L'Eta dei Lumi: matematica. I Principia di Newton nel Settecento
I Principia di Newton nel Settecento
Nel 1687 furono pubblicati a Londra i Principia di Newton. Quest'opera è oggi considerata uno dei grandi capolavori della storia della scienza e il 1687 è generalmente indicato come un anno in cui si è verificata una svolta decisiva nello sviluppo della meccanica. A tutti sono note le tre leggi della dinamica, poste ancora oggi a fondamento di ogni trattato di meccanica, mentre la legge di gravitazione universale è stata una delle prime e più efficaci generalizzazioni nella storia della fisica. Eppure al loro apparire i Principia divisero gli scienziati (o meglio i 'filosofi della Natura', come allora si diceva) in schieramenti contrapposti, tanto che soltanto alla metà del Settecento quest'opera sarà unanimemente riconosciuta come il punto di partenza per ogni indagine matematica sulle leggi del moto. Inoltre, il lavoro di lettura, di critica e di estensione dell'opera newtoniana porterà inevitabilmente a una sua rielaborazione. Sicché, alla metà del Settecento, la meccanica e la teoria della gravitazione newtoniane assumeranno una configurazione radicalmente nuova rispetto ai contenuti del testo che fu consegnato alle stampe da Newton. In questo capitolo ci proponiamo di tratteggiare le fasi salienti di tale processo di reinterpretazione, di riscrittura e di estensione delle teorie matematiche e dinamiche contenute nei Principia.
In effetti, i Principia ebbero una portata culturale che trascende le questioni prettamente matematiche e fisiche. Newton proponeva una nuova visione del Cosmo, propugnava una revisione del metodo scientifico, si faceva portatore di una controversa visione teologica relativa ai rapporti fra Dio e Natura. Come è noto, nei Principia i moti dei pianeti erano studiati matematicamente supponendo che lo spazio fosse in gran parte vuoto e che fra le masse si esercitasse una forza attrattiva direttamente proporzionale al prodotto fra le masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza fra le masse stesse. Questa idea, a noi oggi familiare, andava contro una serie di assunzioni comunemente accettate nella seconda metà del Seicento. Secondo una visione meccanicistica di stampo cartesiano, allora dominante, i fenomeni naturali andavano spiegati in termini di impatti fra particelle materiali. La forma e le dimensioni delle particelle e le leggi di urto erano quanto necessario per spiegare i fenomeni naturali. In particolare, i moti planetari erano concepiti supponendo l'esistenza di vortici di materia sottile, che avrebbero trasportato ‒ appunto grazie a un meccanismo di impatto ‒ i pianeti nel loro moto attorno al Sole. Si tratta della cosiddetta 'teoria dei vortici' esposta da Descartes nei Principia philosophiae (1644), e sviluppata da molti pensatori, fra cui Leibniz nel suo Tentamen de motuum coelestium causis (1689). I vantaggi della filosofia meccanica cartesiana erano la grande economia concettuale (particelle e impatto spiegano tutto) e il suo marcato razionalismo (non vi è bisogno di ricorrere a cause, qualità o forze che sfuggono alla comprensione della ragione).
Una spiegazione alternativa dei moti planetari era difesa dai sostenitori di quella che era chiamata 'filosofia magnetica'. Secondo questa concezione, difesa da Johannes Kepler e molti altri, vi sarebbe un'interazione di tipo magnetico fra Sole e pianeti. Responsabili dei moti planetari non sarebbero gli impatti, ma una forza magnetica agente a distanza. La spiegazione dei fenomeni astronomici in termini di magnetismo incontrava però non poche difficoltà. La forza magnetica, obiettavano alcuni, agisce soltanto a distanza ravvicinata e non è plausibile che sia responsabile dei moti planetari. Inoltre, i sostenitori della filosofia magnetica descrivevano spesso il magnetismo nei termini oscuri della tradizione magica, parlando di simpatie, antipatie e anime moventi.
In Gran Bretagna i Principia furono generalmente accolti come l'opera in cui era svelata una nuova verità sulle leggi che regolano il Cosmo. Questa entusiastica accettazione si coniugava con una filosofia di stampo empirista secondo la quale la forza di gravitazione andava accettata come un fatto sulle cui cause non ci si doveva pronunciare. Il filosofo newtoniano doveva accettare ciò che gli esperimenti e la matematica mostrano, ma doveva anche riconoscere i limiti della spiegazione scientifica, che impediscono di raggiungere una comprensione delle cause ultime, in particolare le cause della forza di gravitazione. In Gran Bretagna si faceva inoltre, con il consenso di Newton, un uso apologetico della nuova cosmologia, lasciando spesso intendere che le cause ultime fossero di natura non materiale e che fossero in ultima analisi riconducibili all'azione continua e provvidenziale di Dio. Seguaci di Newton come Richard Bentley (1662-1742) e Samuel Clarke (1675-1729) sostenevano che le spiegazioni meccanicistiche cartesiane adottate dai continentali erano pericolose sotto il profilo teologico, in quanto riducevano la Natura a materia e moto, a un gigantesco meccanismo retto da leggi necessarie. La forza introdotta da Newton rimandava a una visione più cristiana dei rapporti fra Dio e Natura.
La resistenza che i Principia incontrarono da parte di molti filosofi della Natura continentali deriva dal fatto che essi vedevano nella teoria newtoniana della gravitazione universale un ritorno alla tradizione della magia naturale; l'idea di una forza che agisce istantaneamente e a distanza sembrava una rinuncia ai canoni razionalistici posti da Descartes. La teoria dei vortici fu di fatto difesa da molti, prevalentemente nel Continente, sino alla metà del Settecento. L'atteggiamento critico dei continentali è compendiato dalle parole di Christiaan Huygens: "Sono stato sempre stupito da come il Sig. Newton abbia potuto industriarsi in così tante ricerche e calcoli difficili, che hanno per fondamento un principio [di attrazione] che a me pare assurdo" (Oeuvres, IX, p. 538). La reazione di Huygens ai Principia è interessante perché fu inizialmente condivisa dalla maggior parte dei filosofi della Natura continentali. Da un lato, Huygens continuò a dichiarare il suo scetticismo nei confronti della fisica newtoniana, dall'altro non cessò di lodare l'opera di Newton per quanto concerne la matematica.
In effetti, se la reazione continentale alla cosmologia dei Principia fu per molti decenni critica, nessuno mise in dubbio l'importanza matematica dell'opera di Newton. Nel Continente i Principia furono inizialmente letti come un'opera nella quale era esposta una serie di notevoli risultati matematici, piuttosto che una nuova cosmologia. Ciò che colpiva era l'estensione e la generalità con cui Newton aveva impiegato la matematica nello studio della Natura. Prima di lui, Galilei aveva applicato la teoria delle proporzioni allo studio di fenomeni relativamente semplici, quali il moto uniformemente accelerato e la resistenza dei materiali. Huygens nel suo Horologium oscillatorium (1673) si era spinto a trattare in termini matematici il moto dei pendoli cicloidali, tuttavia, Newton era riuscito ad affrontare matematicamente un insieme molto più vasto di fenomeni. Egli aveva mostrato le relazioni fra le tre leggi di Kepler e la legge dell'inverso del quadrato, aveva studiato l'attrazione esercitata da corpi estesi, aveva trattato le perturbazioni che si verificano quando più di due corpi si attraggono reciprocamente, aveva studiato il moto in mezzi resistenti e la forma del solido che offre minore resistenza al moto in un fluido e, ancora, la propagazione del suono, la formazione delle maree, il moto delle comete. Mai prima di allora una teoria matematica aveva abbracciato un insieme così vasto di fenomeni.
Ma quale matematica aveva impiegato Newton? E in che misura i risultati dei Principia sopra elencati erano corretti? Queste domande ‒ come vedremo, tutt'altro che banali ‒ diedero vita a un dibattito vivace e fecondo che occupò i migliori matematici britannici e continentali per tutta la prima metà del Settecento. Tale dibattito cominciò nel modo peggiore come parte della polemica fra Newton e Leibniz sull'invenzione del calcolo. Da parte leibniziana si sosteneva che nei Principia Newton non aveva fatto uso del calcolo, anzi la sua non conoscenza di esso sarebbe stata dimostrata da una serie di errori. In particolare, Johann I Bernoulli (1667-1748) accusò Newton di aver dato una risposta insoddisfacente al problema delle orbite kepleriane (detto allora 'problema inverso delle forze centrali') e alla determinazione del moto di un corpo in un mezzo che oppone una resistenza proporzionale al quadrato della velocità. Bernoulli insinuava polemicamente che i Principia potevano diventare la prova migliore del fatto che Newton non conoscesse il calcolo prima della pubblicazione da parte di Leibniz delle regole del calcolo differenziale e integrale.
Effettivamente, la cosa più sorprendente per un lettore poco accorto di storia è che nei Principia non si trova (quasi) traccia esplicita del calcolo infinitesimale; vi sono pochissime formule, mentre numerosi e intricati sono i diagrammi. Il lettore deve confrontarsi con una particolarissima geometria, in cui le figure sono concepite come "generate da un moto continuo". Tale geometria non è quindi una geometria classica, in quanto essa implica una concezione cinematica delle grandezze. Newton fa inoltre ricorso a procedure di passaggio al limite e a grandezze infinitesimali. Noi sappiamo che egli aveva inventato il calcolo negli anni Sessanta del XVII sec. e quindi ci aspetteremmo di vederlo impiegato nei Principia, ma quest'opera, come si è detto, è scritta prevalentemente in stile geometrico. L'opinione di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757), autore della prefazione al fortunato manuale Analyse des infiniment petits, pour l'intelligence des lignes courbes (1696) di Guillaume-François-Antoine de L'Hôpital, il primo dedicato al calcolo differenziale leibniziano, era che la geometria dei Principia, basata sul concetto di limite e di grandezza infinitesima, fosse "qualcosa di simile" al calcolo differenziale di Leibniz. A più di un secolo di distanza William Whewell (1794-1866) ci offre una risposta ben diversa. Leggiamo nella sua History of the inductive sciences (1837):
Da allora, il pesante strumento della sintesi, così efficace nelle mani di Newton, non è mai stato utilizzato da nessuno per tali fini; e noi lo rimiriamo con ammirata curiosità, come se fosse un qualche gigantesco strumento di guerra, che se ne sta abbandonato fra le vestigia dei tempi antichi e c'induce a chiederci quale genere di uomo fosse colui che poteva brandire come un'arma ciò che noi possiamo a stento sollevare. (p. 167)
Mentre Fontenelle sottolinea la modernità dei metodi newtoniani, affermando la loro equivalenza con il calcolo, Whewell insiste sul loro carattere arcaico. Newton stesso, durante la polemica con Leibniz, si trovò in una situazione imbarazzante. Da un lato egli voleva sostenere l'equivalenza fra i metodi dei Principia e il calcolo, in modo da dimostrare la sua priorità su Leibniz nella scoperta del calcolo infinitesimale; dall'altro lato, egli era convinto che i suoi metodi geometrici fossero superiori a quelli algoritmici in voga nel Continente, in quanto più consoni allo stile geometrico degli antichi.
Il riferimento agli antichi è frequente in Newton, e merita qualche commento. Dopo aver scoperto il calcolo, per una complessa serie di motivi Newton non pubblicò la sua scoperta. Successivamente, negli anni Settanta, egli concepì una profonda avversione per i metodi simbolici. Newton cominciò a rileggere i testi della geometria greca, in particolare le Mathematicae collectiones di Pappo (IV sec. d.C.) e si convinse della superiorità dei metodi degli antichi nei confronti dei metodi dei moderni, in particolare di quelli di Descartes. L'anticartesianesimo di Newton, che ebbe un ruolo fondamentale nella filosofia, nella teologia e nella cosmologia newtoniane, si esprime anche nella matematica. Newton a più riprese, dagli anni Settanta in poi, esprimerà la sua presa di distanza dalla 'nuova analisi' cartesiana. Per esempio, riferendosi alla soluzione del cosiddetto 'problema di Pappo' data da Descartes nella Géométrie (1637), scrive:
In verità il metodo degli antichi è molto più elegante rispetto a quello cartesiano. Perché Descartes ha raggiunto i suoi risultati per mezzo di un calcolo algebrico che, se trasposto in parole (seguendo la pratica degli antichi nei loro scritti), si dimostrerebbe così tedioso e intricato da provocare la nausea. Ma essi raggiungevano [i risultati] per mezzo di alcune semplici proposizioni, giudicando che niente scritto in uno stile differente fosse degno di essere pubblicato, e di conseguenza nascondevano l'analisi per mezzo della quale avevano trovato le loro costruzioni. (The mathematical papers, IV, p. 277)
Questo atteggiamento s'iscrive in un momento d'interesse per la sapienza perduta dei saggi dell'Antichità e di avversione per il cartesianesimo (geometria analitica inclusa). Newton pensava di avere il compito di riscoprire una conoscenza che era stata persa a causa della corruzione delle generazioni a lui vicine. Naturalmente il mito della prisca sapientia ha una lunghissima storia e Newton non faceva altro che recepire miti, atteggiamenti e idee molto diffusi nell'Inghilterra del suo tempo, soprattutto nell'ambito della scuola neoplatonica. è noto che, negli anni Novanta del XVII sec., egli arrivò ad attribuire a Pitagora, agli antichi ebrei, agli Egizi e ai Caldei la conoscenza della legge di gravitazione universale. Anche nella matematica Newton è classicista e si dedicò con passione alla restoration e alla divination dei libri perduti degli antichi geometri, i quali avrebbero posseduto un''analisi nascosta' ben superiore all'analisi cartesiana.
Le ragioni che indussero Newton a usare metodi geometrici nei Principia non sono legate solamente al suo classicismo. Il calcolo appariva a molti come una teoria matematica molto insicura, basata su procedure e concetti mal definiti. Inoltre, l'uso di simboli matematici non interpretabili geometricamente appariva a molti un salto nel vuoto. Newton insisteva spesso sul fatto che i metodi simbolici sono soltanto parte dell'euristica, del metodo della scoperta ma non del metodo scientifico di dimostrazione. Egli era convinto che i simboli che il matematico doveva utilizzare, laddove volesse essere rigoroso nelle dimostrazioni, dovessero rappresentare entità "esistenti in Natura" e "visibili agli occhi".
Secondo Newton, nella "nuova analisi dei moderni" compaiono simboli a cui è arduo assegnare un significato oggettivo. La natura degli 'infinitesimi' è incerta, essendo grandezze diverse da zero ma che sommate a una grandezza finita non la modificano. Egli insisterà molto sulla mancanza di significato della matematica dei moderni. Il metodo rigorosamente geometrico dei Principia è invece ancorato all'interpretazione geometrica, essendovi sempre un riferimento oggettivo. Ricordiamo, infine, che Newton doveva tener conto delle competenze dei suoi lettori i quali, all'epoca della pubblicazione dei Principia, erano certamente più ferrati nei metodi geometrici che non in quelli analitici.
È possibile mostrare che Newton in molti passaggi dimostrativi dei Principia utilizzò le tecniche del calcolo infinitesimale, o meglio del "metodo delle flussioni", per usare l'espressione che egli aveva introdotto negli anni Sessanta del XVII secolo. Vi sono, infatti, molte dimostrazioni dei Principia in cui Newton riduce il problema da risolvere alla "quadratura di una curva" (noi diremmo al 'calcolo di un integrale'). In questi casi egli evita di dare al lettore i dettagli su come eseguire tale quadratura, limitandosi a fornire il risultato. È possibile mostrare che in tali casi Newton impartiva istruzioni ai suoi discepoli su come leggere le dimostrazioni dei Principia in termini di equazioni differenziali. Per esempio, egli istruì David Gregory (1659-1708) su come calcolare la traiettoria di un punto massa accelerato da una forza centrale che varia con l'inverso del cubo della distanza e su come determinare la figura del solido di minima resistenza. Questi due problemi erano affrontati rispettivamente nel corollario 3 alla proposizione 41 del Libro I e nello scolio alla proposizione 35 del Libro II nella prima edizione dei Principia. Gregory era rimasto perplesso di fronte al fatto che nell'opera i passi necessari per eseguire le quadrature non erano esplicitati. Newton rispose traducendo in termini simbolici le proposizioni in questione, ottenendo alcune equazioni differenziali (o 'flussionali', in termini newtoniani) e procedendo alla loro risoluzione. Contrariamente a quanto affermato da Bernoulli, la conoscenza del calcolo era stata preziosa per Newton nella stesura dei Principia, ma il calcolo (o, come Newton diceva, il "metodo delle flussioni") non compare esplicitamente nell'opera stampata nel 1687.
Newton comunicò ai suoi discepoli una grande ammirazione per i metodi geometrici. Edmond Halley (1656-1742) e Gregory si dedicarono all'inizio del Settecento all'edizione delle opere di Apollonio. Queste attività non erano perseguite per mero interesse filologico. Era viva nella scuola newtoniana la convinzione che ci si dovesse attenere a metodi geometrici il più possibile in armonia con la tradizione degli antichi. Roger Cotes (1682-1716), curatore della seconda edizione dei Principia (1713), nella sua Logometria (1717) affrontò molti temi ispirati dai Principia, tuttavia, come il suo maestro, tenne ben nascoste le tecniche d'integrazione che gli avevano permesso di raggiungere tali risultati. Similmente, molti temi di dinamica e di meccanica (equilibrio dei fluidi, attrazione di ellissoidi) furono affrontati da Colin Maclaurin (1698-1746) nel Treatise of fluxions (1742) in termini prettamente geometrici. Altri matematici britannici, come Thomas Simpson (1710-1761), nell'affrontare alla metà del secolo temi quali l'attrazione degli ellissoidi o la teoria delle perturbazioni, preferirono invece metodi analitici.
In Gran Bretagna non tutti scelsero di seguire lo stile geometrico dei Principia. Quando Matthew Stewart (1717-1785), professore di matematica all'Università di Edimburgo, pretese di trattare il moto della Luna con metodi geometrici ‒ così come aveva già fatto John Machin (1690-1751) ‒ fu, infatti, criticato aspramente da due difensori dell''arte analitica', John Landen (1719-1790) e John Dawson (1734-1820). È interessante osservare che i due critici di Stewart non appartenevano all'accademia, in quanto il primo si guadagnava da vivere come agrimensore e il secondo era un oscuro matematico autodidatta.
Nella Gran Bretagna del Settecento i Principia non soltanto svolsero un ruolo guida nella ricerca sull'astronomia planetaria e nell'indirizzare molti matematici verso lo stile geometrico: l'opera divenne un testo da proporre, dopo opportune semplificazioni, agli studenti delle università. Di fatto, soltanto le prime tre sezioni del Libro I, le più elementari matematicamente, e le prime proposizioni del Libro III, dove, in base a semplici considerazioni, è proposta la teoria della gravitazione universale, potevano essere adatte a questo scopo. Le introduzioni ai Principia "scritte a uso degli studenti nelle università" sono numerose e testimoniano la diffusione dell'interesse ad accedere all'opera di Newton. I lettori di queste introduzioni furono soprattutto gli studenti dell'Università di Cambridge, dove i programmi di studio richiedevano una conoscenza delle prime tre sezioni, ma anche persone colte interessate ad avvicinarsi all'opera cosmologica assunta a modello nella cultura britannica del Settecento. Possiamo citare, a tale proposito, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702) di Gregory o le Praelectiones physico-mathematicae (1710) di William Whiston, successore di Newton alla cattedra lucasiana di Cambridge. E ancora, in Gran Bretagna sono pubblicati commenti ai Principia quali A demonstration of some of the principal sections of Sir Isaac Newton's principles of natural philosophy (1730) di John Clarke, le Philosophiae mathematicae newtonianae illustratae (1730) di George Peter Domcke e A short comment on Sir Isaac Newton's Principia (1770) di William Emerson. L'elenco potrebbe allungarsi, poiché le introduzioni ai Principia erano molto richieste. Tutte queste opere consistono in parafrasi più o meno letterali delle dimostrazioni matematiche dei Principia; ne ricalcano quindi lo stile geometrico, concepito evidentemente in questa sede come più adatto agli scopi dell'insegnamento. Era diffusa infatti in Gran Bretagna l'idea che la geometria "educasse la mente" in modo più efficace rispetto all'algebra.
Nel Continente i Principia furono invece sistematicamente tradotti nel linguaggio del calcolo differenziale e integrale leibniziano. Il primo a dedicarsi a questo complesso esercizio di 'traduzione' fra linguaggi matematici fu Pierre Varignon (1654-1722), matematico di spicco nell'ambiente parigino legato a Nicolas Malebranche (1638-1715) e corrispondente di Leibniz e Johann I Bernoulli. In una serie di lavori pubblicati nei primi due decenni del secolo nei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" di Parigi egli applicò il calcolo leibniziano al moto in un campo di forze centrali e al moto in mezzi resistenti. In particolare, dimostrò analiticamente che se le orbite di un punto massa sono sezioni coniche e se la forza centrale è diretta verso uno dei fuochi, allora la forza varia inversamente al quadrato della distanza; egli fornì in tal modo la soluzione del cosiddetto 'problema diretto delle forze centrali' (secondo la terminologia dell'epoca).
Nel 1710 Johann I Bernoulli avanzò l'accusa contro Newton secondo la quale nei Principia non si darebbe una soluzione del 'problema inverso', ossia del problema di determinare l'orbita di un punto massa lanciato in un campo di forza centrale che varia inversamente al quadrato della distanza. Effettivamente Newton aveva presentato una soluzione geometrica di questo problema nel corollario 1 alla proposizione 13 del Libro I che sembrava viziata da circolarità. Newton stesso, tuttavia, nella proposizione 41, sempre del Libro I, aveva tratteggiato le linee essenziali di una riduzione a quadratura del problema inverso; come è suo solito, egli aveva evitato di affrontare esplicitamente questa quadratura, per l'epoca non elementare. Bernoulli, dunque, ebbe buon gioco nel sostenere, offrendo una risoluzione nei termini dell'integrazione di un'equazione differenziale in coordinate polari, che lui, e non Newton, sarebbe stato il primo ad aver risolto il problema inverso. Si noti che il problema inverso delle forze centrali non è una mera curiosità matematica; infatti, nell'edificio della teoria della gravitazione è necessario darne una dimostrazione per accertarsi che soltanto le sezioni coniche sono orbite possibili in un campo di forza centrale che varia inversamente al quadrato della distanza. Gli storici sono giunti ormai alla conclusione che le critiche di Bernoulli erano infondate, cioè, per dirla diversamente, che Newton avesse la dimostrazione del problema inverso; si deve però notare come il linguaggio geometrico a cui Newton si attenne nella sua opera maggiore fosse il meno adatto per svelare al lettore in cosa consistesse la soluzione del problema inverso delle forze centrali.
Un allievo dei Bernoulli a Basilea, Jacob Hermann (1678-1733), giocò un ruolo importante nello sviluppo dei concetti e delle tecniche esposte da Newton nei Principia. La sua opera Phoronomia apparve nel 1716 e fu composta prevalentemente durante un periodo d'insegnamento a Padova, dove Hermann era stato chiamato con il compito di diffondere il calcolo leibniziano in Italia. Egli affrontò molte proposizioni dei Principia avvalendosi della sua raffinata conoscenza del calcolo integrale; questa conoscenza mancava invece a Varignon, che usava prevalentemente il calcolo differenziale, più semplice. Hermann pubblicò nei primi decenni del Settecento i suoi risultati sul "Giornale de' Letterati d'Italia", sugli "Acta Eruditorum", sui "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" e su una rivista olandese, il "Journal Littéraire". Egli risolse il problema inverso delle forze centrali indipendentemente da Bernoulli; la sua soluzione fu difesa, in seguito alle critiche che gli mosse Bernoulli, da un valente matematico italiano, Jacopo Riccati (1676-1754). In effetti, le soluzioni offerte da Bernoulli e da Hermann differivano fra loro; un'ulteriore testimonianza, questa, del fatto che la traduzione dei Principia in termini del calcolo leibnizano non era banale.
Fu un altro allievo dei Bernoulli, Leonhard Euler (1707-1783), a portare a termine la trattazione analitica della dinamica newtoniana. I suoi risultati sono così generali, sistematici e innovativi da poter dire che, dopo di lui, i Principia e la polemica sui metodi matematici newtoniani appartengono definitivamente al passato. Euler, infatti, creò uno strumento matematico che supera a tal punto quello inventato da Newton e da Leibniz da poter dire che con lui nasce una nuova era nella storia della matematica. La sua Mechanica del 1736 si apre proprio con una dichiarazione della superiorità dei metodi analitici rispetto a quelli geometrici; questi ultimi possono risolvere con grande rigore un problema, ma lasciano chi li ha appresi senza risposta quando il problema sia variato anche di poco. Secondo Euler, i metodi geometrici mancano di generalità e flessibilità, mentre quelli analitici permettono di affrontare metodicamente intere classi di problemi.
La stessa convinzione della superiorità del calcolo sulla geometria ispira due grandi edizioni dei Principia che videro la luce alla metà del secolo: la cosiddetta 'edizione gesuita' e la traduzione francese (1756-1759) di Gabrielle-Émilie marchesa di Châtelet (1706-1749). Sotto la direzione di Jean-Louis Calandrini (1703-1758), i due frati minimi, e quindi non gesuiti, Thomas Le Seur (1703-1771) e François Jacquier (1711-1788) pubblicarono fra il 1739 e il 1742 tre imponenti tomi nei quali le note occupano uno spazio quasi pari al testo latino della terza edizione dei Principia (1726). Nel loro commento Le Seur, Jacquier e Calandrini utilizzarono tutti i risultati della scuola analitica continentale. Le dimostrazioni geometriche di Newton erano in tal modo spiegate in termini del calcolo di Leibniz; lo stesso avviene nelle appendici apposte alla traduzione francese della marchesa di Châtelet. Queste appendici sono dovute alla penna di Alexis-Claude Clairaut (1713-1765) e sono un autentico capolavoro dello stile analitico continentale.
In opere successive Euler sviluppò argomenti sconosciuti a Leibniz o a Newton, quali le equazioni alle derivate parziali e il calcolo delle variazioni. È anche grazie a questi nuovi strumenti che Euler sarà in grado di affrontare con maggior efficacia una serie di problemi lasciati aperti da Newton nei Principia; facciamo riferimento soprattutto alla teoria della Luna e delle perturbazioni planetarie che egli sviluppò alla metà del secolo. Euler, Clairaut, Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783), Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) e Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) riuscirono, applicando strumenti di calcolo non disponibili a Newton, a risolvere molte delle incongruenze presenti nella teoria delle perturbazioni così come era stata espressa nei Principia. Sono questi successi, ottenuti grazie a strumenti matematici elaborati nella scuola leibniziana, a favorire l'accettazione della teoria newtoniana della gravitazione anche nel Continente. La generalità e l'efficacia dei metodi matematici ebbero la meglio sulle remore di carattere filosofico riguardanti la natura della forza di gravitazione.
Alla metà del Settecento lo stile matematico dei Principia è ormai definitivamente obsoleto. Newton aveva scritto i Principia avendo come valori la continuità con la tradizione geometrica degli antichi e il contenuto referenziale della geometria. I suoi risultati erano ora riscritti e ampliati in un linguaggio decisamente innovativo e lontano dalla tradizione geometrica, un linguaggio sempre più degeometrizzato che troverà la sua espressione più astratta nella Méchanique analitique (1788) di Lagrange.
I Principia di Newton sono fondati sui tre "assiomi o leggi del moto" di seguito elencati:
Prima legge: ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme in linea retta, a meno che non sia costretto a mutare il proprio stato da forze impresse.
Seconda legge: il mutamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, e avviene nella direzione della linea retta in cui quella forza è impressa.
Terza legge: a un'azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria, ossia le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e dirette in senso contrario.
È interessante notare come Newton attribuisca le prime due leggi a Galilei; egli dunque non le introduce come un'innovazione. L'enunciato della seconda legge è alquanto sorprendente poiché la forza è detta proporzionale al "cambiamento [della quantità] di moto [mΔv, con m massa e v velocità]"; non vi è alcun riferimento al tempo. Non sapremmo quindi se 'tradurre' in simboli questa legge come F=ma o come F=mΔv; la prima traduzione mette in risalto il carattere continuo della forza, mentre la seconda si applica a una forza impulsiva, ossia a un cambiamento istantaneo della velocità. Effettivamente, nei Principia convivono i due modelli; a volte la forza è rappresentata come un'azione continua che, esercitata su un corpo, ne devia il moto rettilineo inerziale lungo una traiettoria liscia, altre volte è rappresentata come una serie d'impulsi esercitati a intervalli uguali e infinitesimi di tempo. In questo secondo caso ne risulta una traiettoria poligonale, ciascun lato infinitesimo della quale è un cammino rettilineo inerziale. Si noti comunque che nella proposizione 24 del Libro II troviamo la seguente spiegazione della seconda legge: "La velocità che una data forza può generare in una data materia durante un tempo dato sta come la forza e il tempo direttamente, e come la materia inversamente. Quanto maggiore è la forza o più lungo il tempo, o minore è la quantità di materia, tanto maggiore sarà la velocità generata. Ciò che è manifesto per la seconda legge del moto" (Principia, ed. 1965, p. 481).
Non c'è alcun dubbio quindi che Newton comprendesse bene tutti gli aspetti concettuali coinvolti nella formulazione F=ma. Si sostituisca Δv a "velocità generata", F a "forza", m a "quantità di materia" e Δt a "tempo dato" e si otterrà F=ma.
Le tre leggi di Newton furono adottate in tutti i trattati di meccanica britannici del Settecento. Henry Pemberton (1694-1771), John Keill (1671-1721) e Maclaurin, per esempio, diedero grande rilievo alle tre leggi che nel Continente, invece, non furono quasi utilizzate; in particolare, non le utilizzarono Bernoulli, Clairaut, e d'Alembert. Euler nel 1750 comporrà un saggio intitolato Découverte d'un nouveau principe de mécanique: questo 'nuovo principio' altro non era che F=ma! I continentali impostarono la dinamica su principî alternativi a quelli newtoniani. Sino dai primi anni del Settecento essi cercarono d'impostare la meccanica su principî variazionali, piuttosto che sulla legge F=ma, fatto, questo, che conduceva a notevoli semplificazioni nello studio di sistemi soggetti a vincoli e nella ricerca d'integrali del moto. Inoltre, molti continentali, come Malebranche, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) e d'Alembert erano convinti che il concetto di forza fosse mal fondato. Le forze non sono mai osservate, mentre gli impatti erano considerati come 'più reali'. D'Alembert e Lazare Carnot (1753-1823) erano convinti che la meccanica dovesse essere fondata su impatti discreti, piuttosto che su accelerazioni continue.
La questione di come dare forma matematica alla dinamica era inoltre intrecciata alle convinzioni sulla natura della materia. I newtoniani privilegiavano una concezione atomista della materia secondo la quale gli atomi sono perfettamente duri e quindi gli impatti fra atomi generano cambiamenti discontinui, impulsivi, della velocità. I newtoniani accettavano altresì l'idea che le forze operanti in Natura, ossia le forze gravitazionali, magnetiche, elettriche, ecc., agissero in modo continuo. L'ambiguità presente nei Principia fra la formulazione della seconda legge in termini continui e la sua formulazione in termini impulsivi rispondeva quindi all'esigenza di trattare entrambi i tipi di forza. I continentali erano divisi sulla questione. Alcuni, come Johann I Bernoulli, appellandosi alla leibniziana 'legge di continuità' ritenevano che gli atomi, nell'impatto, comunicassero forze elastiche continue; questa posizione 'continuista' fu portata alle estreme conseguenze da Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), il quale concepì la materia come costituita da punti matematici che esercitano forze centrali continue, attrattive e repulsive. Altri, come Maupertuis e d'Alembert, ritenevano che l'elasticità non fosse una proprietà essenziale della materia e che dovesse essere spiegata in termini d'impatti elementari fra particelle; in questa prospettiva, la legge F=ma non poteva essere considerata veramente fondamentale.
Fu Euler a dare un grande contributo al superamento di questa impasse. Egli concepì la meccanica come una scienza il cui oggetto fossero i corpi estesi dell'esperienza quotidiana; in questa prospettiva, ci si può disinteressare della struttura ultima della materia. I corpi estesi non sono mai perfettamente duri e quindi Euler sostenne che i cambiamenti di velocità possono essere soltanto graduali, qualunque sia la modalità di azione fra i corpi. Dal punto di vista di Euler divenne quindi naturale matematizzare la meccanica in termini di accelerazioni continue: egli poté dunque affermare che F=ma è un principio del tutto generale che può essere applicato non soltanto allo studio di corpi soggetti ad azioni a distanza (come nel caso della forza gravitazionale di cui parla Newton nei Principia), ma a qualunque corpo ‒ sia esso solido, elastico o fluido ‒ soggetto a qualsiasi tipo d'interazione. È in questo senso che Euler poteva affermare nel 1750 che F=ma è un 'nuovo' principio della dinamica. Questo principio, tuttavia, non ha più a che fare, come era il caso in Newton, con la struttura ultima della realtà. Euler ha di fatto reinterpretato F=ma in un contesto estraneo alla concezione newtoniana.
Un'altra notevole reinterpretazione della meccanica newtoniana si ebbe relativamente ai concetti di tempo 'assoluto' e di spazio 'assoluto', e allo studio delle relazioni fra sistemi di riferimento e forze apparenti. Com'è ben noto, nei Principia, in uno scolio alle definizioni dei concetti base della dinamica (massa, quantità di moto, inerzia, forza impressa, forza centripeta, ecc.), Newton introdusse i concetti di tempo e spazio assoluti: il "tempo assoluto, vero, e matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, fluisce equalmente"; anche lo spazio assoluto è "senza relazione ad alcunché di esterno". È rispetto al tempo e allo spazio assoluti, dice Newton, che si deve parlare di posizione e di moto dei corpi. Egli ritiene che sia possibile distinguere il moto relativo da quello assoluto in base agli 'effetti' causati dalla rotazione. Per esempio, se ci troviamo su una giostra e consideriamo un sistema di riferimento solidale alla giostra stessa, noi misuriamo una 'forza' che ci spinge dal centro della giostra verso l'esterno. Non vi è però, secondo Newton, alcuna causa fisica che determini questa "forza centrifuga", né alcun corpo che produca una forza che ci acceleri radialmente verso l'esterno. Dal punto di vista di un osservatore in quiete rispetto allo spazio assoluto le cose stanno diversamente. L'osservatore ci vede compiere una traiettoria circolare con velocità angolare costante e misura una forza diretta verso il centro della giostra. Se questa forza smettesse improvvisamente di agire, ci staccheremmo dalla giostra muovendoci di moto rettilineo uniforme lungo la tangente alla nostra traiettoria circolare. Newton non fa l'esempio della giostra, bensì altri due esempi, uno dei quali è quello di un secchio rotante, mentre l'altro è quello di due palle unite da una fune; in quest'ultimo caso, se nella fune si esercita una tensione allora le palle sono in rotazione rispetto allo spazio assoluto, e maggiore è la tensione, maggiore è la velocità angolare assoluta.
I motivi che spinsero Newton a introdurre i concetti di spazio e tempo assoluti sono molteplici. Alcuni storici hanno individuato motivazioni di tipo teologico. Il Dio di Newton interviene in ogni istante di tempo nella Natura per mezzo di un agente spirituale che pervade tutto lo spazio. Tempo e spazio non sono misure convenzionali umane, ma la sede dell'intervento divino; da qui l'esigenza di conferire a questi due concetti un'assolutezza che trascenda la relatività delle procedure di misura. Vi sono anche motivazioni di carattere più interno alla scienza newtoniana. Newton ritiene che nei sistemi di riferimento accelerati rispetto allo spazio assoluto (la giostra, ecc.) sono misurabili accelerazioni alle quali non corrispondono forze reali (non c'è alcun corpo che causa la salita dell'acqua ai bordi del secchio rotante o la tensione nella fune fra le due palle). Per far sì che la scienza del moto parli di forze realmente esistenti è necessario considerare il moto 'assoluto' dei corpi, cioè le accelerazioni misurate rispetto allo spazio e al tempo assoluti.
I concetti newtoniani di tempo e spazio assoluti lasciarono scettici molti suoi contemporanei, in particolare Huygens, Leibniz e George Berkeley (1685-1753). Secondo questi autori non esiste un sistema di riferimento privilegiato, giacché le misure di tempo, di spazio e di moto sono relative a nostre scelte. L'esigenza che spinse i newtoniani ad accettare la dottrina del tempo e dello spazio assoluti risiede, come si è detto, nel fatto che essi volevano parlare di forze 'reali'. Dato che le forze si manifestano attraverso le accelerazioni impresse, queste ultime, per essere reali e non dipendenti dall'osservatore, devono essere misurate rispetto allo spazio e al tempo assoluti. Fu solamente alla metà del Settecento che, grazie agli studi di Daniel Bernoulli (1700-1782), Clairaut ed Euler sul moto di palle in tubi rotanti e su alcune questioni di astronomia planetaria, ci si rese conto di come trattare matematicamente le cosiddette 'forze apparenti'. Lungi dal limitarsi a un sistema di riferimento privilegiato, questi matematici continentali impararono a scrivere le equazioni della dinamica in diversi sistemi di riferimento accelerati l'uno rispetto all'altro e a elaborare le necessarie trasformazioni da un sistema all'altro. In questa prospettiva si apre la strada per concepire la forza non più come un dato oggettivo, reale, esistente in Natura, ma come qualcosa che è determinato dalla scelta del sistema di riferimento.
Si è spesso detto che il Settecento è il secolo della 'meccanica newtoniana'. Certamente, i Principia furono un modello per gli scienziati del secolo dei Lumi; l'ideale di matematizzazione offerto dall'opera di Newton e i problemi lasciati aperti nei Principia costituirono uno stimolo fecondissimo, inoltre, alla metà del secolo la legge di gravitazione universale fu generalmente accettata. Non si deve però dimenticare quanto innovativa fu la matematica analitica sviluppata dai matematici del Settecento, ben diversa dai metodi geometrici usati da Newton, né trascurare il fatto che le leggi della dinamica newtoniana furono reinterpretate nei termini più generali dei principî variazionali codificati da Euler e Lagrange e in un contesto che non attribuiva più a queste leggi lo statuto ontologico garantito dalle concezioni newtoniane di forza, di tempo e spazio assoluti.