L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Sistemi e metodi terapeutici
Sistemi e metodi terapeutici
I sistemi terapeutici del XVIII sec. sono caratterizzati da una graduale trasformazione delle tradizionali pratiche galeniche prodotta da un nuovo modo di intendere la malattia, da nuove teorie relative ai processi patologici che colpiscono il corpo e la mente, e da rimedi e trattamenti fisici sempre più basati sull'esperienza. In generale, gli approcci terapeutici abbandonarono gradualmente l'usanza di trattare ogni singolo sintomo e disturbo secondo la condizione personale di ciascun paziente, evolvendo verso la diagnosi di un particolare tipo di malattia o disturbo, cosa, questa, che richiedeva un percorso terapeutico ben definito in modo uniforme. Simili trattamenti basati sulla malattia piuttosto che sul paziente erano in parte empirici, in parte derivati da classificazioni patologiche (nosologie) e da teorie fisiopatologiche.
Tuttavia, nonostante questo profondo cambiamento, nel XVIII sec. la terapia tradizionale 'individualizzata' non fu accantonata del tutto e continuò a essere utilizzata nell'ambito del contesto dottrinario della patologia umorale galenica. Per molti medici, infatti, l'obiettivo terapeutico restava la correzione delle discrasie dei 'quattro umori' (sangue, flemma, bile gialla e bile nera) attraverso l'eliminazione della materia peccans, quella "materia morbifica", cioè, costituita dall'accumulo di umori nocivi, ritenuta causa della malattia. Il trattamento era basato sulle classiche sei res non naturales (aria, cibo e bevande, movimento e riposo, sonno e veglia, evacuazione e ritenzione dei fluidi corporei, passioni dell'anima). Oltre alla dieta e all'esercizio fisico, il ruolo più importante era svolto dai cosiddetti 'evacuanti': salassi, coppettazione, vescicanti, sanguisughe, suture, purghe, emetici, diuretici e droghe che accentuavano la sudorazione. Inoltre si doveva rispettare il principio dei contraria contrariis: nel sistema galenico, i farmaci erano classificati come 'caldi' (per es., la carne di vipera) o 'freddi' (per es., l'oppio) in varie gradazioni, e si credeva che fossero indicati nel caso in cui il corpo del paziente versasse nella condizione opposta a causa di un eccesso di umori freddi (flemma o bile nera) o caldi (sangue o bile gialla). Nell'applicare questi trattamenti, dovevano essere tenuti in considerazione non soltanto le condizioni fisiche del paziente e lo stadio della sua malattia, ma anche il clima, il luogo in cui viveva e la stagione dell'anno. Le prescrizioni dei medici erano complesse e univano molti e diversi ingredienti, dalle piante agli animali ai minerali, erano inoltre attentamente calibrate ‒ in teoria da una visita all'altra ‒ sulla base dei cambiamenti delle condizioni del paziente.
A partire dal tardo XVII sec. nuove concezioni della malattia lanciarono una sfida alla terapia galenica. Uno sviluppo importante è collegato alla descrizione e alla classificazione delle malattie, un metodo avviato dall'approccio neoippocratico ed empirista del medico inglese Thomas Sydenham (1624-1689), che raggiunse il suo culmine con l'autorevole sistema nosologico di William Cullen (1710-1790), professore di medicina a Edimburgo.
Assistito dal suo amico, il medico e filosofo John Locke (1632-1704), Sydenham compilò vere e proprie cartelle cliniche dei suoi pazienti, annotando meticolosamente il primo manifestarsi, lo sviluppo e l'eventuale scomparsa di ciascun sintomo. In ciò seguiva le indicazioni di Francis Bacon, contenute nel libro Advancement of learning (1605), secondo le quali occorreva tornare alla "antica e scrupolosa diligenza di Ippocrate" e fornire un dettagliato resoconto narrativo dei singoli casi ‒ una pratica esemplificata dalla famosa opera ippocratica Le epidemie. In un secondo momento, utilizzando l'induzione baconiana, Sydenham trasformò le sue cartelle cliniche in resoconti più generali di malattie, le cosiddette historiae morborum, che contenevano ancora descrizioni minuziose della sequenza dei sintomi, ma tralasciavano le variazioni rilevate nei singoli pazienti. Pubblicando queste 'storie' generalizzate, per esempio di morbillo e vaiolo, egli fornì descrizioni di species di malattie, nello stesso modo in cui i botanici descrivevano 'specie' di piante ‒ un paragone avanzato esplicitamente dallo stesso Sydenham.
Sebbene per Sydenham il termine 'specie' non avesse la forte connotazione biologica che acquisterà a partire dal XIX sec., e fosse piuttosto usato come un termine ordinale generale, esso ebbe un impatto considerevole sulla sua concezione della patologia e della terapia. Come spiegava nelle sue Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem (1676), opera che eserciterà una grande influenza, una ritenzione prolungata degli umori nel corpo, una certa composizione dell'aria, o qualche contagio velenoso causavano determinate exaltationes (fermentazioni) degli umori, le quali producevano malattie specifiche, e contro esse occorreva individuare rimedi specifici. Un dato farmaco non doveva soltanto presentare l'una o l'altra delle qualità primarie o secondarie come accadeva nella medicina galenica; esso doveva di fatto 'distruggere' ed 'estinguere' la 'specie' della malattia. Egli riteneva che fino a quel momento esistesse un solo esempio di un simile rimedio specifico: la corteccia di china peruviana (chinina), che era stata importata dal nuovo mondo dai missionari gesuiti intorno al 1630 come potente rimedio contro le febbri intermittenti (malaria). Né il mercurio, che era stato elogiato da Paracelso e dai suoi seguaci come cura contro la sifilide, né la radice di salsapariglia sudamericana, utilizzata contro la stessa malattia, nell'ottica di Sydenham meritavano l'appellativo di 'rimedio specifico'. Entrambi questi farmaci, infatti, dipendevano dalla 'evacuazione' come i rimedi galenici: il primo si basava sulla salivazione, il secondo sulla traspirazione. Secondo quanto sosteneva Sydenham nel suo Tractatus de podagra et de hydrope (1683), invece, con un rimedio specifico come la china peruviana l'evacuazione o l'alterazione degli umori non erano più necessarie, e anche la dieta e lo stile di vita non erano più determinanti; la china infatti sarebbe stata efficace anche in presenza di errori nella cura, come per esempio nel caso in cui il paziente con la febbre fosse tenuto troppo al caldo.
È chiaro che l'esempio della china peruviana come febbrifugo scoperto empiricamente e l'approccio empirista di Sydenham alla malattia si suffragavano l'un l'altro e, di conseguenza, egli proponeva 'l'esperimento' al capezzale del malato, e cioè un intervento per tentativi ed errori. Gli esperimenti avrebbero rivelato "le vere e genuine indicazioni curative", allo stesso modo in cui la storia delle malattie aveva permesso di trovare "i veri e genuini fenomeni che appartengono alle malattie così com'è nella natura stessa di queste" (Cunningham 1989). La china e l'oppio nei casi di febbri continue, lo spirito di vetriolo (acido solforico diluito) e il laudano liquido (oppio con vino) nei casi di vaiolo erano esempi noti di trattamenti sydenhamiani basati sull'esperienza.
L'influenza di Bacon e di Sydenham sui nosografi fu evidente, per esempio nel caso di medici come Giorgio Baglivi (1668-1707) a Roma e François Boissier de Sauvages (1706-1767) a Montpellier. Baglivi distingueva una medicina prima, deputata a un'osservazione clinica minuziosa e alla ricostruzione delle "storie delle malattie", e una medicina secunda, che su questa base doveva fornire le cure per le malattie specifiche. Così come Sydenham, egli suggeriva di identificare diverse specie di malattie allo stesso modo in cui i botanici identificavano specie di piante; e, andando oltre, egli proponeva di organizzare le malattie in un sistema secondo le loro cause e di indicare per ciascuna specie sintomi e segni caratteristici e "un metodo di cura appropriato e stabile". Influenzato da Baglivi, Sauvages sviluppò una classificazione nosologica sul modello del sistema botanico di Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708), che comprendeva circa 2400 specie di malattie catalogate in genera, sectiones (ordini), e infine otto classes. Pubblicata dapprima anonima nel 1731 con il titolo di Nouvelles classes des maladies, l'opera dopo numerose revisioni culminò nella sua famosa Nosologia methodica sistens morborum classes, genera et species del 1763. Anche i non meno noti Genera morborum (1763) di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), in cui 325 genera di malattie erano ripartiti in undici classi, non soltanto rappresentarono un proseguimento ideale del suo famoso sistema botanico del 1735, ma avevano anche un grosso debito nei riguardi dei precedenti tentativi compiuti da Sauvages nella classificazione delle malattie.
Nel sistema di Sauvages, i metodi terapeutici erano collegati alle classi di malattie. Tutte le specie comprese nella classe 'infiammazioni', per esempio, erano caratterizzate da pletora locale, e il salasso era dunque il metodo di cura comunemente indicato. Mentre la terapia galenica era stata basata sull'accertamento della condizione attuale del paziente e dei suoi bisogni individuali, con la nosologia era richiesto un tipo di diagnosi che si riteneva avrebbe condotto il medico al trattamento appropriato. Ovviamente, questo nuovo approccio presentava notevoli vantaggi didattici, cosa che spiega in parte la popolarità degli schemi nosologici nel XVIII secolo. La Synopsis nosologiae methodicae (1769) di Cullen infatti non fu più intesa come un completo sistema naturale delle malattie ma come un aiuto per lo studio della medicina e per il principiante nella pratica clinica. Allontanandosi dalla regola di Baglivi di includere solamente osservazioni proprie nelle "storie delle malattie", Sauvages aveva raccolto anche sintomi tratti dalla letteratura medica. Cullen ora tornava invece all'esigenza originaria di un'esperienza personale come base della classificazione delle malattie. Il sistema nosologico di Cullen prevedeva soltanto quattro classi (pyrexiae, neuroses, cachexiae e locales), che erano suddivise in un totale di 19 ordini e 132 generi. Per consentire ai suoi studenti una facile comparazione con altre classificazioni, egli incluse nella sua Synopsis anche le nosologie di Sauvages e Linneo, e le Definitiones generum morborum (1764) di Rudolph Augustin Vogel (1724-1774) ‒ professore a Gottinga ‒ che distingueva 560 generi. Cullen sottolineava che per un trattamento efficace i rimedi dovevano essere adattati al genere, alla specie, e perfino alla varietà della malattia. Tuttavia, le testimonianze sul suo modo di procedere rendono controverso stabilire fino a che punto la nosologia determinasse di fatto i suoi metodi terapeutici: Cullen evitava di utilizzare criteri diagnostici prestabiliti quando gli veniva richiesto, per lettera, di dare consigli medici a pazienti appartenenti alle classi medio-alte, e preferiva somministrare prescrizioni tradizionali secondo la costituzione caratteristica di ciascun individuo; trattava invece i pazienti poveri ‒ nella Royal Infirmary di Edimburgo ‒ in modo molto più schematico, confezionando le sue prescrizioni sulla base della malattia piuttosto che dell'ammalato.
L''ordine' morboso più comune fra i ricoverati seguiti da Cullen era quello delle 'febbri', il cui trattamento esemplificava la complessa relazione esistente fra nosologia e terapia. Cullen distingueva infatti fra leggere "febbri nervose" (typhus) e febbri infiammatorie (synocha), che richiedevano diverse misure terapeutiche, quali stimolazioni con farmaci 'tonici', come la china peruviana, o traspirazione e applicazione di vescicanti nel primo caso, e moderazione e deplezione attraverso il salasso nel secondo caso. Comunque, la maggior parte dei suoi pazienti scozzesi soffriva di una forma mista di febbre, chiamata synochus, che mostrava fasi alterne di debilitazione e di sovreccitazione, e la terapia doveva essere adeguata di conseguenza. Inoltre, la concezione fisiopatologica generale di Cullen (v. oltre) tendeva a confondere le distinzioni nette della sua classificazione nosologica; a un certo livello, egli collegava virtualmente tutte le malattie a disturbi del sistema nervoso, che si manifestavano come debolezza o eccitazione.
Alla fine del XVIII sec. il modo in cui veniva considerato il grande rimedio specifico di Sydenham, la china peruviana, cambiò: infatti, sulla base della sperimentazione farmacologica, Friedrich Hoffmann (1660-1742), Stephen Hales (1677-1761), John Pringle (1707-1782) e David Macbride (1726-1778) la caratterizzarono come un astringente, tonico e antisettico, quindi come un farmaco che condivideva le sue proprietà con altri del suo stesso gruppo, sebbene fosse particolarmente efficace. Inoltre, le prescrizioni della china erano state ampliate fino a comprendere tutti i tipi di febbre e molte altre malattie, inclusi casi 'chirurgici', come le ulcere alle gambe e la cancrena. La relazione diretta fra malattia specifica e specifico trattamento così come la intendeva Sydenham non si era, quindi, realizzata, essendo stata resa impossibile dagli sviluppi della farmacologia e della teoria patologica. La classificazione delle malattie forniva dunque soltanto una guida generale al trattamento, senza che ‒ come Cullen diceva ai suoi studenti ‒ si dovesse "agire a caso".
La nosologia sopravvisse fino al XIX sec. acquisendo una nuova base nell'anatomia patologica, nella misura in cui l'esame post mortem divenne una pratica comune negli ospedali. Tuttavia l'ambizione di creare una storia naturale di tutte le malattie come base di terapie specifiche alla fine fu abbandonata; le pratiche nosografiche divennero piuttosto parte integrante della moderna diagnosi clinica.
La medicina del XVIII sec. è nota per la sua tendenza a sistematizzare, una tendenza che è stata spiegata in molti modi diversi. La sfida al galenismo tramite la scoperta da parte di William Harvey della circolazione del sangue nel 1628, e tramite la iatrochimica e la iatromeccanica del XVII sec., rendeva necessarie nuove teorie mediche. I sistemi medici erano legati a importanti centri d'insegnamento ‒ come le Università di Leida, di Halle e di Edimburgo ‒ a partire dai quali si diffondevano; essi esercitavano inoltre una grande attrazione, nella misura in cui offrivano sintesi accessibili del sapere medico e conferivano una rispettabilità intellettuale ai loro seguaci. Chiaramente, le moderne teorie mediche erano anche associate a nuovi stili terapeutici, sebbene le pratiche galeniche di base, come la flebotomia e i purganti, non fossero stati abbandonati.
Probabilmente nella prima metà del XVIII sec. l'influenza maggiore fu esercitata dal sistema di Herman Boerhaave (1668-1738) a Leida, il professore di medicina più famoso in quel tempo, in Europa. Le sue dottrine furono divulgate non soltanto dalle migliaia di studenti che per più di trenta anni accorsero da diversi paesi per seguire le sue lezioni, ma anche dai suoi manuali, le Institutiones medicae (1708) e gli Aphorismi de cognoscendis et curandis morbis (1709), che ebbero una grande diffusione. Il sistema medico di Boerhaave doveva molto alla filosofia meccanicista di Robert Boyle e Isaac Newton. Il corpo era considerato come un composto di parti "solide", che formavano i vasi attraverso i quali i "fluidi" ‒ il secondo componente fondamentale ‒ scorrevano; i fluidi stessi erano concepiti come aggregati di particelle solide, agitate e tenute in movimento dai "fermenti". La malattia si verificava quando i fluidi erano spinti in una direzione sbagliata, quando il loro flusso era bloccato o quando affluivano a certi organi. Boerhaave riteneva che le leggi della meccanica e della idrodinamica fossero applicabili al corpo, e che le terapie dovessero essere semplici e mirate a rimuovere gli squilibri fra solidi e fluidi. Salassi e purghe, per esempio, riducendo la massa dei fluidi e il loro flusso, erano indicati nei casi di "eccessiva circolazione e allagamento" (emorragia), o per allentare la pressione esercitata sui vasi ostruiti; l'oppio era usato per far cessare la diarrea. In pratica, i trattamenti di Boerhaave non sembravano differire molto dalle pratiche galeniche, ma il loro quadro di riferimento teorico era decisamente iatromeccanico, non umorale; inoltre, Boerhaave era un seguace dichiarato dell'approccio osservativo di Sydenham alla malattia ‒ un metodo nel quale vedeva il vero spirito dell'antica medicina ippocratica e che egli metteva in pratica durante gli insegnamenti che teneva al capezzale del malato nella sua clinica a Leida, la St. Caecilia Gasthuis, che disponeva di soli dodici posti.
Il sistema di Boerhaave fu adottato dai primi professori della Facoltà di medicina di Edimburgo (fondata nel 1726), tutti suoi allievi. Uno di loro, John Rutherford (1695-1779), introdusse l'insegnamento al capezzale del malato anche alla Royal Infirmary; e tramite altri due famosi allievi di Boerhaave, Albrecht von Haller (1708-1777) e Gerard van Swieten (1700-1772), la sua influenza venne ulteriormente estesa, rispettivamente all'Università di Gottinga e a quella di Vienna. Lo iatromeccanicismo fu divulgato anche, ma indipendentemente, dal primo professore di medicina dell'Università di Halle (fondata nel 1694), l'eminente Friedrich Hoffmann. Mentre Boerhaave assegnava un ruolo centrale ai vasi sanguigni e alla circolazione, Hoffmann collegava salute e malattia anche al sistema neuromuscolare, in particolare alla tensione o 'tono' delle fibre. In linea con questa concezione, egli distingueva quattro classi di rimedi: sedativi, corroboranti, alteranti ed evacuanti. L'affezione poteva consistere in spasmi delle fibre, caso in cui erano indicati sambuco e salvia, farmaci sedativi come gli oppiacei, il liquor anodynus mineralis (che conteneva etere e alcol), o i fiori antispasmodici della camomilla; negli stati di atonia, invece, la tensione doveva essere incrementata con corroboranti, per esempio muschio, balsamo o zuppe di carne. Se il problema risiedeva negli umori piuttosto che nelle fibre si dovevano prescrivere farmaci alteranti o evacuanti; gli alteranti, quali mirra, salnitro, corno e occhi di granchio, avrebbero modificato la qualità e la consistenza degli umori, mentre i farmaci evacuanti (emetici, lassativi, diuretici e sudoriferi) ne avrebbero ridotto la quantità; per quest'ultimo scopo, Hoffmann consigliava anche il salasso. Se il volume degli umori era invece troppo piccolo, esso doveva essere aumentato tramite una dieta nutriente.
Sebbene Hoffmann non credesse in alcuna panacea, egli considerava, nondimeno, l'acqua pura ‒ un bicchiere d'acqua, un bagno o un clistere ‒ alla stregua di un rimedio universale, poiché essa salvaguardava la fluidità degli umori, necessaria per l'idraulica del "corpo macchina". Inoltre, riteneva che i sali contenuti nelle acque minerali stimolassero la circolazione sanguigna e promuovessero le secrezioni; da ciò il profondo interesse di Hoffmann per le sorgenti di acque minerali, testimoniato dalle sue analisi delle acque di Karlsbad e Selters e di molte altre sorgenti medicinali, specialmente quelle della Germania centrale; perciò egli divenne molto importante per il commercio tedesco delle acque minerali (v. oltre).
Influenzato dalla teoria corpuscolare di Boyle, che egli era andato a trovare a Londra quando era ancora un giovane medico, Hoffmann spiegava i diversi effetti dei farmaci con il loro contenuto di 'particelle' dalla forma diversa, che riteneva agissero sulle particelle del sangue e del "succo nerveo". In questa pratica terapeutica, com'è illustrato dalla pubblicazione dei suoi consulti medici, egli condivideva la preferenza di Boerhaave per le medicine semplici; molte di queste potevano essere preparate direttamente a casa del paziente, e se il professore di Halle riconosceva la necessità di rimedi più complessi, egli prescriveva spesso proprie specialità medicinali, come il suo balsamum vitae o il già menzionato liquor anodynus mineralis, le famose 'gocce di Hoffmann' conosciute ancora oggi.
Il sistema medico di Hoffmann includeva elementi provenienti sia dalla tradizione ippocratico-galenica sia da quella chemiatrico-paracelsiana; tuttavia egli aveva uno stile terapeutico specifico. Mentre gli evacuanti avevano ancora la preminenza nei suoi trattamenti, egli era apparentemente restio a usare emetici e cantaridi (mosche spagnole). Alcune caratteristiche dei farmaci prescritti, come la sua preferenza per medicine fluide, oli eterei e balsami, sembra fossero collegate alla sua teoria farmacologica corpuscolare. Tuttavia, nonostante la retorica antigalenista, il sistema terapeutico di Hoffmann non segnò una drastica rottura con il trattamento convenzionale; le sue interpretazioni meccanicistiche dell'azione dei farmaci furono piuttosto innovative.
D'altra parte i metodi terapeutici di Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734), collega di Hoffmann e suo 'rivale' intellettuale a Halle, mostravano, rispetto ai trattamenti di quest'ultimo, differenze importanti che erano chiaramente riconducibili alla teoria fisiopatologica di Stahl. Rifiutando tanto il dualismo cartesiano fra mente e corpo quanto le semplici applicazioni della chimica e della fisica newtoniana alla fisiologia, Stahl creò il concetto olistico di un "corpo organico", profondamente pervaso dall'anima. Secondo il suo 'animismo', l'anima agiva con uno scopo a tutti i livelli ‒ movimento, percezione sensoriale, immaginazione, emozione e ragionamento ‒ in risposta alle stimolazioni dell'ambiente; non a caso, Stahl si basava su casi di pazienti con patologie che noi chiameremmo disturbi psicosomatici. Il suo sistema medico si sviluppò in un contesto sociale e ideologico fortemente influenzato da un pietismo radicale, del quale egli condivideva la critica alle gerarchie ortodosse e alla supremazia della fredda ragione. La malattia si verificava quando la normale armonia regolata dall'anima era turbata da cause ambientali o tumulti interiori, sicché sia il tono delle fibre sia il flusso e la qualità degli umori ne erano influenzati.
Tuttavia nell'azione dell''anima' Stahl vedeva anche la chiave per la guarigione; le febbri, per esempio, non erano, a suo avviso, entità morbose ma espressioni degli sforzi compiuti dall'anima o dalla Natura per guarire. Di conseguenza, il compito del medico era quello di aiutare gli sforzi dell'organismo contro la causa della malattia con medicine blande, come lassativi, sali digestivi, assorbenti e leggeri emetici; la pletora o "sangue bollente" doveva essere trattata col "sale refrigerante", il salnitro (nitrato di potassio). Stahl aveva inoltre una considerevole quantità di specialità medicinali, le pillole balsamiche, che erano prodotte e distribuite dalla farmacia dell'orfanotrofio pietista di Halle. I suoi trattamenti erano chiaramente meno aggressivi di quelli dei galenisti e di quelli di Hoffmann; a differenza di quest'ultimo, Stahl era infatti estremamente critico verso i farmaci fortemente attivi, come l'oppio e la china peruviana. Alleviare il dolore con l'oppio era, a suo avviso, una "impostura" in quanto non incideva sulle cause della malattia; e somministrare la china in caso di febbre significava opprimere il "risveglio della Natura" e intrappolare la materia morbifica all'interno del corpo. Sia Stahl sia Hoffmann crearono scuole terapeutiche che ebbero un vasto seguito, non limitato ai confini dei territori tedeschi; inoltre, l'animismo di Stahl ispirò le concezioni vitaliste della fisiologia del XVIII secolo.
Il sistema medico di Cullen, il modello dominante verso la fine del secolo, era chiaramente debitore nei confronti della iatromeccanica di Hoffmann e di Boerhaave; indirettamente, esso si giovò anche delle idee sul ruolo dell'anima nelle funzioni corporee che erano state sviluppate da Stahl. Nel 1752 Albrecht von Haller, professore di anatomia, botanica e chirurgia a Gottinga, presentò alla Societas Scientiarum Gottingensis i risultati di esperimenti di stimolazione su animali vivisezionati. Le sue prove indicavano che la sensibilità e l'irritabilità (contrattilità) erano proprietà vitali indipendenti: la prima legata ai nervi, la seconda alle fibre muscolari. Ciò lo coinvolse in una controversia con Robert Whytt (1714-1766), professore di medicina a Edimburgo, i cui esperimenti suffragavano la concezione contrastante, secondo la quale l'irritabilità dipendeva dalla sensibilità. In questo caso gli esperimenti compiuti sugli animali con l'oppio giocarono un ruolo chiave. Mentre entrambi i ricercatori concordavano sul fatto che il farmaco diminuisse la sensibilità in tutto il corpo, essi non erano d'accordo sul suo effetto sulla contrattilità del cuore. Secondo Haller, l'attività cardiaca non ne era influenzata e neanche stimolata, mentre Whytt rilevava una decelerazione del battito. Se Haller aveva ragione, allora l'irritabilità era effettivamente indipendente dalla sensibilità, e capace di perdurare senza subire nessuna influenza da parte dell'anima sensitiva ‒ cosa che era chiaramente in contrasto con l'animismo di Stahl. D'altra parte, le osservazioni di Whytt suggerivano che il battito diminuisse a causa del fatto che il "principio senziente" del cuore non "sentiva" più l'afflusso di sangue venoso, che generalmente provocava le contrazioni ‒ un'interpretazione compatibile con la dottrina di Stahl. Con il dibattito che seguì a proposito di questo problema centrale della fisiologia, si affermò una concezione vitalistica del corpo e si prestò un'attenzione sempre maggiore al ruolo del sistema neuromuscolare nella salute e nella malattia.
Questo tipo di approccio si rifletteva negli insegnamenti fisiopatologici e terapeutici di Cullen, che erano ampiamente diffusi tramite i suoi noti manuali Institutions of medicine (1772) e First lines of the practice of physics (1776-1778). Come egli una volta affermò: "In un certo senso, pressoché tutte le malattie del corpo umano potrebbero essere chiamate nervose" (Works, 1827, II, p. 330). Con 'nervose' Cullen non intendeva tanto una condizione psicologica secondo la nostra concezione, bensì lo stato fisiologico dei nervi e delle fibre muscolari di un paziente. Per lui, i solidi e i fluidi (nel senso di Hoffmann e Boerhaave) erano governati dal sistema nervoso, e la sensazione e il movimento erano veicolati da un etere newtoniano, materiale; la salute dipendeva dal livello di 'eccitamento' del sistema nervoso. Tanto un difetto quanto un eccesso di eccitamento potevano produrre una malattia; di conseguenza, i trattamenti nel primo caso dovevano essere stimolanti, per esempio aria fresca ed esercizio fisico, carne e vino, farmaci tonici e bagni caldi; se l'eccitamento doveva essere ridotto, erano indicati il riposo, una dieta priva di carne, sedativi e medicine antispasmodiche, e salassi. Evidentemente, il sistema terapeutico di Cullen somigliava a quello di Hoffmann, ma i suoi presupposti teorici tendevano più verso una concezione vitalista del corpo che non verso una meccanicista.
John Brown (1735-1788), allievo di Cullen che lavorò come istitutore medico a Edimburgo, nei suoi Elementa medicinae (1780) semplificò, radicalizzandola, la teoria del suo maestro; secondo l'opinione di Brown, non soltanto il sistema muscolare ma tutta la materia vivente era dotata di eccitabilità, e il funzionamento dell'organismo dipendeva dalla stimolazione da parte dell'ambiente. Un equilibrio fra eccitamento ed eccitabilità era lo stato ideale; nelle malattie "asteniche" mancava la stimolazione, mentre le malattie "steniche" erano caratterizzate da un eccitamento eccessivo. Se l'eccitabilità dell'organismo veniva esaurita da un eccesso di stimoli, ne seguiva una pericolosa astenia ("debolezza indiretta o secondaria"). Il grado di eccitamento poteva anche essere espresso matematicamente su una scala che andava da zero a ottanta, con quaranta gradi che rappresentavano lo stato di salute. Per Brown (e i suoi seguaci) la maggior parte delle malattie ricadeva nella categoria dell'astenia e richiedeva quindi una stimolazione. Forti stimolanti erano oppio e alcol, generalmente somministrati in combinazione con laudano; stimolanti alternativi erano l'etere, la canfora, l'ammoniaca e il muschio, e una dieta ricca di carne era prescritta come misura 'di sostegno'. Anche i metodi decongestionanti ‒ come la flebotomia, le purghe e gli emetici, che erano indicati nelle malattie steniche ‒ erano considerati stimolanti blandi.
In Gran Bretagna l'influenza di Brown rimase piuttosto limitata, il suo metodo ‒ noto come 'brownianismo' ‒ fu, invece, ampiamente dibattuto nel Continente come esempio di pratica 'scientifica', e ispirò la medicina romantica tedesca e la filosofia della Natura. Negli anni Novanta del Settecento essa acquistò una considerevole importanza pratica; centri di medicina browniana erano l'Ospedale di San Matteo a Pavia con il figlio di Johann Peter Frank, Joseph (1771-1842), e l'Ospedale Generale di Bamberga, in Baviera, con Adalbert Friedrich Marcus (1753-1816) e Andreas Röschlaub (1768-1835). Tuttavia, la pratica browniana rivelava quanto fosse difficile di fatto diagnosticare astenia o stenia (e tanto meno gradi definiti di eccitamento o eccitabilità). L'accertamento dello stato di un paziente si basava principalmente su un'anamnesi di stimoli precedenti (condizioni climatiche, cibo e bevande, stile di vita, stress psicologico), sulla misurazione del polso e su "prove terapeutiche", nelle quali si esaminava la reazione a stimolanti leggeri o forti. Per la terapia browniana era necessaria anche una stretta osservazione, pressoché continua, del paziente ‒ difficile da effettuare in clinica e quasi impossibile nella pratica privata. Inoltre, i trattamenti con stimolanti erano costosi: come ricordava Marcus, l'Ospedale di Bamberga nel solo anno 1798 aveva utilizzato 470 libbre (213 kg ca.) di alcol puro e 44 libbre (20 kg ca.) di china peruviana. Dopo l'entusiasmo iniziale, anche i difensori del sistema browniano si fecero più cauti quando non divennero scettici circa la sua efficacia; Frank e Marcus lo abbandonarono del tutto. Anche il problema della dipendenza dalla droga divenne sempre più evidente tramite l'esperienza delle terapie browniane; commentatori del XIX sec. hanno denunciato i trattamenti a base di oppio e di alcol come eccessi terapeutici che nuocevano ai pazienti o addirittura li uccidevano. In ogni caso, con la sua enfasi sui trattamenti stimolanti e rinforzanti il brownianismo aveva generato seri dubbi sul valore della terapia evacuante classica a base di salassi, purghe ed emetici. Per molti pazienti indeboliti dalla malattia poteva essere di fatto più vantaggioso un trattamento secondo i principî browniani piuttosto che secondo la dottrina galenica.
Il fatto di essere relativamente innocuo fu probabilmente una delle ragioni del successo dell'ultimo, e più duraturo, sistema terapeutico del XVIII sec.: l'omeopatia, il cui fondatore, il giovane medico Samuel Hahnemann (1755-1843), integrava il proprio reddito con traduzioni di opere mediche e scientifiche, fra le quali nel 1790 il Treatise of the materia medica di Cullen (1789).
Non soddisfatto dell'idea di Cullen secondo la quale la china peruviana agiva tramite il suo effetto sul 'tono' del tratto gastrointestinale, Hahnemann analizzò il farmaco sperimentandolo su sé stesso. Per molti giorni assunse, due volte al giorno, una dose di circa 15 grammi di china, la dose massima allora prescritta nei casi di febbre. In conseguenza di ciò egli sperimentò una sensazione di freddo, debolezza e stanchezza, poi palpitazioni, un'accelerazione del polso, ansietà, tremore, spossatezza e dolore, e infine mal di testa, rossore e arsura. Egli concluse che questi sintomi assomigliassero strettamente a quelli comunemente rilevati nei casi di febbri intermittenti. In altre parole, il rimedio causava gli stessi sintomi della malattia per la quale esso veniva generalmente prescritto. Proseguendo con gli esperimenti su sé stesso, Hahnemann sperimentò altri farmaci e, nel 1796, formulò il 'principio di similarità', espresso nell'aforisma similia similibus curantur (si curino i simili con i simili), e cioè di una terapia a base di medicine che causavano (in dosi elevate) sintomi simili a quelli propri della malattia da curare. Quest'idea era già presente negli scritti ippocratici e in quelli di Paracelso, ma era in aperto contrasto con il principio galenico allora dominante del trattamento con gli opposti (contraria contrariis).
Il 'principio di similarità' divenne così la pietra angolare dell'omeopatia; nel 1810 Hahnemann pubblicò il suo sistema nell'Organon der rationellen Heilkunde, un'opera che ebbe enorme successo e fu subito tradotta in francese (1824), italiano (Organo dell'arte medica, 1824), russo (1831), inglese (1833), spagnolo (1844) e portoghese (1846). Basandosi sulle sue esperienze terapeutiche, egli vi delineava anche il secondo principio dell'omeopatia, la teoria del potenziamento, secondo la quale farmaci estremamente diluiti mostravano un effetto curativo più efficace che non presi in concentrazioni più elevate. Nell'ottica di Hahnemann, un farmaco rivelava il suo potere tramite l'interazione col solvente (acqua o alcol) durante il processo di diluizione e mescolamento.
Nel corso del XIX sec. gli omeopati sostennero un aspro dibattito con i medici che difendevano il trattamento convenzionale, i quali ora venivano polemicamente chiamati 'allopati'. Lo scontro approdò a uno 'scisma' professionale che è proseguito anche nel XX sec. e che solamente in anni recenti ha gradualmente iniziato a essere superato.
Il ricorso da parte di Hahnemann alla sperimentazione farmacologica e terapeutica rifletteva una generale tendenza, verso un trattamento sperimentalmente fondato, sviluppatasi a partire dal tardo XVII secolo. I farmaci erano testati chimicamente, in vitro, nel sangue o in altre sostanze, sugli animali, su soggetti umani in buona salute e su pazienti. Questa procedura era stata stimolata dalla sfida al galenismo rappresentata dalle concezioni iatrochimiche, iatromeccaniche e vitaliste della malattia, dall'importazione di nuovi farmaci dall'America e dall'Asia, e da un fiorente mercato di specialità medicinali. Importanti centri medici del XVIII sec., come Edimburgo, Londra, Parigi, Halle, Gottinga e Vienna, erano anche i luoghi nei quali si coltivava la farmacologia sperimentale. Inoltre, molti medici, per lo più poco noti, comunicavano le proprie osservazioni sugli effetti dei farmaci in cartelle cliniche. Riviste scientifiche e mediche, come le "Philosophical Transactions" della Royal Society di Londra, i "Mémoires" dell'Académie Royale des Sciences di Parigi, i "Medical Essays and Observations" e i "Medical Commentaries" di Edimburgo, costituivano un forum internazionale per lo scambio di informazioni sulla farmacologia e la terapia farmacologica. Gli interessi a quel tempo erano vasti, e includevano medicine vegetali, minerali e animali; vi erano, tuttavia, alcuni ambiti privilegiati che attiravano un'attenzione maggiore, come i rimedi a base di mercurio, l'oppio, la china peruviana, le vipere, gli antielmintici (contro i vermi intestinali), il tabacco, le medicine contro la rabbia, gli antispasmodici, e infine ‒ ma non ultimi per interesse ‒ i farmaci litotritici (contro i calcoli urinari) e le acque minerali.
I motivi di questi interessi erano in parte pratici e in parte teoretici. Grazie a Paracelso e ai suoi seguaci, il mercurio era diventato il rimedio principale contro le malattie veneree, e cioè sifilide e gonorrea, le quali non erano ancora considerate entità patologiche diverse. Rimedi supplementari contro le malattie veneree erano le tre droghe americane, il guaiaco, la salsapariglia e il sassafrasso, e il mezereo. A ciò si aggiunga che medici e ciarlatani diffondevano numerose medicine 'segrete' ‒ con o senza mercurio ‒ contro la sifilide. A volte l'efficacia di simili rimedi veniva testata, con risultati piuttosto dubbi, su soldati, prigionieri e prostitute ospedalizzate. Nonostante fossero ben noti gli spiacevoli effetti collaterali del mercurio, come la stomatite e la gengivite, nonché il suo effetto neurotossico, esso era utilizzato anche in molti altri casi di affezioni della pelle, contro i vermi e le occlusioni intestinali, in vari casi di 'tumore' e altre malattie. Sotto forma di calomelano (cloruro mercuroso) era spesso somministrato come lassativo.
L'oppio era altrettanto ampiamente utilizzato, non solo come analgesico e narcotico, ma anche come sudorifero e cordiale, come medicina contro la diarrea, il vomito e la tosse, e in vari casi di disturbi nervosi. Essendo un componente di sistemi terapeutici diversi, esso sollevava ulteriori questioni circa la sua modalità d'azione; secondo la dottrina galenica classica, e anche nel sistema di Hoffmann, era un sedativo, ma nel brownianismo era lo stimolante più forte e più diffuso. Numerose prove sperimentali furono realizzate sugli animali e sugli uomini nell'ambito della controversia che sorse fra chi ne sosteneva l'effetto sedativo e chi lo riteneva uno stimolante, prove che andarono ad aggiungersi agli esperimenti ispirati alla polemica fra Haller e Whytt. Verso la fine del XVIII sec. si delineò un certo compromesso, nella misura in cui l'evidenza sperimentale e quella clinica indicavano che l'oppio agisce in due fasi: inizialmente come stimolante, quindi come sedativo. Inoltre, si fecero molte ricerche di sperimentazione animale, specialmente a opera di Robert Whytt, del suo collega di Edimburgo Alexander Monro jr (1733-1817), e di un naturalista italiano, l'abate Felice Fontana (1730-1805), allo scopo di decidere se la sostanza agisse direttamente sui nervi o indirettamente tramite l'assimilazione nella circolazione sanguigna. Questo interrogativo si poneva anche per altri farmaci e veleni ad azione rapida, per esempio la canfora, l'alcol e il veleno di vipera; soltanto nella prima metà del XIX sec. prevalse la teoria dell'assimilazione. Rispetto ai problemi farmaco-dinamici e farmaco-cinetici collegati all'oppio, gli effetti fisiologici della sostanza e le sue proprietà additive suscitarono poco interesse nel corso del XVIII sec., sebbene questi fenomeni fossero ben noti sulla base dei resoconti di chi aveva viaggiato in Oriente e fossero stati descritti a volte anche in pazienti occidentali.
Come si è detto, la china peruviana si trasformò da rimedio specifico per le febbri intermittenti in un rimedio universale. Questo ampliarsi delle indicazioni derivò in gran parte da una pratica terapeutica empirica; tuttavia c'erano anche teorie parzialmente sperimentali riguardo la modalità d'azione della china a suffragare la stessa tendenza. Particolarmente influente in questo senso fu la sua caratterizzazione sperimentale come antisettico a opera del medico e generale anglosassone John Pringle e del medico di Dublino David Macbride, che lo fecero sembrare adatto per tutti i tipi di febbri e condizioni "di putrefazione", nonché l'ampio uso come tonico che ne fece William Cullen e come stimolante da parte dei seguaci di John Brown. Tuttavia era chiaramente avvertita anche la necessità di mettere ordine nel numero crescente di indicazioni per le quali si ricorreva alla china. Nella sua opera dal titolo Therapeutice specialis ad febres quasdam perniciosas (1712), Francesco Torti (1658-1741), professore di medicina a Modena, aveva sviluppato una tassonomia completa che indicava quali tipi di febbre la droga potesse curare e in quali casi invece essa si sarebbe probabilmente rivelata inefficace. Inoltre, per l'uso della china nei casi di 'cancrena' nel 1754 era stato proposto da parte del chirurgo inglese Thomas Kirkland (1722-1798) uno schema basato sulle cartelle cliniche.
Fin dall'Antichità la carne di vipera e l'oppio erano stati i componenti essenziali del mitridatium (utilizzato per la cura mitridatica) e della triaca, antidoti universali a base di molti ingredienti diversi, vere e proprie panacee. I cacciatori di vipere rifornivano di questi animali farmacisti e medici; dunque, il trattamento dei morsi di vipera poneva una sfida terapeutica e si prestava notevole attenzione a presunti antidoti, come l'olio d'oliva, l'ammonite e gli alcali volatili. La vasta opera tossicologica di Fontana dedicava un ampio spazio alla modalità d'azione del veleno di vipera e all'analisi degli antidoti, molti dei quali furono da lui giudicati inutili.
I vermi intestinali devono aver rappresentato un altro grande problema per la medicina del XVIII sec., almeno a giudicare dal forte interesse che si aveva in quel periodo per gli antielmintici, quali felce maschio, fiori di artemisia e crisantemo, e limatura di stagno. Medici e chirurghi che operavano nelle colonie, riportarono a casa rimedi indigeni a base di piante contro i vermi. Anche il tabacco, introdotto in Europa dall'America verso la metà del XVI sec., era usato come antielmintico; le sue indicazioni principali, però, nel XVIII sec. erano le occlusioni intestinali, comunemente trattate con clisteri di fumo. Di grande interesse erano poi le terapie contro la rabbia. La terribile prognosi di questa malattia molto temuta induceva all'uso di metodi disparati, quali l'immersione del paziente idrofobico in acqua fredda. Anche questo era un campo adatto all'uso di specialità medicinali, come la Pulvis antilyssus del famoso medico londinese Richard Mead (1673-1754). Tuttavia, altri medici restavano scettici e sostenevano che i presunti successi riguardassero casi di persone morse da cani meramente arrabbiati ma non rabbiosi, e che l'unico metodo per prevenire la vera rabbia fosse la cauterizzazione e la resezione della ferita.
Infine, l'uso dello zinco nei casi di epilessia a opera del successore di Boerhaave a Leida, Hieronymus David Gaub (1705-1780), creò una vera e propria moda terapeutica negli anni Settanta e Ottanta del XVIII secolo. I fiori di zinco (ossido di zinco) e ben presto anche il cuprammonio (Cuprum ammoniacum, rame ammoniacato) erano somministrati come antispasmodici in una varietà di disturbi convulsivi, dall'epilessia, agli attacchi isterici, dal ballo di San Vito, alla disfagia e alla tosse ostinata. Si riteneva che i due rimedi minerali avessero un effetto tonico sul sistema nervoso.
Il tratto forse più caratteristico dei sistemi terapeutici del XVIII sec., tuttavia, era rappresentato dalle medicine per via orale contro i calcoli urinari, i cosiddetti farmaci litotritici. La forte richiesta probabilmente era dovuta all'elevata incidenza di calcoli della vescica (a causa delle abitudini alimentari e delle frequenti infezioni) aggiunta a una grande paura della litotomia ‒ l'unica alternativa terapeutica. Sebbene le tecniche per la rimozione dei calcoli della vescica fossero migliorate nel corso del XVIII sec., specialmente grazie ai chirurghi londinesi John Douglas (m. 1743) e William Cheselden (1688-1752), i pazienti erano ancora terrorizzati dal dolore e dalle frequenti complicazioni, come l'incontinenza, le fistole e l'impotenza. Nel Settecento l'interesse per questo tipo di rimedi, raccomandati e prescritti fin dall'Antichità, sembra sia stato più forte che mai. Fra questi, il più famoso e accessibile era la "medicina per la cura dei calcoli" dell'empirica Joanna Stephens (m. 1774); la divulgazione della formula nel 1739 le fruttò la straordinaria ricompensa di 5000 sterline da parte del Parlamento inglese. Essa era composta da una polvere, da pillole e da un decotto, fatti essenzialmente a base di gusci di uova e di lumache calcinati, sapone, semi di carota selvatica, semi di bardana, coronopo, altre erbe, e miele. Molti di questi ingredienti erano noti dalla tradizione classica dei rimedi litotritici. Questo tipo di medicina fu subito dibattuto ed esaminato anche all'estero; mentre i suoi detrattori lo descrivevano come inefficace e nocivo, sospettando addirittura che favorisse la formazione dei calcoli, i suoi difensori tentavano d'identificarne gli ingredienti efficaci. Basandosi su esperimenti in vitro su calcoli urinari, il naturalista reverendo Stephen Hales sostenne che i componenti attivi fossero la calce derivata dalle conchiglie e dalle lumache e il sapone; così i trattamenti a base di acqua di calce e di liscivia di sapone divennero rapidamente popolari in Gran Bretagna e altrove, sebbene i medici del Continente sostenessero terapie alternative. Anton de Haen (1704-1776) a Vienna e Michele Girardi (1731-1797) a Padova riportarono i risultati positivi, clinici e sperimentali, dell'uso della pianta di corbezzolo (uva ursina), e il medico di Weissenfels Gottlob Carl Springsfeld (1714-1772) sosteneva l'uso delle acque di Karlsbad con tentativi in vitro alla maniera di Hales. Solamente verso l'inizio del XIX sec. si sviluppò una terapia farmacologica più articolata in questo ambito, quando chimici come Antoine-François de Fourcroy (1755-1809) a Parigi e William Thomas Brande (1788-1866) a Londra iniziarono a preparare trattamenti utilizzando le sostanze chimiche di recente scoperta.
Tuttavia, 'prendere le acque' nelle stazioni termali era, e rimase, la terapia preferita per quei pazienti che, soffrendo di calcoli ('pietre') e di gotta (che era vista come un disturbo a essi connesso), potevano permettersi questo tipo di cura: sia in Gran Bretagna sia nel Continente, così, il mercato delle terme conobbe un grande impulso. I medici erano normalmente coloro che possedevano le conoscenze chimiche necessarie ad analizzare le sorgenti minerali; essi inoltre rivendicavano l'autorità di indicare le utilizzazioni mediche di un'acqua particolare sulla base sia delle loro analisi sia della loro esperienza terapeutica. Le indicazioni e i modi d'impiego erano spesso i più vari, un fatto che probabilmente aveva ragioni tanto mediche quanto economiche. Frequentemente nascevano controversie sulle proprietà curative di una fonte medicinale a causa dei profitti che se ne potevano trarre. Inoltre l'identificazione chimica dell''aria fissa' (biossido di carbonio) in certe acque incentivò lo sviluppo di questo campo nella seconda metà del XVIII secolo. Negli anni Novanta del Settecento, infatti, acque artificialmente addizionate di biossido di carbonio erano già prodotte su vasta scala negli stabilimenti di Jean-Jacob Schweppe e Soci a Ginevra, Parigi e Londra.
Un'altra applicazione della chimica dei gas fu la terapia per inalazione; nel 1799 il medico di Bristol Thomas Beddoes (1760-1808) fondò un istituto per il trattamento delle malattie dei polmoni, come la tubercolosi, con diversi "tipi di aria". Il giovane Humphry Davy (1778-1829) studiò gli effetti del protossido d'azoto (un gas esilarante), che fu riscoperto come anestetico dal dentista americano Horace Wells (1815-1848) nel 1844.
Mentre i farmaci del XVIII sec. coprivano dunque uno spettro considerevole, si facevano notevoli sforzi anche per ridurre la materia medica e per valutare statisticamente i trattamenti. La revisione delle principali farmacopee ufficiali della Prussia e dell'Austria, così come dei Royal College of Physicians di Londra e di Edimburgo, provocò l'esclusione di molti tradizionali rimedi di origine animale, dalla composizione complessa o dai presunti poteri magici, e ci sono indicazioni del fatto che i medici divennero più critici nella prescrizione dei farmaci. Gaub insegnava a Leida che "il medico prudente non dovrebbe prescrivere niente, se non può dare una ragione sufficiente per la quale qualcosa è ritenuto necessario" (Libellus de methodo concinnandi formulas medicamentorum, 1739, pp. 3-4). Nel 1747 il primo tentativo clinico controllato fu condotto dal chirurgo della Marina britannica James Lind (1716-1794) a bordo del Salisbury; dividendo un gruppo di dodici marinai che soffrivano di scorbuto in sottogruppi di due, Lind mise a confronto sei trattamenti diversi e dimostrò in tale modo l'importanza degli agrumi per la cura e la prevenzione di questa malattia. Metodi efficaci, però, non sempre proteggevano contro le generalizzazioni avventate. Negli anni Sessanta del Settecento il clinico viennese Anton von Störck (1731-1803) diffuse l'uso di piante velenose, come per esempio la cicuta, lo stramonio, il giusquiamo, l'aconito e il colchico, per la cura di mali altrimenti incurabili. Störck aveva praticato esperimenti sugli animali, su sé stesso e su pazienti, allo scopo di convalidare le sue idee, ma aveva un atteggiamento acritico verso i suoi risultati, dal momento che attribuiva ai farmaci ogni miglioramento clinico e tendeva a minimizzare i fallimenti attribuendoli a cause accidentali. In genere, tuttavia, i medici divennero sempre più consapevoli della necessità di un grande numero di casi coronati da successo, prima di poter indicare una nuova terapia. Il medico di Birmingham William Withering (1741-1799), per esempio, pubblicò nel 1785 uno studio sull'uso terapeutico della digitale (Digitalis purpurea) dopo averne osservata sistematicamente l'azione sui suoi pazienti per più di dieci anni e aver così raccolto 163 cartelle cliniche.
Una sorta di analisi protostatistica delle terapie era condotta in genere da medici che servivano nelle forze armate o che erano associati ai nuovi dispensari filantropici e agli ospedali finanziati da contributi volontari. La possibilità di disporre di un grande numero di pazienti riuniti in uno stesso luogo, e sofferenti di una stessa malattia, favorì l'approccio statistico. Ne sono esempi tipici il clinico di Newcastle John Clark (1744-1805) e il chirurgo della Marina Robert Robertson (1742-1829), che erano entrambi convinti sostenitori della china peruviana sulla base dei propri dati quantitativi sul trattamento delle febbri.
All'inizio del XIX sec. si aprì una nuova era con l'isolamento di alcaloidi vegetali, soprattutto la morfina (1805), da parte di Friedrich Wilhelm Sertürner (1783-1841), e il chinino (1820) per opera di Pierre-Joseph Pelletier (1788-1842) e Joseph-Bienaimé Caventou (1795-1877). Queste droghe 'pure' consentivano un dosaggio più accurato e un trattamento più affidabile ed efficace dei prodotti naturali dalla qualità variabile, utilizzati fino ad allora.
Trattamenti con elettricità animale prodotta dalla torpedine o dal gimnoto erano già stati descritti nell'Antichità; ma solo verso la metà del XVIII sec. l'elettroterapia cominciò a diventare una moda, nella misura in cui le macchine elettriche erano combinate con una 'bottiglia di Leida' come condensatore e amplificatore. Christian Gottlieb Kratzenstein (1723-1795), nel 1744, fu probabilmente il primo a sostenere la possibilità di applicare il nuovo trattamento a una varietà di malattie. Egli era uno studente di Johann Gottlob Krüger (1715-1759), naturalista e professore di medicina ad Halle, e condivideva le idee del suo maestro sul fatto che l'elettricità fluidificasse gli umori del corpo, specialmente il sangue, rimuovendo così le ostruzioni nocive. Di conseguenza, essa era indicata in tutti i tipi di condizione congestiva, dai mal di testa all'angina pectoris, nei casi di 'sangue denso', di febbre e di peste, e persino nei casi di obesità, grazie a una presunta capacità di sciogliere il grasso. Soltanto qualche anno dopo, un riconoscimento simile dell'ampia portata dei trattamenti elettrici venne dai primi elettroterapisti italiani, Giovanni Giuseppe Veratti (1707-1793) di Bologna e Gianfrancesco Pivati (1689-1764) di Venezia, e dal medico torinese Giovambattista Bianchi (1681-1761). Mentre Veratti usava un tubo elettrificato, Pivati rivestiva l'interno di globi o tubi di vetro con medicine la cui emissione era dovuta all'accensione elettrica. Bianchi riteneva che i farmaci tenuti in mano dai pazienti sarebbero penetrati nel corpo durante l'elettrificazione; si pensava così che l'elettricità curasse, fra gli altri disturbi, la costipazione, la sciatica, i reumatismi e i disturbi nervosi.
L'indicazione classica introdotta dall'abate Jean-Antoine Nollet (1700-1770) a Parigi, riguardava la paralisi. Dopo aver compiuto esperimenti su animali, nel 1748 Nollet trattò tre pazienti paralitici con quelli che allora erano i tre metodi più comuni, ovvero il 'bagno' in un'atmosfera elettrica, l'estrazione di scintille dagli arti elettrificati, e l'applicazione di scosse elettriche tramite una bottiglia di Leida. Sebbene i risultati in quest'ambito, a lungo termine, rimasero piuttosto deludenti, si affermò l'idea che l'elettricità potesse sostituire il 'fluido nervoso' nella sua azione sui muscoli. Negli anni successivi, numerosi altri ricercatori effettuarono esperimenti con l'elettroterapia, e fra gli altri Jean Jallabert (1712-1768) a Ginevra, Sauvages, Haller, de Haen, e Benjamin Franklin (1706-1790); negli anni Ottanta del Settecento l'elettricità era ormai una panacea. Ulteriore impulso a questo campo venne, negli anni Novanta, dalla famosa controversia fra Luigi Galvani (1737-1798) e Alessandro Volta (1745-1827) sull'elettricità 'animale' contrapposta all'elettricità dei metalli. Apparecchi metallici da trazione, prodotti a partire dal 1795 dal medico americano Elisha Perkins (1741-1799) e da suo figlio Benjamin (1774-1810), furono applicati a parti malate del corpo per rimuovere l'elettricità animale 'intrappolata'; la pila di Volta, una batteria a base di zinco e argento, fornì subito, e opportunamente, elettricità galvanica per trattamenti più convenienti.
Con l'interesse settecentesco per l'elettroterapia, divennero di moda anche i trattamenti con i magneti, già menzionati da Paracelso. Presupposto tecnico di questo sviluppo era la produzione di nuovi magneti permanenti di acciaio. Mentre l'elettricità era essenzialmente usata per la stimolazione del corpo, si riteneva che i magneti avessero un effetto sedativo e analgesico; le indicazioni tipiche erano mal di denti, spasmi, convulsioni e attacchi d'ansia. A partire dal 1774 il medico viennese Franz Anton Mesmer (1734-1815) iniziò a praticare la magnetoterapia, sviluppando un suo metodo particolare. Mesmer riteneva infatti che gli effetti sui pazienti non fossero dovuti al magnetismo minerale, ma a un fluido universale o "magnetismo animale" che poteva essere trasmesso dal sistema nervoso del guaritore. Di conseguenza, egli 'magnetizzava' anche senza magneti, ponendo le mani sul corpo del paziente o dando colpi nell'aria vicino a esso. A seguito di uno scandalo sulla sua presunta cura di un pianista cieco, Mesmer lasciò Vienna nel 1778 e si recò a Parigi, dove il suo metodo divenne popolare, tanto da diffondersi anche in Gran Bretagna. I pazienti si riunivano attorno al suo baquet, un largo vaso riempito di varie sostanze che si supponeva accumulassero il magnetismo animale; in questa situazione di gruppo molti pazienti sperimentavano una 'crisi', esibendo forti reazioni come urlare, gridare, o perdere i sensi. Mentre Mesmer insisteva sul fatto che questa 'crisi' fosse prodotta da cambiamenti meccanici nei solidi e nei fluidi del corpo, i suoi critici sostenevano che essa fosse prodotta dal potere della 'immaginazione'.
Nel contesto della filosofia romantica della Natura il mesmerismo subì una trasformazione all'inizio del XIX sec., nella misura in cui l'interesse cominciava a focalizzarsi sulle curiose frasi pronunciate dai pazienti 'magnetizzati' in stato di trance o di sonnambulismo. Inoltre, attraverso la Rivoluzione francese il mesmerismo era stato caricato di significati politici, dal momento che le sue terapie di gruppo simbolizzarono l'utopia sociale di una comunità nuova.
Alla fine non mancò un'interpretazione politica di questi fenomeni, espressa nelle prime idee psicosomatiche di Johann Christian Reil (1759-1813), medico a Halle e professore di terapia, secondo il quale la frequenza di stati di fragilità nervosa all'inizio del nuovo secolo andava collegata allo stile di vita urbano e al burocratismo dello Stato. La malattia era il risultato di interazioni alterate fra l'anima, il corpo e l'ambiente. Una vita sedentaria, l'edonismo e l'intellettualismo ponevano eccessive richieste all'anima e ciò provocava un aumento di "irritabilità del sistema nervoso"; ne seguivano malattie come l'ipocondria e il ballo di San Vito, disturbi convulsivi, esaurimenti nervosi e pazzia. La cura, concludeva Reil, consisteva nell'equilibrio fra attività fisica e attività mentale, e in una transizione verso uno Stato decentralizzato.
Nel complesso, dunque, la terapia medica durante il XVIII sec. non fu una questione di semplice progresso lineare verso trattamenti sempre migliori e più efficaci; i vari sistemi terapeutici riuscirono a riflettere le diverse correnti intellettuali del periodo determinando, in tal modo, un distacco crescente dall'autorità della tradizione galenica. Essi crearono le condizioni per la sperimentazione farmacologica e terapeutica, e lo spazio per trattamenti basati sull'esperienza clinica e l'analisi statistica. In questo modo, durante il XVIII sec. si posero i fondamenti metodologici della terapeutica moderna.