficie e, poiché il punto nel quale l'uovo si è distaccato dall'ovaia assomiglia a quello nel quale i chicchi d'uva si distaccano dal grappolo [...], è facile comprendere che fra tanti vermi è impossibile che attraverso quest'apertura non ne entri qualcuno nell'uovo. […] La cavità dell'uovo è piccola e proporzionata alle dimensioni del verme, il quale non si può ripiegare per uscir fuori, così che è obbligato a stare racchiuso nell'uovo, in cui non può penetrare contemporaneamente un altro verme, a causa della ristrettezza del luogo occupato. (ed. 1741, I, pp. 60-61)
Il parallelo con il chicco d'uva non era certo molto sofisticato, né poteva dirsi sperimentalmente fondata l'ipotesi dell'estrema piccolezza dell'uovo, tuttavia la soluzione ovo-vermista, che era stata già accolta da Garden e Hartsoeker, poté sembrare plausibile.
Il preformismo aveva attecchito, intorno alla metà del XVII sec., sull'onda dei progressi realizzati dalla meccanica, terrestre e celeste, nel corso della grande Rivoluzione scientifica guidata da Galilei e Descartes. Il suo elemento di forza era stata la possibilità di liberare finalmente anche le scienze della vita dall'approccio finalistico della lunga tradizione aristotelica e dalle soluzioni vitalistiche, inverificabili e neppure controllabili, dell'epoca rinascimentale, nonché, almeno sulla carta, dall'asservimento della ricerca ai dogmi delle Scritture. Ma ben presto esso aveva promosso nuove forme di finalismo, che come si è detto finivano immancabilmente con il rinviare, per usare una celebre metafora, dall'orologio all'orologiaio ‒ dalla Natura a Dio (l'"onnipotente Creatore" di Garden, l'"Altissimo" di Vallisnieri, l'"intelligenza superiore" di Réaumur). Pur nella diversità delle soluzioni particolari, il preformismo aveva di fatto negato che vi potesse essere una spiegazione razionale della riproduzione, poiché aveva assunto che non esiste generazione, in senso proprio e stretto, ma solo sviluppo di organismi, come aveva teorizzato Réaumur: "il concepimento, cioè l'istante in cui comincia la generazione, è quello in cui un animale, un embrione di piccolezza indefinita, comincia a svilupparsi" (Mémoires pour servir à l'histoire des insectes, VI, 2, p. 369); anche Charles Bonnet ripeterà: "la produzione [di un individuo] non è una vera generazione ma il semplice sviluppo di quanto era già tutto formato, […] la semplice evoluzione di ciò che era già generato" (Considérations sur les corps organisés, 1762, pp. CCLIII, CCLVI). Esiste solamente lo sviluppo di organismi che non si formano, in senso proprio e stretto, ma semplicemente si manifestano, come aveva sottolineato Vallisnieri: quel che impropriamente definiamo generarsi "non è che un manifestarsi di ciò ch'era involto, occultato", e semplicemente si manifesta in seguito a un'incubazione, per così dire, cominciata il giorno della Creazione.
Questo ritrovato legame con la teologia costituì per molti, nel XVII sec., non la debolezza ma la forza del preformismo, e tuttavia questo incontrò gravi difficoltà per le quali la sua versione animalculista declinò già nei primi anni del Settecento. Tali difficoltà furono di varia natura: fra quelle teoriche, da ricondurre alla congiuntura intellettuale dell'epoca, va ricordato il fatto che pensare all'uomo come proveniente da un 'verme', o comunque da un 'piccolo animale', non parve certo esaltante. Fra le difficoltà di carattere propriamente scientifico vi furono quella di spiegare come specie tanto diverse (per dimensioni, strutture e funzioni) potessero provenire da 'animalculi' pressoché identici, e quella di rendere conto del fatto che, invece di essere proporzionale al numero dei feti, la quantità di animalculi sembrava essere pressappoco la stessa tanto nelle specie che generano un piccolo per volta, quanto in quelle che ne generano molti.
Ma forse ancor più gravi di quelle propriamente scientifiche e di quelle genericamente teoriche furono, per lo stretto collegamento istituito fra i due universi del discorso, le difficoltà presto insorte anche dal punto di vista specificamente teologico. Non si riuscì, infatti, a dare alcuna risposta confortante al problema del grande spreco di animalculi che si verifica a ogni accoppiamento, nonostante ognuno di essi abbia la dignità di individuo. La figura di un Dio 'sprecone' e per di più ingiusto, dal momento che predestinerebbe (e con quali criteri?) alcuni individui alla vita e altri alla morte, feriva le coscienze di molti.
Non va poi dimenticato che l'animalculismo ricevette duri colpi anche da parte degli stessi che pubblicamente lo sostenevano. François de Plantade (1670-1741), nell'Extrait d'une lettre de M. Dalempatius à l'auteur de ces nouvelles del 1699, riferì sotto pseudonimo (particolare che potrebbe anche far pensare non a semplice leggerezza ma a vera e propria macchinazione) di "una scoperta curiosa fatta col microscopio": quella di un omiciattolo uscente da uno spermatozoo, "il quale si era già spogliato della membrana nella quale stava avvolto, e mostrò chiaramente le due tibie nude, le gambe, il petto, le due braccia; la pelle di cui egli si era spogliato, siccome s'era sfilata quasi completamente, ne copriva il capo a mo' di cappuccio" (p. 554). L'astronomo francese fornì anche due disegni dell'omiciattolo preformato e ciò ‒ nonostante le grandi incertezze della ricerca dell'epoca, costellata di leggerezze analoghe (si ricorderanno quelle di Kerckring, di Leeuwenhoek, di Hartsoeker) ‒ parve troppo anche a molti animalculisti.
L'ovismo ebbe così via libera e dominò incontrastato fino alla metà del XVIII sec., ma senza i dovuti riscontri sperimentali (si ricorderà, in particolare, il fallimento della 'caccia all'uovo') e incontrando ostacoli, tanto numerosi quanto gravi, anche sotto il profilo teorico. Da questo punto di vista, l'ovismo risentì delle difficoltà del preformismo in quanto tale, che provenivano sia dall'applicazione della meccanica alle scienze della vita ‒ che per un verso poteva consentire l'affrancamento dagli ingenui approcci finalistici e dalle impalpabili soluzioni vitalistiche e per un altro comportava però la negazione della complessità dei fenomeni vitali (complessità che per contro iniziava a essere valorizzata) ‒ sia dal fatto che il legame con la teologia, che nel secolo precedente aveva costituito la forza delle soluzioni preformistiche, nel secolo dei Lumi era ormai considerato, da un numero crescente di ricercatori, come una intrinseca debolezza.
Va poi sottolineato, a un altro livello di analisi, che il preformismo incontrò gravi difficoltà anche per il fatto che in entrambe le versioni esso si precludeva la possibilità di spiegare i fenomeni ereditari e naufragava di fronte a quelli di ibridazione. Ancor più grave era poi l'imbarazzo dei preformisti di fronte alla questione dell'origine dei mostri e ai vari problemi sollevati dalla nascente teratologia. Tanto gli ovisti, infatti, quanto gli animalculisti avevano trasformato il problema della generazione in quello dello sviluppo di germi creati "in un colpo" (Vallisnieri) all'inizio dei tempi; ma ‒ fu immediato obiettare ‒ come poteva Dio essere stato tanto malvagio da creare anche forme patologiche? Alcuni preformisti provarono a suggerire che originariamente le forme fossero tutte perfette e che si sarebbero alterate, per cause accidentali, nella fase dello sviluppo. In questo modo essi non fecero che sostituire al Dio malvagio un non meno inquietante Dio impotente, incapace di realizzare i suoi stessi progetti. Il supporto della teologia si trasformò così da elemento funzionale a sostegno deleterio.
A partire dal 1740 si succedettero infine una serie di scoperte determinanti che rilanciarono l'approccio vitalistico e la soluzione epigenetica (opportunamente rifondati) perché testimoniavano dell'inesauribile varietà, delle straordinarie energie e dell'irriducibile complessità della natura vivente, perciò del fallimento del grande progetto meccanicistico sul quale le teorie della preformazione e della preesistenza dei germi erano fondate. Proseguendo ricerche impostate nel 1737 dal suo maestro Réaumur, nel 1740 Charles Bonnet (1720-1793) scoprì la partenogenesi dei 'gorgoglioni' ‒ gli afidi ‒, cioè l'esistenza di ben strane macchine (volendo inforcare gli occhiali della tradizione), che generavano altre macchine ‒ ovvero si riproducevano ‒ "senza accoppiamento". Il naturalista ginevrino fu molto scrupoloso nel condurre gli esperimenti e nell'effettuare le osservazioni; in primo luogo egli prese ogni precauzione per garantirsi il totale isolamento del gorgoglione.
Dentro un vaso da fiori riempito di terra comune sotterrai fin quasi al collo un'ampolla piena d'acqua e vi feci entrare il piede di un piccolo ramo di fusaggine cui, dopo averle esaminate da ogni lato con la più grande attenzione, avevo lasciato solo cinque o sei foglie. Poi su una di queste posai un gorgoglione, appena partorito sotto i miei occhi […] e infine coprii il ramoscello con un vaso i cui bordi combaciavano perfettamente con la superficie della terra del vaso da fiori. Grazie a questo accorgimento ero più sicuro io del comportamento del mio prigioniero di quanto fosse Acrisio di quello di Danae. (Bonnet, Traité d'insectologie, 1745, I, pp. 66-67)
In secondo luogo, Bonnet impostò gli esperimenti in modo da prevenire anche le obiezioni più "singolari" o addirittura "concepite gratuitamente". Per parare, per esempio, quella che consiste "nel supporre che un solo accoppiamento sia sufficiente nei gorgoglioni per parecchie generazio-ni consecutive", operò in modo da "tenere in perfetto isolamento un gorgoglione dall'istante della nascita fino al momento in cui avesse partorito il piccolo, il quale sarebbe stato condannato, come la madre, a vivere solitario" e così via, prolungando l'esperimento "sul maggior numero di generazioni possibile" (ibidem, pp. 27, 66-67, 92) ‒ riuscendo a controllarne nove. In terzo luogo, volle accertarsi che il fenomeno non fosse limitato a una singola specie di afidi, e quindi ripeté gli esperimenti sui gorgoglioni del sambuco e della piantaggine. Il risultato ‒ che sarebbe stato subito confermato, fra gli altri, da Abraham Trembley (1710-1784) e Pierre Lyonet (1706-1789) ‒ fu sorprendente: "si tratta ‒ commentò Bonnet ‒ di specie di ermafroditi del tipo più strano: ermafroditi autosufficienti" (ibidem, p. 116), sia perché testimoniava, come affermò Trembley, di "uno dei fatti più sensazionali della storia naturale, che era direttamente contrario alla legge generale ammessa fino ad allora sulla generazione degli animali" (Mémoires pour servir à l'histoire d'un genre de polypes d'eau douce, 1744, p. 18), sia perché su quella legge, che assicurava l'universalità della generazione sessuata, era stato raggiunto un consenso tale che Linneo aveva recentemente (1735) rivoluzionato la tassonomia assumendo quale principio ispiratore e metodo di ordinamento proprio il 'criterio sessuale'. Il rigore, d'altra parte, con cui quel sorprendente risultato venne raggiunto valse a Bonnet la cooptazione nell'Académie Royale des Sciences all'età di appena vent'anni.
Nello stesso 1740 Trembley annunciò la scoperta del "polipo d'acqua dolce" (Hydra viridis, un celenterato degli Idrozoi) e della sua sorprendente ‒ insospettata e meccanicamente incomprensibile ‒ capacità di rigenerazione. Si tratta infatti non soltanto di un vivente che, come il gorgoglione, si riproduce 'per polloni' ovvero per gemmazione ("sono tutti madri e si moltiplicano senza accoppiamento"; ibidem, p. 188), ma anche di una macchina che perso un pezzo (cioè amputata) lo riproduce di lì a poco e, addirittura, una volta completamente smontata non cessa di funzionare (nel senso che pur "sì manomessa, sì ridotta a brani, anzi in minuzzoli, non muore", come avrebbe confermato Lazzaro Spallanzani in Osservazioni e sperienze intorno ad alcuni prodigiosi animali, 1776), bensì al contrario si moltiplica: i suoi singoli pezzi continuano a vivere anche separatamente da essa e riescono a rigenerare tutte le parti mancanti fino a diventare altrettante macchine complete. Per usare le parole di Bonnet, "non solo esse producono, dal proprio interno, macchine che gli sono simili; ve ne sono molte che riproducono da sé i pezzi che gli sono stati tolti, e i cui diversi pezzi diventano altrettante macchine, non meno perfette di quelle di cui facevano parte" (Contemplation de la nature, 1764, I, p. 239). "Tagliata a pezzi ‒ confermò anche Pierre-Louis Moreau de Maupertuis ‒, il troncone cui è rimasta la testa riproduce la coda; quello cui è rimasta la coda riproduce la testa; e i tronconi senza testa e senza coda riproducono l'una e l'altra" (Vénus physique, 1745, p. 86). "In qualunque punto ‒ osservò lo stesso Trembley ‒ si tagli un polipo, in mezzo al corpo o più o meno vicino all'estremità anteriore o a quella posteriore, l'esperienza riesce egualmente […] e anche pezzetti provvisti solo di due o tre braccia diventano polipi perfetti". "Ne fui sorpreso", commentò il naturalista ginevrino, perché "mi aspettavo di veder morire questi polipi sminuzzati"; invece, "in qualunque modo e in qualunque senso si tagli un polipo, non lo si uccide affatto: al contrario, da uno se ne producono molti", anche se lo si è "praticamente squartato" (Mémoires pour servir à l'histoire d'un genre de polypes d'eau douce, pp. 13, 234-235, 245, 248).
La vita risultava, per così dire, indistruttibile: l'animale si rivelava "un'Idra più stupefacente di quella della favola" (Maupertuis, Système de la nature, 1751-1754, p. 86) perché non moriva (e anzi si rigenerava, e poi si riproduceva) sia che fosse stato tagliato trasversalmente, longitudinalmente e in entrambi i sensi, fino a cinquanta volte (e "tutte queste cinquantesime parti sono diventate polipi perfetti; ho constatato che assolvevano a tutte le loro funzioni"), sia che fosse stato rovesciato ‒ "in modo che la superficie esterna della pelle diventasse l'interna, e viceversa. [...] Senza morire, e perfino senza sembrare indisposti", i polipi si rigiravano nuovamente in poche ore. E lo sperimentatore non poteva resistere, a quel punto, alla tentazione di cercare "di mantenerli rovesciati, per vedere se potevano vivere anche in quella condizione". Ebbene i polipi rimasti rovesciati, annotava Trembley, "sono vissuti per molto tempo" e "hanno mangiato, sono cresciuti e si sono riprodotti" (Mémoires pour servir à l'histoire d'un genre de polypes, pp. 237-238, 253, 259, 261).
Davvero "un nuovo spettacolo", di cui subito si riferì con enfasi all'Académie ("la storia della Fenice che rinasce dalle proprie ceneri non è più stupefacente di questa scoperta"; Anonimo, Animaux coupés et partagés en plusieurs parties, p. 33), che venne più volte ‒ e sempre con grande eccitazione ‒ ripetuto in pubblico, fu immediatamente annoverato fra i più importanti problemi scientifici dell'epoca, spinse una gran quantità di naturalisti a spezzettare ogni sorta di animali (acquatici e non) per vedere se si rigeneravano come il polipo; diventò argomento di conversazione anche nei salotti (dove fu secondo soltanto ‒ come rilevò Réaumur ‒ alla valutazione dei più gravi avvenimenti socio-politici), finendo con il coinvolgere delicatissime questioni teologiche. Poiché, infatti, il fenomeno apriva la possibilità di pensare che anche l'anima fosse, parimenti al corpo, divisibile e perciò materiale, come sosteneva Friedrich Christian Lesser nella sua Théologie des insectes (1742), i gesuiti vi sentirono odore di eresia.
Trembley non s'era limitato a verificare le straordinarie proprietà rigenerative dell'Hydra viridis. Egli aveva proceduto a ogni sorta di manipolazione del "polipo d'acqua dolce", ottenendo esemplari con più teste (fino a otto) o più code, riuscendo a inserire un individuo nell'altro ‒ in modo "che il polipo interno facesse da fodera al polipo esterno" ‒ e a farli 'fondere', e producendo assemblaggi di parti diverse di diversi polipi, che avrebbero dovuto essere patologici ma sorprendentemente risultavano vitali. Il disorientamento della comunità scientifica crebbe di fronte all'inattesa dimostrazione dell'estrema plasticità della materia vivente, i cui singoli frammenti risultavano capaci di svolgere qualsiasi funzione vitale, e divenne sconcerto quando si conobbero gli esiti delle osservazioni di John Turberville Needham (1713-1781), il microscopista inglese che ripropose una versione sofisticata dell'antica dottrina della generazione spontanea, valendosi di esperimenti che sembrarono, per qualche tempo, condotti in modo assolutamente corretto. Il più celebre di questi esperimenti è quello del "sugo di carne [di montone] caldissimo", versato "in un'ampolla che chiusi con un tappo di sughero, incollato con tanta precauzione che era come se avessi sigillato ermeticamente l'ampolla". Ciò per "eliminare ogni comunicazione con l'aria esterna", affinché non si potesse pensare che eventuali forme di vita rinvenute nell'infusione dopo la sua sterilizzazione provenissero dall'esterno, "da insetti o da uova contenute nell'aria". L'ampolla venne poi messa "dentro ceneri caldissime [...] affinché, se ci fosse stato qualcosa nella piccola porzione d'aria che ne riempiva il collo, si riuscisse a distruggerla e a farle perdere la facoltà generativa". Ebbene, "in quattro giorni la mia ampolla si riempì completamente di animali microscopici vivi", "mobili" e "attivi", che lo convinsero che "non c'è assioma più vero, malgrado il ridicolo in cui è caduto, dell'antico corruptio unius est generatio alterius" (Nouvelles observations microscopiques, 1750, pp. 189-204).
Questa riproposizione needhamiana della generazione spontanea imponeva di ripensare lo stesso concetto di materia elementare (che la tradizione meccanicistica pretendeva essere assolutamente inerte). Gli esperimenti del microscopista inglese, ripetuti "su sessanta od ottanta diverse infusioni di sostanze animali e vegetali" (germogli di mandorla, grano polverizzato, ecc.), sembravano infatti testimoniare l'esistenza di una "forza interna espansiva", di una "facoltà generativa", di una "forza vegetativa in ogni punto microscopico della materia" (dunque anche all'interno dei corpi 'bruti'), tanto efficace da "ridare vita a una sostanza morta". Insistendo su questa "forza produttrice", ovvero sull'esistenza di "principî attivi nell'Universo" (ibidem, pp. 198, 216, 221 n., 241, 320), Needham sottolineò il carattere dinamico della Natura, e la circostanza che questa è pervasa di forze ben più complesse e potenti delle forze meccaniche: forze che possono, addirittura, creare la vita laddove essa non esisteva.
Ma ancor più importanti, nell'economia di queste vicende, furono gli esperimenti condotti dal microscopista inglese su quella che oggi chiamiamo 'anabiosi', il ritorno alla vita di microrganismi apparentemente morti. Già Leeuwenhoek, nel 1705, aveva scoperto l'esistenza e alcune proprietà dei Rotiferi, microrganismi che, dopo aver subito un prolungato essiccamento, si mostravano capaci di riprendere le funzioni vitali non appena fossero stati nuovamente bagnati (A letter to the Royal Society concerning animalcula on the roots of Duckweed, 1705). Era poi stata la volta di Réaumur, che aveva riferito del Nostoc ‒ un genere di alghe azzurre ‒ come di una sostanza "imbevuta d'acqua, che gli conferisce […] l'aspetto di una gelatina", e che una volta privata dell'acqua ("basta qualche ora di sole, o di vento") "si piega, si raggrinzisce, perde sia la maggior parte del proprio volume, sia la trasparenza e il colore, […] e non sembra più altro che una foglia secca, malformata, d'un marrone nerastro, friabile". Ebbene, "non appena l'acqua torna a bagnarlo, il nostoc la beve più avidamente di una spugna, immediatamente si gonfia e in meno di un'ora riprende sia il volume, sia la trasparenza, sia il colore originario" (Observations sur la végétation du Nostoc, pp. 122-123, 125).
Ma il fenomeno venne pienamente valorizzato da Needham, che ne trasse una serie di conseguenze dirompenti nei confronti della tradizione meccanicistica. La scoperta fu casuale: lavorando su chicchi di grano 'cariato', ovvero attaccato dal carbonchio, egli osservò un grumo di sostanza bianca "composto di lunghe fibre impacchettate assieme", e al fine di districarne l'ammasso, ossia "di sciogliere quei pacchetti, per poter più comodamente esaminare le fibre", vi fece cadere una goccia d'acqua. Inaspettatamente le vide "in un istante prendere vita e muoversi" e senza incertezze prese le fibre (Anguina tritici, una specie di nematodi parassiti delle piante) per anguille, "trattandosi di animalculi acquatici che assomigliano abbastanza alle anguille d'acqua dolce". Stupefacente fu poi verificare che il loro ritorno alla vita poteva avvenire anche dopo anni di essiccamento: "attualmente possiedo alcuni chicchi di grano sciupato dal carbonchio, che sono stati colti più di due anni fa qui in Inghilterra, dove li ho conservati secchi per un'estate dentro una scatola, e poi li ho portati con me in un clima molto più caldo [in Portogallo], dove hanno passato una seconda estate, eppure mi mostrano ancor oggi gli stessi fenomeni" (Nouvelles observations microscopiques, pp. 103-109).
La materia si rivelava pervasa di energie non solamente impreviste, ma anche recisamente negate dagli esponenti della 'filosofia meccanica', e poiché il fenomeno sarebbe stato confermato da autorevoli microscopisti come Henry Baker, Felice Fontana e Maurizio Roffredi, l'"anguillaro" ‒ come Needham fu sprezzantemente soprannominato da Voltaire, preoccupato per le possibili implicazioni materialistiche e atee dei suoi approdi sperimentali ‒ fornì un contributo importante al superamento della soluzione meccanicistico-preformistica. Questa tentò di rifondarsi, alla luce delle nuove scoperte, ma lo fece assai maldestramente. Per uno dei tanti paradossi di cui è costellata la storia della scienza, ciò è particolarmente evidente negli scritti di Réaumur e di Bonnet che avevano promosso le ricerche di cui si è qui riferito, e furono i più duramente colpiti dagli esiti di queste stesse. Il primo aveva osservato la rigenerazione delle zampe dei gamberi fin dal 1712 e non aveva indugiato a ipotizzare che quegli animali fossero serbatoi di uova contenenti organi o loro singole parti. Incapace di rinunciare alla sua metafisica preformistica, egli volle infatti "supporre che le piccole zampe che vediamo nascere [dopo l'amputazione] fossero racchiuse in piccole uova, e che quegli stessi succhi che dapprima servivano a nutrire e far crescere la zampa amputata vengano poi impiegati a far sviluppare e nascere quella specie di piccolo germe di zampa che è racchiuso nell'uovo". Il che implica "supporre anche che non c'è alcun punto delle zampe di un gambero in cui non si trovi un uovo che racchiude […] una parte di zampa simile a quella che si trova fra il punto in cui è l'uovo e l'estremità della zampa". Insomma, "in ogni punto della zampa si troverebbe un uovo che conterrebbe una parte di zampa diversa tanto da quella contenuta nell'uovo che si trova poco sopra, quanto da quella contenuta nell'uovo che si trova poco sotto", e per fare un esempio "le uova che starebbero all'inizio di ogni pinza conterrebbero solo una pinza". Poiché risulta che "se si rompe anche la nuova zampa, ne rinasce un'altra nello stesso posto, bisogna infine ammettere pure che ogni nuova zampa sia come la vecchia piena di un'infinità di uova, ciascuna delle quali possa servire a rinnovare la parte di zampa che potrebbe essergli tolta". Réaumur prende tanto sul serio quest'insieme di ipotesi, da proporre di investigare sulla possibilità che la riserva di uova non sia infinita, ovvero che "i gamberi abbiano in ogni punto delle loro zampe una provvista di parti di zampe che può esaurirsi" (Sur les diverses reproductions qui se font dans les écrevisses, les omars, les crabes, etc., 1712, pp. 231-232). Ma da ultimo, a testimonianza della difficoltà della soluzione, egli taglierà corto: la generazione nel suo complesso è "un miracolo" che la ricerca scientifica non potrà mai chiarire "perché a noi non è accordato di risalire fino a tanto" (Art de faire éclorre et d'élever en toute saison des oiseaux domestiques de toutes espèces, 1749, II, pp. 329, 332).
Bonnet riprese invece proprio quella prima soluzione, facendo un parallelo col mondo vegetale e affermando che "la natura sembra aver racchiuso in piccolo, dentro una specie di boccio, le parti che gli insetti riproducono al posto di quelle che hanno perduto". Quanto ai gamberi, "non vedo inconvenienti ad ammettere che in ogni loro zampa ci sia una serie di germi che racchiudono in piccolo parti simili a quelle che la Natura ha intenzione di sostituire. Penso cioè che il germe posto all'inizio della vecchia zampa contenga una zampa intera, o cinque articolazioni; che quello che lo segue immediatamente contenga una zampa provvista di solo quattro articolazioni, e così via". Quanto al polipo di Trembley, esso "è per così dire tutto ovaia, tutto germi. Spezzettando un polipo dirottiamo, a profitto dei germi nascosti in ogni particella, il succo nutritizio che sarebbe stato impiegato nella crescita del tutto" (Considérations sur les corps organisés, pp. CCLIII, CCLXII-CCLXIII). Né, a giudizio di Bonnet, dovrebbe creare soverchie preoccupazioni il problema, avanzato dai gesuiti, di sapere che cosa avvenga dell'anima del polipo sminuzzato. Per salvaguardare il principio che essa è indivisibile, il naturalista ginevrino sostiene che il germe di ogni individuo ne contiene più d'una e quindi che all'esemplare cui viene tagliata la testa rispunta, insieme con la nuova testa, anche l'anima 'di riserva'. Azzardando perciò che alla preesistenza dei germi si accompagni pure quella delle anime.
Come si vedrà, i sostenitori dell'epigenesi poterono risolvere questi problemi in modo assai meno difficoltoso.
La teoria epigenetica viene riformata e rilanciata intorno alla metà del XVIII sec., favorita da un insieme di circostanze che gli storici delle idee solitamente individuano nell'affermazione degli orientamenti platonici della Scuola di Cambridge (Henry More e Ralph Cudworth), nella diffusione della metafisica animistica di Jan Baptista van Helmont e Georg Ernst Stahl, nella riabilitazione delle soluzioni organicistico-vitalistiche del Rinascimento e, soprattutto, nella fortuna delle idee di Newton e Leibniz. Il primo viene evocato per aver ampiamente modificato (se non radicalmente trasformato) il quadro del meccanicismo tradizionale, introducendovi forze (di attrazione e repulsione) pensate come vires insitae, cioè inerenti alla materia; e il secondo per aver elaborato (con il suo concetto di monade) una nuova concezione dinamica della Natura, considerata come una realtà pervasa di energie che la rendono in continua trasformazione.
Questo approccio interpretativo è certamente fondato ma unilaterale, poiché non tiene conto delle novità sperimentali di cui si è riferito nel paragrafo precedente. Tali novità non determinarono ‒ beninteso ‒ un repentino cambiamento di 'paradigma': a partire dalla metà del XVIII sec., la teoria dell'epigenesi non si sostituì ma si affiancò a quella della preformazione, generando controversie che testimoniano come la comunità scientifica non fosse affatto omogeneamente orientata in una direzione ma, sostanzialmente spaccata al suo interno, procedesse lungo percorsi divergenti elaborando soluzioni inconciliabili. I nuovi dati sperimentali non erano, né potevano esserlo, eloquenti al punto da suggerire interpretazioni univoche; tuttavia essi furono determinanti nel prospettare un'alternativa al preformismo, che fu ‒ come sostengono gli storici delle idee ‒ un'alternativa anche rispetto alle grandi opzioni teoriche, ovvero alle 'immagini' della Natura e della scienza. In prima approssimazione, si può affermare che su un versante (quello del preformismo) si raccolsero coloro che avevano una concezione della Natura statico-fissistica, se non creazionistica, e che si adoperavano per realizzare un perfetto accordo fra le teorie scientifiche e i dogmi religiosi; mentre sull'altro (il versante dell'epigenesi) conversero coloro che avevano una concezione energetico-dinamica, se non evoluzionistica, della Natura, esponenti di un approccio materialistico che li portava a tenere nettamente distinti l'universo della ricerca da quello delle credenze: essi erano deisti, se non agnostici, o senz'altro atei.
Va tuttavia rilevato che se queste sono le coordinate generali della vicenda, essa appare, in dettaglio, molto più sfumata e frastagliata. In primo luogo, i due opposti schieramenti non possono certamente essere pensati come due monoliti: al loro interno presentavano entrambi un'ampia gamma di sfumature, che consentiva una possibilità di manovra relativamente grande. In secondo luogo, essi non possono essere considerati come prodotti (vuoi della congiuntura intellettuale, vuoi delle risultanze sperimentali) cristallizzati, giacché procedettero entrambi, col passare del tempo, a numerosi e importanti aggiustamenti locali, che si configurarono come altrettanti adattamenti reciproci frutto di reciproche concessioni. Il modo più fuorviante, tuttavia, di presentare la vicenda è un altro ancora: quello di vedervi, come pure è stato fatto, uno scontro fra scienziati (i preformisti) e filosofi (gli epigenisti). L'epoca è, sì, quella dell'inizio della professionalizzazione, in cui emergono le prime grandi figure di ricercatore a tempo pieno, ma è anche quella della permanente carenza di specializzazione, in cui era possibile ancora occuparsi di settori anche molto ampi e molto diversi e padroneggiarli tutti con sufficiente sicurezza. Il fatto che fra i suoi protagonisti vi fossero, per esempio, un sacerdote votato alla microscopia e un naturalista di formazione giuridica dovrebbe trattenere dall'uso di categorie anacronistiche.
Il rilancio della teoria epigenetica avviene nel 1745, quando Maupertuis pubblica, anonima, la Vénus physique. La sua soluzione scaturisce non tanto dalla riflessione su nuove evidenze empiriche, quanto dall'avvertita necessità di una spiegazione integralmente razionale del fenomeno della generazione, che spezzi qualsiasi legame con la tradizione della teologia naturale e degli approcci finalistici. Essa consiste: (a) in un ritorno all'antica teoria della 'doppia semenza', che ridimensiona sia il ruolo dell'uovo sia la funzione dello spermatozoo; Maupertuis sostiene infatti che "probabilmente essi non servono ad altro che a mettere in movimento i liquidi prolifici, ad avvicinare parti lontane e a facilitare l'unione di quelle che devono congiungersi" (Vénus physique, pp. 108-109); (b) in un ritorno alla tradizione atomistica consistente nel supporre che le particelle realmente protagoniste della riproduzione siano quelle che "nuotano nei semi degli animali padre e madre" (Dissertatio inauguralis methaphysica de universali naturae systemate, 1751, p. XXXIII), dove sono giunte dopo essere state prodotte "per duplicazione" dai singoli organi dei loro corpi; (c) nel teorizzare che tali particelle conservino una specie di 'memoria' dell'organo da cui sono state prodotte e che quindi siano, congiungendosi, "destinate a formare il cuore, la testa, gli intestini, le braccia, le gambe, ecc." del feto (Vénus physique, p. 105); (d) nell'utilizzare il concetto newtoniano di attrazione ("se questa forza esiste in Natura, perché non dovrebbe agire anche nella formazione del corpo degli animali?") affermando che nell'accoppiamento, quando si mescolano i "liquidi prolifici", ciascuna particella maschile si aggrega all'omologa femminile perché con essa ha "un rapporto d'unione maggiore di quello che ha con tutte le altre" (ibidem, pp. 104-105); (e) nel precisare che "non si deve credere che nei due semi ci siano unicamente le parti che devono formare un feto, o il numero di feti che deve portare la femmina: ciascuno dei due sessi ne fornisce senza dubbio molte più del necessario. Ma una volta che le parti destinate a toccarsi si sono unite, una terza che avrebbe potuto realizzare quella stessa unione non trova più il suo posto e resta inutilizzata" (ibidem, pp. 105-106); e infine (f) arrivando a concludere che "è così, mediante la ripetizione di queste operazioni, che il figlio viene formato dalle parti del padre e della madre, e spesso porta segni visibili di partecipare dell'uno e dell'altra" (ibidem, p. 106).
Il primo vantaggio di questa teoria epigenetica, che fonda il "nuovo pensiero biologico" (Roger 1963), sta nel fatto che, al contrario di qualsiasi soluzione preformistica, essa spiega "la somiglianza del figlio tanto al padre quanto alla madre". Sul secondo vantaggio Maupertuis si sofferma poi diffusamente poiché, come si è anticipato, esso consisteva nella possibilità di superare una delle più gravi difficoltà del preformismo: come possono originarsi mostri? All'impasse o alla bestemmia degli avversari (quella del Dio malvagio che li avrebbe contemplati nel piano della Creazione) Maupertuis può adesso contrapporre la seguente soluzione, laica e lineare: "se ogni parte si unisce a quelle che devono starle vicine, e solo a esse, il figlio nasce perfetto. Se qualche parte si trova troppo lontana, o ha una forma troppo poco conveniente, o è troppo debole nel rapporto d'unione per congiungersi a quelle cui dovrebbe stare unita, nasce un 'mostro per difetto'. E se accade invece che alcune parti superflue trovino anch'esse il loro posto e si uniscano alle parti la cui unione era già sufficiente, ecco un 'mostro per eccesso'". Lo studioso francese può inoltre dilungarsi su una riprova, a proposito dei mostri 'per eccesso', "così favorevole al mio sistema da sembrarne quasi una dimostrazione: il fatto che le parti superflue si trovino sempre nello stesso posto delle parti necessarie. Se un mostro ha due teste, esse sono poste esattamente sullo stesso collo […]. Ci sono parecchi casi di uomini che nascono con dita in soprannumero, ma esse si trovano sempre alla mano o al piede" per la legge d'attrazione (Vénus physique, pp. 106-107).
Ma è proprio sull'utilizzazione di questa legge, che costituisce l'elemento più originale della teoria maupertuisiana, che si concentrarono gli strali degli oppositori. Lo aveva già denunciato Vallisnieri (non v'è 'principio meccanico' che consenta la conveniente aggregazione epigenetica delle particelle), e lo riprende con grande decisione e asprezza Réaumur: l'essere fondata sull'attrazione fa della Vénus physique un'opera "di immaginazione" in cui si tenta di riproporre le "qualità occulte" della tradizione magica.
Lasciamo pure campo libero alla nostra immaginazione, anche al di là di quanto sarebbe lecito. Per rendere questi liquidi [prolifici] idonei a fornire una simile prestazione [la formazione dell'animale], supponiamo che essi contengano tutti i materiali necessari alla costruzione di quella piccola macchina animata, che sta per essere formata all'interno di una macchina più grande e dalla quale sarà diversa solo per la piccolezza. Sforziamoci di pensare, come vorrebbero alcuni, che i liquidi prolifici del maschio e della femmina siano composti di parti simili a quelle di cui sono formati tutti gli organi dell'uno e dell'altra, cioè che in questi liquidi si trovino parti simili a quelle che compongono il cuore, lo stomaco, gli intestini, il cervello, gli occhi, le orecchie, la lingua, il naso, e infine che ci siano particelle simili a quelle che compongono ogni osso, ogni muscolo, ogni vaso, ogni valvola e addirittura ogni fibra. Supponiamo, in una parola, che ogni parte della grande macchina abbia fornito di che fare in piccolo qualcosa che le assomigli; supponiamo che in una cavità carnosa, che sarà se si vuole l'ovaia, siano stati raccolti degli estratti, per così dire, di tutti i diversi organi. Non facciamo i difficili sul modo in cui questi estratti abbiano potuto esser fatti, né sul modo in cui abbiano potuto essersi conservati sani e puri entro i lunghi e tortuosi canali attraverso i quali sono stati condotti, e che sono così adatti a produrvi delle alterazioni. […] Qual è l'agente che sbroglierà questo caos? […] Tutto ha le sue mode e anche la filosofia ha le sue: quelle qualità occulte, quelle simpatie e antipatie che non si sarebbe osato nominare in fisica cinquant'anni fa, sono clamorosamente ricomparse sotto il nome di attrazione. […] Ma quale legge di attrazione si potrà mai immaginare per fare quel piccolo osso dell'orecchio chiamato staffa? (Réaumur, Art de faire éclorre, 1749, II, pp. 359-362)
Onestamente, Maupertuis dovette riconoscere che "neppure le più semplici operazioni della chimica potrebbero essere comprese con l'attrazione": ovvero che i principî meccanici "hanno sì spiegato assai felicemente certi fenomeni, ma non sono ancora in grado di spiegarne parecchi altri. Più approfondiamo la conoscenza della Natura e più ci accorgiamo che l'impenetrabilità, la motilità, l'inerzia e la stessa attrazione sono in difetto nei confronti di un numero infinito di fenomeni" (Dissertatio inauguralis methaphysica, pp. 140-141). Nel riflettere su cosa possa guidare lo sviluppo embrionale, oltre che all'attrazione "bisogna perciò ricorrere a qualche principio di intelligenza, a qualcosa di simile a ciò che chiamiamo 'desiderio, avversione, memoria'" (Système de la nature, p. XIV).
Maupertuis è consapevole della pericolosità di questo postulato (che rischiava di riproporre vecchie forme di panpsichismo e, trasformando l'attrazione newtoniana da cieca a elettiva, di finalismo), ma invita a riflettere su due circostanze: (a) le alternative a tale postulato sono sistemi (l'ovismo e l'animalculismo) alla luce dei quali la comparsa dei primi viventi è "un miracolo", e le nascite dei loro discendenti "sono altrettanti miracoli in più" (ibidem, p. XXX); (b) "tutte le insormontabili difficoltà che si incontrano negli altri sistemi in questo scompaiono: la somiglianza ai genitori, la comparsa di mostri, la produzione di meticci, tutto si spiega facilmente" (ibidem, p. XXXII). Così, nonostante che, come si è anticipato, questa rifondazione dell'epigenesi non potesse giovarsi di nuove evidenze sperimentali, per le difficoltà incontrate dalle teorie preformistiche il 'sistema' maupertuisiano poté sembrare a molti un promettente programma di ricerca. Questo ‒ vale la pena di sottolinearlo ‒ proprio grazie all'introduzione di quei fattori energetico-dinamici, che gli avversari potevano lamentare come 'qualità occulte', fu in grado di rovesciare l'immagine della Natura statico-conservativa ereditata dalla tradizione, aprendo la possibilità di pensare all'evoluzione delle specie:
non si potrebbe con ciò spiegare come da due soli individui sia potuta derivare la moltiplicazione delle specie? Esse non dovrebbero la loro origine che a qualche produzione fortuita, in cui le parti elementari non avessero mantenuto l'ordine che avevano negli animali padre e madre: ogni grado di errore avrebbe prodotto una nuova specie, e a forza di scarti ripetuti sarebbe emersa l'infinita varietà degli animali che vediamo oggi. (Maupertuis, Dissertatio inauguralis methaphysica, p. 164)
Rispetto alla soluzione maupertuisiana, l'intervento di Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) si caratterizza per il tentativo di evitare il pericoloso ricorso alla postulazione di psichismi materiali e di ricondurre la spiegazione embrionale entro i limiti dell'approccio fisico. Da una parte, infatti, il ridimensionamento del ruolo delle uova e della funzione degli spermatozoi, operato anche dall'autore della monumentale Histoire naturelle, générale et particulière (1749-1767), è analogo a quello del suo connazionale: Buffon nega non soltanto la funzione generativa ma anche la natura animale degli spermatozoi (che sarebbero semplicemente un ammasso di "molecole organiche") e si dichiara certo di aver verificato, al termine di ricerche condotte nel 1748 con la collaborazione di Needham e dell'anatomista Louis-Jean-Marie Daubenton (1716-1800), che anche il "seme delle femmine" contiene "corpi mobili provvisti di code, assolutamente simili a quelli del liquido seminale del maschio" (Buffon, Histoire générale des animaux, 1749, pp. 169, 203-204). D'altra parte, analogo a quello di Maupertuis è anche il conseguente ritorno di Buffon alla teoria della doppia semenza che, però, al contrario di quella maupertuisiana, non è fondata su alcun 'principio di intelligenza'.
Secondo Buffon, i viventi sono composti di "molecole organiche" che vengono assunte con gli alimenti, parzialmente rigettate con la traspirazione e altre funzioni, separate ‒ nella digestione ‒ dalle "parti brute" della materia e infine assimilate mediante l'azione di "forze penetranti" (delle quali "non avremo mai un'idea precisa" ma che possono essere paragonate all'attrazione, che appunto penetra i corpi); tali molecole organiche sono destinate allo sviluppo corporeo e, dal momento in cui diventano eccedenti (la pubertà), utilizzate per la riproduzione; infine, con la morte, sono restituite alla Natura. Così come aveva già ipotizzato Maupertuis, Buffon sostiene che le molecole organiche, convenientemente modellate dallo "stampo interno" delle singole parti del corpo (che fa sì che ciascuna molecola diventi "simile alla forma e identica alla materia dello stampo"), e quindi convogliate negli organi genitali, costituiscono "una specie di estratto" dell'animale (perché "tutte le parti del corpo rimandano parti organiche simili a quelle di cui sono esse stesse composte"), che così lascia la propria 'impronta' sulla discendenza. Ma al contrario dell'autore della Vénus physique, Buffon afferma che quando i "liquidi seminali" maschile e femminile si uniscono, le "molecole organiche" si aggregano, formando l'embrione (di sesso maschile "se nella miscela son venute a trovarsi più molecole organiche del maschio", di sesso femminile nel caso opposto), unicamente in virtù della loro somiglianza morfologica, per una sorta di attrazione che pare analoga a quella che determina le affinità chimiche (Histoire générale des animaux, pp. 31-34, 41-58).
Pur avendo, come si è ricordato, collaborato con Buffon, al quale aveva prestato l'"eccellente microscopio" protagonista delle loro ricerche sulla generazione, Needham giunge a conclusioni molto diverse da quelle del naturalista francese. Il suo approccio epigenetico muove dallo stesso ridimensionamento delle funzioni degli spermatozoi e risulta essere il medesimo: "chi sostiene che i primi lineamenti del corpo organizzato si trovavano già nel primo istante della sua vita sostiene che tutto il corpo già esisteva in miniatura" e "quest'ipotesi è non solo inutile ma completamente errata" perché l'osservazione testimonia al contrario che "tutto il corpo concorre alla formazione del feto" e che "le parti di questo procedono le une dalle altre e vengono formate successivamente". Ma la sua teoria della generazione è condizionata, e anzi per molti versi discende, dalle conclusioni precedentemente raggiunte nelle ricerche sugli infusori: l'epigenesi consegue non a fenomeni di attrazione fra particelle similari (la negazione della teoria buffoniana è esplicita e diretta: "non avviene all'inizio con uno sviluppo e una separazione di parti, e poi con una combinazione delle più analoghe in una nuova forma"), bensì ‒ tanto nei microrganismi quanto nelle forme più complesse ‒ all'"esaltazione" di particelle animate da una "forza vegetativa" tanto energica da far loro assumere qualsiasi forma e svolgere qualsiasi funzione. "Niente sta in quiete, nemmeno per un istante, e una particella ‒ argomenta Needham ironicamente ‒ non può aspettare che se ne presenti un'altra analoga". Anzi ‒ egli teorizza cercando di demolire la costruzione teorica di Maupertuis e Buffon ‒ lo stesso pensare che esistano particelle 'analoghe', che si attrarrebbero per esempio grazie alla somiglianza dell''impronta' ricevuta dallo 'stampo interno' (Buffon), è non solo "contrario all'osservazione" ma rischia di trasformare la teoria dell'epigenesi in una versione semplicemente più sofisticata di quella preformistica (più sofisticata semplicemente perché spostata sul piano molecolare, piuttosto che condotta al livello grossolanamente macroscopico). La realtà dev'essere dunque che "ogni particella ha una disposizione costante ad assumere una nuova configurazione" e poiché "tutte le particelle sono suscettibili di qualsiasi grado di esaltazione […] necessario per essere modellate in qualche parte di un corpo organizzato", bisogna assumere che "la Natura combina queste particelle via via che le distacca" (Needham, Nouvelles observations microscopiques, pp. 308-310, 425-428).
Se fu apprezzabile, per un verso, il richiamo needhamiano a non operare, dall'interno della prospettiva epigenetica, in modo da riabilitare il preformismo (che si era rivelato assolutamente impotente di fronte ai fenomeni di rigenerazione delle parti amputate, o al proposito aveva avanzato discutibilissime ipotesi interpretative come le uova di zampa di Réaumur e Bonnet), esso non fu certo soddisfacente, perché assai nebulosa era la sua controproposta di spiegazione di quei fenomeni. Il microscopista inglese si limitò infatti a sostenere che tutti i casi di rigenerazione erano fenomeni di 'vegetazione' dovuti alla forza vitale ed espansiva della materia. Ciò, unitamente ai dubbi che sarebbero stati presto avanzati sui suoi esperimenti sulle infusioni, fu all'origine del rilancio, nella seconda metà del XVIII sec., di rinnovate soluzioni preformistiche.
Ben più convincente invece, pur se anch'essa sviluppata per via esclusivamente teorica, fu la risposta fornita da Buffon sul prolungamento di ipotesi maupertuisiane. Il 'polipo' di Trembley è, argomentò il naturalista francese, un insieme di molecole organiche ciascuna delle quali (al limite) potrebbe ricostruire attorno a sé un nuovo 'polipo' semplicemente assimilando altre molecole organiche, diffuse nell'ambiente, che necessariamente andrebbero ad assemblarsi in conformità con l'ordine naturale: (a) perché l'iniziale molecola organica fungerebbe da 'stampo interno' del 'polipo'; (b) perché le altre vi si apporrebbero, integrandola, rispettando il loro diverso grado di affinità. Sullo sfondo di questa soluzione v'è, come avviene in Maupertuis, la ferma convinzione del carattere dinamico della Natura, che non casualmente porta anche Buffon a concepire una teoria evoluzionistica ‒ pur se limitata a una porzione della Natura vivente ‒ corredata di precise ipotesi circa le cause e i meccanismi della 'trasformazione' delle specie.
Se, tuttavia, in Francia la teoria epigenetica si sviluppa lungo l'asse (Newton-)Maupertuis-Buffon, in Germania ciò avviene riprendendo le idee di (Leibniz-)Needham, caratterizzate dal postulato dell'esistenza di specifiche forze vitali piuttosto che fisico-chimiche. A esse Caspar Friedrich Wolff (1733-1794) giunge non nell'intento di formulare una teoria complessiva della generazione, al cui proposito si limita a ripetere formule quali "la formazione avviene per successiva aggiunta di materia o per concorso di particelle" (Theoria generationis, 1759, p. 108), né muovendo per linee esclusivamente teoriche, ma attenendosi ai dati dell'indagine microscopica sulla fisiologia embrionale ‒ tanto animale quanto vegetale (egli è considerato il fondatore dell'embriologia descrittiva).
Questi dati gli rivelano che la materia è inizialmente indifferenziata, ciò che esclude la possibilità di qualsiasi interpretazione preformistica; ma gli rivelano anche (nel corso di ricerche su uova incubate) che vi avvengono fenomeni di assorbimento, di accumulazione e di distribuzione di fluidi ancor prima della formazione dell'apparato circolatorio, ciò che esclude anche la possibilità di qualsiasi interpretazione epigenetica di tipo meccanico. Egli si trova perciò sollecitato, e in qualche modo costretto, a postulare l'esistenza di un principio vitale che opera antecedentemente alla comparsa di qualsiasi funzione vitale e che governa l'intero sviluppo embrionale associandosi poi ad altre forze di tipo fisico-chimico, deputate alla formazione di organi e tessuti. Tale principio vitale, di cui Wolff sottolinea energicamente la caratteristica di non essere "meramente attrattivo", viene chiamato vis essentialis (ibidem, pp. 12-13) e caratterizza l'innesto del modello epigenetico sulla tradizione vitalistica: un innesto che si rivelerà fruttuoso e capace di aprire nuovi orizzonti di ricerca, pur nella competizione con il rifondato modello preformistico, e pur in una competizione che ancora per qualche tempo si svolgerà più sul piano del confronto teorico che su quello delle evidenze empiriche (peraltro variamente interpretabili).