L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. L'inventario delle forme viventi
L'inventario delle forme viventi
Si narra che un tempo i Sette Saggi avessero ottenuto da Giove il permesso di soggiornare per tre giorni sulla Luna. Durante il primo giorno si rimisero dalle fatiche del viaggio, dormirono e mangiarono, ammirando dalle finestre il terreno coperto di fiori e lasciandosi incantare dal canto degli uccelli. Il secondo giorno si alzarono di buon'ora, decisi a recarsi a osservare più da vicino quelle meraviglie; ben presto, però, sedotti da affascinanti fanciulle che li invitarono a mangiare e a bere, dimenticarono il loro progetto e si abbandonarono ai piaceri della musica e della danza, suscitando l'invidia di quelli che dimoravano più in basso e non potevano godere degli stessi piaceri. Si aprì così una controversia che fu risolta soltanto alla fine del terzo giorno; in conseguenza di ciò, ritornati sulla Terra, non furono in grado di dire a quali specie appartenessero i fiori e gli uccelli intravisti dalle finestre della loro dimora lunare. I tre giorni infruttuosi rappresentano le età della nostra vita: trascorriamo la giovinezza nella spensieratezza, dedichiamo gli anni del pieno vigore alla costruzione di una famiglia e la maturità alla difesa dei nostri beni: la maggior parte degli uomini, così, muore senza aver osservato, se non da lontano, le meraviglie della Creazione.
Quest'apologo, narrato da Linneo (Carl von Linné, 1707-1778) durante una lezione dedicata alla descrizione di alcuni insetti per ottenere una maggiore attenzione dal suo uditorio, è citato in una dissertazione di dottorato presentata nel 1752 da uno dei suoi studenti, Christophe Gedner, intitolata Quaestio historico-naturalis: cui bono? (che si può tradurre con 'A che serve la storia naturale?'); questa dissertazione era stata in realtà ispirata, se non redatta, come si usava a quel tempo in Svezia, dal professore stesso, in questo caso Linneo, che in effetti si ritiene ne sia il vero autore (Stafleu 1971). È contenuta nel terzo volume delle Amoenitates academicae ed è stata ripubblicata, assieme ad altri testi del naturalista svedese, da Camille Limoges (1972).
La storia degli antichi saggi che ritornarono dalla Luna senza poter menzionare e descrivere le ricchezze intraviste, ha un duplice significato; da un lato, esorta esplicitamente tutti gli esseri umani a non rinviare lo studio dei diversi aspetti della Creazione e a non accontentarsi di ammirarli distrattamente, dall'altro lato, riprende l'analogia tra il viaggio e la vita umana, un tema retorico vecchio e abusato, conferendogli nuovo vigore: l'uomo è un viaggiatore e dedicandosi allo studio del mondo naturale porta a compimento nel modo migliore il suo destino. A tal fine non vi è alcun bisogno di recarsi sulla Luna; nel mondo in cui viviamo non mancano i materiali necessari alla compilazione di ciò che oggi definiremmo un 'inventario naturalistico'.
Sia che si trattasse delle tavole tassonomiche e descrittive alla maniera di Linneo, sia della forma narrativa ed esplicativa oppostagli da Buffon (1707-1788), l'ambizione d'inventariare quelli che allora venivano chiamati i 'tre regni' della Natura (animale, vegetale e minerale) inglobò tutte le attività naturalistiche in uno stesso progetto scientifico, che andava dal lavoro di laboratorio fino alle esplorazioni in terre lontane, passando per le 'escursioni in campagna'. A partire dall'Histoire des sciences naturelles di Georges Cuvier (1769-1832), un'opera pubblicata negli anni 1841-1845 dopo la morte del suo autore, fino alle più recenti analisi storiche, volte a chiarire le implicazioni politiche e le componenti sociali di questo movimento, tutti gli studi dedicati al periodo concordano nello scorgere in questo progetto una delle più importanti caratteristiche della storia naturale del secolo dei Lumi. Tuttavia, il significato attribuito all'inventario del mondo vivente, la sua formulazione, la sua portata, i benefici che ci si aspettava di trarne e quelli che effettivamente ne conseguirono, sono ancora oggetto di riflessione e la storiografia contemporanea ne ha offerto una lettura nuova.
L'uso del termine 'inventario' per designare l'attività dei naturalisti è così familiare ai biologi e così conveniente per gli storici che si rischia di dimenticare che esso non faceva parte del linguaggio del secolo dei Lumi; designando il lavoro degli zoologi e dei botanici del XVIII sec. con questo termine si ricorre quindi a una definizione retrospettiva: essi infatti non lo utilizzavano in riferimento alla propria attività. Certo, nei dizionari l'uso del vocabolo latino inventarium è attestato in Ulpiano, un giureconsulto romano dell'inizio del III sec., ma, come i termini cui ha dato origine in molte lingue, esso era usato soprattutto nel linguaggio giuridico e commerciale. L'espressione 'inventario naturalistico' rientra dunque nella definizione di ciò che i trattati di retorica chiamano una 'catacresi', cioè l'estensione metaforica del significato di un termine. Si possono ritrovare esempi isolati dell'uso di questo termine sin dalla fine del XIX sec., forse anche prima, ma la sua affermazione definitiva risale agli anni Settanta del XX sec. ed è associata all'espressione 'patrimonio naturale': entrambe le metafore, infatti, rinviano alla visione della Natura come patrimonio comune dell'umanità e alla preoccupazione di trasmettere ai discendenti questo bene ereditato dai progenitori. L'idea che l'uomo possa distruggere o danneggiare gli elementi del mondo naturale non era estranea al secolo dei Lumi, ma non era certo condivisa da tutti, come dimostra l'esempio di Buffon che, al contrario, esaltava la capacità dell'uomo di migliorare la Natura. In ogni caso la sua estensione era limitata, dal momento che privilegiava certi ambienti, per esempio le foreste o le isole oceaniche, e ne escludeva altri, come le paludi o le lande.
Sin dal XVII sec., i naturalisti utilizzarono invece abitualmente il termine 'catalogo', vocabolo di origine greca, anch'esso riscontrabile in molte lingue europee, che non designa soltanto un elenco di libri o di oggetti, disposti in un certo ordine, ma anche qualsiasi elenco virtualmente trascrivibile e ordinabile. Il mondo degli studiosi conosceva da molto tempo il catalogo delle stelle di Ipparco e una delle sue aspirazioni era quella di riuscire a compilare cataloghi altrettanto completi nell'ambito di altre discipline. Il termine è citato frequentemente dagli autori dell'inizio del XIX sec.: nel 1802, Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), nel discorso introduttivo al suo corso di lezioni sulla zoologia, parla di un catalogo in cui sono 'riuniti' o 'menzionati' tutti gli oggetti di studio dei naturalisti e mette in guardia contro il rischio di arrestarsi a questo stadio necessario ma ancora insufficiente (Recherches sur l'organisation des corps vivans). Cuvier, nella relazione Rapport historique sur le progrès des sciences naturelles, presentata a Napoleone nel 1808 e pubblicata nel 1810, che illustra i progressi compiuti dalle scienze naturali dal 1789, spiega che grazie ad alcune recenti scoperte "si conteranno trentamila specie di piante conosciute e registrate in questo grande catalogo della Natura" (ed. Woronoff, p. 219). Non è quindi anacronistico il titolo che François Dagognet (1970) ha attribuito al suo penetrante studio sulle tassonomie di quest'epoca: Le catalogue de la vie. Se il mondo della fisica diviene, a partire da Galilei, un libro scritto in un linguaggio matematico, quello delle scienze naturali è paragonabile a una biblioteca. Sul piano epistemologico, il passaggio dalla metafora del catalogo a quella dell'inventario non indica una frattura radicale, ma piuttosto un'inflessione che giustifica l'uso retrospettivo del secondo termine in sostituzione del primo per sottolineare l'aspetto descrittivo dell'attività dei naturalisti e per caratterizzarne la tendenza all'esaustività e la sistematicità.
Benché fosse un convinto assertore della necessità di redigere un inventario del mondo vivente ‒ un compito al quale, come si sa, dedicò tutta la sua vita ‒ Linneo sapeva bene che molti suoi contemporanei guardavano con disinteresse a questo progetto, e proprio per questo, celandosi dietro il suo studente, utilizzò tanta eloquenza per convincerli. La dissertazione si apre infatti con l'espressione di una "profonda stanchezza" per il disprezzo popolare e l'assenza di riconoscimenti ufficiali di cui sarebbe stata vittima la storia naturale. Linneo constata con amarezza che per molti suoi contemporanei lo studio della Natura non è che una vana curiosità, forse comprensibile nei casi in cui è suscitata da oggetti che richiamavano l'attenzione per le loro grandi dimensioni, ma decisamente ridicola quando si occupa di insetti o di mosche.
Il racconto dei Sette Saggi si inscrive quindi in una vera e propria apologia dell'utilità sociale della storia naturale; l'autore fa ricorso a un gran numero di argomenti che si combinano tra loro in modo diverso nel testo, ma che possono essere ricondotti complessivamente ai seguenti tre (Drouin 1997). Il primo è basato sulla speranza di giungere alla scoperta di specie direttamente utili per l'uomo. L'autore constata che numerosi vegetali esotici utilizzabili in campo alimentare, ornamentale o medicinale sono già stati introdotti in Europa, che alcune piante selvatiche potrebbero rivelarsi utili nel campo dell'alimentazione e che certi insetti predatori potrebbero essere usati per combattere quelli nocivi. Il secondo argomento s'identifica con la tesi secondo cui gli oggetti naturali possono, con la loro semplice esistenza, aiutarci a conoscere più a fondo la Natura nel suo insieme. Così la scoperta di nuove specie vegetali serve a completare le classificazioni, colmando evidenti lacune: la scoperta di un genere intermedio tra due già conosciuti può consentire di individuare le affinità da cui sono legati. Questo incremento di conoscenza teorica potrebbe rivelarsi utile, per esempio ai medici, consentendo di approfondire le proprietà delle piante. Il terzo argomento è basato sul concetto di economia Naturae: ogni pianta, ogni insetto, anche il più piccolo, svelano un aspetto dell'intelligenza creatrice, e considerando la Natura da questo punto di vista, si scopre che tutte le cose create sono utili, sia direttamente sia indirettamente, in modo che "spesso ciò che ci sembra assolutamente nocivo si rivela utile" (L'équilibre de la nature, ed. Limoges, p. 165). Per esempio, i pidocchi vengono mangiati da insetti più grandi che a loro volta servono da nutrimento agli uccelli che ci scambiamo in dono e che ci allietano con il loro canto. Tra i vegetali, alcune piante servono a preparare il terreno, altre lo coprono e lo proteggono, altre ancora ci inondano di profumi o ci servono da riparo. L'argomentazione di Linneo su quest'ultimo punto si basa sulla tesi secondo la quale, catalogando le specie, il naturalista tenta allo stesso tempo di scoprire le connessioni che le uniscono, e in questo modo indica agli uomini ulteriori motivi di ammirazione per l'opera del Creatore. Per usare la nostra terminologia, l'inventario delle forme viventi introduce alla comprensione dell'equilibrio della Natura, e quest'ultimo conforta la teologia naturale.
Questi tre argomenti, che oggi definiremmo rispettivamente 'utilitaristico', 'epistemologico' e 'teologico', si ritrovano, anche se utilizzati diversamente, nelle opere di molti autori. L'argomento utilitaristico, il più invocato, sembra quello più convincente, in quanto stabilisce una relazione tra le spedizioni scientifiche e l'espansione commerciale, ma anche gli altri svolgono un ruolo non trascurabile. L'argomento epistemologico è di difficile uso e rinvia indirettamente a quello precedente, se si ammette che le affinità tassonomiche tra le specie vegetali consentono di presupporre l'esistenza di somiglianze tra le loro proprietà terapeutiche e quindi di renderne più sicura e più efficace l'utilizzazione medica. Infine, l'argomento teologico è largamente diffuso sotto diverse forme, spesso implicite, dal momento che l'ammirazione per l'opera del Creatore può essere sostituita dalla contemplazione dell'ordine della Natura.
L'eloquenza di cui Linneo diede prova nel legittimare l'inventario delle forme viventi era motivata anche dalla convinzione che la Svezia dovesse cercare di mettere a frutto tutte le proprie ricchezze naturali. Sverker Sörlin (1992), in un articolo dedicato agli aspetti nazionali e internazionali dei viaggi scientifici del XVIII sec., ha giustamente sottolineato questo aspetto del pensiero di Linneo analizzando un discorso pronunciato nel 1741 dal professore di Uppsala riguardo alla necessità di compiere spedizioni di ricerca "nella terra natale", e dimostrando in particolare l'importanza che questi attribuiva ai suoi viaggi nelle province, a cominciare dalla spedizione in Lapponia intrapresa durante la giovinezza. Linneo riteneva molto utili anche i viaggi per mare, ai quali non prese mai parte, ma che consigliò a molti dei suoi studenti, che egli chiamava i suoi 'apostoli'. Essi riuscirono a raggiungere paesi lontani viaggiando su navi straniere e, come è stato sottolineato, il fatto che la Svezia in quel periodo non fosse temuta dalle grandi potenze europee consentì loro di non essere sospettati di agire per conto di interessi economici o militari minacciosi.
Wilfried Blunt (1971) nella sua biografia di Linneo ne ha ricordato gli itinerari e ha rievocato i loro destini spesso tragici. Fredrik Hasselqvist (1722-1752) partì nel 1749 per erborare nel Vicino Oriente; soggiornò in Egitto, in Palestina, in Siria, a Cipro e a Rodi, e infine si ammalò e morì a Smirne nel 1752; Linneo fece pubblicare il suo diario di viaggio che apparve nel 1757 con il titolo di Iter Palaestinum. Pehr Löfling (1729-1756), dopo aver erborato nella Penisola Iberica, su invito della Corona spagnola partecipò alla Expedición de Límites, che si proponeva sia di tracciare i confini tra i possedimenti spagnoli e quelli portoghesi nella regione americana dell'Orinoco, sia di effettuare esplorazioni scientifiche. Giunto a Cumana nell'aprile 1754, Löfling si dedicò intensamente all'erborazione, ma fu colpito da una febbre tropicale e morì in Guiana il 22 febbraio 1756. Peter Forsskal (1732-1763) partecipò alla spedizione promossa dalla Corona danese in Egitto e in Arabia; il 10 luglio 1763 morì a causa di una malattia nello Yemen, lasciando i materiali necessari alla compilazione di una flora 'egiziano-arabica', pubblicati in seguito grazie allo zelo di Carsten Niebuhr, unico membro sopravvissuto della spedizione. Assieme ai suoi cinque compagni, egli ebbe tuttavia la fortuna postuma di rivivere due secoli più tardi in un racconto dello scrittore danese Thorkild Hansen (1963); sono invece meno noti i viaggi di altri due allievi di Linneo, Christopher Tërnstrom e Anders Berlin, anch'essi vittime della propria dedizione alla causa della storia naturale. Altri 'apostoli' furono più fortunati: Peter Kalm, per esempio, il cui nome è associato alla flora canadese, o Carl Peter Thunberg, che approfittò del soggiorno presso la base commerciale olandese di Nagasaki per raccogliere i materiali necessari alla compilazione di una flora 'nipponica', pubblicata nel 1784; o Daniel Carl Solander e Anders Sparrmann, che parteciparono rispettivamente al primo e al secondo viaggio di James Cook.
Sembra quindi che per oltre trenta anni i discepoli di Linneo si siano dedicati alla realizzazione del programma che il loro maestro aveva sintetizzato nelle ultime pagine della Philosophia botanica, del 1751: "Innanzi tutto guardare con meraviglia tutte le cose, anche le più comuni. Quindi esporre con la penna tutto ciò che si è visto e che si considera utile. Infine descrivere la Natura con più accuratezza di chiunque altro" (p. 297). Il brano che segue queste massime, in cui sono elencati i differenti dati che si devono annotare in relazione alle montagne e alle fonti, alle rocce, alle piante e agli animali, ma anche ai fenomeni economici, ai costumi e alle antichità, costituisce in qualche modo l'abbozzo di un'altra dissertazione linneana. Quest'ultima, intitolata Instructio peregrinatoris e firmata da un altro studente di Linneo, E. Nordblad, apparve nel 1759; essa appartiene al genere molto significativo delle istruzioni di viaggio, sul quale Marie-Noëlle Bourguet (1996) e Lorelaï B. Kury (1995, 2001) hanno giustamente richiamato l'attenzione.
Il legame tra Linneo e i viaggi d'esplorazione non si limita alle sue 'spedizioni', modeste escursioni regionali, né alle esortazioni rivolte ai suoi discepoli, e neppure alle istruzioni scritte. Esso è costituito soprattutto dal fatto che egli dotò la storia naturale di strumenti tassonomici ‒ la nomenclatura binomia e il sistema sessuale di classificazione ‒ atti a consentire a ogni naturalista di sapere se l'esemplare che aveva di fronte fosse già stato descritto e quindi di individuare il suo nome e la classe alla quale apparteneva o, nel caso fosse di una specie non ancora descritta, di assegnargli ‒ a condizione che fosse in fiore ‒ un'affiliazione tassonomica. Il legame tra la tassonomia e i viaggi è sottolineato in maniera energica nel brano della Philosophia botanica in cui Linneo immagina l'atteggiamento del 'botanofilo' (colui che mostra interesse per le piante senza essere un botanico) e quello del vero botanico davanti a una pianta sconosciuta proveniente dalle Indie: mentre il primo "consulterà tutte le descrizioni, tutte le figure, tutti gli indici, senza tuttavia riuscire a trovarne il nome, se non per caso, il botanico sistematico individuerà immediatamente il genere della pianta, sia antico, sia nuovo" (p. 98).
Così Jean-Jacques Rousseau, ammiratore di Linneo, difende la nomenclatura linneana nei Fragments pour un dictionnaire des termes d'usage en botanique (redatti verso il 1774, ma pubblicati postumi nella Collection complète des oeuvres) proprio in rapporto ai viaggi:
Si tratta di sapere […] se le conoscenze acquisite da tutti gli eruditi che hanno dedicato la loro borsa, la loro vita e le loro veglie a viaggi immensi, costosi e pericolosi, debbano essere inutili ai loro successori, e se ciascuno ripartendo agli inizi sempre da zero, possa acquisire le stesse conoscenze che una lunga serie di ricerche e di studi hanno diffuso tra la massa del genere umano. (Oeuvres, p. 1209)
In altri termini, l'adozione di una nomenclatura consentiva di capitalizzare le esperienze dei viaggi in un'opera collettiva; ma il prezzo da pagare era alto. Rousseau, il quale considerava le resistenze all'adozione di questa nomenclatura manifestazioni di orgoglio nazionale, non dice che il suo impiego allontana la botanica dai nomi locali, spesso basati sull'uso delle piante o sul loro aspetto; a questo riguardo egli privilegia il punto di vista del viaggiatore rispetto a quello dell'indigeno. Sembra che fosse proprio questo uno dei motivi della controversia che oppose il botanico nato in Messico, José Antonio Alzate (1737-1799) ai suoi colleghi spagnoli della spedizione botanica nella Nuova Spagna: Alzate, infatti, rimproverava agli Spagnoli di voler imporre la nomenclatura linneana, un atteggiamento che, a suo parere, equivaleva a negare l'esistenza di un sapere botanico locale, indiano e in seguito creolo.
L'inventario delle forme viventi, tuttavia, non è esclusivamente riconducibile all'opera di Linneo, sia per ragioni interne allo sviluppo della sistematica, sia per ragioni semplicemente cronologiche, dal momento che i primi viaggi naturalistici sono anteriori alla redazione e alla diffusione dei testi linneani; il naturalista svedese sembra dunque aver teorizzato e dato un impulso alla pratica dei viaggi più che averla inaugurata. Nella Philosophia botanica, infatti, egli si riferisce in termini elogiativi all'opera di alcuni di questi viaggiatori, tra i quali se ne distinguono tre, nati verso la metà del XVII sec. e morti all'inizio del XVIII: Engelbert Kaempfer, Charles Plumier e Joseph Pitton de Tournefort.
Engelbert Kaempfer nacque nel 1651 a Lemgo, una cittadina tedesca situata nella contea di Lippe, nel territorio oggi corrispondente alla Renania-Vestfalia. Studiò medicina e si interessò alla storia naturale. Nel 1683 accettò di partecipare come segretario alla missione inviata dalla Svezia in Persia, incarico che gli offrì l'occasione di attraversare la Russia da nord a sud e di visitare la Persia che ben presto però abbandonò per proseguire il suo viaggio. Fu assunto come chirurgo da una flotta olandese e poté così scoprire la vegetazione, allora quasi sconosciuta agli Europei, delle coste dello Yemen, dell'India e di Ceylon. Quindi raggiunse Batavia (oggi Giacarta, in Indonesia) dove esercitò per alcuni mesi la professione, prima di ottenere l'incarico di medico dei commercianti olandesi in Giappone. Questa posizione gli consentì di intravedere questo paese, allora chiuso agli stranieri, dalla sola 'porta' che rimaneva socchiusa: un isolotto accessibile soltanto agli Olandesi e strettamente sorvegliato in cui trascorse i due anni successivi dedicandosi allo studio sia della flora locale sia di tutti gli altri aspetti del paese. In seguito, ritornò nella sua cittadina natale, dove divenne medico del conte di Lippe, si sposò, pubblicò le sue osservazioni e infine morì nel 1716.
Charles Plumier nacque a Marsiglia nel 1646. A sedici anni entrò nell'ordine religioso dei minimi e poté così proseguire i suoi studi. Si recò a Roma, studiò matematica e botanica, erborò in Provenza e nelle Alpi. Nel 1689, un medico marsigliese, Joseph-Donat Surian (1649-1712) che era stato incaricato da Michel Bégon, intendente delle Galere a Marsiglia, di studiare la flora delle Antille, gli propose di accompagnarlo. Infaticabile osservatore e buon disegnatore, Plumier riportò da questo primo viaggio (1689-1690) i materiali necessari alla compilazione di una Description des plantes de l'Amérique, pubblicata nel 1693. Nello stesso anno ripartì per le Antille senza Surian, con il quale aveva litigato, ma con il titolo di 'botanico del re'. Nel 1696 si recò per la terza volta nelle Antille; morì nel 1704 a Cadice, mentre si apprestava a imbarcarsi per il Perù alla ricerca del famoso quinquina, un albero del genere Ciricliona noto per le sue proprietà terapeutiche. Plumier ha lasciato un gran numero di disegni e di manoscritti sulla flora e la fauna delle Antille, una parte dei quali è rimasta inedita; tra le centinaia di piante descritte da Plumier, si ricordano la begonia, così chiamata in onore di Michel Bégon, la magnolia, dedicata al botanico di Montpellier Pierre Magnol, e la fucsia, il cui nome rinvia al naturalista tedesco Leonhard Fuchs.
Nato nel 1656 ad Aix-en-Provence, Joseph Pitton de Tournefort aveva compiuto i suoi studi a Montpellier e aveva erborato in Francia, in Spagna e in Portogallo. Mentre svolgeva l'attività di insegnante di botanica presso il Jardin des Plantes di Parigi, e dopo aver dato alle stampe nel 1694 gli Élémens de botanique, un'opera che successivamente tradusse in latino con il titolo di Institutiones rei herbariae e nella quale proponeva un metodo di classificazione dei vegetali basato sulla forma della corolla, fu incaricato da un ministro di Luigi XIV, Louis Phélyppeaux conte di Pontchartrain, di compiere una missione in Oriente per approfondire la conoscenza delle risorse naturali che si potevano nascondere nell'Impero ottomano. Gli furono assegnati due compagni: Andreas Grundesheimer, un medico tedesco, e Claude Aubriet. I tre partirono da Parigi il 9 marzo 1700, visitarono Creta, le isole greche, Costantinopoli, l'Anatolia, l'Armenia, e il 3 giugno 1702 fecero ritorno a Marsiglia, dopo aver raccolto più di un migliaio di nuove piante. Tournefort iniziò a dare alle stampe il suo diario di viaggio, costituito dalle lettere inviate a Pontchartrain, ma morì nel 1708 prima di averne completato la pubblicazione.
Le figure di Kaempfer, Plumier e Tournefort anticipano in parte quelle dei viaggiatori naturalisti del XVIII sec., così come sono stati descritti da Yves Laissus (1981) e da Marie-Noëlle Bourguet (1996). Plumier era un uomo di chiesa, Kaempfer e Tournefort erano medici; due professioni che aprivano molte porte a un viaggiatore e gli garantivano vitto e alloggio: vi erano infatti conventi in molti paesi e malati in tutte le regioni del mondo. D'altronde essi non erano soltanto botanici, ma anche zoologi e geografi, e si interessavano a tutti gli aspetti dei luoghi che visitavano. La loro formazione scientifica di base era già solida, ma essi seguitarono ad ampliarla e al ritorno in patria pubblicarono opere in cui si alternano racconti e descrizioni. Plumier e Tournefort viaggiavano su incarico del re; Kaempfer invece di sua iniziativa e a sue spese. Infine, benché avessero visitato paesi già colonizzati, come le Antille, o legati all'Europa da relazioni commerciali o diplomatiche, come l'Asia, tutti e tre incontrarono pericoli e difficoltà.
Nel corso del XVIII sec., i loro successori furono numerosi: oltre agli allievi di Linneo già ricordati, vi fu anche uno dei più ostinati oppositori del suo metodo, il naturalista francese Michel Adanson (1727-1806). Nato ad Aix-en-Provence e appassionato studioso di botanica sin dalla prima giovinezza, a ventidue anni partì per il Senegal come agente della Compagnia delle Indie. Rimase in questo paese per quattro anni, nel corso dei quali si dedicò allo studio della flora e della fauna locale descrivendo in particolare il baobab, al quale fu in seguito attribuito in suo onore il nome scientifico di Adansonia digitata. Ritornato in Francia, pubblicò nel 1754 un'Histoire naturelle du Sénégal, entrò a far parte dell'Académie Royale des Sciences e nel 1763, nelle Familles des plantes, propose un nuovo metodo di classificazione. Altri viaggiatori, il cui nome non è altrettanto noto nella storia della sistematica, contribuirono attivamente all'inventario del mondo vivente, studiando la flora o la fauna di una o più regioni fino ad allora poco conosciute. Tra questi ‒ per citare soltanto alcuni dei nomi segnalati negli annali della storia naturale ‒ l'inglese Mark Catesby (1682-1749), che visitò dal 1712 al 1719 la Carolina, la Virginia, la Florida e le isole Bahamas, raccogliendo piante, studiando e disegnando esemplari di uccelli, o padre d'Incarville (1706-1757), uno degli eruditi gesuiti a cui era stata concessa l'autorizzazione di risiedere a Pechino, che da questa città intrattenne un'intensa corrispondenza con il Jardin du Roi di Parigi e con la Royal Society di Londra, inviando loro semi e piante essiccate. Tuttavia, per quanto importanti ai fini dell'inventario del mondo vivente, queste raccolte furono eclissate dalle grandi spedizioni scientifiche, in relazione alle quali, presumendo che il XVIII sec. inizi nel 1690 e finisca nel 1804, si potrebbero distinguere due periodi: il primo, quello che va dal 1690 al 1766, caratterizzato dalle avventure individuali, il secondo, compreso tra il 1766 e il 1804, dalle imprese collettive.
Questa periodizzazione sottolinea il fenomeno delle grandi spedizioni scientifiche marittime intorno al mondo, intraprese nel corso degli ultimi quattro decenni del XVIII sec. grazie ai progressi compiuti dall'arte della navigazione. La spedizione guidata da Louis-Antoine de Bougainville, salpata dalle coste francesi nel novembre 1766 e rientrata nel marzo 1769, è una delle più celebri, per lo scalo a Tahiti e soprattutto per l'arbusto sudamericano che il naturalista della spedizione, Philibert Commerson (1727-1773), chiamò bougainvillier in omaggio al suo capitano. Ai tre viaggi di Cook (il primo dei quali si svolse tra il 1768 e il 1771, il secondo tra il 1772 e il 1775 e il terzo, nel corso del quale morì, tra il 1776 e il 1779), i Francesi risposero con la spedizione guidata da Jean-François de Galaup conte di La Pérouse (1741-1788) che partì nel 1785. La scomparsa di quest'ultimo determinò l'invio di un'altra spedizione sulle sue tracce, guidata da Antoine-Raymond Joseph de Bruni d'Entrecasteaux (1737-1793); La Pérouse non fu ritrovato e la spedizione terminò nelle Indie Olandesi a causa di dissensi politici legati alla Rivoluzione francese, ma nel corso del viaggio fu eseguito un vero lavoro scientifico, soprattutto grazie al botanico Jacques Houtou de la Billardière (1755-1834). Nel settembre 1794, una spedizione marittima spagnola guidata da un capitano d'origine italiana, Alejandro Malaspina (1754-1809) fece ritorno a Cadice dopo più di cinque anni di esplorazioni. Infine, dal 1801 al 1803, il naturalista Robert Brown (1773-1853) ‒ noto ai fisici per il moto che porta il suo nome ‒ partecipò alla spedizione di Matthew Flinders (1774-1814) che esplorò le coste australiane nello stesso momento in cui in quelle acque incrociava la spedizione francese guidata da Nicolas Baudin (1754-1803). Quest'ultima riportò un'impressionante quantità di materiale al termine di un viaggio estremamente difficile, soprattutto per i contrasti tra gli studiosi e i marinai, tanto che, dopo l'interruzione determinata dalle guerre napoleoniche, nell'intraprendere nuove spedizioni la marina francese evitò di rivolgersi a squadre di scienziati civili e preferì ricorrere ai propri esperti, medici, farmacisti o ufficiali. Alle circumnavigazioni bisogna poi aggiungere le numerose spedizioni terrestri organizzate dagli Stati: innanzi tutto quella che tra il 1768 e il 1774, su incarico di Caterina di Russia, esplorò la Siberia e alla quale partecipò lo zoologo d'origine tedesca Peter Simon Pallas (1741-1811); quindi quelle che Carlo III di Spagna inviò nella Nuova Granada (l'attuale Colombia) nel 1783 e poi nella Nuova Spagna (Messico) nel 1788; infine quella che nel 1798 Bonaparte condusse in Egitto insieme all'esercito francese, che con i suoi 150 eruditi, ingegneri, artisti e tecnici, segnò l'apogeo delle grandi spedizioni politico-scientifiche.
In realtà questa periodizzazione è un po' artificiosa: alcune spedizioni collettive, infatti, furono intraprese prima dei viaggi di Cook e di Bougainville. Due di queste sono già state menzionate a proposito della tragica sorte di alcuni discepoli di Linneo: la spedizione spagnola verso l'Orinoco, che costò la vita a Pehr Löfling, e la spedizione danese in Arabia, nel corso della quale trovò la morte Peter Forsskal. Non bisogna inoltre dimenticare le due missioni che nel 1735 ebbero dall'Académie Royale des Sciences di Parigi l'incarico di misurare un tratto di un meridiano. La prima, alla quale parteciparono Pierre-Louis Moreau de Maupertuis e Alexis-Claude Clairaut, operò in Lapponia tra il 1736 e il 1737; la seconda, cui presero parte Charles-Marie de La Condamine, Pierre Bouguer e Louis Godin affiancati dal botanico Joseph de Jussieu, da numerosi collaboratori e da due ufficiali spagnoli, Jorge Juan e Antonio De Ulloa, svolse il suo incarico in Perù (e nel territorio oggi corrispondente all'Ecuador) tra il 1735 e il 1744.
L'organizzazione delle grandi spedizioni collettive successive al 1766 non causò la fine delle imprese individuali, più o meno promosse o sostenute dalle accademie o dalle autorità politiche. Grazie all'appoggio del medico di Luigi XVI, Louis-Guillaume Le Monnier, René Louiche Desfontaines (1750-1833) intraprese tra il 1782 e il 1785 un viaggio in Africa del Nord, nel corso del quale raccolse il materiale necessario alla compilazione di una bellissima Flora Atlantica pubblicata tra il 1797 e il 1799, in cui sono descritte 1520 specie, 300 delle quali fino ad allora sconosciute ai naturalisti europei. Bisognerebbe menzionare molti altri nomi, ma il periplo più spettacolare e più ricco dal punto di vista scientifico fu incontestabilmente quello compiuto in America da Alexander von Humboldt (1769-1859) e Aimé Bonpland (1773-1858) che li condusse dalle cime della Cordigliera delle Ande fino alle profondità della foresta amazzonica.
Il passaggio dal primo al secondo periodo, cui abbiamo accennato in precedenza, non fu caratterizzato da un'assoluta discontinuità ma piuttosto da un processo di "scientization of travel" (Sörlin 1992), nel corso del quale le motivazioni scientifiche acquistarono una rilevanza crescente, senza tuttavia soppiantare del tutto gli interessi missionari, strategici e commerciali. Questi interessi sono stati riconosciuti da tutti gli storici; come ha scritto Janet Browne: "Le spedizioni venivano intraprese per scopi amministrativi e sociali complessi, nell'ambito dei quali l'esplorazione geografica e il fascino delle scoperte erano soltanto elementi secondari" (1996, p. 312).
Le avventure dei viaggiatori naturalisti si inscrivevano in uno scenario di violenza latente; certo, l'epoca dei Conquistadores era terminata e quella dell'imperialismo doveva ancora iniziare, ma l'Africa era devastata dalla tratta degli schiavi; l'intera America era sottoposta al dominio dei coloni di origine europea; l'Asia e il Pacifico erano oggetto di rivalità commerciali tra le grandi potenze dell'epoca. Il ruolo di questi fattori socio-politici era spesso complesso, poiché la loro posizione nei riguardi dell'attività scientifica era diversa e a volte contraddittoria. Ciò è particolarmente evidente nel caso dell'America ispanica: Antonio Lafuente e Leoncio López-Ocón Cabrera (1996) hanno mostrato infatti come le differenti forze coloniali (la Chiesa, la metropoli, i viceré e i creoli) avessero concezioni diverse dell'attività scientifica. Bisogna inoltre aggiungere che, tra le stesse motivazioni scientifiche, l'inventario naturalistico spesso svolgeva soltanto un ruolo ausiliario, e che quelli della cartografia o delle osservazioni astronomiche erano altrettanto importanti.
L'esempio del primo viaggio di Cook è molto significativo al riguardo: esso costituì per Joseph Banks (1743-1820), accompagnato da uno degli allievi di Linneo, Daniel Carl Solander, e per il pittore di storia naturale Sydney Parkinson (1745-1771) un'eccezionale occasione per raccogliere esemplari di specie vegetali e animali; questo però non era né l'unico, né l'originale scopo della spedizione, incaricata anche di osservare il passaggio di Venere davanti al Sole e di trovare il continente australe.
Come ha ricordato Numa Broc (1969), la ricerca di un ipotetico Continente australe, così come quella di un passaggio a nord dell'America tra l'Atlantico e il Pacifico, è stata una delle grandi questioni della geografia del XVIII sec. e ha condizionato le imprese dei navigatori. Attraversando il Pacifico e incontrandovi soltanto alcune isole, Cook privò di gran parte della sua credibilità l'idea secondo la quale in quelle latitudini esisteva un Continente australe e, dopo il suo secondo viaggio, poté giungere alla conclusione che esso non esisteva a meno che non si trovasse nei pressi del Polo. Il desiderio di impadronirsi dell'ipotetico continente al quale si attribuiva una grande importanza non soltanto geografica ma anche politica, non fu evidentemente estraneo alla decisione di organizzare la spedizione; tuttavia, agli occhi degli scienziati della Royal Society, l'osservazione astronomica era un elemento altrettanto decisivo.
Per gli astronomi era in gioco una questione di grande importanza, poiché il passaggio di Venere davanti al Sole avrebbe consentito di misurare le dimensioni del Sistema solare. Questi passaggi sono rari; gli scienziati sapevano che se ne sarebbe verificato uno nel 1761 e un altro nel 1768 e che per più di un secolo il fenomeno non si sarebbe ripetuto. Come hanno spiegato gli storici dell'astronomia, la durata del passaggio di Venere davanti al disco solare varia a seconda della latitudine del punto della superficie terrestre in cui si trova l'osservatore; così, conoscendo le dimensioni della Terra, queste osservazioni potevano consentire di calcolare la distanza tra la Terra e il Sole. L'osservazione si rivelò più difficile e meno fruttuosa di quanto si era creduto; tuttavia, malgrado questa delusione, il passaggio di Venere, per la mobilitazione cui diede luogo, rimane emblematico nella storia dei legami tra i viaggi e l'astronomia. Questo legame si era già reso evidente nelle due spedizioni in Lapponia e in Perù che avevano avuto il compito di misurare il meridiano terrestre, e si esprimeva quotidianamente nell'altro senso, quello del contributo dell'astronomia ai viaggi, con il calcolo della longitudine e della latitudine. Se da un lato il calcolo della latitudine ‒ attraverso la misurazione dell'altezza del Sole o di un altro astro ‒ non presentava difficoltà insormontabili, dall'altro, la determinazione della longitudine, attraverso il confronto tra l'ora locale e quella di un meridiano di riferimento, presupponeva un dato spesso difficilmente ottenibile: la conoscenza dell'ora di questo meridiano. Il metodo 'delle distanze lunari', basato sullo spostamento della Luna rispetto alle stelle fisse (pari a circa mezzo grado l'ora), che permette di considerarla una sorta di cronometro astronomico, era tuttavia di difficile applicazione; fu solo nel secondo viaggio di Cook che fu possibile sperimentare un cronometro da marina costruito sul modello di quello di John Harrison (1693-1773).
Benché non costituissero né l'unica, né la principale motivazione dei viaggi per mare, l'osservazione e la raccolta delle specie animali e vegetali ne erano comunque uno degli aspetti essenziali; i risultati più spettacolari di molti di questi viaggi, infatti, sono incontestabilmente rappresentati dall'aumento del numero delle specie inventariate. Tale incremento, particolarmente rilevante nel campo della botanica, fu il risultato della concomitanza di molti fenomeni biogeografici il cui ruolo è stato dimostrato soltanto più tardi. In primo luogo, il numero delle specie vegetali che crescono spontaneamente in una regione aumenta proporzionalmente alla superficie presa in considerazione; in secondo luogo, a parità di condizioni, nelle aree tropicali vivono più specie vegetali che in quelle temperate; infine, la disposizione est-ovest assunta dalle Alpi e dal Mediterraneo all'epoca delle ultime glaciazioni ha ostacolato le migrazioni da nord a sud delle specie vegetali, provocando così in Europa una riduzione della diversità floristica che non ha equivalenti in America o in Estremo Oriente. In questo modo, l'esplorazione delle regioni non europee non soltanto portò i naturalisti occidentali alla scoperta di migliaia di specie di cui allora si ignorava l'esistenza, ma consentì loro di conoscere regioni proporzionalmente più ricche di specie viventi di quelle nelle quali erano nati.
Consultando le storie della botanica si trovano cifre che hanno un valore indicativo: se nel 1596 le specie descritte da Gaspard Bauhin (1550-1634) erano 2700 e, verso la fine del XVII sec., quelle prese in considerazione da Tournefort erano più di 10.000, nel 1763, Adanson riteneva che le specie conosciute fossero 18.000, e nel 1813 Augustin-Pyramus de Candolle portò il loro numero a 30.000. Probabilmente oggi bisognerebbe moltiplicare questo numero per dieci (e la zoologia ha seguito un percorso parallelo; finora, infatti, sono state descritte un milione e mezzo di specie, per la maggior parte insetti). A questo aumento del numero delle specie descritte, corrisponde ‒ per ciò che concerne i vegetali ‒ un aumento del numero delle specie coltivate o curate per uso alimentare, medicinale, industriale od ornamentale. Questo, come si è detto, era uno dei più importanti argomenti a favore dell'utilità sociale della botanica, e di fatto la pratica di ciò che alcuni autori in seguito chiameranno 'acclimatazione' era una delle funzioni più importanti attribuite alle raccolte di esemplari viventi.
Alfred Crosby (1986) ha ricordato che l'esportazione di una parte della fauna e della flora europee in paesi come l'America del Nord e, molto più tardi, la Nuova Zelanda ha reso possibile in essi l'insediamento stabile di popolazioni europee; ma anche le migrazioni da una regione tropicale a un'altra ebbero una grande importanza, e un ruolo fondamentale fu svolto dall'introduzione in Europa di specie provenienti dagli altri continenti. D'altra parte, molte specie esotiche, vegetali e animali, introdotte volontariamente o involontariamente in una regione sono ritornate allo stato selvatico: nelle isole questo fenomeno è stato più vasto, più spettacolare e più attentamente studiato, ma ha avuto una certa diffusione anche nelle ville e nei giardini. Già nel 1744, lo stesso Linneo osservava nel Discours sur l'accroissement de la terre habitable: "È trascorso appena un secolo da quando l'Erigeron canadensis venne trasportato dall'America ai giardini di Parigi; già i suoi semi si sono sparsi e questa pianta oggi è diffusa in Francia, in Italia, in Sicilia, in Belgio e in Germania" (L'équilibre de la nature, ed. Limoges, p. 40). Oggi, due secoli più tardi, questa pianta, il cui nome scientifico è Conyza canadensis, è una delle più diffuse nei terreni incolti, nelle sodaglie e nelle macerie.
Tutte queste introduzioni volontarie o involontarie, che hanno seguitato a modificare l'inventario delle specie viventi man mano che si tentava di definirlo, non furono però una caratteristica distintiva del XVIII sec.; sembra infatti che i naturalisti del secolo dei Lumi abbiano teorizzato e sistematizzato una pratica anteriore più che aver prodotto vere e proprie innovazioni. In qualche modo le introduzioni che influirono più profondamente sui costumi degli Europei (il mais, la patata, il pomodoro, il tabacco, ecc.) risalgono al secolo successivo alla 'scoperta' del nuovo mondo e non furono necessariamente opera dei naturalisti.
Si pone quindi la questione dell'effettiva utilità per i naturalisti dei viaggi del XVIII sec.; non era forse preferibile che rimanessero nei gabinetti, con i loro libri e le loro collezioni di riferimento, a riunire, classificare, confrontare, studiare l'utilità delle osservazioni e degli esemplari raccolti dai viaggiatori? È noto che Buffon lavorò sempre in questo modo e ciò non gli impedì di realizzare una delle più importanti opere del secolo nel campo della storia naturale; e il suo non era un caso isolato. Dorinda Outram (1996) cita un testo significativo redatto da Georges Cuvier nel 1807 in cui l'autore pone a confronto il lavoro del naturalista viaggiatore e quello del naturalista sedentario e, pur sostenendo la complementarità di queste posizioni, stabilisce la superiorità del secondo che può confrontare ed esaminare con comodo gli oggetti, scegliere e definire i problemi che intende trattare, e percorrere liberamente il vasto Universo, mentre il viaggiatore si limita a seguire una certa rotta. Un'eco di quest'idea si ritrova anche negli scritti dei naturalisti viaggiatori. È noto che Étienne Geoffroy-Saint-Hilaire (1772-1844) trasse un beneficio intellettuale dalla partecipazione alla spedizione in Egitto; ciononostante, in una lettera destinata a Cuvier, inviata da Alessandria il 10 fiorile dell'anno VII, dopo aver descritto le sue ricerche sull'anatomia dei pesci, esclamava con amarezza: "Purtroppo lavoro in un campo in cui sono stati compiuti grandi progressi in Europa. Ciò che scopro qui, i Lacépède, i Bloch, l'hanno osservato prima di me e viene dato alle stampe a Parigi e a Berlino!" (Geoffroy-Saint-Hilaire a Cuvier, 30 aprile 1800, Lettres, p. 178). Al ritorno, giustificando l'utilità del suo soggiorno in Egitto, in una lettera del 17 dicembre 1801 spiegava ad Antoine-Laurent de Jussieu (1748-1836) che in quel paese aveva potuto lavorare con la stessa tranquillità di cui godeva a Parigi: "Tuttavia, mio caro collega, voglio tranquillizzarla riguardo al timore che mi ha espresso. Mi sembra che lei ritenga che avrei fatto di più per le scienze rimanendo al Museo che viaggiando in Egitto. Ma l'esperienza mi convince del contrario. Il viaggio in Egitto è stato diverso da quelli intrapresi dagli altri naturalisti: ho condotto quasi sempre una vita sedentaria e ho studiato con la stessa tranquillità di cui godevo a Parigi" (lettera manoscritta; Parigi, Bibliothèque Centrale du Muséum National d'Histoire Naturelle).
Eppure, all'inizio del secolo, Fontenelle, nel suo elogio di Tournefort, affermava a proposito della botanica: "I soli libri che possono istruirci a fondo in questa materia sono stati sparsi a caso su tutta la superficie della Terra, e bisogna risolversi ad affrontare fatiche e pericoli per cercarli e riunirli" (éloges des académiciens, 1740, p. 171). Ciò poteva valere anche per la zoologia e per la mineralogia e, come si è detto, Linneo era un sostenitore dell'utilità dei viaggi. Come conciliare questi atteggiamenti contraddittori? In effetti, è necessario distinguere più fasi: in primo luogo, i viaggi dovevano essere intrapresi perché erano necessari all'arricchimento delle collezioni e dell'inventario delle forme viventi; in secondo luogo, questo compito non poteva essere affidato a una persona qualunque, né si poteva lasciarla agire come credeva e farle raccontare ciò che voleva. Erano quindi due le soluzioni per il naturalista: istruire i viaggiatori o viaggiare egli stesso. Queste due soluzioni, che potevano opporsi o essere considerate complementari, derivavano dalla stessa 'educazione dello sguardo', per usare le parole di Michel Foucault. Egli infatti, in Les mots et les choses ha mostrato che il passaggio dalle molteplici storie del Rinascimento alla storia naturale dell'Età classica era legato all'imporsi di una distinzione oggi divenuta familiare tra ciò che vediamo, ciò che gli altri hanno visto e ciò che gli altri hanno potuto immaginare (Foucault 1966). Questa distinzione tra l'osservazione, il documento e l'invenzione costituisce il primo fondamento epistemologico del viaggio naturalistico della fine del XVII e del XVIII secolo.
Il cambiamento riguarda innanzitutto lo sguardo; non si identifica immediatamente né necessariamente con un cambiamento della rappresentazione dei fenomeni. Tutto questo è evidente nell'atteggiamento di Tournefort, il quale, dopo aver visitato alcune cave di sale nella regione di Erevan, osservava che gli "Orientali credono che il sale cresca nelle cave" e aggiungeva che la stessa cosa gli era stata detta in Spagna; inoltre, anche chi lavorava nelle cave di marmo era convinto che le pietre "davvero crescessero per un principio interno, come i tartufi e i funghi"; tuttavia, aggiungeva "non bisogna basarsi su questi pregiudizi, ma su osservazioni ben verificate" (Relation d'un voyage au Levant fait par ordre du roy, 1717, III, p. 194). Come dimostra il racconto della sua visita in una grotta dell'isola di Antiparos, egli stesso però considerava un fenomeno reale la "vegetazione delle pietre": in effetti, era convinto che le splendide concrezioni calcaree di cui tracciò la descrizione e che Aubriet raffigurò in alcuni disegni, fossero prodotte dall'attività vegetativa delle pietre e non "dalla caduta di gocce d'acqua" (ibidem, I, p. 223). Anche se l'estensione che Tournefort attribuiva al campo delle forme viventi è stata in seguito smentita, la sua condotta indica chiaramente che i viaggi erano necessari per accertarsi in prima persona dei fenomeni e non doversi accontentare dei 'pregiudizi'.
L'idea che non fosse sufficiente viaggiare in paesi lontani ma che bisognava farlo ponendosi le questioni giuste è implicita nella redazione di istruzioni destinate ai viaggiatori, già ricordate a proposito di Linneo; essa infatti non si limitava all'inventario delle specie animali e vegetali. La critica dei viaggiatori non istruiti e vittime dei loro pregiudizi è stata espressa in maniera efficace da Rousseau in una nota del Discours sur l'inégalité. L'autore inizia con il criticare i viaggiatori ‒ marinai, soldati, mercanti o missionari ‒ che, col pretesto di descrivere gli uomini che vivono in paesi lontani, non parlano d'altro che degli Europei. Rousseau si aspetta invece che i viaggiatori insegnino a conoscere il genere umano, e auspica un viaggio intorno al mondo "per studiarvi non pietre e piante, ma una volta tanto uomini e costumi". Esclude dalla sua critica il gioielliere francese Jean Chardin (1643-1713) che "ha detto tutto sulla Persia" e alcuni viaggiatori eruditi: le spedizioni di La Condamine e di Maupertuis, i gesuiti che avevano osservato attentamente la Cina, e Kaempfer il quale offre "una passabile idea del poco che ha visto del Giappone".
Le missioni dell'Académie in Cina e in Lapponia, quelle dei gesuiti in Cina e le spedizioni di Kaempfer in Giappone rappresentano il florilegio del viaggio antropologico dove si ritrovano alcuni riferimenti classici del viaggio astronomico o naturalistico della prima metà del secolo. In questo periodo, infatti, la letteratura sui viaggi svolgeva già un ruolo significativo nella cultura europea. L'autore di Manon Lescaut, l'abate Prévost (1697-1763), pubblicò tra il 1746 e il 1761 una Histoire des voyages in sedici volumi che fu tradotta in molte lingue; le Lettres édifiantes et curieuses pubblicate dai missionari gesuiti tra il 1702 e il 1776 fecero una grande impressione sul pubblico colto del tempo (Broc 1969). Nel corso della seconda metà del secolo, lo sviluppo dei viaggi per mare alimentò le controversie sullo stato di natura e sul valore delle costrizioni imposte dalla civiltà. La storia dello scalo a Tahiti narrata da Bougainville ispirò a Diderot il Supplément au voyage de Bougainville (iniziato nel 1772 e pubblicato dopo la sua morte) in cui l'autore utilizzò la presunta libertà dei costumi polinesiani come argomento contro la morale religiosa europea.
In tutto questo l'inventario delle forme viventi non era direttamente coinvolto, e la situazione comportava apparentemente un duplice paradosso. Da un lato, la raccolta delle specie vegetali e animali sembra fosse il principale obiettivo dei naturalisti del XVIII sec., e molti di loro riuscirono a progredire nella carriera e persino nella propria opera grazie ai viaggi compiuti da altri; dall'altro lato, l'impatto culturale dei viaggi sembra fosse basato più sulla scoperta di società non europee che sull'inventario delle forme viventi. In realtà questo parodosso si risolve se si ammette che i viaggi dei naturalisti non si riducevano esclusivamente alla raccolta di esemplari; la storia delle discipline naturalistiche, infatti, è caratterizzata dal costante tentativo di ottenere 'sul campo' un maggior numero di informazioni rispetto a quelle fornite dall'esemplare isolato. Nel XVIII sec. quella che in seguito sarà definita 'ricerca sul campo' era giustificata con argomenti diversi, tra i quali il primo e il più caratteristico era la variazione delle specie a seconda delle condizioni ambientali. Tuttavia, bisogna evitare di cadere nell'anacronismo: nel XVIII sec. non si tentava di analizzare la varietà ma di eliminarla per ritornare ai caratteri distintivi della specie. Così Desfontaines, durante il suo corso di lezioni di botanica al Muséum, per dimostrare l'utilità dei viaggi spiegava che l'osservazione delle piante "nel loro stato naturale" consentiva al naturalista di "distinguere le specie dalle varietà accidentali".
Il secondo argomento era quello della localizzazione delle specie: ricollocando le specie nello spazio geografico, il naturalista dava inizio a un'operazione che di fatto è stata all'origine della biogeografia. A questo riguardo, quando, nel 1805, Humboldt definì il programma di quella che avrebbe dovuto essere una "geografia delle piante", espose in forma sistematica preoccupazioni già espresse, sotto forma di aforismi, dallo stesso Linneo nel cap. 11 della Philosophia botanica (1751). Se i naturalisti sedentari potevano contribuire a un'analisi della distribuzione delle specie nelle grandi regioni del mondo, solamente il lavoro sul campo poteva consentire di precisare le condizioni del suolo, dell'esposizione e dell'umidità, in cui viveva la specie, condizioni che ‒ inserite in uno schema esplicativo ‒ potevano essere considerate altrettanti fattori di suddivisione della specie stessa. Questa fu una delle conseguenze più importanti degli inventari naturalistici del XVIII sec., anche se è stata considerata tale e teorizzata solamente a posteriori, all'inizio del XIX secolo.
La terza giustificazione del viaggio naturalistico era quella dell'osservazione dei possibili 'usi' dei vegetali e degli animali, che poteva essere effettuata soltanto a contatto diretto con le popolazioni prese in esame. A prima vista, questa osservazione riguardava soprattutto preoccupazioni di carattere agricolo o medicinale, che ‒ come si è detto ‒ svolgevano un ruolo importante nell'argomentazione a favore dell'utilità sociale della storia naturale. Tuttavia, da Kaempfer fino agli eruditi della spedizione in Egitto, i viaggiatori naturalisti raccoglievano notizie sul nome locale delle specie e sulle leggende o sulle conoscenze che le riguardavano (in proposito, il debito verso gli informatori locali variava a seconda dei paesi ed era diversamente valutato dagli autori, ma raramente era misconosciuto). Nel complesso, catalogando le forme viventi, i naturalisti del secolo dei Lumi riunirono i materiali grazie ai quali nel XIX sec. fu possibile reinterpretare le affinità tassonomiche in termini di discendenze genealogiche. Dedicandosi alla ricerca di nuove risorse essi formularono, a grandi linee, un inventario dei rapporti tra gli uomini e la Natura.