L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Il preformismo rivisitato e i suoi esiti vitalisti
Il preformismo rivisitato e i suoi esiti vitalisti
Per le sorti del preformismo, che nella seconda metà del XVIII sec. visse i suoi ultimi guizzi di vitalità, furono decisivi due sodalizi scientifici, nei quali il termine 'mediano', rappresentato dal naturalista ginevrino Charles Bonnet (1720-1793), svolse un ruolo umanamente e intellettualmente unico nella relazione fra due estremi: il fisiologo bernese Albrecht von Haller (1708-1777) e il naturalista italiano Lazzaro Spallanzani (1729-1799).
Il carteggio fra Haller e Bonnet iniziò nel 1754 e proseguì con oltre novecento lettere che, inviate con regolarità e frequenza, affiancarono e orientarono l'itinerario intellettuale del fisiologo. Benché entrambi fossero già al centro di reti epistolari di grande valore scientifico, essi riconobbero esplicitamente il carattere di eccezionalità che questo scambio rivestì. Le lettere da Ginevra, abilissime nel toccare le corde giuste della sensibilità halleriana, praticarono una strategia d'interferenza sistematica nella libertà di ricerca dell'amico, strategia che configurò la relazione nei termini di uno squilibrio assolutamente peculiare. Ciò che normalmente si produce con successo variabile, ma in ogni caso pur sempre all'interno del programma di un solo scienziato, fu infatti qui come dissociato fra i due amici. Haller si fece carico dell'indagine e della prova; Bonnet immaginò la retorica più conveniente alla comunicazione persuasiva del sistema scientifico. Il fisiologo non si pose mai il problema di convincere l'altro e, in generale, ne tollerò a fatica le strategie; l'amico lo spinse per contro a un tipo di coerenza teorica che risultò a Haller spesso estranea. La curiosa ripartizione dei compiti sembrò corrispondere dunque a una divisione di ruoli fra colui che proponeva i dati osservativi (Haller) e colui che si ergeva a coscienza critica ed esercitava il controllo ideologico (Bonnet).
Le suggestioni del ginevrino svolsero un ruolo positivo di stimolo e sostegno all'innovazione e in genere non rappresentarono un problema, sin tanto che l'interazione non fu vera interferenza, cioè non pretese di violare il modello fisico-teologico della scienza di Haller. Per sé, Bonnet in genere concepì e sfruttò al meglio una posizione apparentemente subalterna, che soltanto talvolta tradì impazienza per gli infiniti scrupoli sperimentali di Haller. Egli non riuscì, per lo più, ad accelerare i tempi della ricerca halleriana o a deformarne i risultati, ma, al contrario, fu in grado di orientare gli itinerari che li predisposero e li resero possibili.
Nel rapporto con il bernese, Bonnet realizzò qualcosa di assolutamente diverso dalla perfetta simbiosi, spirituale e scientifica, instaurata invece con Spallanzani, che fu ben lungi dall'impegnare altrettanto le sue abilità retoriche, o dal mettere parimenti alla prova la sua tecnica persuasiva. Spallanzani, innanzitutto, apparteneva alla generazione che guardava a Haller e a Bonnet con la deferenza dovuta ai maestri. Egli seppe però sfruttare con rara abilità il patronato del nuovo amico autorevole e con esso sostituì senza rimpianti le guide, scientificamente ben più deboli, che ne avevano sostenuto gli iniziali interessi naturalistici. Dopo la pubblicazione del suo primo contributo di rilievo (Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione de' signori di Needham e Buffon, 1765), è infatti molto probabile che, senza il sostegno di Bonnet, Spallanzani avrebbe orientato in modo diverso la propria ricerca e in particolare il piano di studi sulla generazione 'naturale' e 'artificiale'. Già l'impegno della corrispondenza costrinse Spallanzani a una prima forma di comunicazione ordinata delle idee abbozzate caoticamente nei suoi giornali di laboratorio. Le lunghe risposte da Ginevra guidarono a distanza il suo programma di ricerca, perché Bonnet non si limitò a discutere i risultati, ma suggerì nuove strade da esplorare, indicò la realizzazione di esperienze, propose tecniche, avanzò ipotesi di lavoro e ne affidò la verifica agli occhi del corrispondente. Spallanzani accolse in genere i suggerimenti di Bonnet pur mantenendo indipendenza di giudizio, perché la simbiosi intellettuale realizzata fu tale che nei momenti decisivi la sua creatività sperimentale giunse persino ad anticipare in modo del tutto autonomo e originale i progetti dello scienziato ginevrino.
Di dodici anni più giovane di Haller, nel 1754 Bonnet aveva già maturato fama di abile sperimentatore e valido microscopista, conosciuto soprattutto per le osservazioni sulla partenogenesi degli afidi e la rigenerazione di taluni 'vermi'. Il suo Traité d'insectologie, ou Observations sur les pucerons (1745) raccolse infatti i risultati di interessi naturalistici assai precoci, incoraggiati dalla guida di René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), idealmente associabili a quelli del cugino Abraham Trembley (1710-1784) e in larga misura convergenti con le famose esperienze di quest'ultimo sulla rigenerazione dell'idra d'acqua dolce. La scoperta degli 'insetti' moltiplicati dal bisturi dello sperimentatore riconosceva alla materia vivente un potere intrinseco di produzione e gestione della vita, presumibilmente estendibile alla generazione di ogni animale per formazione successiva degli organi senza germi miniaturizzati. E, sull'onda del comportamento bizzarro studiato da Trembley nell'idrozoo, si contò più di una conversione illustre all'epigenesi. Alla tentazione epigenetica resistettero, tuttavia, proprio i soggetti attivi della sperimentazione e, dopo aver analizzato analoghe capacità rigenerative in taluni Anellidi, Bonnet concluse che nulla era "più idoneo a confermare" la teoria della preesistenza dei germi "e a metterla in evidenza" (Traité d'insectologie, p. XXVIII). Ogni punto della materia vivente aveva infatti a suo giudizio di che costituire un individuo completo non per produzione reale, ma per semplice dispiegamento di germi invisibili e secondo leggi precise. La rigenerazione era dunque letta quale massima estremizzazione della preesistenza; tutte le parti (e non più soltanto gli organi preposti alla generazione) contenevano cioè infiniti germi/miniature che riproducevano la replica esatta di sé medesimi.
Nelle mani dello sperimentatore, che creava nuove entità per sezione e ricostruiva l'individuo originario per innesto, i vermi di Bonnet non soltanto sembravano sottrarsi alle leggi del meccanicismo classico, ma soprattutto complicavano incredibilmente qualunque teoria sull'integrità dell'individuo biologico come totalità funzionale. Essi costringevano a riconsiderare il problema dell'anima animale e del suo eventuale alloggiamento (che dire della coda del verme che pur rigenerava un organismo perfetto?), distruggevano l'idea cartesiana dell'animale macchina, ma parevano indicare la superfluità dell'anima tradizionale. L'intervento molteplice dello sperimentatore sfumava oltre ogni tollerabilità i confini fra l'individuo mutilato e la parte separata, che non soltanto conservava segni vitali (irritabilità, sensibilità, ecc.), ma si sviluppava essa stessa in una nuova totalità organica. La sfida consisteva, dunque, nello stabilire una gerarchia di parti e di funzioni che, soppresse o mantenute, consentissero di venire a capo delle leggi fondamentali della vita e della morte.
L'intento fu quello di delineare una definizione dell'organismo vivente andando al limite dei processi vitali elementari che assicuravano la coesione dell'insieme. Preoccupò particolarmente Bonnet il caso della tenia, dove osservazione ed esperienza non davano risposte certe circa la definizione dell'organismo in quanto unico e individuo, oppure come serie/catena di totalità intimamente solidali.
L'ossessione della copia identica, sola prova del germe preformato, e l'orrore per ogni "generazione autentica" erano ancora impercepibili nella minuzia sperimentale dell'Insectologie e nell'abbondanza dei dati positivi ivi proposti; essi diverranno filo conduttore e tratto distintivo nella produzione successiva e meramente teoretica. Dal 1748 al 1753, infatti, Bonnet lavorò intensamente all'elaborazione del nucleo fondamentale della sua teoria della generazione. Il manoscritto, giunto a oltre 900 pagine, di Méditations sur l'univers, fu riesumato sull'onda dei successi del neopreformismo halleriano e nel 1758 sottoposto alla lettura di Haller che ne incoraggiò la pubblicazione. Quelle carte ‒ "i miei sogni sulla generazione" ‒ costituirono l'ossatura dei due principali contributi di Bonnet sul tema (Considérations sur les corps organisés, 1762; e Contemplation de la nature, 1764) e il prodromo ideale della teoria globale di conservazione e circolazione del vivente presentata infine nella Palingénésie philosophique (1769).
Generazione e rigenerazione erano considerate come afferenti a un mero ordine di comparsa, di manifestazione e non di produzione reale della vita nel tempo. Il ricorso a germi preesistenti preformati rispondeva all'impossibilità dichiarata di spiegare meccanicisticamente l'epigenesi di qualunque corpo organizzato, cioè di pensare la genesi come un processo in cui si desse una successione temporale. La conclusione estrema fu che nessun germe si perde, tutti si conservano e si sviluppano nel prosieguo delle generazioni, sopravvivono alla morte del corpo che li ospita e passano altrove. La generazione fu dunque considerata epifenomeno afferente al visibile, che aveva ingannato gli epigenisti, ma non "gli occhi" della "sana filosofia". Al modello di visibilità, con il quale l'osservatore esplorava i fenomeni, Bonnet delegò sempre di più la decifrazione della dinamica per cui le strutture organiche emergevano oltre la soglia della percettibilità. La prospettiva vincente, la 'visibilità debole', dissociò apparenza fenomenica e vero oggetto della scienza, quindi percezione sensibile (visibilità) ed esistenza. L'invisibilità non pregiudicava dunque la preesistenza delle strutture, che non si formavano ma si davano simultaneamente compiute in ogni loro parte. Lo strumento teorico si rivelò, quindi, un microscopio molto più potente di quello di cui avevano disposto fino ad allora gli scienziati.
Poiché l'essere vivente, da che esiste, funziona come totalità inscindibile di tutti i suoi organi, ammetterne la costituzione successiva significava accettare effetti senza causa, cioè funzioni fisiologiche che si esplicavano per l'intervento di forze misteriose, in assenza della perfezione della struttura anatomica che sola doveva invece darne conto. Bonnet restava dunque ben fermo al primato meccanicistico della struttura sul dinamismo, sancito come irrinunciabile priorità logica e ontologica, considerato il carattere inintelligente e non creativo delle forze corporee.
I germi responsabili delle rigenerazioni incarnavano la regolarità previdente di Dio che trasformava il disordine apparente della riproduzione, segno chiaro della neoformazione epigenetica, a riprova dell'ordine e della perfezione di un Universo creato. Potenzialità latenti o germi disseminati nel corpo, o entrambi, attendevano infatti soltanto l'instaurarsi della circostanza favorevole (la lacerazione naturale o artificiale) per esplicare un nuovo tutto, oppure per riprodurre la replica esatta dell'organo perduto. Dio aveva dunque creato i germi, mentre le cause naturali inducevano e operavano lo sviluppo. Il numero dei principes de réparation sarebbe stato addirittura globalmente calcolato in funzione dei rivolgimenti subiti e previsti per i pianeti. L'analogia fra il germe e l'adulto fu di fatto limitata al solo fond préexistant d'organisation: la differenza poteva dunque risultare estrema e, ciò non di meno, perfettamente colmata dall'évolution del germe stesso. "Suppongo [...] un fondamento primordiale, nel quale s'incorporano o si radicano gli atomi nutritivi, fondamento che di per sé stesso determina l'ordine secondo il quale questi atomi si radicano e la specie di atomi che devono radicarsi. Presuppongo ovunque che questo fondamento primordiale preesista nel germe" (Contemplation de la nature, p. 295).
Bonnet passò dunque da una nozione alquanto figurativa della preesistenza ovista alla preordinazione delle sole caratteristiche essenziali della specie. Né, nel percorso dalle Considérations alla Palingénésie, egli scelse davvero fra emboîtement e dissémination dei germi. Si limitò a inclinare per il primo, che era richiesto dalla palingenesi quale logica necessità, e aveva dalla sua parte l'autorità di Malebranche, la lettura interessata delle esperienze di rigenerazione e persino l'analogia tra preformazione e metamorfosi degli insetti. Egli sembrò, insomma, consacrarsi ufficialmente all'incapsulamento soltanto con un tardo Mémoire sur les germes (1773). Tormentato, al di là dell'apparenza apodittica delle opere a stampa, dalle difficoltà classiche della preesistenza ovista (la somiglianza della prole a entrambi i genitori, il ruolo del maschio nella generazione, gli strani casi di ibridi e incroci), Bonnet propose germi che portavano "l'impronta originaria della specie, e non quella dell'individualità" (Considérations sur les corps organisés, p. 462), ma soprattutto pensò di coinvolgere l'amico Haller nella risoluzione dei suoi dubbi.
"I vostri Poulets mi entusiasmano: non avevo osato sperare che il segreto della Generazione sarebbe stato scoperto così presto. È certo grazie a voi, Signore, che la Natura è stata colta sul fatto. Avevo osato saggiarla una decina d'anni fa, e sono stato assai piacevolmente sorpreso, quando ho visto le vostre esperienze accordarsi così bene con le mie congetture, e la vostra ipotesi con la mia" (Bonnet a Haller, 30 ottobre 1757, Haller, The correspondence, pp. 147-149). Con queste parole Bonnet salutò l'ingresso di Haller nella comunità dell'ortodossia preformista e, con lusinga palese, sottolineò il pieno disvelamento dei misteri della generazione che si arrendevano ai lumi della scienza. In verità, egli celebrava con vivo compiacimento ciò che gli appariva una resa non meno importante. L'amico illustre cedeva infatti alla strategia di Bonnet, che ne aveva vinto incertezze e neutralità programmatiche.
È difficile dire quanto, all'inizio del carteggio, Bonnet sapesse degli infiniti dubbi che nell'ultimo decennio avevano afflitto Haller sul soggetto della generazione. Educato al preformismo animalculista da Herman Boerhaave, nel commento alle Institutiones medicae del maestro (1744) Haller aveva annunciato l'abbandono della preformazione vermista e proclamato il nuovo favore per l'epigenesi. Proprio le esperienze di Trembley sulle rigenerazioni lo avevano convinto circa il declino prossimo della preesistenza e l'avvento possibile di un'epigenesi scientificamente fondata. Per Haller, che attendeva soltanto una teoria epigenetica sostenibile, la disillusione arrivò invece su due fronti e lo costrinse a sospendere il giudizio su entrambi i sistemi in causa. La fase di neutralità fu predisposta dalle ricerche sull'irritabilità (1746-1752), che segnarono la fine di ogni illusione circa le potenzialità creatrici delle forze corporee. Essa fu però ufficialmente aperta nel 1749, in seguito a una proposta di epigenesi che aveva dapprima acceso al massimo le speranze di Haller per il nome e la fama di chi l'annunciava, e che gli si rivelò invece più ingannevole di ogni altra. Estremo fu infatti il suo disappunto per l'insufficienza teorica e il dilettantismo scientifico scoperti nelle pagine sulla generazione dell'Histoire naturelle, générale et particulière di Buffon e messi impietosamente a nudo nel commento elaborato per la traduzione tedesca (Réflexions sur le système de la génération de M. de Buffon traduites d'une préface allemande […] qui doit être mise à la tête du second volume de la traduction allemande de l'ouvrage de M. de Buffon, 1751). La delusione aprì le porte allo scetticismo sui sistemi embriologici invalsi, di fronte ai quali l'unico atteggiamento che coerentemente Haller ritenne di assumere fu dunque la neutralità programmatica.
Non c'è prova che la lettura di Buffon abbia giocato un ruolo fondamentale nel riorientare le sue scelte verso il preformismo; la delusione fu comunque decisiva perché Haller passasse dalla lettura alla verifica personale: "Le mie obiezioni ricadono su me stesso e mi privano di un tesoro offertomi da Buffon, rinviandomi alla dura necessità della ricerca personale" (Réflexions sur le système de la génération de M. de Buffon, p. 51). Così, senza programma preciso e sistema preconcetto, iniziò tentando dapprima la strada (frustrante) della dissezione dei quadrupedi gravidi e individuando infine le condizioni osservative senza dubbio più promettenti negli ovipari domestici.
Bonnet tentò subito di costringere Haller a un'esplicita scelta di campo fra i due sistemi embriologici. Il fisiologo, palesemente infastidito, alla fine rispose in termini inequivocabili: "non ho alcun sistema della generazione. Benché non sia prevenuto nei confronti dell'evoluzione, vedo vieppiù una materia semplice e viscosa che si costruisce e si plasma poco a poco" (Haller, The correspondence, p. 53). Bonnet naturalmente non desistette e, giocando sulla totale apertura che Haller veniva manifestando con qualche rudezza, diede per scontato che l'amico fosse nel frattempo approdato alle spiagge sicure della preesistenza. Aggirò il tema embriologico e finse ingenuo stupore per un capitolo della fisiologia halleriana che proponeva una spiegazione meramente meccanica per la cicatrizzazione dei vasi sanguigni. Non era possibile ‒ insinuava Bonnet ‒ che Haller fosse a tal punto prevenuto contro l'esprit de système da dimenticare che il preformismo era l'unica ipotesi compatibile con la buona filosofia. La propensione epigenetica della teoria delle cicatrizzazioni era insomma certamente un lapsus. Haller cercò di troncare le sottili illazioni di Bonnet, ma riformò infine la propria tesi e, per di più, la correzione avvenne in coincidenza cronologica sospetta con l'approdo a una nuova lettura del rapporto fra 'essere' e 'apparire', se non alla piena accettazione del modello di visibilità sostenuto dal corrispondente.
Assai interessante per addentrarsi nella strategia di Bonnet, è ripercorrere la discussione sulla formazione delle ossa che, vivacissima sin dai primi mesi del carteggio, seguì regolarmente il lavoro che Haller decise d'intraprendere sulle uova incubate di pollo. Bonnet iniziò citando assai positivamente la tesi dell'amico Henri-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782) sulla genesi periostale dell'osso, l'unica ‒ a suo avviso ‒ coerente con la preesistenza. Haller rispose con una condanna senza appello. Egli avviò le osservazioni sulla genesi delle ossa pochi giorni dopo aver iniziato le indagini sulle uova, usando lo stesso materiale sperimentale e annotando gli appunti osteogenetici sul giornale di laboratorio che compilò minuziosamente in tre estati d'intenso lavoro (1755-1757). Per mesi tacque a Bonnet ciò che andava scrivendo e che avrebbe fatto di certo inorridire l'amico, relativamente poco interessato che Haller decidesse infine la disputa fra osteogenesi periostale ed encondrale, ma estremamente preoccupato che l'autorità del fisiologo si schierasse contro la tesi ideologicamente conveniente. Secondo Haller le ossa del pulcino erano il risultato di un processo di concrezione a partire da materia informe e trasparente, ove nulla avrebbe lasciato prevedere la futura natura ossea. Le stesse strutture vascolari (cioè gli elementi per eccellenza del canovaccio preesistente) parevano prodursi ex novo. Bonnet, ovviamente, non poteva capacitarsi. Dopo i mesi che Haller aveva passato in laboratorio, dopo aver corretto gli errori del passato, colmato persino le lacune di Marcello Malpighi (1628-1694) e infine ricondotto anche la genesi del cuore "alla legge generale dello sviluppo", l'ingenuità dell'amico gli sembrava incredibile. Con un suggerimento, in apparenza innocente, egli propose una via d'uscita teoricamente accettabile: il glutine osservato da Haller "è senza dubbio esso stesso organizzato; esso è un osso membranoso o piuttosto gelatinoso" (ibidem, p. 90). Haller intese subito la portata teorica e l'interesse di quelle parole; temette però che esse offrissero un alibi per sottrarre lo scienziato alla responsabilità di decidere dei reperti embriologici e relegare l'osservazione a un ruolo secondario, dunque rispose: "Nel pulcino chiamo glutine, ciò che ne ha perfettamente le sembianze e le proprietà [...]. Non discuto della sua struttura interiore, non stabilisco che ciò che vedo, e lo seguo passo passo fino allo stato d'un osso perfetto" (ibidem, pp. 92-93).
Haller comunicò per la prima volta ufficialmente il nuovo favore accordato al preformismo nel luglio 1757, ma la conversione non coinvolse la tesi osteogenetica sino ad allora sostenuta. I Deux mémoires sur la formation des os, manifesto dell'osteogenia halleriana, uscirono nella primavera del 1758 e rivelarono un profondo cambiamento: l'ossificazione vi era presentata non soltanto come punto qualificante del programma globale di ricerca embriologica, ma soprattutto quale ulteriore nuova prova della preformazione. Haller dichiarava la propria svolta radicale quanto al sistema della generazione, ma manteneva tutto il disaccordo rispetto alla sola teoria osteogenetica comunemente giudicata compatibile con il preformismo, cioè, appunto, quella di Duhamel. L'operazione era assai ardita: secondo il fisiologo di Berna, proprio l'origine encondrale dell'osso era l'unica in grado di escludere la sua generazione ex novo. Il periostio mostrava in effetti una natura assolutamente diversa dall'osso; esso ‒ continuava Haller ‒ si formava anzi per ultimo, decisamente dopo la costituzione dei nuclei ossei nella cartilagine. Quindi, se l'esperienza avesse mostrato che l'organogenesi si produce a partire da una base strutturale così eterogenea, proprio allora si sarebbe dovuto ammettere una neoformazione per colmare lo scarto. Una tale conclusione avrebbe avuto effetti esplosivi sulla coerenza di tutto il sistema.
Haller aveva rifiutato di far violenza alle osservazioni, ma si era nel frattempo appropriato del dispositivo teorico già suggerito da Bonnet: la dissociazione fra esistenza e visibilità, che qualche mese prima aveva provocato indignazione e rifiuto, permetteva ora di restare fedeli ai fenomeni pur leggendoli nei quadri teorici rassicuranti del preformismo. Nel glutine, dall'apparenza informe, preesisteva il programma e la struttura dell'osso perfetto. I vasi afferenti, conduttori della materia nutritiva e responsabili dell'ossificazione, non si formavano ex novo: non erano mai quel che apparivano.
Per quanto riguarda le osservazioni sulle uova incubate, lo studio monografico sulla generazione nacque da oltre trecento protocolli meticolosamente annotati (1755-1757), fu esposto in una redazione latina inedita (1757-1758) alla Societas Scientiarum Gottingensis, dato alle stampe in francese (Sur la formation du coeur dans le poulet, sur l'oeil; sur la structure du jaune etc. premier[-second] mémoire, 1758), rielaborato in latino sulla base di una seconda serie di quasi altrettante osservazioni (1763-1765) e così da ultimo pubblicato (Commentarius de formatione cordis in ovo incubato primus[-secundus], 1767). La limpidezza narrativa e il vigore teorico delle pagine dedicate all'embriogenesi del pulcino assumevano al meglio il compito non facile di rappresentare l'unico episodio che si possa senz'altro definire di rottura drammatica nella costruzione del programma scientifico halleriano. Come era avvenuto in precedenza per la teoria dell'irritabilità, la fisionomia conclusiva del sistema si mostrava nell'intreccio di coerenza teorica e affinamento della tecnica sperimentale. Adesso, però, a ciò si aggiungeva la rara opportunità di seguire il ribaltamento delle posizioni di partenza documentando l'influenza eventuale di preoccupazioni extrascientifiche.
Il confronto fra gli appunti personali e gli scritti pubblici mostra con chiarezza che, nel momento più intenso e fecondo dell'attività sperimentale, furono i risultati delle osservazioni a guidare la costruzione della teoria. O meglio: l'affinamento della tecnica sperimentale e il progetto delle osservazioni furono causa ed effetto della coerenza teorica del sistema, che tanto ne conseguì quanto li richiese. Il quadro fisico-teologico della scienza di Haller suggerisce comunque prudenza di fronte a ogni congettura sul rapporto fra ricerca positiva e pregiudizio ideologico, ben vivo, ma altrettanto ben controllato dall'autore. Per Haller la scienza rivelava infatti il piano divino del mondo e unicamente l'onestà sperimentale estrema era garanzia di vera e massima celebrazione. Solamente esperienze mal concepite e mal condotte potevano incoraggiare l'empietà ateistica, che pertanto andava respinta esaltando la libertà e la creatività del ricercatore, mai ricorrendo a censure o divieti. Non il ricatto ideologico, ma la disponibilità piena ai risultati di laboratorio decideva dunque fra epigenesi e preformazione.
Nella primavera del 1758 furono pubblicati i due tomi Sur la formation du coeur dans le poulet, sur l'oeil; sur la structure du jaune etc. Le pagine dedicate alla genesi del cuore e delle strutture oculari presentarono esiti di straordinaria raffinatezza anatomica, ma fu soprattutto il capitolo sulle complesse vicende degli annessi ad andare largamente oltre i livelli più alti di comprensione dei contemporanei e, al tempo stesso, ad argomentare con rara eleganza e ardire sillogistico una nuova prova della preesistenza ovista. Sur la formation du coeur superò i massimi risultati sino ad allora conseguiti nello studio dell'embriogenesi del cuore per opera di Malpighi. Haller corresse l'identificazione del ventricolo primitivo nel destro e di quello che in realtà è il bulbus aortae nel sinistro. Rilevò e denominò la costrizione che esiste fra l'unico ventricolo originario e il bulbus, e soprattutto indagò l'innesto dei vasi polmonari e individuò tre archi aortici, probabilmente diversi in fasi differenti di incubazione. Il rilievo globale di queste osservazioni nasceva dal loro legarsi alla questione lasciata irrisolta da Malpighi e che Haller assumeva come proprio impegno specifico, vale a dire l'innesto della piccola circolazione.
Haller discusse lungamente dubbi e perplessità e, almeno sino ai primi mesi del 1757, combatté per l'identificazione delle bullae cardiache e dei fila rubra che si dipartivano dal bulbo dell'aorta. La comparsa e l'evoluzione del ventricolo destro e l'individuazione dell'intervallo fra parte venosa e parte arteriosa del cuore avviarono Haller alla risoluzione dei suoi problemi; le osservazioni infatti incalzarono la svolta preformista. Gli errori di Malpighi apparvero via via più insidiosi: egli aveva sbagliato perché non aveva saputo (e, nella sua scorretta raffigurazione, non aveva potuto) dar conto dell'innesto del circuito polmonare sulla struttura cardiaca primordiale, oppure ‒ ed era ormai l'ipotesi per Haller più inquietante ‒ perché ne aveva ammesso di fatto la produzione epigenetica. Conquistata la certezza del sistema, anche Haller prese a pronunciarsi sui meccanismi dell'organogenesi prima che le strutture avessero superato la soglia della visibilità; e Bonnet ne venne informato soltanto quando fu possibile proporgli quello che egli si attendeva, cioè la teoria compatta e omogenea.
Il fisiologo promise l'edizione imminente dell'opera embriologica e informò di aver posto la parola fine alle proprie osservazioni. Una delle lettere più note dell'epistolario halleriano datata 1° luglio 1757 annunciò al medico italiano Ignazio Somis (1718-1793) la fine del testo embriologico, la prossima traduzione francese, la risoluzione di ogni enigma sull'embriogenesi cardiaca e infine il nuovo favore accordato al système de l'évolution (Hintzsche 1965). Forse Haller pose davvero mano alla redazione della memoria sulla generazione in quel momento, cioè prima di avere a disposizione proprio le osservazioni che Sur la formation du coeur avrebbe presentato come decisive per la svolta preformista. Nello stesso giorno della lettera a Somis, però, egli annunciò anche all'amico Leopoldo Marc'Antonio Caldani il progetto di spostare l'indagine sulla struttura vascolare del tuorlo dell'uovo che, già indicata quale dettaglio inessenziale, lo avrebbe impegnato sino alla fine, trasfigurandosi in pilastro del neopreformismo.
Nei protocolli delle osservazioni effettuate nel 1755 la figura venosa, cioè il reticolo di vasi extraembrionali che assicurano il nutrimento all'embrione, fu vista come diffusa sulla membrana del tuorlo, ma i suoi vasi furono definiti genericamente 'ombelicali'. A stadi di sviluppo avanzati, Haller rilevò anche un ulteriore sistema vascolare e lo riferì a una generica membrana ombelicale distinta. Nel prosieguo delle osservazioni la sola idea ferma restò quella di due diversi sistemi di vasi e avvenne un sorprendente ribaltamento della collocazione della figura. La sua rete e la membrana sulla quale essa si dispiegava furono dette senz'altro ombelicali, assolutamente una cosa diversa dal sacco e dal sistema vascolare vitellino. Nei primi momenti dell'incubazione Haller osservò dunque l'abbozzo della vera figura nel suo vero luogo, ma la riferì all'organo sbagliato, cioè alla membrana ombelicale; col passare del tempo considerò per figura venosa la rete che non lo era, ma che risultava effettivamente delineata sull'ombelicale, e infine descrisse la membrana vitellina e quella ombelicale coi rispettivi sistemi di vasi senza però intendere come ciò che si disegnava sul vitello fosse l'estremo sviluppo della figura e come con questa non avesse mai avuto nulla a che fare la rete ombelicale (allantoidea), da ultimo enormemente diffusa.
Che Haller nutrisse dei dubbi sui sistemi vascolari degli annessi è attestato dal fatto che egli vi ritornò a più riprese, ma, ancora agli inizi dell'estate 1757, nel giornale di laboratorio non manifestò vero interesse per la preesistenza o meno di quei vasi. Esso sorse quando, generalizzando specificità che erano invece legate all'avanzato stadio di sviluppo, Haller iniziò a verificare e sistematizzare un fatto al quale aveva sin lì attribuito scarso significato: la continuità fra sacco dei visceri del pulcino e sacco del tuorlo, fra membrana vitellina e cute dell'essere futuro. Nell'ultima settimana d'incubazione, in effetti, si presentava un'oggettiva somiglianza fra le pareti intestinali e il sacco vitellino. Nel giornale di laboratorio, però, non c'è traccia dell'esperienza che, variata e ripetuta com'era nei canoni dalla scienza halleriana, da tale continuità di membrane fornisse la prova di quello che il fisiologo arditamente ne ricavò, cioè della preesistenza ovista. La membrana del tuorlo, preesistente nell'ovario alla fecondazione, costituiva ‒ argomentò Haller ‒ con la sua lamina interna un prolungamento di quella che avrebbe poi rivestito l'intestino tenue del feto e ricoperto lo stomaco, la faringe e la bocca. La lamina esterna non era che un'estensione della membrana esterna dell'intestino e risultava connessa al mesentere e al peritoneo. Le membrane preesistevano: preesisteva, dunque, a maggior ragione l'embrione. Il nuovo 'riscontro' toglieva alla preesistenza invisibile l'apparenza fastidiosa di scorciatoia e sfumava alquanto l'urgenza di attestare la visibilità diretta delle strutture. Il dispiegarsi della figura venosa diventava esemplare del meccanismo di sviluppo di parti preformate quando la questione della visibilità effettiva della preformazione era quindi ormai secondaria. Ciò che in un primo momento appariva rete puntiforme e si manifestava poi quale caos di mere tracce interrotte, era in verità da sempre la struttura vascolare continua che si delineava infine come figura.
Sur la formation du coeur formalizzò questi concetti, e l'apparenza sillogistica, insieme all'originalità e all'eleganza della dimostrazione, estasiarono Bonnet; la comunità scientifica non colse taluni punti oscuri assai rilevanti, che dovevano tormentare invece Haller non poco. Per come era stata formulata alla fine del 1757, la prova stabiliva infatti la preesistenza del germe a quella del sacco vitellino continuo alle membrane dei visceri. Ma proprio il sistema vascolare della vitellina si delineava ‒ come s'è detto ‒ relativamente tardi, ben distinto dalla rete ombelicale (figura venosa) preformata sulla membrana omonima. Quest'ultima invece non poteva svolgere alcun ruolo nella prova perché strutturalmente e vascolarmente estranea al tuorlo e agli intestini dell'embrione e, viceversa, continua ai vasi irrilevanti. Insomma: una rete vascolare era preformata, ma non si delineava sulla membrana preesistente; una membrana era preesistente, ma sosteneva arterie e vene di scarso significato.
Proprio all'indomani della pubblicazione di Sur la formation du coeur, Bonnet riprese a incalzare l'amico. Troppi, secondo il ginevrino, risultavano i temi di embriologia speculativa sui quali Haller non si era espresso (ruolo del maschio nella preesistenza ovista, trasmissione dei caratteri, incapsulamento dei germi, ecc.). Almeno sino alla ripresa delle osservazioni nel 1763, Bonnet non desistette. Il fisiologo per un po' si burlò di tali ansie, poi iniziò a manifestare crescente insofferenza. Preso da tutt'altri dubbi, ribatté all'amico ponendolo di fronte a quella che egli intese subito come l'unica vera sfida assoluta: la neoepigenesi avanzata da un giovane e oscuro medico di Berlino, Caspar Friedrich Wolff (1733-1794), il quale, andando direttamente al cuore del neopreformismo, ne colpiva il postulato teorico (il modello di visibilità) e il sostegno sperimentale (la continuità delle membrane; Theoria generationis, 1759).
La controversia tra Haller e Wolff, forse la più importante sviluppatasi nel Settecento sulle teorie della generazione, investì categorie biologiche centrali e concezioni filosofiche radicalmente diverse. La polemica fu scontro senza mediazioni possibili tra due modelli di spiegazione scientifica e due modi irriducibilmente alternativi di intendere senso e finalità della ricerca. Le differenze erano troppo profonde perché si potessero superare in forza di nuovi argomenti positivi che, quand'anche disponibili, sarebbero stati comunque spiegati in modi alternativi e non avrebbero mai scosso i rispettivi quadri di riferimento.
La prima reazione di Haller fu di non rispondere e di tornare in laboratorio. Soltanto dopo un nuovo e più insidioso attacco di Wolff (Theorie von der Generation, 1764), egli deciderà di confrontarsi con la neoepigenesi sul terreno delle osservazioni. Le indagini furono riprese nel 1763, mosse inizialmente da tutt'altre preoccupazioni; da mesi Haller si tormentava con gli annessi e le loro reti vascolari. Gli elementi del puzzle, tutti da tempo disponibili, trovarono la loro collocazione solamente nell'anno successivo. La scoperta della natura vitellina della figura e della membrana sulla quale essa si dispiegava avvenne in un periodo coincidente a grandi linee con la scoperta della vera natura della membrana ombelicale, che aveva del resto sino ad allora ingannato tutti coloro che se ne erano occupati. La tesi della natura vitellina della figura fu invece illuminazione repentina e deduzione in larga misura teorica. Appurato ‒ come scrisse nel giornale di laboratorio ‒ che il sacco del tuorlo "è subito evidente" e che "per contro la membrana ombelicale si sviluppa da una vescicola vascolarizzata", la figura non poteva più legare le proprie sorti a un "exemplum novae partis" (Haller, Commentarius de formatione cordis in ovo incubato primus[-secundus], in Opera minora, p. 326) e doveva appartenere al contenitore del tuorlo, già punto forte nell'argomento della continuità delle membrane. La prova acquistava finalmente la solidità che le mancava; non solo era data la continuità originaria delle membrane del tuorlo con i tegumenti dell'embrione, ma era infine sancita la preesistenza delle stesse strutture vascolari che risultavano fine o prolungamento delle arterie dei visceri.
Risolta la questione in forma che ribaltava i contenuti scientifici del 1758, ma che era teoricamente omogenea alle attese del 1757, Haller ebbe certezza di aver conseguito sistemazione compiuta per tutte le proprie tesi embriologiche e nel 1765 le considerò pronte per la stampa. È ovvio che il secondo attacco di Wolff dovesse ormai apparire assolutamente intollerabile e Haller si dedicò a una revisione preoccupata delle tesi colpite. Fu allora che s'incrinò la certezza fisico-teologica alla base della scienza halleriana, messa alla prova sia dai risultati inconfutabili di Wolff sia, di fatto, dall'oggettiva debolezza di quelli di Haller. I primi procedevano da esperienze e osservazioni condotte magistralmente, e attestavano il pieno dominio delle tecniche più complesse, eppure, con grave sconcerto del fisiologo, ridavano dignità e credibilità scientifica all'empietà epigenetica. I secondi erano ben lungi dall'eguagliare la fantasia e l'originalità sperimentale che avevano caratterizzato gli anni migliori di Haller. Il fisiologo fece ciò che non aveva mai fatto e rivolse a Wolff un appello perché riflettesse sulla maggior convenienza del preformismo con la tradizione religiosa.
La versione ultima, assai ampliata e riformata, dell'opera embriologica apparve infine nel 1767. Essa propose una revisione profonda delle conoscenze sin lì disponibili, al punto da rappresentare, nei settori ricordati, una vera pietra miliare nell'avanzamento della scienza. Il testo a stampa naturalmente non mostrò alcuno dei dubbi e ripensamenti annotati in laboratorio fra 1763 e 1764. Lo strumento teorico ormai acquisito della visibilità debole consentì poi una ripresa pressoché alla lettera dei protocolli dedicati alla genesi della figura venosa nel giornale del 1765.
Haller presentò il De formatione cordis come il luogo nel quale avrebbe innanzitutto risposto a Wolff, ma la vera confutazione (di necessità largamente teorica) non fu affidata a quell'opera. Malgrado i corollaria conclusivi, che effettivamente offrivano la sistemazione del neopreformismo, essa era infatti assai squilibrata fra la mole impressionante del materiale osservativo raccolto e la laconicità imbarazzata con la quale, quasi contro voglia, l'autore si esprimeva circa le questioni classiche dell'embriologia speculativa. La risposta a Wolff fu affidata piuttosto all'ultimo volume degli Elementa physiologiae corporis humani (1757-1766), opera bibliografica e compilativa là dove ‒ si ammetteva ‒ "ex crepuscolo in tenebras descendimus" (VIII, p. 106).
La conversione preformista non sciolse comunque le cautele di Haller di fronte alle questioni irriducibili all'inquadramento positivo. Bonnet non strappò che poche suggestioni a favore della forma più estrema di preesistenza, cioè l'incapsulamento di tutti i germi negli organi sessuali del capostipite della specie. Nella misura in cui ogni potere formatore era riferito a Dio, le modalità ontologiche della preformazione erano sospinte al di là delle questioni di cui l'embriologo potesse o dovesse occuparsi con diritto e cognizione. Haller continuò malgrado tutto a fuggire gli enigmi favoriti nei salotti alla moda sul ruolo del maschio nel sistema della preformazione ovista, sulla dinamica della fecondazione, sulla somiglianza della prole a entrambi i genitori, sulla trasmissione di deformazioni e caratteri acquisiti o sulla sorte di jumarts e mulets.
Generazione e rigenerazione
Indispettito e deluso dall'amico di Berna, Bonnet ottenne da Spallanzani tutto ciò che si poteva oggettivamente attendere da un programma rigorosamente sperimentale applicato alle questioni classiche dell'embriologia speculativa. Fu Bonnet a leggere in chiave di preformismo radicale il primo contributo scientifico di rilievo pubblicato dal naturalista italiano (Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione de' Signori di Needham e Buffon, 1765); fu Bonnet a guidare le sue successive ricerche sulla generazione degli animali, come a indicare l'idea audace dell'inseminazione artificiale. Era stato infatti puntiglio solo scolastico quello con cui, nel 1761, Spallanzani aveva iniziato a ripetere da dilettante le osservazioni di Buffon e del microscopista inglese John Turberville Needham (1713-1781) sulla generazione spontanea degli infusori. Anche se trentenne, Spallanzani mancava di preparazione naturalistica, o meglio sapeva soltanto ciò che gli avevano insegnato letture e osservazioni fino ad allora alquanto sconnesse. È fuor di dubbio che, a quell'epoca, egli non avesse pretesa alcuna di venir in soccorso di questa o di quella teoria della generazione. Spallanzani passò dunque dall'indifferenza a un'opzione generica per l'epigenesi e da questa ‒ attraverso la confutazione delle conclusioni di Needham e Buffon ‒ all'atteggiamento cautamente possibilista nei confronti della preformazione espresso nel Saggio e infine allo schieramento esplicito, ma più tardo, in favore della preesistenza ovista. Spallanzani partecipò gradualmente alla passione e ai ritmi della riflessione epistemologica e filosofica contemporanea e il suo coinvolgimento crebbe in progressione geometrica proprio nel corso della sperimentazione. Causa possibile di tutto ciò fu l'equilibrio variabile, e variabilmente testimoniato dai suoi diari di laboratorio, fra valutazioni teoriche, piani ambiziosi di lettura, primi contatti con i partigiani autorevoli della preesistenza e, naturalmente, i risultati delle osservazioni.
Dunque, fu Bonnet a leggere il Saggio, trasmesso con la lettera che iniziava il carteggio, come condanna senza appello dell'epigenesi. Spallanzani, che vi riconobbe subito la guida teorica e che era privo di condizionamenti ideologici forti, si risolse per un'adesione puramente intellettuale al preformismo. Essa non avrebbe faticato a trovare riscontri sperimentali nei successivi lavori e andò comunque di pari passo con uno straniamento dalle ragioni metafisico-teologiche della scelta. Giunto alle ultime battute delle indagini sugli infusori, Spallanzani si era infatti messo alla ricerca di nuovi soggetti di studio senza orientamento preciso né cultura naturalistica sufficiente a una scelta autonoma. La lettura della Contemplation de la nature di Bonnet, tuttavia, ebbe nella sua mente l'effetto di una folgorazione. Senza esitazioni fu la scelta per le rigenerazioni animali, un settore ampiamente garantito dall'autorevolezza dei nomi illustri che se ne erano occupati. Spallanzani mise i propri occhi al servizio di un ambito di ricerca nel quale stava per giocarsi la dimostrazione sperimentale della preesistenza e che poteva dunque valergli l'infinita gratitudine di chi ne era il più acceso e famoso sostenitore.
Le osservazioni sulle rigenerazioni (condotte su lombrichi, girini, lumache e salamandre) iniziarono nell'estate del 1765 e proseguirono per tre anni, sostenute e incalzate dalla corrispondenza con Bonnet che premeva per un'esplicita dichiarazione in favore dei germi preesistenti responsabili delle riproduzioni. Ai dettagli comunicati da Spallanzani, Bonnet reagì infatti indicando il vero programma da perseguire: scovare il germe e sconfiggere definitivamente l'epigenesi sul nuovo terreno. Il progetto era cioè di mettere l'abilità e la fantasia sperimentali riconosciute al giovane corrispondente al servizio di un manifesto ideologico dalla struttura più rigida e classica. Il piano apparve a Spallanzani tanto fastidiosamente esigente da confermarlo nella tattica di pubblicare, per contro, non più di un 'prodromo' (Prodromo di un'opera da imprimersi sopra le riproduzioni animali, 1768) del futuro trattato.
Furono proprio le esperienze a mettere Spallanzani ripetutamente di fronte a fenomeni di rigenerazione mal inquadrabili nella regolarità della preesistenza. In particolare egli era tormentato da parti rigenerate che stentavano a raggiungere, o non raggiungevano affatto, lo status tranquillizzante di repliche perfette ed erano quindi pericolosamente vicine al disordine di una neoformazione epigenetica. Egli paventava ciò che, per onestà, non si poteva ricondurre all'azione di germi preesistenti, i quali erano responsabili credibili soltanto di riproduzioni identiche. Non arrivò l'osservazione decisiva, che consentisse di formalizzare al massimo grado nella scala degli esseri il canone delle riproduzioni e di offrire con ciò una nuova prova della preesistenza. Dopo aver onestamente creduto nella possibilità di un grande trattato, Spallanzani concluse che solamente la struttura formale del prodromo avrebbe consentito di attenersi in modo legittimo a un piano descrittivo, senza dunque forzare la teoria della preesistenza. In un rapido calcolo dei vantaggi e degli svantaggi, egli decise che, in definitiva, ciò valeva il rischio di fornire al pubblico un'immagine mutila e scialba dell'immane quantità di lavoro svolto.
La decapitazione della lumaca fu l'esperienza a effetto che mise a rumore i salotti, ma la novità sperimentale più solida consistette nell'estendere l'indagine ai vertebrati, sino ad allora mai tentata, almeno nei termini in cui fu realizzata su talune salamandre. Persino un organismo elementare come il lombrico opponeva però la propria opacità all'occhio curioso dello sperimentatore, costretto infatti alla dissezione per verificare oltre la superficie del corpo la perfezione delle parti rigenerate. L'inventiva sperimentale di Spallanzani individuò dunque nel girino, organismo relativamente complesso ma diafano, le condizioni ideali di trasparenza che permettevano di seguire con chiarezza nell'animale vivo la piena rifunzionalizzazione, la completa rigenerazione dei tessuti e il ristabilirsi della circolazione dei fluidi vitali.
Le riproduzioni degli esseri viventi studiate da Spallanzani (relativamente complesse e accessibili alla curiosità dei dilettanti) fecero sensazione quanto e più della scoperta di Trembley. Il Prodromo suscitò immediato e rumoroso interesse in tutta Europa colpendo l'immaginazione di specialisti e amateurs. Lo stesso Bonnet iniziò a mutilare lumache e salamandre e schierò la propria autorità a sostegno del pupillo. Quanto a Spallanzani, il programma sulle rigenerazioni continuò, ma divenne sempre più chiaro che l'opera promessa, ripetutamente sollecitata da Bonnet e alla quale mancava soltanto ‒ assicurava Spallanzani ‒ un'ultima revisione, non avrebbe mai visto la luce. Con due nuove memorie (Risultati di esperienze sopra la riproduzione della testa nelle lumache terrestri, 1782; Sopra la riproduzione della testa nelle lumache terrestri, 1784) il naturalista italiano mise daccapo a scompiglio il mondo erudito, ma abbandonò il progetto del grande trattato, dove avrebbe probabilmente dovuto ammettere il fallimento dell'ostinata 'caccia al germe' preesistente, nella quale aveva speso buona parte della sua vita e della sua ricerca. La caccia sarebbe in realtà continuata altrove, su un terreno che si rivelò presto ben altrimenti gratificante.
La prova della preesistenza
Spallanzani avviò le indagini intorno alla generazione negli anfibi dopo due anni di esperimenti sulle riproduzioni (1767), vale a dire quando era ormai chiaro che quest'ultimo soggetto avrebbe deluso chi attendeva il trionfo del sistema degli 'inviluppi'. Giunta a dar conto dei fenomeni di rigenerazione nei girini, la narrazione del Prodromo infatti s'interrompeva e faceva spazio a una parentesi a prima vista sconcertante per la brusca cesura introdotta rispetto al tema. In poche pagine Spallanzani si avviava addirittura a "troncare [...] la gran lite, che per tanto tempo ha tenuto divisi i filosofi sulla primiera origine del germe" (p. 202). Nel Prodromo egli dichiarò dunque di aver condotto le proprie osservazioni su questo tema "qualunque poi ne fosse per riuscire l'evento, cattivo o buono pe' varii sistemi intorno alla generazione" (p. 211). Scelse, a buon conto, un ambito di ricerca a schiacciante egemonia preformista e cercò di trasferirvi la procedura dimostrativa classica. Da Jan Swammerdam (1637-1680) ad Antonio Vallisnieri (1661-1730) la preesistenza era stata infatti provata per l'osservazione, prima e dopo la fecondazione delle uova, di un punto nero (il germe) che si sviluppava fino ad assumere la forma di girino. Negli anfibi tutto questo si poteva verificare facilmente, data la perfetta visibilità del processo di fecondazione e la rapidità del ciclo riproduttivo. Spallanzani ribaltò però la logica che sosteneva l'argomentazione tradizionale e dichiarò la macchia nera un epifenomeno afferente al visibile che aveva ingannato la generazione vallisnieriana. L'identità fra uova vergini e uova fecondate era, infatti, ricostruita in negativo sulla base di ciò che esse non avevano e non erano. Le uova non presentavano alcuna differenza anatomica o morfologica; né la fecondazione né l'embriogenesi innescavano alcuna delle mutazioni eclatanti attese dall'opera di una forza epigenetica. Esse si allungavano e crescevano, ma non mostravano indizio di neoformazione organica. Le uova non erano dunque ‒ concludeva Spallanzani ‒ ciò da cui nasce l'animale, ma il girino medesimo, che semplicemente perdeva la forma provvisoria di uovo e assumeva la sua definitiva. L'annessione degli anfibi ai vivipari fu perciò la chiave di volta della teoria spallanzaniana della preesistenza e solamente essa consentì di superare talune anomalie del percorso dimostrativo. Lo stratagemma permise infatti di passare per un semplice termine di mediazione logica (quasi un 'banale sillogismo') dalla dimostrazione della preformazione all'assunzione, ben più ardita, della preesistenza. Il girino preesisteva non perché fosse visibile prima e dopo la fecondazione, ma proprio perché 'non' si vedeva né prima né dopo.
La struttura dell'argomentazione era originale per la novità della soluzione embriologica, brillante per l'eleganza formale della costruzione, senz'altro audace per l'apparente rigore sillogistico che la sosteneva: tutt'altra insomma dalla neutralità che pure Spallanzani aveva rivendicato quale attitudine programmatica. Incoraggiato dalle sollecitazioni di Bonnet, egli ne sottolineò la convergenza oggettiva con la prova escogitata da Haller per gli ovipari. A ben vedere, sotto i colpi della logica di Spallanzani cadeva però non solo l'epigenesi, ma anche il preformismo tradizionale. Il suo germe operava infatti una doppia rottura rispetto alle concezioni del passato. Per un verso, la caccia al germe, una volta identificato quest'ultimo con l'uovo, perdeva ogni tensione emotiva: tutto si vedeva benissimo a occhio nudo, si manipolava comodamente, addirittura si teneva in casa e si gettava all'occorrenza. D'altro canto, se il germe si vedeva in quanto entità macroscopica, in esso non appariva mai (se non a uno stadio più che avanzato dell'embriogenesi) la struttura organizzata. Così fu comunicato a Bonnet e così fu pubblicato. Forse neppure il ginevrino, magari confuso da talune incertezze di Spallanzani che trapelavano dalle lettere, intese la radicalità del ribaltamento rispetto alla logica del preformismo tradizionale e lo stratagemma della struttura organizzata latente passò sotto silenzio.
Spallanzani propose la sua prova della preesistenza in una forma la cui apoditticità era però inversamente proporzionale alla solidità dei risultati conseguiti nel privato del laboratorio. La situazione era cioè in larga misura simile a quella verificata per l'oggetto principale delle rigenerazioni. Egli celebrò dunque la prova in negativo, ma nel contempo non smise di tormentarsi cercando di assoggettare al dominio dello sguardo un qualsivoglia cenno di organizzazione strutturale. La sicurezza di cui fece mostra nel Prodromo fu un vero miraggio che, come attestano i quaderni di laboratorio, Spallanzani non smise d'inseguire per quasi quindici anni (1767-1781). Le pagine del 1768, assai scarne rispetto all'intensissima progettualità attestata dai giornali, furono insomma storicamente interessanti per quanto non dissero, per come camuffarono dubbi e soluzioni in realtà provvisorie, per le strategie retoriche che lo scienziato riuscì comunque a mettere in atto. L'itinerario fu segnato da ripensamenti e difficoltà enormi, che la stampa di fatto censurò per dare l'impressione non soltanto di aver perseguito e raggiunto l'obiettivo, ma soprattutto di averlo fatto restando fedele a un'unica linea di ricerca. Nei diari di laboratorio, invece, la riflessione continuò a esercitarsi su risultati deludenti e oscillò senza sosta fra due prospettive: una 'ufficiale' (quella che era proposta nel Prodromo) e una che avrebbe dovuto sostituirla ‒ ma che in realtà fu continuamente abbandonata e ripresa ‒, che indicava un ben più eccitante programma di lavoro volto alla ricerca, pubblicamente inconfessata, della miniatura (in)visibile.
Il modo precipitoso e clamoroso della pubblicazione del Prodromo e i toni trionfalistici con i quali l'autore si espose di fronte alla comunità scientifica condizionarono alquanto l'orientamento delle sue scelte editoriali successive, ma non impedirono il programma privato. Questo continuò almeno fino a quando non fu chiaro che le osservazioni avrebbero mostrato anomalie sempre più inquietanti per gli schemi teorici prediletti. In contrasto con la compatta omogeneità dei testi editi, gli appunti mostrarono una vicenda di incertezze, ripensamenti e infine di resa, in tutto paragonabile a quella trasparente nell'ultimo diario di Haller e ben nascosta al pubblico entusiasta. Fu una resa all'incapacità di cogliere la struttura organizzata preesistente, che la ragione supponeva e l'occhio non riusciva a vedere. Spallanzani si attenne all'unica posizione oggettivamente difendibile, ma teoricamente insoddisfacente, e non perse mai la speranza di vedere (non solo con gli occhi della ragione) l'organizzazione nella struttura preesistente. Ancora nell'ultimo biennio di studi (1780-1781) i suoi quaderni privati promisero un vasto programma di esperienze che l'autore non avrebbe mai posto in atto. Nella soluzione confermata dagli ultimi interventi pubblici, la preesistenza fu garantita soltanto a prezzo della perdita definitiva della visibilità: macchie o punti neri divennero casuali e inessenziali. Le Dissertazioni di fisica animale, e vegetabile (1780) raccolsero i risultati delle ricerche compiute successivamente al Prodromo, confermandone ed estendendone le conclusioni. La prima di tali dissertazioni fu dedicata alla generazione naturale, la seconda, invece, alla generazione artificiale.
Dopo la pubblicazione del Prodromo, il programma di lavoro sulla generazione negli animali superiori continuò sino alla primavera del 1769 e quindi subì un'interruzione di quasi dieci anni. La lunga vacanza fu innanzi tutto determinata dalla necessità di riprendere le indagini sugli infusori e di rispondere a dure critiche avanzate da Needham, comprensibilmente deluso dagli esiti del Saggio, che incautamente Spallanzani gli aveva dapprima descritto come favorevoli: la nuova fama acquisita richiedeva che il microscopista inglese, tanto avversato dai nuovi amici preformisti, fosse zittito prima che mettesse a segno qualche colpo irreparabile, cioè, oltre a diffondere dubbi sulla correttezza delle tecniche e del metodo di Spallanzani, pubblicasse le lettere che quest'ultimo, giovane dilettante, gli aveva inviato prima della svolta preformista. Quel decennio non fu comunque tempo sprecato e anzi consentì a Spallanzani di acquisire abilità tecniche, preparazione naturalistica, culturale e metodica che pochi all'epoca poterono vantare.
Le nuove ricerche sugli infusori (Opuscoli di fisica animale e vegetabile, 1776) s'intrecciarono con quelle sugli agenti della generazione e in modo specifico sugli spermatozoi, intesi però come veri animali dei quali studiare le condizioni di sopravvivenza e resistenza. All'osservazione condotta da Needham riguardo alle colonie di infusori in soluzioni sigillate e sterilizzate, il Saggio aveva già risposto con terreni di coltura perfettamente sterili, dove cioè tutti gli elementi germinali erano stati distrutti con il fuoco ed era impedito con il sigillo l'accesso di nuovi semi. Aria e temperatura (cioè la loro azione congiunta o disgiunta sulla generazione) si precisarono ora (1770-1775) come veri oggetti del contendere. A un approccio in larga misura ancora qualitativo fra volume d'aria disponibile e comparsa di colonie, Spallanzani sostituì una quantificazione rigorosa e iniziò a guardare all'aria oltre che come vettore di elementi germinali, quale condizione necessaria delle prime produzioni vitali.
Gli animaletti spermatici
Le ricerche sulla fisiologia della generazione ripresero nel 1777 con un indirizzo non più meramente morfologico come quello del Prodromo, ma senz'altro sperimentale e furono orientate, per esplicito consiglio di Bonnet, all'interferenza sistematica nei processi naturali di fecondazione. La sollecitazione a tentare l'inseminazione artificiale era presente nelle lettere da Ginevra almeno dal 1767. L'intento era di coinvolgere Spallanzani in un settore di ricerca sul quale Bonnet non riusciva a impegnare gli altri corrispondenti e che egli immaginava invece come decisivo per il trionfo finale dell'ovismo (convinto infatti com'era che la preesistenza fosse stata ormai stabilita sperimentalmente). Già il Prodromo presentava in verità il programma come plausibile e oggettivamente assai allettante, perché mai perseguito prima di allora con sistematicità e successo. L'opera del 1768 si espresse per un ruolo fisico-chimico (cioè non biologico) del seme maschile nel processo di generazione. Poiché le uova di rana si sviluppavano in modo più che notevole già prima della fecondazione, per il seme del maschio era inverosimile pensare a una funzione nutritiva o comunque più che stimolante. Con le prime esperienze d'inseminazione sui batraci, Spallanzani si dedicò a smontare la fecondazione per cogliere e riprodurre in vitro il meccanismo secondo il quale l'ingranaggio vitale dava luogo alla funzione organica. In verità il Prodromo contemplava l'inseminazione con liquido ottenuto dalle vescicole spermatiche di maschi affini. Tuttavia, per come il naturalista intendeva l'apporto del seme alla generazione, sin da quel momento era perfettamente concepibile il tentativo di fecondazione con varie sostanze chimiche che, secondo il parere di Spallanzani, avrebbero potuto essere catalizzanti quanto il seme maschile.
Spallanzani rifiutò sempre di annettere allo sperma una qualsiasi capacità nutritiva. Bonnet, che nelle sue opere aveva indicato per il liquido seminale una triplice funzione (stimolo al cuore, sostentamento per le prime necessità alimentari e trasmissione dei caratteri paterni), non seppe mai darsi pace di quel rifiuto. Eppure fu Bonnet, per il quale esistevano dunque seri ostacoli epistemologici alla partenogenesi con mezzi diversi dal seme specie-specifico, che incalzò l'amico nel progetto audace di sostituire all'azione stimolante del seme quella di liquidi diversi (per es., urina, succo gastrico, succo nerveo, vino, aceto e acqua salata), quella dello sperma disomogeneo, essiccato, colorato, impregnato di determinati odori, del polline vegetale e persino del fluido elettrico.
Anche nel caso di queste ricerche è impressionante lo iato fra il poco che Spallanzani pubblicò e la messe di dati rapidamente raccolti nei quaderni di laboratorio per mettere a fuoco i problemi biologici fondamentali. Controllata sperimentalmente l'insussistenza della tradizionale 'aura spermatica', egli legò innanzi tutto la fecondazione alla parte 'concreta' del seme, compì raffinate selezioni per isolarne la frazione attiva, quantificarla e conservarne il potere. Poiché nessun animalculo era visibile all'interno dell'uovo, né subito dopo la fecondazione, né nel corso dell'embriogenesi, ma soprattutto poiché liquidi spermatici apparentemente privi di spermatozoi sembravano efficaci, Spallanzani concluse senz'altro l'estraneità di questi ultimi nel processo della generazione. Bonnet lesse l''errore' come la prova lampante della preesistenza ovista, esultò e rilanciò progettando modifiche e ampliamenti del programma di ricerca. Le esperienze ripresero nel 1780-1781 sempre più concrete, in apparenza probanti e arditamente estese ai mammiferi.
Resta da spiegare l'occorrenza dell''errore' circa gli animalculi del seme, errore che tanto contrasta con l'eccezionale abilità sviluppata da Spallanzani nelle tecniche di microscopia e micromanipolazione e, ancor più, con la sua solida 'filosofia del dubbio' e i raffinatissimi standard di avvertenza sperimentale. Molto probabilmente non fu un caso classico di unseeing eyes, che non videro ciò che non vollero vedere. Spallanzani fu in realtà assai stupito di non cogliere animalculi spermatici nel seme fecondo e comunque, per evitare il sospetto del pregiudizio, analizzò il campione prima di provarne l'attività. Come già era avvenuto per le ricerche sulla generazione naturale, anche in questo caso è soltanto la ricognizione sulle pagine annotate durante il lavoro in laboratorio che offre una spiegazione accettabile dell'enigma. Ciò che Spallanzani rimarcò ‒ si legge nei quaderni ‒ non fu l'assenza di spermatozoi, ma di spermatozoi "almeno vivi", cioè in movimento. Se pregiudizio vi fu, esso intervenne perciò solamente in seguito, quando da quell'osservazione oggettiva, il naturalista concluse la morte degli animalculi e quindi si sentì legittimato a un abbassamento delle cautele di metodo, sino ad allora mantenute agli standard consueti e mediamente superiori a quelli della ricerca contemporanea. Dunque nell'opera a stampa (Dissertazioni di fisica animale, e vegetabile, 1780) l'assenza di spermatozoi mobili divenne assenza tout court di animaletti del seme. Stabilito che i vermicelli spermatici non avevano alcun ruolo nella fecondazione, i pezzi del puzzle trovarono tutti una collocazione adeguata nella preesistenza ovista. Le stesse prove di filtrazione, alle quali Spallanzani sottopose il seme per trovarne la frazione attiva (1781), a questo punto non furono più rivolte a verificare quale parte vi avessero gli spermatozoi, perché tale problema era già stato risolto brillantemente. Per massima ironia della sorte, quelle esperienze, magistralmente condotte, erano tanto visivamente dimostrative che avrebbero offerto a chiunque prove lampanti, se solo la precedente osservazione erronea non avesse risolto tutto, occultando ogni anomalia. Spallanzani concluse che lo sperma agiva come attivatore fisico e non biologico, ma continuò, sempre incalzato dalle questioni di Bonnet (sulla somiglianza della prole a entrambi i genitori, sugli ibridi e gli incroci), a oscillare tra la fecondità delle particelle solide, la negazione di un apporto materiale del seme e i risultati sperimentali che in modo assai incerto collegavano volatilità e perdita di fertilità.
Struttura e funzione
La struttura particolare del Prodromo consentì di metabolizzare lo status ambiguo di un principio che aveva di che inquietare i nuovi amici di Spallanzani, ben più di lui sensibili alla coerenza filosofica del sistema. La "forza riproduttrice" oltraggiava infatti a più riprese la legalità meccanica riconosciuta, celava propensioni vitalistiche e poteva persino innescare tentazioni materialiste. Essa non spiacque a personaggi che, come Needham, erano ormai invisi anche a Spallanzani e che ne scrissero con un certo compiacimento all'irritato Bonnet. Non solo: essa sembrava, horribile dictu, preannuncio, certo non voluto, delle divagazioni di taluni "épigenésistes allemands" citati con sprezzo dai corrispondenti di Spallanzani sul finire del secolo. In particolare "la forza del riprodurre" suonava, almeno superficialmente, non lontana da una "madornale stivaleria del Professor di Gottinga" ‒ come la definì Spallanzani con la consuetà levità (Edizione nazionale delle opere, III, p. 244). Il "matto", "con quel suo nisus formativus" che l'amico Caldani aveva senz'altro "ridotto in polvere" (ibidem, pp. 238, 243), era l'antropologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), autore di scritti di larga circolazione e vasto successo. Consacrato da Kant alla dignità filosofica, Blumenbach legò la fortuna propria e del concetto di Bildungstrieb ('impulso formativo') alla sua ottima funzionalità nei paradigmi teorici e nelle prospettive dell'epoca nuova. L'impulso formativo s'inserì per la verità in una dottrina fisiologica di forma halleriana e, in una linea di continuità dialettica, ne conservò il principio dell'incognita esplicativa, applicato ora alle forze vitali. Ne mantenne anche il postulato della correlazione stretta tra struttura e funzione, ma lo ribaltò nella specificità del nisus formativus, agente della strutturazione e ragion sufficiente del suo ordine.
Il percorso intellettuale di Blumenbach fu opposto rispetto a quello di Haller. Nel 1775 la sua dissertazione, De generis humani varietate nativa, ancora inseriva il tema delle molte varietà di un'unica specie umana nella cornice del preformismo halleriano, ma reggeva a fatica l'analisi antropologica di sequele generazionali con progenie del tutto diverse dai capostipiti. Il malessere, e forse anche già la percezione dell'incompatibilità fra il preformismo e le nuove idee sulla storia naturale, furono chiari nella prima edizione dello Handbuch der Naturgeschichte (Manuale di storia naturale, 1779-1780). Non vi si esplicitava alcun revirement epigenista, ma si discuteva di ibridi, di mostri o del contributo del maschio nella generazione, che doveva essere certo maggiore di quello ammissibile nella preesistenza ovista. Lo schieramento esplicito per l'epigenesi avvenne con la pubblicazione dell'opuscolo Über den Bildungstrieb und das Zeugungsgeschäfte (Sull'impulso formativo e la funzione riproduttiva, 1781) e a seguito della riflessione sui fenomeni di generazione e di ricostituzione dell'unità organica, sulle varietà fertili e sul riemergere dei caratteri paterni ottenuto nel tempo con incroci specifici.
È possibile che le evidenze apportate da Wolff contro la preesistenza abbiano giocato un certo ruolo nel deviare la posizione di Blumenbach dal primato halleriano della struttura su ogni atto fisiologico. Tuttavia la sua neoepigenesi fu del tutto estranea al modello dell'embriologo berlinese. La vis essentialis di Wolff era infatti il potere per cui la materia nutritizia veniva distribuita alle diverse parti dell'animale, ossia ‒ argomentò Blumenbach ‒ una condizione necessaria, ma non sufficiente della formazione. Poteva essere al massimo principio di escrescenze e difformità, cioè di espansione meccanica. Il nisus formativus era invece ragion sufficiente della struttura regolare e incarnava un automatismo teleologico dalle modalità inalterabili.
Al di là delle apparenze immediate, negli argomenti di Blumenbach a favore dell'epigenesi la distanza dal principio halleriano della corrispondenza tra struttura e funzione fu sottile e limitata (e del resto gli stessi quadri epistemologici di Haller non avevano subito modifiche sostanziali nel passaggio dall'epigenesi alla preesistenza). Blumenbach non mirò dunque a smantellare la spiegazione dei moti vitali come correlativi a strutture complesse, ma rimpiazzò la struttura primordiale (inafferrabile) con una forza specifica (metaempirica) di formazione. Cambiò la ragion sufficiente dei fenomeni fisiologici, ma conservò l'idea che essa dovesse comunque esprimere l'ordine complesso e integrato che vi si manifestava. La determinazione essenziale della struttura non fu più nei materiali che la componevano, ma nel potere intrinseco di organizzazione architettonica o, per dirla con linguaggio aristotelico, nella sua 'forma'. L'impulso formativo non esisteva separatamente dalla sua base materiale, ma non poteva essere ridotto e spiegato nei termini degli elementi costitutivi di quest'ultima.
Il nisus formativus
Il Bildungstrieb fu indicato come responsabile non soltanto dei fenomeni della generazione, ma anche della crescita, della nutrizione e della riproduzione, cioè di ogni sequenza epigenetica dall'amorfismo all'architettonica funzionale. Blumenbach lo distinse invece dalle altre forze vitali. Contrattilità, tono, irritabilità, sensibilità, "vita propria" (Institutiones physiologicae, 1787) dipendevano infatti dall'operazione e disposizione di organi già costituiti, cioè non incarnavano esse stesse un progetto architettonico d'organizzazione. Il nisus formativus produceva proprietà funzionali specifiche e perfettamente inquadrate nell'ordine dell'organismo, ma cedeva poi il passo a modalità meccaniche di conservazione delle strutture acquisite. E infatti ‒ notò Blumenbach studiando la capacità rigeneratrice ‒ esso si manifestava massimamente nelle prime fasi della strutturazione o nelle organizzazioni poco differenziate, ma si attenuava nelle strutture d'alta specializzazione, dove si esplicavano le altre forze vitali. Über den Bildungstrieb citava ancora i casi classici dell'idra d'acqua dolce, ma anche le esperienze personali su una particolare alga filamentosa (la conferva delle fonti). Blumenbach ignorò o tacque il dibattito sul modello di visibilità che tanto aveva inquietato Bonnet, Haller e Spallanzani e, approfittando della tessitura traslucida di questi organismi, concluse la 'caccia al germe' asserendo che mai in essi affiorava segno alcuno di nuclei preesistenti. Né un germe preformato riusciva a spiegare il fatto macroscopico e costante di ogni riproduzione, cioè che il pezzo riprodotto appariva regolarmente più corto e sottile. Piuttosto, non potendo l'animale accumulare materia sufficiente alla rigenerazione delle nuove membra, il tronco si vedeva costretto a cedere parte della rimanente sostanza corporea. La materia si plasmava sino a riacquistare la forma perduta e ciò avveniva in modo più rapido dove la struttura era globalmente più omogenea e le membra avevano fra loro minori differenze strutturali.
Fra concepimento e primi cenni di organizzazione il tempo 'vuoto', oggettivamente riscontrabile, era spiegato con la maturazione dell'impulso formativo. Esso era indispensabile alla conformazione di materia grezza, ma risultava in stridente contraddizione con l'idea del germe preformato, che non aveva invece motivo di attendere alcunché per rendersi visibile. Il trattato latino De nisu formativo et generationis negotio nuperae observationes (1787) citava poi il caso particolarmente intrigante dell'innesco del battito nel cuore embrionale. Nella miniatura preformata uno stimolo qualunque avrebbe dovuto essere sufficiente per sollecitare un organo nell'adulto tanto irritabile. Invece ‒ sosteneva Blumenbach ‒ proprio Spallanzani aveva mostrato che soltanto il seme maschile arrivava a tanto su quella che era dunque materia originaria. Una volta iniziata l'embriogenesi il tempo poteva pure essere discontinuo e asimmetrico, ma comunque 'riempito' dalle necessità vitali, poteva essere ora più rapido ora più lento, ma in genere retto dalla proprozionalità inversa fra l'intensità dello sviluppo e l'età del corpo organizzato. Non suscitava d'altra parte alcuna ripugnanza concettuale la vecchia idea di generazione senza semi, cioè vegetazione per fermentazione o putrefazione. Über den Bildungstrieb riferiva infatti di formazioni su tronchi arborei che, suscitate dalla puntura di un parassita, non erano mere escrescenze, ma prodotti vegetali diversi da quelli di partenza, regolari e dipendenti da una qualche intenzionalità. L'impulso formativo poteva cioè essere innescato dall'incontro dei semi dei genitori al pari di azioni eterogenee e contingenti.
De nisu formativo estendeva tale logica alla produzione di membrane, ossa e vasi preternaturali, che non preesistevano invisibili, ma erano generati per processi di sviluppo anomali e accidentali, eppur anch'essi bene orientati alla produzione delle strutture più convenienti, alla combinazione degli organi e alla conservazione delle funzioni. I parti mostruosi, i fenomeni d'ibridazione e trasmissione dei caratteri trovavano anch'essi ottima collocazione nel sistema. Altrettanto macchinoso e irrealistico era invece, secondo Blumenbach, immaginare germi preesistenti predeterminati all'anomalia e, per di più, alla sua manifestazione in condizioni casuali. L'impulso poteva cioè deviare dalla regola, ma le sue deviazioni indicavano sempre una qualche legalità da inquadrare, spiegare e catalogare in mostri, ermafroditi, bastardi e degenerazioni della razza. Über den Bildungstrieb rimarcò persino la straordinaria eleganza dei feti prematuri: se essi sembravano ripugnanti, ciò dipendeva unicamente dalle contingenze della decomposizione o addirittura dalla scarsa abilità degli illustratori anatomici.
Il nisus formativus operava come un'idea regolatrice a garanzia della coordinazione di ogni elemento in funzione dell'insieme, stabilendo o mantenendo un buon ordine organico contro ogni logorio o azione disgregatrice. Infatti ‒ osservava Blumenbach ‒ a causa della spinta a ristabilire la forma primitiva, dall'innesto di due monconi di specie diverse di idre non scaturivano individualità distinte, ma un unico animale. Impossibile era poi prevedere germi preesistenti nel caso curioso, ma non meno significativo, degli arti amputati nei quali si aveva la ricrescita di callosità simili alle unghie perdute: la tendenza costante del nisus formativus era infatti a delimitare in tal modo la parte comunque terminale dell'organo.
La scienza di Blumenbach offriva i termini per una composizione fra meccanicismo e teleologia: meccaniche erano le modalità specifiche secondo le quali i corpi svolgevano le diverse operazioni della vita, ma chiaramente finalistico risultava il principio dell'organizzazione funzionale. Su questo terreno l'incontro più maturo con la filosofia di Kant si collocò negli anni 1795-1797, ma già la seconda edizione di Über den Bildungstrieb (1789) e la terza dello Handbuch der Naturgeschichte (1791) risentirono della frequentazione con le posizioni kantiane. L'ordine formale ebbe un primato sempre più chiaro sui fattori materiali in gioco e, per una sorta di ridondanza dei fini sui mezzi dell'attività organica, esso trasformò l'ossessione preformista della replica perfetta nella capacità di riparare parti mutilate e ricostruire la conformazione primitiva. La generazione fu dunque conservazione e dispiegamento di un nucleo formale attraverso il tempo: ciò che la parola tedesca rendeva meglio di ogni traduzione, sintetizzando la compresenza di spinta al mutamento (Trieb) e mantenimento della forma unitaria che si tramanda (Bildung).
Per la progressiva accentuazione del suo carattere newtoniano (si veda, per es., la seconda edizione dello Handbuch, 1782), il nisus formativus rientrò sempre meglio nella lunga lista delle incognite esplicative. Esso si precisò come forza epigenetica che sfuggiva alla presa di osservazione ed esperienza, ma si rivelava per gli indizi eloquenti offerti dai suoi fenomeni macroscopici. L'impulso inglobò i requisiti della struttura inosservabile, che tanta parte aveva avuto nello sviluppo delle teorie meccaniciste fibrillari. Come la forza di Newton, il Bildungstrieb non consentiva di pronunciarsi dagli effetti alla causa. Esso era però principio interpretativo indispensabile per orientarsi in processi irriducibili alle leggi puramente meccaniche e per ricondurli a una sequenza globale e unitaria in cui tutte le manifestazioni (generazione, nutrizione, riproduzione, ecc.) erano fra loro collegate.
Malgrado la dichiarata adesione all'epistemologia newtoniana, Blumenbach inaugurò in verità un tipo di fisiologia dove l'elaborazione speculativa produceva concetti teoricamente forti, ma supportati da contenuto positivo altrettanto scarso, metodologicamente debole e lontano sia dagli elevati standard sperimentali di Haller e Spallanzani, sia da una conoscenza adeguata dei risultati scientifici da loro conseguiti (e che Blumenbach fu ben lungi dal superare). Über den Bildungstrieb riprodusse la prova halleriana della preesistenza ovista in modo superficiale; accostò le esperienze sulle idre a sporadiche osservazioni cliniche; propose incredibili esperimenti mentali sulla trasmissione dei caratteri acquisiti. Eppure la sua filosofia fu presto universalmente considerata il vero aggiornamento dello schema newtoniano e la confutazione definitiva dell''arcaico' preformismo meccanicista. Per gli epigoni, l'audacia della formulazione fece perdere ogni traccia dei sottili legami intrattenuti dall'antropologo tedesco con il neomeccanicismo e indusse al silenzio sui numerosi indizi del debito intellettuale che aveva invece legato Blumenbach ai maestri di Gottinga.