L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. La teoria di Haller: fibra, irritabilita e sensibilita
La teoria di Haller: fibra, irritabilità e sensibilità
Il meccanicismo, com'è noto, si definì in modo compiuto e si pose di diritto come la nuova struttura di base per ogni scienza all'incirca nel corso degli anni Quaranta del XVII secolo. Fondamentale fu, oltre alla forte connotazione operativa, la nuova concezione dell'unità delle scienze, per cui l'interpretazione meccanicistica del reale divenne la chiave che permise di spiegare tutta la realtà: non soltanto i corpi inorganici, ma anche il mondo della vita. La generalizzazione ebbe successo perché si rivelò effettivamente capace di inglobare i fenomeni in modo soddisfacente: forse mai prima di allora si produssero tanti studi originali e svolte radicali in settori diversi del pensiero scientifico.
Tutte le discipline naturalistiche conobbero nel corso del secolo progressi notevoli, tuttavia rinnovamenti sostanziali si verificarono in quei campi d'indagine in cui erano applicabili in modo più facile e immediato i canoni del meccanicismo: vale a dire principalmente, se non esclusivamente, nella fisiologia, che diventò la disciplina biologica guida. Si determinò un cambiamento radicale nell'impostazione medesima della ricerca, paragonabile soltanto, per importanza e conseguenze, a quello operato dalla meccanica nelle scienze fisiche. La prima innovazione, e la più sostanziale, si ebbe nella caratterizzazione stessa della disciplina e dei suoi scopi: tutta la ricerca fu infatti orientata alla relazione strettissima fra la struttura organica (anatomia) e le sue funzioni (fisiologia), valutate sotto il profilo esclusivo del movimento locale. Anche nella medicina rinascimentale il discorso sulla struttura delle parti si era prolungato in quello sul loro uso, ma la perfetta aderenza tra organo e funzione era stata intesa, come nella più pura tradizione classica, in quanto manifestazione della suprema arte costruttrice della Natura, che appunto realizza al meglio nell'organismo (come nella materia inanimata) i suoi fini costitutivi. Lo iatromeccanicismo invertì di fatto la direzione del rapporto causale tra struttura e funzione, in modo tale che la prima fosse condizione necessaria e sufficiente (causa) ed escludesse così l'intervento di forze misteriose per dar conto dei dinamismi vitali (effetto). Tutto ciò non esclude che, già durante il secolo del trionfo del meccanicismo, la riflessione potesse svilupparsi su fenomeni diversi, evidenti appena si lasciavano le mura tranquille del 'laboratorio' fisiologico, e mal riconducibili rigidamente alla struttura; primo fra questi fenomeni, l''irritabilità', concetto nuovo e profondamente anticartesiano.
Il fisiologo Albrecht von Haller (1708-1777) incluse il De irritabilitate nemo ante Glissonium rectius cogitavit nella sua Bibliotheca anatomica (1774-1777), la grande opera bibliografica che illustrava la disciplina a partire dalle origini sino agli sviluppi settecenteschi più diversi. Trascurando talune suggestioni galeniche, Haller riconosceva a Francis Glisson (1597-1677) l'invenzione e l'introduzione della parola irritabilitas. Egli accentuava, forse erroneamente, la presunta novità terminologica con l'intento di rimarcare come la destrutturazione dell'organismo e il decentramento delle sue proprietà vitali iniziassero la propria storia esattamente con le indagini di quel medico inglese sull'attività della colecisti e dei canali biliari.
Il concetto d'irritabilità fece la sua comparsa dunque durante il XVII sec. sviluppandosi a partire dall'idea generica di 'irritazione', ma definendosi in modo antitetico come proprietà che permette alle parti viventi di reagire allo stimolo indipendentemente dall'organismo nel suo insieme, dal sistema nervoso e dalla coscienza. Il mutamento concettuale richiese il passaggio dal procedimento 'grossolano' della dissezione a quello della scomposizione del corpo nei suoi 'veri' elementi. Il sistema delle fibre (unità strutturali di base) fu concepito come unitario e globale, universalizzando dapprima il modello 'vascolare' (cioè cavo) offerto dai nervi. Lo iatromeccanicismo seicentesco, infatti, riferì generalmente la contrattilità alla forza nervosa: le fibre ebbero il ruolo di componenti passive sulle quali si producevano effetti dinamici per le mere modalità geometriche della loro combinazione o per le reazioni chimiche innescate dall'ipotetico fluido nerveo.
Lorenzo Bellini (1643-1704) aveva già supposto l'esistenza di una forza contrattile naturale, che determinava l'espulsione delle sostanze acri da parte delle fibre organiche. L'azione degli irritanti provocava tuttavia ancora un effetto generico, vale a dire tanto il moto meccanico dei muscoli quanto fenomeni vari d'infiammazione, revulsione, derivazione ed evacuazione. Herman Boerhaave (1668-1738) ‒ maestro per un'intera generazione di medici che frequentò le lezioni di Bellini all'Università di Leida ‒ consolidò il modello e concepì la struttura elementare della fibra del muscolo quale sottilissimo canale irritato dal passaggio dello spirito nerveo. Il comportamento della fibra restava per il resto determinato da peso, forma e solidità dei suoi atomi costitutivi, soggetti alle leggi della massa, della densità e della connessione fra le parti per aggregazione meccanica. Boerhaave riconosceva tuttavia alla struttura del cuore una occulta proclivitas ai movimenti di sistole e diastole; in una fisiologia che attribuiva al sistema nervoso qualsiasi moto, s'introduceva in tal modo un'evidente anomalia. Non migliorava le cose la ritrosia di Boerhaave a chiarire se tale forza appartenesse anche agli altri muscoli (se non addirittura alla fibra animale in quanto tale). L'escamotage infine praticato fu di riconoscere che la struttura delle fibrille componenti il corpo vivente era irriducibilmente ignota: alla base e a giustificazione dell'ordine specifico dei fenomeni organici si poneva una versione biologica delle classiche incognite esplicative, secondo un uso che nelle scienze della vita risaliva almeno ai grandi trattatisti rinascimentali, se non a Galeno e ad Aristotele.
Il periodo cruciale per la discussione del termine e del concetto d'irritabilità s'identificò con gli anni della trilogia di Glisson: Anatomia hepatis (1654), Tractatus de natura substantiae energetica (1672), Tractatus de ventriculo et intestinis (1677). La teoria della fibra irritabile fu abbozzata nel 1654 in chiave decisamente antropomorfica. La risposta alla sovraeccitazione delle vie biliari (dunque ancora di un organo in blocco) era considerata simile alla reazione psicologica conseguente all'irritazione: allorché la bile superava nella colecisti il livello normale, quest'ultima, irritata, si contraeva, espelleva il liquido e recuperava in tal modo la condizione di quiete. Al pari degli esseri umani, le parti del corpo 'molestate' tendevano a liberarsi della causa 'fastidiosa'. Irritabili erano insomma le zone che, percepiti gli stimoli, "tendono a contrapporsi a essi" (seseque ab iisdem vindicare conentur; Anatomia hepatis, p. 398). Nel trattato del 1672 la sistemazione del concetto si fece strada attraverso la struttura metafisica dell'opera e indusse Glisson a compiere passi importanti sulla via della destrutturazione della fabrica del corpo, ancora in assenza però dei fondamenti morfologici per una teoria de minimo naturali propriamente detta.
Decisamente trascurabile nella prima monografia, il primato strutturale e funzionale della fibra fu sancito e s'impose come vero centro dell'indagine nel 1677. Ogni altro elemento ebbe così un ruolo fisiologico secondario e l'irritabilità fibrillare non soltanto spiegò un fatto particolare come la secrezione e il trasporto della bile, ma, appunto in quanto proprietà dell'elemento strutturale di base, giunse a dar conto di ogni moto vitale. Tre forze determinavano l'attività della fibra: robur vitale, robur animale e robur insitum. Le prime due provenivano dall'esterno (dagli spiriti vitali e dall'anima per la mediazione del sistema nervoso centrale), l'ultima ineriva alla fibra, era responsabile della sua consistenza e, soprattutto, risultava soltanto dalla sua particolare costituzione naturalmente e fisiologicamente elastica. "Si danno di fatto tre specie di irritabilità fibrillare: naturale, sensitiva esterna e irritabilità governata dalla fantasia. La prima promana dalla sola percezione naturale; la seconda dal senso esterno; la terza dall'appetizione interna e nella sua esecuzione è sottoposta alla direzione della fantasia e all'intervento della percezione naturale" (Tractatus de ventriculo et intestinis, p. 194). La reazione vitale della fibra passava attraverso le tre fasi di perceptio, appetitus e motus. Ciò poteva avvenire in modo autonomo, al livello della fibra e al seguito di uno stimolo diretto (motus naturalis); implicare il sistema nervoso (motus sensitivus); o essere risposta volontaria (motus animalis). Certamente la fibra non era più un tubo o un filo passivo, ma l'origine stessa del movimento.
Proprietà di tutte le parti del corpo, l'irritabilità apparve a Glisson particolarmente evidente nelle fibre muscolari, dove essa, almeno nella forma di irritabilitas naturalis, acquisiva infine indipendenza dal sistema nervoso, come da ogni intervento dell'anima, e si delineava come capacità intrinseca complessa di percezione inconscia per alterazioni e cause irritanti, nonché, per mezzo dell'appetitus naturalis, di risposta motoria. Mentre l'Anatomia hepatis aveva sottolineato la necessità della mediazione (vigoratio) nervosa per l'innesco della contrattilità, nel 1677 fu accentuata l'indipendenza del fenomeno rispetto all'innervazione della fibra, comunque capace di perceptio naturalis e dunque irritabile. Alle prime osservazioni sul moto nel canale alimentare, si aggiunse come caso classico d'irritabilità quello del battito del cuore, autonomo dal sistema nervoso e provocato dal mero stimolo del flusso sanguigno.
Glisson però non sciolse mai l'ambiguità del rapporto fra irritabilità e sensibilità, che nel 1654 gli consentì di scrivere: "tutte le parti sensibili [...] sono irritabili" (partes omnes sensitivae [...] sunt irritabiles; Anatomia hepatis, p. 184) e che resistette malgrado il chiaro riconoscimento del persistere post mortem dell'irritabilità, ovvero del potere corrispondente all'attività di percezione inconscia. Egli introdusse, senz'altro a forza, la sua teoria negli schemi della patologia umorale tradizionale (si davano infatti gradi diversi e patologici d'irritabilità) e contemporaneamente impose all'operazione un'estranea cornice atomistica. La fibra, paragonata alla linea geometrica e composta di atomi, si originava ed era costituita però da sostanza spermatica, della quale condivideva appunto la natura fredda e umida. L'onniesplicatività pretesa per il delineato meccanismo di reazione corporea (esteso anche alle parti che nell'anatomia glissoniana non consistevano di fibre, quali parenchima, ossa, sangue, ecc.) tolse poi limpidezza al sistema.
Agli inizi del XVIII sec. lo sviluppo dello iatromeccanicismo ebbe una svolta a opera di Giorgio Baglivi (1668-1707), il quale mise a punto la prima sistemazione organica della teoria della fibra. Nel percorso teorico compiuto fra il De praxi medica (1696) e lo Specimen quatuor librorum de fibra motrice, et morbosa (1702) questo medico romano portò infatti a compimento le tesi iatrofisiche sugli apparati nervoso e muscolare e fondò la nuova concezione dell'elemento fisiologico.
La riflessione intorno alle ricerche di Marcello Malpighi (1628-1694), unita all'insoddisfazione per le lacune e le anomalie di una medicina pratica ispirata al neoippocratismo di Thomas Sydenham (1624-1689), stimolò Baglivi a intraprendere l'analisi strutturale. Egli unì in verità considerazioni sullo sviluppo fetale a osservazioni microscopiche condotte con una tecnica di scomposizione dei tessuti nelle fibrille più sottili. La teoria apparve in forma definitiva nell'Opera omnia medico-practica, et anatomica (1704) e stabilì che ogni struttura vivente si compone di umori e fibre, queste ultime distinte in due tipi fondamentali e diversi per origine, usu, et structura. Secondo la nuova mappa delle parti del corpo umano che ne risultava, le fibrae carneae (ovvero motrices, musculares) si formavano per condensazione del sangue; l'organogenesi delle fibrae membranaceae avveniva invece per solidificazione della linfa e del succo nerveo. Ciò che risultava dalla composizione di fibre carnose aveva per centro di vita e fonte di moto il cuore. Nervi, vasi, visceri, ghiandole e in genere tutto ciò che non era muscolo appartenevano al secondo sistema, le cui fibre nascevano a partire dalle membrane cerebrali e in particolare dalla dura madre, motore della circolazione del succo nervoso.
Notevolissime apparvero al microscopio di Baglivi le differenze strutturali fra i due sistemi. I componenti della fibra muscolare erano infatti per lo più paralleli, mentre taluni strati, disposti trasversalmente, erano responsabili della morfologia macroscopica dei fasci e impedivano la dilatazione eccessiva degli altri elementi. Le fibrille più sottili, che costituivano i tessuti membranosi, erano invece apparentemente disposte senza ordine specifico. Di fatto, esse s'incrociavano per costituire gli inviluppi di nervi, vasi e ghiandole, nonché le membrane dei muscoli medesimi (utile espediente, quest'ultimo, per dar conto di come il cervello potesse influire sui muscoli salvando però la distinzione rigorosa tra blocchi strutturalmente alternativi).
La diversità strutturale dei due sistemi fu intesa come causa di radicali differenze di funzione. Il moto oscillatorio supposto (erroneamente) nelle membrane cerebrali si trasmetteva infatti ai nervi grazie alla continuità e omogeneità delle fibrille. Le contrazioni ritmiche (innatam elasticem) della dura encefalica assicuravano la regolarità della circolazione del succo nerveo. Il motus reflexivus e il motus systalticus garantivano la trasmissione pressoché istantanea in direzione centripeta e centrifuga. Per dar conto della causa immediata dell'attività muscolare, Baglivi utilizzò suggestioni che venivano sia dalla teoria chemiatrica di Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) sia dal modello architettonico messo a punto da Niels Steensen (Stenone, 1638-1686). Il tono della fibra motrix era così determinato da una vis insita e dal tomentum, cioè i corpuscoli sanguigni che riempivano lo spazio tra una fibrilla e l'altra. I globuli eccitavano l'elasticità innata e il tono era proporzionale all'irritazione, mentre il fluido nerveo, quando trasportato dal cervello sino alla fibra muscolare, dirigeva il movimento ma non ne era la fonte. La vis motrix risiedeva nel muscolo, o meglio nella particolare disposizione strutturale delle sue fibre e solo per essere innescata dipendeva dal contatto con il sangue e il liquido nervoso. La diversa quantità di forza motrice, di cui le parti beneficiavano in modo differente, avrebbe dovuto bastare per spiegare tutti i fenomeni della motricità organica, senza alcun ricorso a principî di tipo animistico o metafisico. Anche la differenza di origine, come affermava nello Specimen quatuor librorum de fibra motrice, et morbosa, entrava nella disparità irriducibile delle funzioni delle fibre e specificamente nell'attribuzione della sensibilità alla fibra nervosa, o meglio alla sua guaina anatomicamente e geneticamente continua alle membrane cerebrali: "i nervi sono di sensibilità così acuta, non a causa della loro sostanza midollare, ma grazie alle membrane dalle quali sono avvolti" (nervi sunt adeo acuti sensus, non ob medullarem sui substantiam, sed ob membranas, quibus involvuntur; Opera, p. 287). Né il filamento nervoso era contenitore passivo, ma anch'esso piuttosto motore del fluido che trasportava.
Baglivi delineava insomma una teoria capace di combinare in modo soddisfacente gli apporti concettuali e osservativi della migliore tradizione iatrofisica con l'origine intramuscolare di una forza viva, ma di carattere puramente meccanico, insita e che, tuttavia, non escludeva l'innesco per opera del succo nervoso o del sangue. La vivisezione dimostrò poi, persino negli animali a sangue caldo, l'autonomia e la potenza della fibra motrice. Baglivi non fu certo il primo a osservare la contrazione della fibra muscolare escissa o gli spasmi indotti in un cuore espiantato, ma fu probabilmente il primo a teorizzare una multicentricità, cioè a smentire il centralismo dell'automa cartesiano. L'esperienza dell'organo isolato indicava l'irritabilità delle fibre carnee come vis insita, attiva anche quando si doveva escludere il flusso di spirito, e quindi come forza contrattile dipendente soltanto dal meccanismo specifico delle fibre, che cessava infatti quando mancava di sangue, non di fluido nervoso.
La rottura del modello tradizionale unitario in due sistemi nasceva dall'ambizione di andare oltre le insufficienze dell'unica machinula indifferenziata, cioè dell'ingranaggio elementare di cui Boerhaave aveva dovuto infatti postulare l'inosservabilità. Il progetto di Baglivi mirava poi a costruire sulle nuove fibrille un blocco neomeccanicistico di fisiologia, patologia e terapeutica. Tuttavia l'ordine geometrico, richiesto e ottenuto nello studio delle fibre prese separatamente, diventava di necessità assai meno rigoroso quando si prendeva in esame la loro integrazione nella globalità di un organo. Nel passaggio dal laboratorio alla pratica, la geometria fu subordinata all'osservazione e, per l'impossibilità di dare dimostrazioni geometriche a priori del funzionamento degli organi a partire dalla loro struttura elementare, Baglivi si accontentò di fatto delle analogie mostrate dall'osservazione degli effetti macroscopici. Nel percorso che andava dalle fibre ancora visibili all'unità strutturale e funzionale, egli lavorò molto per estrapolazione ragionevole e proiezione analogica, mettendo cioè a punto un 'artificio', capace però di rendere conto delle caratteristiche riscontrabili nel funzionamento organico. Gli atomi fibrillari restavano al di là dell'osservabile, ma si associavano secondo modelli di composizione, più o meno complessi, all'interno dei quali non si verificava differenza strutturale che giustificasse eterogeneità.
Nella spartizione di strutture e funzioni tra i due sistemi, in apparenza ben compensati, uno squilibrio si verificò comunque. Per un'ambiguità irrisolta della teoria, le meningi cerebrali continuarono di fatto a centralizzare ed egemonizzare la gestione armonica dell'intera attività corporea. Il cuore non si liberò del tutto dalla subalternità nei confronti del cervello, che rimase pur sempre centro primordiale di movimento, regola ed equilibrio. Anche il battito cardiaco fu posto in ultima dipendenza dal moto di oscillazione delle meningi, ontologicamente e cronologicamente primigenio. Benché nello Specimen Baglivi affermasse che per programma "la sede della sensibilità fosse nelle membrane; la sede del moto nei muscoli" (sedem sensus esse in membranis; sedem motus in musculis) e "avesse sensibilità il solo sistema delle membrane" (solum systema membranarum sentit), la dura madre restò "la principale fonte di movimento del corpo umano" (maximus humani corporis elater; Opera, pp. 285, 287). La loro struttura fece delle membrane dei centri motori "a guisa di un secondo cuore" (ad instar alterius cordis) e il cuore si mosse "per una irradiazione trasmessa dal cervello" (per transmissam ab illo [cerebro] irradiationem; ibidem, pp. 261, 270).
La novità concettuale di Baglivi, innegabile malgrado errori ed eclettismi, si stemperò in coloro che, di lì a pochi anni, tornarono a occuparsi di architettura e fisiologia delle fibre. Johannes de Gorter (1689-1762), per esempio, escluse nell'irritazione delle fibrille muscolari la penetrazione di qualsiasi fluido. Secondo questo autore, infatti, la contrazione aveva luogo per la mera elasticità di strutture che recuperavano la loro disposizione originaria. Sancita per un istante l'indipendenza della vis dal sistema nervoso, si perse però la 'mappa' delineata da Baglivi e anche Gorter considerò la contrattilità una proprietà comune a tutte le fibre. Frederick Winter (1712-1760) selezionò invece l'irritabilità come principio del moto muscolare, ma ne pose la sede nell'onnipresente rete nervosa e ne individuò la causa nella sola irritazione degli spiriti vitali. La via della riforma micromeccanicista fu ripresa e compiuta davvero solo a opera di Haller, che decisamente la traspose dal terreno speculativo a quello della fisiologia sperimentale.
Albrecht von Haller fu uno dei personaggi di maggior spicco nella storia delle scienze della vita. Discepolo fra i più promettenti di Boerhaave, la sua critica colpì ben presto con impietosa severità anomalie e insufficienze della fisiologia contemporanea. Chiamato nel 1737, neppure trentenne, a ricoprire la cattedra di anatomia e botanica presso la nuova Università di Gottinga, egli si dedicò per oltre vent'anni alla revisione sistematica di vasti settori della fisiologia, alla conferma sperimentale di una nuova mappa delle parti del corpo e alla realizzazione di un'audace riforma della iatrofisica. Acquisì, infatti, notorietà immensa con ricerche che gli valsero la fama di fondatore della fisiologia moderna e fecero discutere l'intera comunità scientifica, suscitando tanto adesioni entusiastiche quanto polemiche feroci.
Il periodo più fruttuoso delle sue ricerche coincise con gli anni centrali dell'insegnamento a Gottinga (1746-1752), dove, affiancato dagli allievi migliori, mise in pratica modalità di osservazione e di sperimentazione all'avanguardia. Combinò, infatti, vivisezione e autopsia, stimolazione chimica e intervento chirurgico, piegando le osservazioni a preoccupazioni teoriche forti e spesso predefinite, ma anche ricavando dall'esperienza suggestioni e discriminazioni ugualmente in grado di riorientare il sistema concettuale.
Sin dal 1739 Haller aveva menzionato irritabilità e sensibilità nel suo commento alle Institutiones medicae di Boerhaave, vi aveva alluso nel manuale predisposto per i propri studenti (Primae lineae physiologiae in usum praelectionum academicarum, 1747), ma la teoria comparve in forma definitiva soltanto quando fu esposta ai membri della Societas Scientiarum Gottingensis in due praelectiones intitolate De partibus corporis humani sensilibus et irritabilibus (1753). Irritabilitas e sensibilitas erano i termini con cui Haller individuava due facoltà peculiari, grazie alle quali talune parti del corpo vivente reagivano alla stimolazione con contrazioni, altre con manifestazioni di dolore più o meno evidenti. L'irritabilità era rigorosamente limitata ai fasci muscolari, la sensibilità, invece, ai tessuti innervati. Neppure l'infiammazione poteva ‒ asserì Haller, colpendo un punto importante della tradizione medica ‒ indurre dolore dove i nervi non esistevano oppure la comunicazione nervosa era stata interrotta. I resoconti della vivisezione riferivano poi i lamenti strazianti degli animali, assolutamente immobili, che non avevano altro mezzo per manifestare i dolori atroci che erano indotti dall'irritazione artificiale dei nervi. Il percorso seguito da Haller, che aveva preso le mosse dalla verifica del moto automatico del cuore, sancì la piena sufficienza dell'irritabilità per dar conto di dinamismi vitali assai complessi, procedette in larga misura all'espulsione dell'anima dal governo del corpo, gestì un'assoluta separazione di vis irritabilis e vis sensibilis e produsse infine una rigorosa 'fisiologia' della conoscenza percettiva.
Benché Haller asserisse di proporre soltanto un 'catalogo' delle parti del corpo umano, attraverso il testo delle praelectiones presentava un progetto teorico le cui ambizioni andavano ben oltre la sistemazione di ricerche diligenti condotte in laboratorio. Haller aveva capito benissimo che una ridefinizione dello iatromeccanicismo in grado di renderlo compatibile con le più recenti acquisizioni fisiologiche (e quindi consentirgli di sopravvivere) implicava un taglio netto con il vecchio modello unitario. Quest'ultimo ricostruiva, infatti, i dinamismi della vita per giustapposizione di machinulae fibrillariae, prive di proprietà differenziate ‒ mentre al contrario anatomicamente e fisiologicamente assai diverse erano le parti risultanti dalla loro integrazione. Haller salvaguardò la natura peculiare e gli ordini diversi del vitale (animata machina) nel quadro di un modello che è stato definito in modo molto efficace (Duchesneau 1982) 'meccanicista speciale'. 'Meccanicista' (o meglio 'micromeccanicista'), in quanto i dinamismi del vivente si fondavano sulla connessione stretta fra struttura anatomica (causa) e funzione fisiologica (effetto): questo era l'unico modo in cui un fisiologo settecentesco (che non volesse ‒ come Haller senz'altro non volle ‒ rompere con la tradizione iatrofisica) potesse dar conto dei fenomeni senza ricorrere a forze misteriose. 'Speciale', perché sulla scorta del lavoro in laboratorio e della prassi medico-chirurgica, Haller si accorse che la liberazione dall'ingombro di pericolosi fattori esogeni poteva avvenire davvero soltanto riconoscendo la specificità sussistente fra i diversi tipi di elementi strutturali (fibrae), tra le vires che vi si innescavano, e fra i rispettivi modelli d'integrazione.
Haller escluse che le funzioni potessero essere dedotte more geometrico dalla semplice combinazione degli elementi anatomici; tuttavia, il primato meccanicista della struttura sul dinamismo fu sancito come irrinunciabile priorità logica e ontologica, dato il carattere inintelligente e non creativo delle forze corporee. Riferire la produzione della struttura al gioco di forze che in realtà ne risultava era, infatti, un'operazione che la fisiologia halleriana (animata anatome) non avrebbe mai potuto autorizzare. La dottrina dell'irritabilità e della sensibilità diventava banco di prova sia per il modo in cui una proprietà (effetto) ineriva a una realtà anatomica (causa specifica), sia per la credibilità della relazione fra questo dispositivo motore e determinati fenomeni/effetti. Benché dunque in più luoghi Haller presentasse la sua teoria, e nello specifico il concetto d'irritabilità, quale dato di osservazione in larga misura già rintracciabile nella letteratura precedente, vi fu evidentemente un senso tutto halleriano della categoria, che non aveva nulla a che fare con le precedenti speculazioni sulle vires vivae.
Proprio sulla scorta di osservazioni ed esperienze personali, anche Haller fu tuttavia costretto a rilevare ciò che temeva, ossia lo scarto crescente e inquietante tra funzioni globali da spiegare e strutture che avrebbero dovuto renderne conto. La difficoltà principale era riferire irritabilità e sensibilità a una base strutturale davvero risolta nei propri elementi. Al livello macroscopico del comportamento la distinzione di vis sensibilis e vis irritabilis reggeva senz'altro, ma all'oculare del microscopio l'anatomia delle fibrille che producevano risposte fisiologiche tanto diverse, appariva incredibilmente la stessa: terra e glutine. Perché dunque il nervo non si contraeva? Nell'articolo Nerf, composto per i volumi del Supplément dell'Encyclopédie (1776-1777), Haller non si dava pace: "non è perché le sue fibre non siano parallele; i fasci midollari lo sono quanto quelli delle fibre carnee; nulla impedirebbe che esse si accorciassero allo stesso modo, se avessero il potere di accorciarsi" (IV, p. 28). Forse si poteva supporre che intervenisse qualcosa di simile a un'integrazione speciale delle parti elementari, ciò che in fondo aveva immaginato il corpuscolarismo di Robert Boyle (1627-1691) per dar conto di proprietà apparentemente irriducibili all'ordine meccanico. Restava il fatto che proprio la scomposizione analitica delle apparenze sensibili non faceva che oscurare la 'razionalità' dei fenomeni, esplicita invece nelle loro manifestazioni. Infatti, soltanto comportamenti differenti sancivano la distinzione funzionale di parti risolubili invece in componenti omogenei (terra e glutine). La struttura era perciò ragione sufficiente della funzione solo a un livello d'integrazione decisamente già molto complesso. Non restava che far intervenire un'incognita quale fondamento esplicativo e causa della distinzione sperimentale. Le due forze vitali erano risospinte "verosimilmente nella struttura [texture] delle ultime molecole della materia, al di là della portata del bisturi e del microscopio; tutto ciò che si può dire in proposito, si limita a delle congetture, che io non azzarderò" (Haller, Mémoires sur la nature sensible et irritable des parties du corps animal, 1756, I, p. 5). Haller arretrò dunque il meccanismo di irritabilità e sensibilità alla 'fibrilla', cioè trasferì l'omogeneità richiesta tra struttura e funzione al piano della fibra primordiale, per definizione inaccessibile allo sperimentatore, e la sottrasse in tal modo a scomode verifiche.
Secondo l'analogia proposta, la fibra risultava per i corpi viventi ciò che la linea era per i corpi geometrici, cioè elemento costituente e non ulteriormente scomponibile senza perdere la propria peculiare fisionomia anatomica e fisiologica. Essa risultava dunque sperimentalmente inconseguibile, ma razionalmente postulabile; e non era un postulato accessorio, ma la premessa medesima di ogni discorso fisiologico. Perciò non di ipotesi si trattava (quelle ipotesi il cui uso malaccorto Haller aveva aspramente denunciato), ma di assioma evidente. Quanto all'analogia ricordata tra fibra e linea, essa non toccava però né le rispettive proprietà, né il tipo di aggregazione secondo il quale si combinavano per dar luogo a strutture più complesse. In apertura ai propri Elementa physiologiae corporis humani (1756-1766) Haller aveva escluso, infatti, l'applicazione dell'ordine e del metodo geometrico alla fisiologia, stabilendo dunque una chiara eterogeneità fra scienze matematiche e scienze della vita. L'identità riguardava piuttosto il fatto che fibra e linea erano componenti con caratteristiche irriducibilmente specifiche, ma omologhe a quelle delle totalità in cui confluivano e appropriate ai rispettivi modelli d'integrazione.
La riforma halleriana apriva comunque la via a possibilità di divagazioni teoriche e speculative ignote allo iatromeccanicismo classico. Speculazioni, per esempio, sulla distinzione tra organicità e sensibilità, ma soprattutto sul luogo medesimo di quest'ultima. Per la struttura e l'attività della fibra nervosa elementare Haller poteva ovviamente offrire soltanto un modello che collezionava argomenti probabili e possibilmente non contraddittori rispetto alla cornice teorica generale. Nel caso del nervo, per di più, non esisteva nulla di analogo alla contrazione che si verificava nelle parti irritabili, cioè qualcosa di visibile. La stimolazione della struttura materiale (il midollo che viene dal cervello) si traduceva infatti in una manifestazione (la sensazione) del tutto eterogenea e la cui consapevolezza si collocava altrove. Il nervo era molle e inerte, ben lontano dall'immagine tradizionale della corda vibrante o della struttura tubolare visibile che trasmette la contrazione. Ammettere un tremor nervorum significava, infatti, riconoscere movimento dove il sistema doveva escluderlo. Era meglio dunque la problematicità di una struttura fibrillare non elastica né irritabile, né capace d'oscillazione, che però comunicasse l'ordine del moto volontario alla periferia, recepisse e rinviasse gli impulsi delle stimolazioni esterne. Poiché il processo che si compiva era fondamentalmente meccanico, doveva risultare uniforme, omogeneo e continuo, per non alterare le impressioni sensibili, anch'esse meccanicisticamente intese. Il fluido nerveo scorreva così nelle cavità submicroscopiche delle fibrille nervose, ma non vi produceva alcun attrito che potesse deformare l'impressione sensibile o l'ordine motorio di cui era vettore. Si dava una corrispondenza puntuale tra stimolazioni e impressioni sensibili coscienti, in linea di principio suscettibili di misura oggettiva. I dati delle esperienze contraddicevano però la possibilità di un rapporto matematico fra la ricchezza/diffusione dei nervi nella parte e l'intensità della sensazione, cioè tra essa e il peso, la rapidità o la violenza dell'oggetto stimolante.
Non era a livello delle singole fibre che si compiva la sensazione; il centro del sistema era infatti il vero luogo di quest'ultima. Secondo Haller, ciò era dimostrato dall'insensibilità che s'instaurava ogniqualvolta s'interrompeva la comunicazione tra centro e periferia, oppure quando era compromesso uno degli organi centrali. L'estensione dell'insensibilità era progressiva e collegata alla struttura altamente integrata del sistema nervoso; non esisteva sensibilità di cui non si avesse coscienza e Haller guardò sempre con grande sospetto alla categoria ambigua dell'abitudine, con la quale altri avevano spiegato sensazioni inavvertite o moti divenuti automatici. Il centro cerebrale recepiva e controllava, gestiva e dirigeva ogni sorta di moto volontario e di sensazione, al punto che l'anima vi si poteva insediare senza eccessivi problemi. Escluso che essa si localizzasse in parti diverse del sistema nervoso, Haller dichiarava i fisiologi et ignari, et securi della sua unione con un sensorio comune identificabile con la parte del corpo da cui nascono i nervi di senso e l'ordine del movimento volontario, concludendo che ciò sembrava molto probabile.
Sensibilità e irritabilità erano comunque forze rigorosamente materiali: pericolosa, ma soprattutto inutile, sarebbe stata l'immanenza dell'anima all'organizzazione corporea, la quale, per ciò che le competeva davvero, non ne aveva affatto bisogno. Ciò che offendeva la corporeità non si traduceva in un'analoga menomazione dell'anima, che d'altra parte, in genere, non poteva né sapeva avere incidenza sulla fisiologia del corpo:
Un dito reciso dal corpo, un pezzo di carne strappato da una gamba non hanno alcun legame con me; io non sento alcuno di tali cambiamenti; essi non possono farmi provare né idea né sensazione; non sono affatto abitati dalla mia anima né da qualche parte di essa. Se lo fossero, ne sentirei il cambiamento: dunque non sono affatto in questa gamba che è interamente separata sia dalla mia anima, che è restata in tutta la sua interezza, sia da quelle di tutti gli altri uomini. La sua amputazione non ha toccato per nulla la mia volontà, che è rimasta intatta. L'anima non ha perso nulla delle sue forze, ma non ha più dominio su tale gamba e tuttavia quest'ultima continua a essere irritabile. L'irritabilità è dunque indipendente dall'anima e dalla volontà. (Mémoires sur la nature, I, pp. 51-52)
In condizioni fisiologiche le risposte del corpo si coordinavano a volontà determinate; si trattava però di un semplice dato di fatto non provato, ma stabilito da un progetto divino di armonia. D'altronde, l'uso del corpo non era qualcosa che si potesse apprendere per experimenta et tentamina, com'era consuetudine del nostro intelletto discorsivo: quest'ultimo non poteva reggere ciò che richiedeva la gestione contemporanea di processi infiniti senza rischiare di sospendere funzioni vitali decisive. L'anima era dunque considerata inaffidabile: "la costruzione e il governo del corpo oltrepassano di gran lunga la sapienza dell'anima" (corporis constructio et gubernatio animae sapientiam longe superare; Haller, Primae lineae physiologiae, p. 303).
Nell'opera di Haller mancò una trattazione sistematica che mettesse esplicitamente a fuoco il concetto di materia vivente e s'interrogasse sul carattere‒ comunicato o insito ‒ dei moti fisiologici. L'origine divina del movimento, ammessa ma remota, non bastava certamente per trasformarlo in attributo inessenziale della materia, a cui esso apparteneva intrinsecamente. Effervescenza e putrefazione, fermentazione ed elasticità allontanavano forze spirituali misteriose e indicavano possibilità d'indagine positiva non soltanto per la res extensa, ma anche per le sue infinite trasformazioni. Nel 1754 Haller scriveva all'amico Charles Bonnet (1720-1793):
Non credo alle anime; l'analogia con i vegetali in questo caso ripugna. Questi ultimi fanno tutti i loro movimenti, il loro accrescimento, l'indurimento delle loro fibre, le secrezioni e la preparazione d'una polvere seminale, senza che si debba per ciò supporre un essere intelligente, unicamente per mezzo dell'aria e del calore. Gli animali hanno in più l'irritabilità […]. Tutti i loro movimenti si riducono a essa, sia che sembrino seguire le volontà dell'anima, sia che avvengano senza la sua appercezione. (The correspondence, p. 38)
Dieci anni più tardi egli precisava in modo ancor più netto: "il corpo puro e senz'anima fa certamente agire i suoi muscoli […] ritengo il movimento una forza essenziale al corpo e suppongo che il movimento degli spiriti sia qualcosa d'incommensurabile a quello dei corpi" (ibidem, p. 404).
L'interesse fu dunque tutto rivolto al carattere esogeno o a quello endogeno del dinamismo: fosse quest'ultimo opera di forze vitali o di mera elasticità. Haller ammise, beninteso, la singolarità della vis insita irritabilis, ma ne rifiutò in genere con fastidio la definizione di vis viva ‒ ed era difficile immaginare che la sua ritrosia nascesse soltanto dall'aver verificato il persistere post mortem della forza, e non piuttosto dalla diffidenza radicata nei confronti di ogni suggestione vitalista. Egli cercava insomma una categoria concettuale flessibile, ma si ritrovò con qualcosa di radicalmente diverso: la forza era intrinseca e tuttavia associata alla materia vivente nell'atto della creazione; era manifesta per effetti eclatanti, ma nascosta nell'elemento submicroscopico, cioè al di sotto della soglia della sensibilità umana, o forse soltanto al di là delle forme attuali di esperienza scientifica. Con il tempo la descrizione dei comportamenti manifesti rimase più o meno immutata, ma aumentò il peso dell'incognita esplicativa e nell'articolo Coeur per il volume secondo del Supplément dell'Encyclopédie Haller scrisse: "la causa immediata del movimento del cuore non è affatto oscura […]. Non è la parte difficile del problema […]. Resta da scoprire la fonte di questo movimento così violento" (p. 494).
Benché il newtonianesimo halleriano sia stato ben lontano dalla ricezione superficiale di un'atmosfera diffusa o di concetti banalizzati, anche Haller cercò nella categoria 'forte' della gravità conferma e legittimazione per lo status delle nuove forze individuate nell'organismo vivente. Egli se ne servì, in particolare, per liberarsi delle interrogazioni di amici e discepoli curiosi circa la causa riposta dell'irritabilità. Nel testo delle praelectiones l'irritabilità era, infatti, isolata soltanto in negativo, di discriminazione in discriminazione. Essa era ciò che restava integro (per precisi intervalli di tempo) post mortem, nelle parti amputate, private della sensibilità, o infine isolate (ovunque ciò avvenisse) dal centro cerebrale. L'attrazione newtoniana invece era l'inconoscibile perfettamente adeguato a dar conto del comportamento di atomi materiali, cioè di effetti visibili rigorosamente quantificati ed espressi in leggi fisiche. L'irritabilità non soltanto aveva a che fare con una base strutturale alquanto problematica, ma era enucleata per modalità di osservazione assai variabili, spiegava fenomeni poco o nulla quantificabili e per lo più stabiliva una relazione vaga fra i dati dell'esperienza sensibile e i principî del reale. Sussisteva dunque un'analogia epistemologica, ma su una base di differenze ontologiche legate alla peculiarità dei fatti vitali.
Era innegabile che Haller si servisse dello schema newtoniano per coprire una pratica esplicativa differente e originale sia negli esiti sia nelle difficoltà che si trovava ad affrontare. Egli non riuscì, per esempio, a individuare criteri attendibili di misurazione dell'irritabilità nei vari organi, né a rinvenire rapporti matematici fra stimolo e reazione: entrambi, evidentemente, troppo complessi perché la descrizione qualitativa potesse tradursi in una proporzionalità costante. Nella voce Irritabilité, composta alla fine degli anni Settanta del secolo per il volume terzo del Supplément dell'Encyclopédie, Haller dovette ammettere in modo esplicito che l'irritazione "non agisce in proporzione al peso, né all'asprezza dello stimolo" (p. 663), e nella voce Coeur, anch'essa redatta per il Supplément, concluse che quest'organo "produce dei movimenti d'una forza infinitamente superiore a quella che ci si potrebbe attendere dal peso delle sue fibre […] gli effetti dell'irritazione sono come quelli della polvere da sparo, fuori da ogni proporzione rispetto alle cause visibili di cui sembrerebbero essere gli effetti" (p. 493).
La ricognizione sulle diverse edizioni e revisioni degli scritti di Haller mostra con quanta fatica egli stesso dominasse la coesistenza nella fibra muscolare di ben tre specifiche vires: elastica, irritabile e nervosa. La prima era descritta come debole, sopravvivente alla morte, endogena, ma non esclusiva dei muscoli. La seconda appariva propria di questi ultimi, del tutto autosufficiente, capace di reazione spontanea, innata e 'viva'. L'ultima era infine il veicolo del moto volontario o dello spasmo indotto attraverso la stimolazione nervosa degli organi che, in condizioni fisiologiche, rispondono alla volontà. Non si può non notare come proprio il punto di partenza della ricerca, vale a dire il muscolo cardiaco involontario e perciò indifferente a qualunque vis nervea, risultasse macroscopicamente eterogeneo rispetto alla norma, al punto da costituire non già un modello, ma proprio l'occasione di indagini ulteriori e più complesse. L'actio nervosa, la più problematica e difficile da inquadrare, restava certo la più esposta all'assimilazione equivoca con la sensibilità. La fibra nervosa (incapace sia di contrazione sia di movimento) trasmetteva stimoli potenti a muscoli mille volte superiori al suo peso; l'irritazione artificiale dei nervi provocava contrazioni nei visceri con una forza infinitamente maggiore a quella che aveva sospinto il bisturi. C'era un tentativo di ripartizione equilibrata della funzione: i muscoli volontari erano più sordi alla stimolazione e la vis nervea era più episodica; regolare e costante risultava invece l'attivazione dei muscoli che dovevano garantire il funzionamento degli organi vitali. Se essi fossero stati dipendenti da quella forza, la buona funzionalità dell'organismo sarebbe stata costantemente a rischio. L'attività cosciente era, infatti, selettiva e frammentaria.
In realtà la vis nervea aveva due funzioni: per un verso, era impulso al moto volontario, per l'altro, amplificava lo stimolo nelle parti meno irritabili. I due ruoli della forza nervosa apparivano dunque eterogenei e soltanto il primo implicava la connessione necessaria con il centro cerebrale cosciente, cioè con l'anima/volontà: eppure essi risultavano compresenti nella stessa realtà anatomica. Haller provò a guardare al punto d'origine (cervello o cervelletto) come base per discriminare i nervi, ora messaggeri dell'anima/volontà, ora strumenti inconsapevoli di contrazioni fortuite. L'ipotesi, prima esclusa e poi considerata con scarsa convinzione, non riuscì a dominare il caso più difficilmente inquadrabile nel sistema, vale a dire il moto provocato dall'irritazione di terminazioni nervose periferiche (o del midollo spinale) e presente in condizioni sia di connessione sia d'isolamento dall'encefalo. Il carattere altamente integrato delle funzioni nervose sembrava poi destinato a escludere la sopravvivenza della vis nervea una volta interrotta la comunicazione con il centro, ma Haller giunse esplicitamente a negare che l'integrità della singola struttura e/o della rete fosse condizione necessaria perché l'irritazione artificiale del filamento nervoso scatenasse gli spasmi abituali nei muscoli. Senz'altro impressionato da quella irritatio che provoca gli stessi effetti della volontà, anzi "agisce anche più potentemente ed eccita movimenti violentissimi" (De partibus corporis humani irritabilibus sermo IV, 1773, p. 23), egli cedette infine, elaborando le voci per il Supplément dell'Encyclopédie, alla scorciatoia di una sola vis contractilis muscolare, sebbene analizzata in tre gradi distinti; negò finanche la differenza macroscopica esistente fra muscoli volontari e involontari e concluse: "non vi è alcuna differenza tra il cuore e gli altri muscoli" (il n'y a rien de différent dans le coeur et dans les autres muscles; II, p. 717).
Haller concepì e accettò l'idea di una riforma radicale dello iatromeccanicismo per non rinunciare a una sintesi del sapere fisiologico che fosse solida e tendenzialmente onnicomprensiva quanto lo era stato il modello classico. A tale scopo, egli investì il meglio delle proprie energie intellettuali in un programma originale, vasto e soprattutto flessibile. In esso le tipologie della sperimentazione nascevano e si collocavano in un contesto teorico che le orientava e caricava di significati precisi, senza però che fra i due piani vi fosse accordo prestabilito o preconcetto.
Avevo lavorato molto sull'irritabilità, e soprattutto su quella del cuore, ero vivamente tentato di estenderne il dominio e di farne dipendere il movimento delle arterie, quello delle ghiandole, le secrezioni e le febbri, ero sul punto di farne l'unica molla della macchina animata […]. Descartes avrebbe voluto far reggere il mondo dall'etere e dai vortici e ben presto si è voluto governarlo con l'attrazione […]. Ma la natura si opponeva al sistema. (Mémoires sur la nature, 1760, IV, pp. 34-35)
Haller combatté insomma la tentazione del sistema globale "che cominciava a conquistarlo" (qui commençoit à le gagner), convinto che questo avrebbe ridotto la teoria a schemi grossolani e semplificazioni indebite, cosa che ‒ com'era facile prevedere ‒ di fatto gli epigoni si affrettarono a fare.
Né i cosiddetti errori della fisiologia halleriana, né le loro estensioni analogiche bastano, tuttavia, per spiegare davvero le difficoltà evidenti dei contemporanei a concettualizzare il principio sperimentale e il complesso status epistemologico delle categorie in questione. Per l'impossibilità di determinare una ragione sufficiente dell'irritabilità, Haller ‒ come si è detto ‒ ne aveva trasposto la spiegazione al livello dei fenomeni macroscopici. Fu proprio quello scarto fra teoria e pratica che lasciò campo libero allo sviluppo delle ipotesi più diverse, organiciste, di sensibilità sorda delle parti o di proprietà funzionali relativamente autonome negli elementi del composto organico. In alcuni casi, il newtonianesimo di fondo servì poi per coprire una generalizzazione del concetto d'irritabilità che ne faceva principio d'intelligibilità e causa efficiente di tutti i fenomeni vitali. La tendenza a estendere il dominio dell'irritabilità e a connettervi una spiegazione unitaria delle funzioni fu giustificata con il fatto che, limitando l'interpretazione alla sola analisi degli eventi macroscopici, la discriminazione operata da Haller fra parti irritabili o meno avrebbe anche potuto essere soltanto il risultato di una base osservativa insufficiente.
Difficoltà non minori nacquero poi dalla disparità fra strutture nervose e sensibilità cosciente, che pur avrebbe dovuto esserne la proprietà fondamentale; infine, non essendoci una distinzione vera fra nervi motori e sensori, sembrò che alla stessa struttura fossero da riferire sensibilità e potere di movimento. Così, tutte quelle incertezze teoriche che Haller aveva pragmaticamente gestito, ma nelle quali si era pur sviluppata l'analisi, emersero chiaramente negli sviluppi prodotti dai suoi allievi. Ciò si rispecchiava nella stessa 'versatilità semantica' del termine irritabilità, che per alcuni designava la contrattilità muscolare viva, ma per altri si estendeva ben oltre, fino a indicare la sovraeccitazione delle proprietà vitali: in fondo, una specie di sensibilità. Johann August Unzer (1727-1799), per esempio, utilizzò indifferentemente le espressioni 'forza vitale', 'forza nervosa' e 'irritabilità', includendo in quest'ultima la sensibilità e riconducendo tutto all'egemonia dell'anima. Se è vero che Unzer si collocava ampiamente al di fuori della tradizione halleriana, ambiguità simili, tuttavia, erano già evidenti anche nei suoi esponenti forse più significativi, come Simon-André Tissot (1728-1797), traduttore delle praelectiones di Haller, Giovanni Vincenzo Petrini (1725-1814), curatore di una silloge Sull'insensibilità e irritabilità di alcune parti degli animali che fu la prima raccolta importante per la diffusione delle tesi halleriane, Leopoldo Marc'Antonio Caldani (1725-1813) e Felice Fontana (1730-1805), fedeli sostenitori di Haller in Italia.
L'intenzione di Tissot, autore di una dibattuta tavola sinottica delle parti sensibili e irritabili, insensibili e del tutto prive di contrattilità, fu essenzialmente quella di servirsi dell'irritabilità per sistematizzare la distinzione fra organi di movimento e di senso. Egli finì invece per identificare di fatto la proprietà con l'esercizio della forza vitale e quindi ridurre drasticamente la zona d'autonomia della sensibilità. La fisionomia precisa della vis irritabilis sfumò così in un principio vitale rappresentante l'energia naturale nella produzione dei fenomeni organici. Sull'immutabilità e la generalizzabilità della teoria ‒ sostenne Tissot ‒ avrebbe infine convenuto chiunque sapesse interrogare la Natura; garantita dall'invariabilità delle leggi, l'estensione analogica dei risultati ottenuti poteva dunque essere contestata soltanto da indebito scetticismo.
Petrini produsse sviluppi della teoria halleriana ancora più arbitrari, considerando l'irritabilità il principio motore generalissimo dell'economia animale, l'origine, la fonte di accrescimento e di vigore per tutta la macchina, il principale strumento dell'anima per governare il corpo. Se di fatto tutte le strutture organiche e i loro modi di attivazione erano assimilati a quelli della fibra muscolare, soltanto l'espediente della disposizione di talune parti, favorevole o contraria all'irritabilità, riuscì a camuffare gli effetti perversi di tale forza unitaria e sembrò recuperare la distinzione halleriana fra irritabilità e sensibilità.
Caldani e Fontana si dedicarono in modo particolare all'analisi della più problematica delle forze muscolari, cioè quella nervosa. Essi introdussero, ritenendo di collocare meglio questo principio di animazione nell'ortodossia halleriana, la distinzione fra stimolo e reazione motrice, quindi fra la causa eccitante (in grado di innescare il moto di contrattilità viva) e quella efficace (l'unica proporzionale all'effetto prodotto). Dunque la fibra muscolare avrebbe anche potuto essere indotta alla contrazione estrinsecamente, ma, una volta in azione, essa doveva contrarsi in modo proporzionale alla propria struttura e quantità.
Fu innanzitutto in Italia che si accesero vivacissime le discussioni intorno alla validità delle teorie di Haller e si moltiplicarono le ricerche di fautori e oppositori. Come scrisse Fontana nel suo De irritabilitatis legibus (1767), l'irritabilità, che fin dal suo primo apparire aveva provocato grande scalpore in tutta Europa, in Italia suscitò massima discordia di opinioni e sentimenti, tanto da apparire davvero Italiae totius irritatio. Roma fu l'iniziale epicentro del movimento halleriano e le prime verifiche sperimentali vi furono promosse da Urbano Tosetti e dal già citato Petrini. I risultati della serie di esperimenti, compiuti in collaborazione da medici, chirurghi e anatomisti, confermarono incondizionatamente le tesi halleriane. A Firenze partecipò alle esperienze il famoso chirurgo Angelo Nannoni (1715-1790), altre furono eseguite alla presenza di Antonio Cocchi (1695-1758), Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783) e Cesareo Pozzi (1718-1782), che sull'argomento pubblicò una lettera indirizzata al medico bolognese Tommaso Laghi (1709-1764), e a Bologna, a partire dal 1756, si compirono le verifiche più accurate, si svilupparono le discussioni più accese e due nomi spiccarono fra gli altri, quelli appunto di Caldani e di Fontana, che sostennero le tesi con entusiastico talento e innumerevoli esperimenti. In collaborazione con Fontana, Caldani eseguì molte esperienze su diverse parti del corpo, oltre un centinaio sulla sensibilità, e approfittò della pratica clinica per esplorare gli stessi fenomeni anche nell'uomo. Entrambi introdussero nella verifica della teoria e nello studio della fisiologia cerebrale la stimolazione elettrica, che fu poi applicata da Fontana per provare come neppure la minima alterazione del ritmo cardiaco fosse determinata dallo stimolo applicato ai nervi del cuore. Aspre controversie nel nome dell'irritabilità agitarono anche l'ambiente padovano negli anni Sessanta del secolo, fortemente influenzato dall'atteggiamento di Giambattista Morgagni (1682-1771), che nei confronti della fisiologia di Haller prima mostrò gelido riserbo, poi la attaccò duramente.
'Imperizia sperimentale' fu l'accusa più frequentemente rivolta da Haller ai numerosi avversari; tuttavia, ciò che colpisce di più scorrendo i loro testi è proprio la fecondità euristica della disputa: raramente, infatti, essa si fermò su singoli dettagli o s'impuntò sul mero pregiudizio ideologico. L'accusa classica di materialismo empio ‒ che sostituiva all'anima un principio puramente fisico, sufficiente a spiegare tutte le funzioni vitali ‒ fu avanzata 'a freddo', cioè in assenza di argomenti 'positivi', forse dal solo Friedrich Heinrich von Delius (1720-1791). La contestazione specifica dell'irritabilità/sensibilità di questo o quell'organo fu invece occasione per una critica più ampia sulla legittimità dei canoni metodologici. Il dissenso, anche il più severo, stimolò per lo più alla verifica sperimentale o, quanto meno, all'osservazione clinica. Proprio perché la ripetizione degli stessi esperimenti a sostegno della teoria non offriva risposte univoche, il dibattito si arricchì di un complesso di riflessioni sui criteri e le condizioni alle quali l'indagine doveva sottostare per raggiungere risultati affidabili e certi. S'intrecciarono dunque considerazioni d'ordine metodologico (sulle modalità più adeguate per condurre gli esperimenti), epistemologico (sulla presenza di ipotesi e prospettive condizionanti il processo e l'esito della sperimentazione) e ontologico (sulla macchina organica e il suo funzionamento).
Le obiezioni che, per pertinenza dei contenuti e finezza della formulazione, più accesero il dibattito furono probabilmente quelle avanzate da Laghi. Il medico italiano tornava invero all'unicità della determinazione nervosa del movimento, all'onnipresenza degli spiriti animali (sia pur costituiti ora di materia elettrica) e stabiliva una regola (poi smentita) di proporzionalità fra quantità di forza nervosa ed energia della contrattilità viva. Tuttavia, su una base in larga misura congetturale, egli non soltanto gestì un'attività di vera sperimentazione assai varia e intensa, ma diede la migliore espressione a due forti preoccupazioni teoriche degli avversari di Haller. Per un verso, a questi ultimi risultava infatti generalmente molto sospetta l'interpretazione halleriana del metodo newtoniano, la quale rovesciava in valore positivo l'ignoranza della causa della vis; tuttavia, una volta scelto il livello dei comportamenti macroscopici, congeniale agli halleriani, proprio il modo in cui questi li verificavano appariva a Laghi tanto arbitrario quanto superficiale. La questione stava nella variabilità dei fattori che incidono sulla sperimentazione e nel metodo esatto per condurla, evitando l'introduzione di variabili 'parassite'. Problematica da questo punto di vista era la tesi dell'insensibilità dei tendini: essa ‒ si disse ‒ poteva infatti derivare, quale artefatto ingannatore, proprio dall'eccessiva severità e diligenza con le quali gli halleriani preparavano l'esperimento. Denudando il tendine da ogni rivestimento e guaina esterna ‒ osservava Laghi ‒ si privava l'organo dei suoi stessi filamenti nervosi e, contemporaneamente, si provocava nell'animale assuefazione al dolore. La polemica degenerò in scontro senza mediazioni possibili fra due modelli di spiegazione scientifica e due modi irriducibilmente alternativi d'intendere struttura e finalità del protocollo sperimentale. Haller non colse la provocazione e accusò proprio gli avversari di non saper o non voler evitare che la stimolazione investisse anche le fibre nervose delle zone in esame. Caldani ribaltò l'accusa d'inaffidabilità: gli avversari erano colpevoli (il caso specifico era quello del tendine d'Achille) di non aver liberato perfettamente la struttura dalla guaina e dalle terminazioni nervose presenti. In realtà i saevissima mala, che una tradizione secolare si attendeva dalla lesione dei tendini, erano piuttosto di origine sconosciuta, ma certo secondaria.
La questione della sensibilità negata da Haller (e invece assai acuta) alle membrane cerebrali, soprattutto la dura madre, divise anch'essa i fisiologi in due fazioni violentemente e radicalmente contrapposte. Di rado gli antihalleriani raggiunsero gli elevati standard sperimentali dei loro avversari; tuttavia, in questo caso, più delle imponenti emorragie, delle escrescenze di tessuto fibroso o delle calcificazioni che impedivano alla stimolazione di conseguire il suo scopo, fu proprio il peso dell'autorità di Haller a oscurare l'eccellente lavoro di coloro che, sia nel passato, come François Pourfour du Petit (1664-1741), sia nel presente, come Anne-Charles Lorry (1726-1783) e Claude-Nicolas Le Cat (1700-1768), avevano già illustrato l'innervazione e la sensibilità di quelle strutture. Significativo fu il caso di Caldani, che condusse numerosi esperimenti di stimolazione della dura madre (e specificamente della sua superficie interna) senza risultati decisivi: molti interventi (condotti con caustici) confermavano l'opinione halleriana, ma in altri lo stimolo produceva certamente dolore e convulsioni. Caldani dapprima asserì l'innervazione di tale parte della meninge, ma si costrinse poi a una sorta di autocensura.
La disputa diede spazio inconsueto anche al lavoro dei chirurghi, artefici della sperimentazione sull'uomo nei casi in cui la dura madre, esposta per ferite o lesioni, non sembrava dolente al tocco di strumenti appuntiti. Uno dei più famosi operatori dell'epoca, il danese Georg Heuermann (1722-1768), pose infatti la nuova dottrina fisiologica al servizio di una riforma radicale della chirurgia di tendini, aponeurosi, membrane e legamenti. Persino ricercatori del valore di Johann Gottfried Zinn (1727-1759), Johann Friedrich Meckel (1714-1774) o Johann Friedrich Lobstein (1736-1784) continuarono poi a negare l'esistenza di nervi meningei fino alle soglie del XIX secolo.
Dall'inizio degli anni Sessanta del secolo e per circa dieci anni, Haller fu personalmente impegnato in un'aspra polemica con Anton de Haen (1704-1776), famoso clinico viennese. Convinto delle conseguenze eterodosse che la teoria halleriana della sensibilità avrebbe potuto avere sugli insegnamenti clinici e chirurgici, e che di fatto ebbe ‒ si pensi agli sviluppi di William Cullen (1710-1790), John Brown (1735-1788) e Giovanni Rasori (1766-1837) ‒, de Haen scelse di colpire il sistema attraverso la volgarizzazione che ne aveva fatto Tissot. Egli ebbe gioco relativamente facile sul tentativo, messo in opera da quest'ultimo, di quantificare e semplificare la teoria inserendovi una legge di proporzionalità inversa fra sensibilità e durezza degli organi. Il pretesto di de Haen celava appena la sua avversione, di marca tipicamente conservatrice, nei confronti dell'"insolente" modernorum systema (Difficultates circa modernorum systema, de sensibilitate et irritabilitate humani corporis, 1761). Agli attacchi diretti, Haller rispose variamente (Ad viri illustris. Antonii de Haen difficultates apologia, 1761; una recensione del 1762 alle Difficultates di Anton de Haen; Elementa physiologiae corporis humani, praefatio, 1763), rimarcando sprezzantemente che "de Haen non ha fatto alcuna esperienza, né propriamente contesta quelle halleriane. Piuttosto ha trovato in talune osservazioni di altri autori qualcosa che non si accorda con gli esperimenti di Haller e considera perciò questi ultimi confutati" (Recensione a Difficultates circa modernorum systema, pp. 993-994). La disputa si focalizzò sul particolare della teoria che aveva stupito, primo fra tutti, lo stesso Haller, vale a dire, di nuovo, l'insensibilità dei tendini. De Haen naturalmente rifiutò l'insinuazione halleriana secondo la quale l'avversione nasceva piuttosto dall'incapacità di distinguere davvero fra nervi e tendini, e dunque fra le rispettive lesioni. Il clinico contestò la classificazione delle parti (sentono gli organi ‒ egli sostenne ‒ e non i tessuti specifici), e l'orrore per il sistema fu aggravato dal 'tradimento' che de Haen sentì perpetrato nei confronti dei maestri comuni. Sull'irritabilismus ‒ così lo definì il medico viennese ‒ avanzava poi l'ombra nefasta della convergenza con gli abusi materialisti, che Haller, in corruptissimum hoc nostrum, Athaeumque saeculum (de Haen, Difficultates circa modernorum systema, p. 110), avrebbe dovuto cautamente prevenire.
La teoria halleriana della sensibilità innescò persino in de Haen una duplice reazione. Sul piano teorico egli bollò come rivoluzionaria e inammissibile l'applicazione alla fisiologia umana delle conseguenze tratte dalla vivisezione condotta quasi esclusivamente su animali, e in tale polemica ideologica schierò l'autorità di clinici di fama come Giambattista Bianchi (1681-1761). La tesi dell'incommensurabilità fra la struttura anatomo-funzionale dell'uomo e quella degli animali (tesi che implicitamente confinava l'esperienza medica alla pratica clinica e chirurgica) era però espressione evidente di un modo ormai superato d'intendere la fisiologia ed ebbe infatti scarsa presa. Sul terreno della contrapposizione dei dati osservativi a quelli sperimentali, il clinico viennese seppe invece utilizzare procedure notevolmente avanzate, cercando di rilocalizzare sul cadavere, mediante le autopsie, il dolore che l'osservazione clinica già aveva seguito nel corso della patologia. Egli chiamò poi in causa gli allievi più valenti del collega Gerard van Swieten (1700-1772) e della Scuola medica di Praga e li schierò contro i discepoli e i propagatori delle idee di Haller. La polemica si trascinò fra accuse reciproche d'indifferenza al dato sperimentale sino al 1768. De Haen ebbe l'ultima parola nel capitolo significativamente intitolato Finis quaestionis de sensibilitate et irritabilitate della sua Ratio medendi in nosocomio practico Vindobonensi (XII, 1768), nel quale colse prontamente la soluzione di compromesso che Haller aveva offerto nell'ultimo volume dei suoi Elementa (1766) e che non pochi intesero erroneamente come una resa. La fine delle ostilità era infatti possibile per la netta distinzione di campi che il fisiologo infine ammetteva: l'irritabilismus non riguardava patologia e medicina pratica. Più tardi de Haen (Ratio medendi, XIV, 1770) confermò l'accordo, né mai rimarcò quanto in verità l'espediente di Haller illustrasse l'aperta contrapposizione tra la fisiologia sperimentale e una clinica ferma alle apparenze della totalità organica e programmaticamente incapace di penetrarne le componenti anatomiche.
Tutt'altra fu la disputa, innescata da Haller addirittura prima che le sue praelectiones mettessero a scompiglio la comunità scientifica, che coinvolse il medico scozzese Robert Whytt (1714-1766), il quale, come Haller, era sia allievo di Boerhaave sia autore di una dottrina della motricità organica. Nel 1751 Whytt pubblicò An essay on the vital and other involuntary motions of animals, nel quale sviluppò, sulla base di dati sperimentali e verosimili analogie, un sistema coerente mirato all'identificazione di un'unica causa per ogni moto vitale, o meglio del meccanismo funzionale di base per tutte le operazioni organiche. Haller, prima di annunciare le proprie tesi alla comunità scientifica, reagì con una recensione anonima di rara durezza e attaccò l'avversario esplicitamente nelle praelectiones; poi, alle nuove Observations on the sensibility and irritability of the parts of men and other animals (1755), ribatté con una Réponse à la critique de M. Whytt. Whytt contrattaccò (A review of the controversy concerning the sensibility and moving power of the parts of men and other animals, 1761), ma al fisiologo svizzero spettò l'ultima parola (Ad Roberti Whyttii nuperum scriptum apologia, 1763) di un dialogo in larga misura fra sordi, a causa della radicale divergenza di principî che articolava le teorie da entrambe le parti.
Alle aporie del micromeccanicismo Whytt contrapponeva un active sentient principle, agente immateriale (soul) puntigliosamente distinto dall'anima, capace di esercitare le funzioni di percezione cosciente e motricità volontaria, nonché, per mezzo di una sensibilità inconscia, in grado di reagire allo stimolo in diverse parti vitali e sopprimere le condizioni dello stesso. Prerogativa necessaria di ogni moto muscolare era l'intervento del sistema nervoso, sia nella forma più ovvia (che suppone l'integrità della connessione muscolo-nervo-cervello), sia nei casi dell'animale spinale o della parte isolata. Secondo Whytt, interrotta la connessione, la Natura aveva altri mezzi (innanzitutto il midollo spinale, anche ridotto e parcellare) perché i nervi potessero adempiere alla loro funzione, benché in forma minore e progressivamente digradante. La sensibilità era estesa a ogni parte del corpo e la concezione della motricità vitale come da essa dipendente era costruita specificamente sull'analisi di tre tipi di moti spontanei: della pupilla, dei muscoli dell'orecchio interno e della respirazione. Il potere dei nervi, da cui dipendeva dunque ogni contrazione, restava però di natura e proprietà sconosciute.
Non v'era distinzione netta fra l'ordine delle funzioni involontarie e quello delle operazioni dipendenti dalla volontà, come non ve n'era fra anima or soul e animus or rational principle. Né era di fatto spiegata l'emergenza di una coscienza 'riflessa' e comunque soggetta al potere e alla direzione della mente. Che la sensibilità fosse conscia o inconscia pareva diventare un fatto di 'quantità', legato cioè all'intensità dello stimolo e quindi al superamento eventuale della soglia di ricettività, oppure all'abitudine che rende più vaga la percezione. Whytt per lo più costruiva la propria argomentazione su inferenze analogiche a partire da una ragion d'essere dinamica dei fenomeni osservabili, irriducibile a dispositivi meccanici e a modalità di reazione uniforme agli stimoli. Tuttavia, egli negava all'anima la libertà di agire senza regola sul corpo, e prevedeva precise leggi di unione e coestensione delle due entità. Malgrado talune anticipazioni interessanti sul concetto di moto riflesso e sul suo collegamento agli istinti fondamentali di conservazione, su tutto faceva premio un modello speculativo che ricorreva a una forma confusa di meccanicismo animistico e a una certa 'distrazione' dalla vera fisiologia sperimentale.
Ciò che della teoria di Haller parve a Whytt inammissibile fu l'estrapolazione delle vires insitae, a suo avviso trascendenti le proprietà meccaniche da cui si dicevano ricavate: esse erano in verità soltanto un comodo refuge to ignorance. Non esisteva alcuna "ignota simpatia che agisca meccanicamente" (unknown sympathy acting mechanically), né "forze meramente meccaniche" (mere mechanical powers) avrebbero mai potuto spiegare la tipicità dei moti vitali. Lo stimolo non suscitava una forza materiale insita nel corpo, ma innescava il principio sensitivo immateriale, che reagiva e accresceva l'azione del potere nervoso sulle fibre: "la vita, il senso e la sua attività sembrano essere incompatibili con le proprietà conosciute della materia" (life, sense and proper activity seem to be inconsistent with the known properties of matter; Observations on the sensibility, p. 222). I moti provocati avevano inoltre un'evidente efficacia adattativa e anche questo rivelava come essi fossero determinati da un'intenzione psichica d'utilità funzionale (e come nella fisiologia di Whytt risorgesse in tal modo la componente psicologizzante tipica dell'irritazione glissoniana). Infine, filamenti nervosi stavano senz'altro nelle parti che gli halleriani avevano detto insensibili. Ciò che era semplicemente sfuggito allo strumento dell'anatomico si mostrava infatti ‒ sosteneva Whytt ‒ in caso d'infiammazione. L'irritabilità, che regrediva di fatto alla contrattilità tradizionale, andava estesa, dunque, oltre i limiti assegnati da Haller: le parti sensibili potevano sembrarne sprovviste soltanto perché lo stimolo esercitato restava al di sotto della loro soglia d'irritazione, più alta rispetto a quella delle zone che l'avversario considerava come le sole irritabili. Spostando poi la polemica dal piano teorico a quello di metodo, Whytt avanzò il sospetto malevolo che, per incapacità o disattenzione, proprio gli halleriani non avessero riflettuto su come il dolore protratto potesse falsare le reazioni dell'animale, inficiare i risultati delle esperienze e indurre a conclusioni affrettate sull'insensibilità di talune parti.
L'attacco di Haller a Whytt fu durissimo e, in buona parte, 'ideologico', ossia giocato non soltanto sull'amplificazione di talune debolezze evidenti nella fisiologia del medico scozzese, ma anche sulla deformazione intenzionale e screditante. L'accusa fu innanzitutto d'imperizia sperimentale. Gli errori di Whytt sarebbero nati da "un piccolo numero di esperimenti su animali moribondi […] non ripetuti a sufficienza" (Mémoires sur la nature, I, p. 89). Inammissibile contraddizione appariva poi agli occhi di Haller una sensibilità inconsapevole, e l'avversario divenne senz'altro l'esponente per antonomasia della detestata 'setta stahliana'. Sostenitore di una concezione dell'anima onnipresente e onniesplicativa, Whytt aveva tradito, secondo Haller, il vero compito del fisiologo, ossia indicare la causa fisica ‒ e non la metaphysica voluntas ‒ dei movimenti e delle affezioni del corpo. Il medico scozzese avrebbe insomma condiviso, secondo la sferzante ironia halleriana, l'ingenuità del primitivo, il quale vede muoversi la lancetta dell'orologio e dice "c'è uno spirito che la muove […] ed è pronto ad adorarlo" (ibidem, IV, p. 114). Con molta lucidità, Haller si assunse il compito di sventare la provocazione di chi lo aveva accusato di offrire comodo asilo all'ignoranza: "Noi siamo per contro persuasi che adempie al suo ufficio lo scienziato che riconduce l'evento alla costanza di una legge confermata sperimentalmente. Non si può desiderare da lui nient'altro che la dimostrazione della verità e della costanza della legge" (Recensione a An essay, p. 175).
Allo 'stahliano', che si era gloriato di una fisiologia apologetica e celebrativa, Haller rinfacciò con non piccola soddisfazione il risultato di aver reso l'anima divisibile in tante parti quanti erano i frammenti nei quali il bisturi dell'anatomico sezionava il vivente (in verità, Whytt aveva mostrato di non temere e anzi di riferirsi volentieri alle dottrine filosofiche dell'anima estesa, ma aveva sempre escluso che la contrattilità nell'organo isolato o post mortem implicasse la divisibilità dell'anima). D'altra parte, contro le insinuazioni di Whytt (non meno maliziose) di una convergenza oggettiva fra la teoria halleriana e l'ateismo materialista, la posizione del fisiologo svizzero era sempre stata netta. A sospetti analoghi formulati da de Haen, egli aveva infatti ribattuto: "Se non dico che l'anima presiede ai moti dei pianeti, alla gravità, all'elasticità e alle cause dei moti che si originano nel mondo, sarò dunque ateo e favorirò gli atei? Bisognerà forse riferire gli esperimenti in modo diverso da come si sono svolti per non nuocere alla religione, o forse mentire perché la Verità non ne soffra?" (Haller, Ad viri illustris, p. 25).
In conclusione, le praelectiones halleriane furono rapidamente tradotte in tutte le principali lingue europee e riproposte in francese nel primo tomo della raccolta, curata da Tissot, Mémoires sur la nature sensible et irritable des parties du corps animal (1756-1760). In quell'occasione esse furono arricchite di una Réponse générale cronologicamente e logicamente legata alle dure polemiche che le teorie avevano acceso a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo. Di esse offrirono un quadro storico completo i volumi intermedi dei Mémoires, nonché la raccolta di opuscoli di vari autori curata dall'antihalleriano Giacinto Bartolomeo Fabri Sulla insensitività ed irritabilità halleriana (1757-1759), vale a dire il contributo più rilevante della cultura italiana del periodo e, a tutt'oggi, fonte primaria, dove fu ristampata o pubblicata la maggior parte delle osservazioni compiute dalle due fazioni negli anni centrali della controversia. Di ogni intervento, anche comparso in contesto eterogeneo, Haller tenne minutamente conto sia nella Réponse sia nella sistemazione delle tesi, consegnata al IV volume dei propri Elementa. La materia restò sempre al centro dei suoi interessi, anche quando la fase sperimentale più intensa poté dirsi conclusa. Haller non cessò di prendere posizione fra avversari ed epigoni, e alle vires dedicò due ultimi sermones (De partibus corporis humani sentientibus et irritabilibus sermo tertius, 1772; De partibus corporis humani irritabilibus sermo IV, 1773), come buona parte dei saggi di fisiologia composti per l'Encyclopédie e pubblicati poco prima della morte.