L'eta dei re
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra la metà dell’VIII e la fine del VI secolo a.C. Roma è governata da re elettivi dotati di amplissimi poteri in campo politico, militare, giuridico e religioso. I successi militari, le conquiste territoriali, lo sviluppo di rapporti commerciali con altre comunità producono nel tempo modificazioni nell’organizzazione politico-istituzionale e sociale di Roma che, alla fine dell’età regia, sarà il centro più importante del Lazio antico.
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro I, cap. VI-VII
Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Sovrabbondava infatti la popolazione degli Albani, e ad essi per di più si erano aggiunti i pastori, sì che tutti senz’altro speravano che sarebbe stata piccola Alba, piccola Lavinio, in confronto alla città che si voleva fondare. S’insinuò (…) quel male ereditario ch’è la cupidigia di regnare, e in conseguenza di ciò nacque l’indegna contesa originata da motivi piuttosto futili. Poiché erano gemelli, e non valeva dunque come criterio risolutivo il rispetto dovuto all’età, affinché gli dèi sotto la cui protezione erano quei luoghi indicassero con segni augurali chi doveva dare il nome alla nuova città, chi dopo averla fondata doveva regnarvi, Romolo, per prendere gli auspici, occupò come luogo di osservazione il Palatino; Remo l’Aventino. Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei avvoltoi; e poiché, quando ormai l’augurio era stato annunziato, se n’erano offerti alla vista di Romolo il doppio, le rispettive schiere li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano d’aver diritto al regno per la priorità nel tempo, gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti dunque a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia. È più diffusa la tradizione che Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura (…). Pertanto Romolo ebbe da solo il potere; fondata la città essa ebbe nome dal suo fondatore.
T. Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, trad. it. M. Scàndola, Milano, Garzanti, 1982
I sette re di Roma (secondo la cronologia tradizionale fissata da Marco Terenzio Varrone)
Romolo (753-716 a.C.): fondatore della città, istitutore della monarchia, del Senato, dei Comizi Curiati, di numerosi sacerdozi.
Numa Pompilio (716-673 a.C.): di origine sabina, re pacifico, fondatore di numerosi riti, di sacerdozi e riformatore del calendario.
Tullo Ostilio (673-641 a.C.): re bellicoso, conquistatore di Alba Longa.
Anco Marcio (640-616 a.C.): fondatore di Ostia, fa costruire il primo ponte di Roma, il Ponte Sublicio.
Tarquinio Prisco (616-578 a.C.): di origine etrusca, fa realizzare opere monumentali, civili e sacre. Consegue importanti vittorie militari contro popoli limitrofi.
Servio Tullio (578-534 a.C.): forse di origine etrusca, realizza una importante riforma costituzionale con la creazione dei Comizi Centuriati e riorganizza le tribù territoriali di Roma.
Tarquinio il Superbo (534-509 a.C.): coinvolto nell’omicidio di Servio Tullio, governa Roma in modo tirannico e viene cacciato da un gruppo di aristocratici che instaurano una forma di governo repubblicana.
Il dibattito sulla cronologia della nascita di Roma, sulle modalità con cui fu creata, sulle sue forme primitive di organizzazione politica e sociale è stato, ed è a tutt’oggi assai vivace e per certi aspetti ancora aperto.
Negli anni Sessanta del Novecento l’archeologo svedese Erin Gjerstad ipotizzò, sulla base di un’analisi dettagliata dei materiali archeologici allora a disposizione, che Roma sarebbe stata fondata agli inizi del VI secolo a.C., intorno al 575. Pochi anni dopo la pubblicazione del lavoro di Gjerstad nuove scoperte nell’area del Foro romano condussero numerosi studiosi a rialzare la data della possibile fondazione della città alla metà del VII secolo a.C. Entrambe le ipotesi apparivano, tuttavia, concordi nel non accettare la cronologia antica secondo cui Roma sarebbe stata fondata intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. – la datazione più seguita, quella proposta dall’erudito Marco Terenzio Varrone, indicava il 753 a.C.
Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso l’archeologo Andrea Carandini ha pubblicato i primi dati di uno scavo, effettuato alle pendici nord del Palatino, dal quale sono emerse le tracce di un muro in argilla cruda che si trova in un punto in cui, secondo le fonti antiche, Romolo avrebbe tracciato il confine sacro (pomoerium) di Roma. Questa interessante scoperta ha stimolato gli archeologi a condurre altri scavi nell’area del Foro romano da cui sono via via emerse stratificazioni archeologiche più o meno coeve al muro del Palatino, collocate in aree in cui le fonti antiche assicurano che i primi re avevano realizzato attività edilizie. I dati archeologici in questione hanno convinto molti studiosi, in anni recenti, a rialzare ulteriormente la cronologia della nascita di Roma, armonizzandola nella sostanza con quella tramandata dagli antichi.
La tradizione antica ci conserva il nome di sette re di Roma: Romolo (che avrebbe condiviso il regno per alcuni anni con il sabino Tito Tazio), Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo. I sette re avrebbero regnato per 244 anni, in media 35 ciascuno. Un dato, quest’ultimo, molto alto che, se ci porta a dubitare del fatto che i re di Roma siano stati solo sette e che i loro nomi siano stati sempre quelli tràditi, non toglie valore, tuttavia, a una serie di evidenze che possono essere fatte risalire ai primi due secoli e mezzo circa della città.
La prima di queste evidenze è che tra l’VIII e il VI secolo a.C. a Roma deve essere stato in vigore un regime monarchico. Non può essere un caso, infatti, se due delle rare e più antiche testimonianze del latino arcaico che possediamo (un cippo in tufo trovato nel Comizio e un frammento fittile rinvenuto, nell’area del Foro, nel luogo in cui secondo le fonti letterarie si trovava l’abitazione del re, la regia), databili al VI secolo a.C., riportano la parola "re" (rex), affermando l’esistenza di tale figura in un periodo in cui le fonti letterarie sostengono unanimemente che Roma sia stata governata da un monarca.
Un altro dato che appare largamente condiviso dagli studiosi moderni è che il re a Roma doveva essere detentore di un potere talmente ampio da essere, nella successiva età repubblicana, deliberatamente suddiviso tra più persone.
Tra le prerogative del re, grande importanza doveva detenere quella religiosa. L’erudito Sesto Pompeo Festo afferma, infatti, che il più grande (maximus) tra i sacerdoti di Roma è il rex, intendendo con quella espressione il rex sacrorum, la figura che, nell’età repubblicana, ha assunto su di sé le funzioni sacrali che precedentemente erano appannaggio del re. Tra queste, le principali consistono nell’officiare il sacrificio pubblico annuale forse più importante a Roma, cioè quello celebrato in onore del dio Giano il primo giorno dell’anno, e di indire ufficialmente ogni mese le feste che saranno celebrate nel mese successivo. Si è d’accordo, poi, sul fatto che il re sia stato la guida della comunità in pace e in guerra (il sostantivo rex deriva dal verbo "regere","governare, guidare"). Egli, rappresentante vitalizio delle leggi della città, ne sarebbe stato anche l’estensore – per quanto di solito in forma di sentenze orali e non di norme scritte – e, con l’aiuto di un quaestor parricidii e forse di un duumvir perduellionis, sarebbe stato anche il giudice nei processi contro chi le leggi le infrangeva. Doveva spettare al re, poi, la decisione di intraprendere guerre contro città nemiche, di guidare l’esercito romano in battaglia – coadiuvato da dei comandanti (magistri) della cavalleria e della fanteria –, di stabilire cosa fare dell’eventuale bottino strappato al nemico. A integrare e, in qualche misura, delimitare il potere politico del re di Roma, sin dai primi tempi della città dovevano essere esistite due basilari istituzioni, cioè il senato e i comizi curiati.
I primi senatori, designati secondo la tradizione da Romolo in numero di 100, sarebbero stati scelti tra i membri più autorevoli di alcune famiglie romane. Essi, padri di famiglia e al contempo una sorta di padri fondatori della patria, sarebbero stati definiti dal primo re come "padri" (patres), e i loro discendenti come "patrizi" (patricii).
Il senato appare innanzitutto come un organo consultivo del re, un consesso di anziani (in latino senex, da cui deriva il sostantivo senatus, significa per l’appunto "anziano"), a cui il capo della comunità si rivolge per prendere decisioni in ambito politico e militare. Al senato verosimilmente spetta, inoltre, l’importante compito di designare il nuovo re. La monarchia romana, seppur vitalizia, non è infatti ereditaria e alla morte di un re entra in vigore una fase di interregno in cui il senato, mentre si occupa della scelta di un nuovo monarca, ne realizza temporaneamente le funzioni per mezzo dei suoi dieci rappresentanti più autorevoli, che reggono il potere ognuno per cinque giorni.
Oltre al senato, a Romolo è attribuita la creazione dei comizi curiati, l’assemblea di tutti i cittadini maschi e adulti che sono al suo interno divisi in trenta curie (curia significa "gruppo di maschi"), ognuna delle quali è composta da un certo numero di individui appartenenti ad alcune linee di discendenza (genera). Alle curie spettano l’acclamazione e il conferimento del potere al re. Esse fungono, poi, da base per il reclutamento militare – ogni curia doveva fornire 100 fanti e 10 cavalieri all’esercito – e forse anche per il prelievo dell’imposta (tributum) che ogni membro della comunità doveva pagare per il finanziamento delle guerre. Le funzioni politiche, militari e amministrative dei comizi curiati si ridurranno, verosimilmente, già dalla metà del VI secolo a.C., con la creazione dei comizi centuriati, attribuita al re Servio Tullio. Ciò non di meno, proprio in virtù della loro organizzazione sulla base dei rapporti di parentela, i comizi curiati verranno chiamati ancora in età tardo-repubblicana a prendere decisioni riguardanti i passaggi di cittadini giuridicamente autonomi da una famiglia all’altra (adrogatio), o a dare l’avallo ad alcune disposizioni testamentarie (testamentum comitiis calatis). Ai comizi curiati, anche dopo la fine dell’età monarchica, resterà inoltre il diritto alla lex curiata de imperio che produrrà l’attribuzione dell’imperium – la forma più alta di potere militare e politico a Roma – ai magistrati maggiori.
Come le funzioni attribuite al re mostrano bene, è difficile separare rigidamente nella società romana, specialmente arcaica, il potere politico-militare da quello religioso. Proprio per questo motivo, per condurre la vita civica della città il re aveva bisogno, accanto a istituzioni come il senato e i comizi, e ad aiutanti sul campo di battaglia o nell’istruire processi, di sacerdoti che presiedessero agli aspetti fondamentali del culto pubblico.
Tra questi sacerdoti i più importanti, almeno dal punto di vista della gerarchia religiosa romana, sono i flamini maggiori. Preposti al culto di una specifica divinità della quale presenziano a tutti i riti e alle feste, i flamini maggiori sono una sorta di rappresentazione vivente degli dèi Giove, Marte e Quirino. Ai tre maggiori, si aggiungono 12 flamini minori, connessi ad alcune divinità meno importanti, molto antiche e talora misteriose già ai Romani di età post-arcaica, legate alla fecondità, alle attività umane, a fenomeni naturali o a specifici luoghi (Carmenta, Cerere, Falacer, Flora, Furrina, Palatua, Pomona, Portuno, Vulcano, Volturno).
Subito al di sotto dei tre flamini maggiori sta, per importanza religiosa, il pontefice massimo, capo di un collegio in origine di cinque membri. I pontefici sono i sommi esperti del diritto sacro e profano. Essi soprintendono ai sacrifici pubblici – che sono però normalmente officiati dal re e, in età repubblicana, dai magistrati – e sorvegliano quelli privati, controllando che tutti i riti vengano compiuti secondo le modalità tradizionalmente prescritte. Proprio in virtù della loro competenza giuridica, i pontefici vengono interpellati dai cittadini che chiedono loro responsi su questioni rituali e civilistiche. Ai pontefici è anche delegata la cura del calendario e la registrazione – messa per iscritto su tavole lignee imbiancate (tabulae dealbatae) – dei più rilevanti eventi politici, militari, economici, astronomici avvenuti ogni anno nella città. Al pontefice massimo spetta, poi, almeno dall’età repubblicana, la scelta del rex sacrorum, dei flamini e delle vestali, le sei sacerdotesse che si occupano del culto di Vesta, dea del focolare sacro della città. Esse vengono selezionate tra alcune bambine di famiglia patrizia in un’età compresa fra i sei e i dieci anni. La loro ammissione all’ordine passa per un rito, detto captio, in cui il pontefice massimo rapisce ritualmente la futura vestale ai genitori. Diversamente da quanto avviene per rex sacrorum, flamini e pontefici, la condizione di vestale non è vitalizia. Il servizio dura in teoria per trent’anni, nei quali le vestali si dovrebbero consacrare totalmente alla dea, mantenendosi caste e ritualmente pure. Alla fine di tale periodo alle vestali è lasciata la possibilità di abbandonare l’ordine ed eventualmente sposarsi, oppure di restare a vivere nell’area sacra alla dea.
Decisivo per la vita civica di Roma è un altro collegio, quello degli àuguri: originariamente tre, gli àuguri hanno il compito basilare di interpretare i cosiddetti auspicia. I re, e successivamente i magistrati romani, infatti, prima di dare inizio ad atti di valore politico rilevante (convocare i comizi e il senato, intraprendere guerre) sono tenuti a conoscere la volontà degli dèi tramite l’osservazione del volo di alcuni uccelli, considerati messaggeri dei superi, all’interno di uno spazio ritualmente delimitato detto templum. L’auspicium altro non è, dunque, che una "osservazione del volo degli uccelli" (aves specere) la cui corretta lettura, prerogativa degli àuguri, potrebbe portare a buon fine le intenzioni dei magistrati e del popolo romano (il sostantivo latino augur deriva da un verbo, augere, il cui significato originario è proprio quello di "avere successo, buon esito"). In età regia spetta, poi, agli àuguri la cosiddetta inauguratio, cioè l’invocazione agli dèi della protezione sul re appena designato. Questa cerimonia attribuisce, nei fatti, anche i poteri religiosi al re.
Un altro importante collegio sacerdotale che dovrebbe già risalire all’età regia è quello dei duumviri sacris faciundis, il cui numero crescerà gradualmente fino a quindici nel corso dell’età repubblicana. I duumviri si occupano di custodire e consultare i libri Sibillini, una raccolta di responsi oracolari che vengono interpretati per trovare la soluzione a momenti di particolare difficoltà per lo stato romano.
All’età dei primi re viene anche attribuita la creazione di alcuni collegi di addetti a culti o a riti specifici, meno importanti di quelli appena menzionati ma non meno decisivi per il corretto funzionamento al contempo della vita sacra e profana della città: i collegi in questione sono quelli dei feziali, degli arvali, dei luperci, dei salii. I 20 feziali sono i sacerdoti che si occupano del ius fetiale, cioè del diritto che regola i rapporti tra comunità straniere, e in particolare le guerre e i trattati. Essi accertano che Roma indíca guerre e sigli (oppure rompa) paci in modo ritualmente corretto (iustum).
Gli arvali, mitici figli di Acca Larenzia nutrice di Romolo, sono invece 12 sacerdoti che presiedono, per tre giorni non consecutivi nella seconda metà del mese di maggio, al culto della dea Dia nel bosco a lei sacro presso il quinto miglio della via Ostiense. Il loro nome deriva dal termine arvum, "messe": quello da essi presieduto è, infatti, un culto primiziale in cui si offrono a Dia, divinità del cielo e dunque connessa ai fenomeni atmosferici, le prime spighe di farro, ancora non pienamente mature, chiedendole aiuto perché la crescita dei cereali giunga a buon fine. Nella stessa circostanza, gli arvali recitano un canto (carmen) – che ci è noto grazie a un importante rinvenimento epigrafico – nel quale invocano l’aiuto dei Semones, divinità che presiedono allo sviluppo del seme, dei Lares, dèi aiutanti dell’uomo nei lavori dei campi, e di Marte, dio protettore dei campi e dei suoi confini.
Al culto di Marte in quanto dio della guerra, sono preposti i salii, 24 sacerdoti divisi in due gruppi (Palatini e Collini), protagonisti delle cerimonie che sanciscono l’inizio e la fine del periodo che, nell’età arcaica, viene consacrato alla guerra, tra il mese di marzo con le feste dedicate a Marte (Feriae Martis, Equirria, Tubilustrium) e il 19 ottobre con l’Armilustrium, in cui le armi vengono simbolicamente ripulite dal sangue e messe a riposo. L’erudito Varrone ricorda che il nome salii deriva da un verbo latino che significa "danzare saltando". I salii infatti compiono i loro riti effettuando una complessa danza che si svolge attraversando il Foro, salendo al Campidoglio e poi discendendo al Comizio. In quanto sacerdoti-guerrieri, i salii sono armati e corazzati di tutto punto con oggetti di bronzo, retaggio di un’età antichissima.
I luperci, infine, sono 24 giovinetti (divisi in Fabiani e Quinctiliani) che partecipano ai Lupercalia, un rito di purificazione in onore del dio Fauno che si teneva il 15 febbraio. Vestiti di un perizoma di pelle di capra i luperci, in quel giorno, corrono lungo la Sacra Via colpendo chi incontrano, e in particolare le donne, con uno scudiscio anch’esso di pelle di capra. L’origine dei Lupercalia appare alquanto oscura ai Romani di età tardo-repubblicana e imperiale, che mettono in relazione alcuni aspetti piuttosto bizzarri del rito con gli avvenimenti che avrebbero preceduto la fondazione della città. Romolo e Remo diciottenni, infatti, proprio durante tale festa avrebbero ucciso il malvagio re Amulio, purificando così il territorio dell’allora Alba Longa e al contempo manifestando il loro passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta, ponendo le basi per la nascita di una nuova società. Tutti i sacerdoti fin qui menzionati vengono, in origine, scelti tra le file dei patrizi e il ruolo religioso che detengono non impedisce loro di ricoprire anche incarichi politici, con l’eccezione del solo rex sacrorum e, evidentemente, le vestali, escluse da ogni attività istituzionale in quanto donne.
Secondo quali stili di vita e quali regole generali vivono i Romani dei primi secoli? Una generale convergenza fra quanto affermano le fonti letterarie e ciò che testimoniano i dati archeologici consente di ricostruire un quadro piuttosto sicuro relativamente alle forme di sussistenza di quel popolo. Le fonti raccontano di come Romolo e, similmente, i suoi successori, al momento di accogliere nuovi cittadini o di fondare colonie, assegnavano degli appezzamenti terrieri che sarebbero stati destinati all’agricoltura e in particolare alla cerealicoltura. L’alimentazione dei Romani in età arcaica è infatti basata sul consumo del farro, cereale più rustico, resistente e dalle rese più stabili del frumento, più adatto alla coltivazione in aree non particolarmente fertili o soggette a esondazioni (come quelle della Roma primitiva) e che è stato abbondantemente rinvenuto nei contesti archeologici di età arcaica.
Già alle origini, dunque, Roma deve essere stata una città in cui una parte preponderante dei cittadini si dedica alla coltivazione della terra – anche se là dovevano risiedere alcuni cittadini che si garantivano la sussistenza praticando l’artigianato, il commercio o l’allevamento del bestiame.
Le tipologie fondamentali di controllo della terra corrispondono, già in origine alle due fattispecie giuridiche del dominium e della possessio. Il dominium (il cui nome arcaico doveva essere erctum), cioè la proprietà privata, è esercitato su terre e altri beni dal pater familias, l’ascendente agnatizio più anziano vivente all’interno di un gruppo di parentela. A lui, già secondo la costituzione di Romolo, è dato il diritto di comprare e vendere tutto ciò che fa parte del patrimonio familiare (figli compresi) e di stabilire l’asse ereditario; in caso di controversie o contestazioni rispetto alla proprietà di cose o persone, spetta sempre al pater familias risponderne davanti al giudice.
La possessio è, invece, il diritto che, in teoria, è attribuito a tutti i cittadini di utilizzare le terre pubbliche (ager publicus) per coltivarle o per allevarvi animali.
L’importanza che, sin dalle origini della città, doveva detenere la proprietà privata è evidenziata dalle fonti antiche che fanno risalire al re Numa Pompilio il culto di Terminus (o di Iuppiter Terminalis), dio dei confini, e specialmente di quelli delle proprietà terriere. Chi abbia spostato dolosamente le pietre che segnano i limiti dei campi altrui (termini), sarà considerato sacer, consacrato alla divinità, escluso dal novero dei cittadini e degli esseri umani e per questo assassinabile impunemente.
La natura agricola e cerealicola dell’economia di Roma è confermata dal più antico calendario romano, il cui archetipo deve risalire almeno al VI secolo a.C., nel quale una percentuale considerevole delle feste annuali consiste proprio di celebrazioni agricole, ad alcune delle quali (ad esempio i Fornacalia di febbraio, festa della torrefazione del farro) i cittadini erano letteralmente obbligati a partecipare.
Una ricca serie di racconti mitici a Roma testimonia il motivo per cui i Romani sin dalle origini dovevano essere prevalentemente agricoltori. Tali miti sottolineano che gli dèi, e in particolare Saturno – connesso alla semina e all’innesto delle piante –, Cerere – dea delle messi – e Libero – dio della vite – avrebbero insegnato l’agricoltura ai Romani primordiali per migliorare il loro stile di vita. Beneficiari del dono delle tecniche agrarie da parte degli dèi, i Romani lo avrebbero contraccambiato scegliendo la coltivazione della terra come attività economica ideale, praticandola nei loro terreni e offrendo agli dèi stessi, in momenti ben precisi dell’anno, una parte dei frutti del lavoro e vittime a loro gradite.
L’agricoltura rappresenta, dunque, nella prospettiva dei Romani, al contempo una pratica di sussistenza e una doverosa restituzione di benefici agli dèi, in grado di dimostrare la devozione di quel popolo alle sue divinità. Può essere interessante sottolineare, in questo senso, che i Latini usano lo stesso verbo, cioè colere, per dire sia "coltivare la terra" che "venerare gli dèi".
Come nei confronti degli dèi, così anche rispetto alle istituzioni della città la vita dei Romani dei primi secoli sembra essere organizzata secondo un preciso insieme di doveri.
La città, un po’ come gli dèi agricoli, viene infatti percepita dai cittadini come un’entità donatrice di alcune realtà – leggi, regole di comportamento, protezione, riti, terre – che consentono ai suoi membri di vivere in modo pacifico e ordinato. Proprio per questo motivo il cittadino sarà tenuto a realizzare delle prestazioni che contraccambino quanto ricevuto. Dice Marco Tullio Cicerone nel De re publica 1. fr. 3 Castiglioni: “Poiché la patria ci colma di benefici (beneficia) ed è per noi madre più importante (antiquior) di colei che ci ha generato, a lei, più che alla vera madre, noi dobbiamo essere riconoscenti (debetur gratia)”.
Le fondamentali forme di riconoscenza dei Romani nei confronti del loro stato consistono, per l’età arcaica, oltre che nel rispetto delle leggi, delle istituzioni e degli dèi patrii, nel combattere quando richiamati in guerra, nel pagare il tributum, nel partecipare alle riunioni e alle votazioni comiziali.
Ai doveri verso dèi e patria si devono aggiungere quelli che coinvolgono cittadini di status differente. Abbiamo visto precedentemente come a Romolo le fonti attribuiscano la creazione dei primi senatori i quali, con i loro discendenti, rappresentano il gruppo sociale dei patrizi. La gestione dello stato romano delle origini doveva essere retaggio quasi esclusivo proprio dei patrizi, con tutti i sacerdoti e, verosimilmente, i magistrati scelti tra le loro file. In virtù dei ruoli che ricoprono, i patrizi hanno anche cognizione più chiara delle leggi sacre e profane che, diversamente dal resto della popolazione, molti di loro avranno saputo leggere.
Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso, Romolo avrebbe concepito un’istituzione che avrà una lunga storia a Roma, quella della clientela, il cui fine sarebbe stato quello di consolidare i rapporti tra tutti i membri della comunità. I cittadini che non erano patrizi, detti plebei, avrebbero potuto scegliere di legarsi come clienti a un patrizio che ne sarebbe divenuto patrono. Il rapporto patrono/cliente avrebbe previsto precisi doveri reciproci: il patrono avrebbe dovuto far conoscere al cliente le leggi e difenderlo nel caso di controversie civili, mentre i clienti dovevano essere, nei fatti, a disposizione dei patroni compartecipando con questi ultimi alle spese per farli eleggere a una magistratura o al pagamento di eventuali multe comminate al patrono, oppure all’accumulazione della dote per le figlie che andavano spose. Anche il rapporto patrono/cliente aveva un suo versante religioso: ai contraenti, e specialmente al patrono, era vietato tradire l’altra parte. Chi l’avesse fatto sarebbe stato considerato sacer.
Dionigi di Alicarnasso sottolinea come il rapporto patrono/cliente sarebbe stato ricalcato da Romolo su un altro tipo di relazione non meno importante e antica a Roma, e non meno basata su un sistema di reciproci doveri: quella tra padre e figlio. Anche il padre, un po’ come la patria verso i cittadini, è considerato un donatore nei confronti del figlio, e in particolare un donatore di identità. È, infatti, principalmente grazie al padre che un discendente diventa riconoscibile, identificabile, all’interno della comunità romana. Il padre è colui che dà al figlio il nomen, cioè il nostro cognome. Avere un nomen a Roma significa inserirsi in una linea di discendenza agnatizia ben precisa, dotata di antenati dalle caratteristiche morali, fisiche, patrimoniali ben definite, e di culti specifici. Il padre è anche colui che, una volta riconosciuto un figlio come proprio tramite il gesto di prenderlo in braccio e sollevarlo davanti a dei testimoni (tollere liberos), è tenuto a garantirgli una decorosa sussistenza e a educarlo ai costumi della città. A fronte di questi benefici, il figlio sarà tenuto a contraccambiare il padre tramite l’acquisizione, la riproduzione e, se possibile, l’accrescimento dei tratti familiari ricevuti, magari raggiungendo, grazie alle proprie virtù morali, un prestigio maggiore rispetto ai suoi antenati all’interno della comunità.
Le fonti antiche sono concordi nel mostrare la Roma di età regia come una città molto aperta nei confronti degli stranieri. Una delle prime istituzioni create da Romolo sarebbe stato l’asylum, la cui sede era posta nel leggero avvallamento tra Arce e Campidoglio, in cui sarebbero stati accolti i profughi delle altre città che avessero voluto entrare a far parte della cittadinanza. Ancora all’inizio dell’età repubblicana il nobile sabino Atta Clauso (capostipite della famiglia Claudia, che darà alcuni imperatori a Roma) sarebbe stato accolto nella comunità romana insieme ai suoi parenti e clienti e inserito nel numero dei senatori. In quanto nuovi cittadini, egli e il suo clan avrebbero ricevuto degli appezzamenti terrieri in proprietà privata.
Anche alcuni dei re di Roma sono presentati, dalle fonti, come stranieri: Numa Pompilio sarebbe stato sabino (e come lui Tito Tazio, temporaneo collega di Romolo); Tarquinio Prisco sarebbe stato un etrusco di Tarquinia e figlio del corinzio Demarato. Il successore di Tarquinio Prisco, Servio Tullio, appare infine, nella tradizione, o come nato nella latina Cornicolo, oppure come etrusco.
L’immagine letteraria di una Roma dei primi secoli assai ricettiva nei confronti degli stranieri trova interessanti elementi di convergenza nelle evidenze archeologiche, con l’epigrafia del Lazio e dell’Etruria meridionale arcaica (il cui territorio, che arrivava a Veio, confinava con Roma) che fornisce numerose attestazioni di individui di origine greca inseriti nelle comunità laziali e di laziali inseriti in quelle etrusche.
Non tutti gli stranieri, tuttavia, diventano cittadini romani, o sono interessati a esserlo. La società romana più antica prevede tre tipi di rapporti istituzionalizzati nei loro confronti. Rispetto ai Romani, uno straniero può essere:
1) un ospite (hospes), legato da profondi vincoli di amicizia con un cittadino e la sua famiglia. Una traccia importante dell’esistenza di forme di ospitalità nella Roma regia è rappresentata da una tessera hospitalis, una sorta di targhetta che serve all’ospite per farsi riconoscere, rinvenuta nei pressi del Foro Boario e databile alla metà del VI secolo a.C. su cui si legge il nome, riferibile a un etrusco, Araz Silquetenas Spurianas;
2) un semplice straniero pacifico (hostis, nel latino arcaico) che visita Roma solitamente per affari. I segni dell’esistenza di scambi commerciali con altre società sono ampiamente attestati a Roma tramite oggetti in terracotta e in metallo rinvenuti nelle sepolture specialmente dall’VIII secolo a.C., quando la creazione delle prime colonie greche in Italia (in particolare Pitecusa e Cuma) produce nel Lazio una penetrazione più massiccia di merci provenienti da tutta l’area mediterranea. Dalla metà del VII secolo a.C., in virtù della conquista di Ostia – porto e salina di importanza fondamentale per tutta l’area medio-tirrenica – e in virtù dello sviluppo del Foro Boario come area emporica, Roma diventerà, poi, una piazza commerciale di notevole rilievo e uno dei principali luoghi d’incontro tra venditori e compratori appartenenti a etnie diverse;
3) un nemico (perduellis). La storia di Roma sin quasi dalle origini è costellata di guerre che, nel tempo, diverranno sempre più impegnative.
Una guerra di norma scoppiava, nell’Italia centrale arcaica, quando i membri di una comunità sottraevano qualcosa (raccolti, beni preziosi, persone) a quelli di un’altra comunità. A questo punto, nel caso di Roma, intervengono i feziali che si occupano di chiedere formalmente al popolo straniero la restituzione del mal tolto, chiamando gli dèi a testimoni della correttezza della loro richiesta. Se, entro 33 giorni da quel momento, quanto richiesto non viene riconsegnato, allora i feziali dichiarano guerra tramite il gesto simbolico di gettare una lancia nel territorio straniero diventato, a quel punto, nemico. Se, al termine della guerra, il nemico viene sconfitto è tenuto a restituire, e ben oltre il danno iniziale, ciò che aveva sottratto a Roma.
Durante l’età regia Roma sembra applicare due differenti atteggiamenti nei confronti delle città nemiche sconfitte. Il primo, prevalente durante il periodo dei primi quattro re, consiste nell’inglobare le città battute in guerra nel territorio romano. Questo principio dovette probabilmente valere per la città di Alba Longa, il centro più grande del Lazio primitivo e la madrepatria dell’etnia latina, conquistata secondo la tradizione da Tullo Ostilio, e anche per Politorio, Tellene, Ficana, Medullia, collocate lungo la fascia di territorio tra Roma e Ostia, che sarebbero state integrate nel territorio romano da Anco Marcio. Sotto gli ultimi tre re della tradizione sembra, invece, entrare in vigore un diverso modo di rapportarsi con gli sconfitti: le loro città restano solitamente autonome, mentre quasi sempre viene loro sottratta una parte di terreno (che diventa pubblico) e ricchezze mobili (che vengono solitamente vendute all’asta, con il ricavato che entra a far parte del tesoro di stato). In casi particolari, sul territorio preso al nemico vengono create delle colonie di cittadini romani in cui valgono, seppur a distanza, le stesse leggi e istituzioni della madrepatria.
Il regno di Servio Tullio viene fatto corrispondere, dalla tradizione antica, ai decenni centrali del VI secolo a.C., momento in cui Roma verosimilmente è una città piuttosto differente rispetto a quella delle origini, con un territorio e un numero di abitanti sensibilmente accresciutisi.
La conquista di Alba Longa, poi, ha probabilmente reso Roma la città egemone dell’etnia latina e dei culti comuni che si tenevano sul monte Albano, mentre il controllo di Ostia, delle sue saline e delle vie di comunicazione che collegavano il mare alle aree interne fa verosimilmente di Roma il centro più importante nel Lazio anche sotto l’aspetto commerciale: il notevole incremento di manufatti archeologici, importati e prodotti localmente, nei contesti databili dall’inizio del VI secolo a.C. è manifestazione chiarissima dello status acquisito in quel momento dalla città.
I diffusi contatti con la società greca e, ancor più, con quella etrusca, introducono, poi, nuovi costumi, specialmente dalla fine del VII secolo a.C. A quei tempi, che coincidono con l’inizio del regno dell’etrusco Tarquinio Prisco, le fonti ascrivono, infatti, l’adozione di alcuni segni del potere (la sedia curule, i fasci, le toghe pretesta, purpurea, palmata), di alcuni strumenti musicali impiegati in guerra, di certe procedure rituali e divinatorie, dell’impiego del cosiddetto ordine tuscanico per la costruzione dei templi, originariamente etruschi.
Tra fine VII e inizio del VI secolo a.C. si assiste, infine, al graduale sviluppo di una nuova fase edilizia della città, con la costruzione della regia, la nuova pavimentazione del Foro romano e l’edificazione di templi tra cui quelli di Fortuna, Mater Matuta nel Foro Boario e quello, maestoso e imponente, di Giove sul Campidoglio che, cominciato alla fine del regno di Tarquinio Prisco, sarà inaugurato, secondo la tradizione, solo nel primo anno dell’età repubblicana (509 a.C.).
In questo momento di sviluppo politico, commerciale, monumentale e territoriale di Roma si inserisce la figura di Servio Tullio sulle cui origini esistono, come accennato, due tradizioni. La prima, che si ritrova nelle fonti storiche latine, faceva di lui il figlio di Ocrisia (una nobile della città di Cornicolo sconfitta dai Romani) che sarebbe divenuta schiava di Tanaquilla, moglie di Tarquinio, la quale allevò Servio come un figlio e ne promosse l’ascesa al trono. La seconda tradizione, di cui rende conto l’imperatore Claudio e che trova elementi di convergenza in un affresco della tomba François di Vulci (IV sec. a.C.), oltre che in alcune testimonianze degli eruditi latini, fa di Servio Tullio un etrusco di Vulci, compagno del condottiero Celio Vibenna, che avrebbe reso dei servigi a Tarquinio e per questo sarebbe entrato nelle sue grazie.
Oltre, e forse ancor più, che per le sue misteriose origini Servio Tullio è passato alla storia come la figura che introdusse a Roma una riforma costituzionale che, seppur con alcune modifiche, resterà in vigore fino al I secolo d.C.: la cosiddetta riforma centuriata a cui si connette l’introduzione di una nuova assemblea popolare, i comizi centuriati, che in parte assumerà le funzioni precedentemente assolte dai comizi curiati.
La riforma centuriata prevede una individuazione e ripartizione dei doveri civici dei cittadini maschi e adulti sulla base di criteri diversi e ampiamente innovativi rispetto al passato. Prima della riforma centuriata la curia, cioè un insieme di uomini adulti appartenenti ad alcune linee di parentela, rappresentava l’unità politica principale di Roma: essa verosimilmente era al contempo la base del reclutamento militare, del pagamento del tributum, dell’elezione-acclamazione del re.
La riforma attribuita a Servio Tullio riorganizza la cittadinanza in gruppi che, diversamente dalle curie, non si basano sui rapporti di parentela, ma sul census.
Il census è una valutazione complessiva del cittadino – e in particolare del pater familias – che si realizza tramite la misurazione (inizialmente realizzata dal re e da alcuni suoi collaboratori) di due aspetti, che lo storico Tito Livio identifica con i termini dignitas e fortuna. Con dignitas i Romani intendono la capacità dell’individuo di realizzare i comportamenti considerati virtuosi all’interno della loro società e di ricoprire incarichi pubblici di prestigio. Col termine fortuna, invece, ci si riferisce al patrimonio familiare.
Quanto più alta la valutazione della dignitas e della fortuna di un pater familias fosse stata, tanto più alto sarebbe stato il suo census (e, per ricaduta, quello dei suoi discendenti maschi adulti che formalmente lo condividevano) e più alta la classe in cui era inserito.
Stando alla tradizione Servio Tullio avrebbe individuato sei classi di census, in ognuna delle quali è inserito un numero variabile di cittadini, ulteriormente distinte in centurie: la prima classe – i cui membri hanno dignitas e fortuna più alte –, secondo Tito Livio, si compone di 100 centurie, la seconda, la terza e la quarta di 20, la quinta di 32. Ad esse si aggiungeva una centuria di nullatenenti, per un totale di 193 centurie.
La centuria, un po’ come la precedente curia, è al contempo una unità di voto, una unità militare e di riscossione del tributum. Se si deve votare il re o, in età repubblicana, eleggere un magistrato maggiore, ad esempio, i cittadini vengono chiamati a votarlo sulla base della classe e della centuria di appartenenza. Le 100 centurie di cittadini della prima classe – dotati di più alto census – esprimono 100 voti su 193, cioè oltre la metà, costituendo dunque la maggioranza. Da ciò consegue che, se tra di loro si dovesse raggiungere un accordo sul nome del candidato da votare, questi sarebbe eletto senza che i membri delle classi inferiori possano esprimere la loro preferenza. Questa circostanza doveva ricorrere abbastanza spesso: Livio ricorda, infatti, come raramente l’intera seconda classe, o addirittura la terza, fossero state chiamate al voto. I cittadini inseriti nella prima classe, che esprimono più centurie/voti, mostrano così di detenere un potere politico assai maggiore rispetto agli altri. Essi, tuttavia, rappresentano una percentuale assai ridotta del totale della cittadinanza, come affermano le fonti antiche.
Centuria, come abbiamo detto, è anche una unità militare: questo significa che, nel momento in cui si recluta l’esercito, 100 centurie su 193, cioè oltre la metà dei soldati, sono richiamate tra il piccolo numero dei membri della prima classe: i cittadini con maggiore dignitas e fortuna finiscono per essere, così, anche quelli che più spesso devono partire in guerra e anche quelli che devono spendere di più per essa, per due motivi.
Il primo è che i cittadini richiamati sono tenuti a presentarsi in battaglia con un armamento e una funzione nell’esercito specifici per la loro classe di appartenenza. I membri della prima classe devono essere armati in modo più completo (ed evidentemente più costoso) con elmo, clipeo (un grande scudo rotondo), schinieri e corazza in bronzo per difendersi, asta e gladio per offendere; 18 centurie della prima classe sono composte, poi, da cavalieri (i cui cavalli sono tuttavia mantenuti a spese dello stato) armati similmente agli altri appartenenti alla stessa classe; i cittadini della seconda classe sono armati come quelli della prima, ma non portano la corazza; quelli della terza non hanno neanche gli schinieri; quelli della quarta hanno solo le armi offensive; quelli della quinta hanno solo fionde e pietre, mentre i cittadini dell’ultima classe sono esentati dal servizio militare. Le indicazioni delle fonti sull’esercito centuriato hanno consentito di comprendere come la riforma serviana abbia istituzionalizzato a Roma un tipo di armamento e di schieramento militare di tipo oplitico, che nel Lazio dovette imporsi ancora una volta tramite il filtro della società etrusca. È bene sottolineare l’importanza dell’aspetto militare dei comizi centuriati. Essi – diversamente da quanto accadeva per i comizi curiati, che si riunivano nel Comizio presso il Foro – si radunano nel Campo Marzio, sacro a una divinità guerriera e collocato esternamente al confine sacro della città (pomoerium) entro cui non è possibile portare armi.
Il secondo motivo per cui, almeno in partenza, la guerra costa di più ai membri della prima classe consiste nel fatto che la condizione sociale di un individuo, valutata tramite il census, determina anche il tributum che deve pagare. Il tributum non è una tassa fissa con scadenza annuale, ma un’imposta che viene richiesta ai cittadini solitamente in caso di guerra: in tale circostanza lo stato stabilisce la cifra che presumibilmente verrà spesa imponendo poi ai cittadini di pagarla proporzionalmente al census. Da ciò discende che ai pochi membri della prima classe, con le loro 100 centurie, viene richiesto di pagare 100 parti delle 193 totali. La raccolta del denaro non sarà effettuata, tuttavia, centuria per centuria ma tra gli appartenenti a ogni classe presenti in una stessa tribù (tributum deriva, per l’appunto, da tribus) di Roma.
Il termine tribus indicava originariamente le tre macro-suddivisioni del popolo romano (Ramnes, Tities, Luceres), ognuna delle quali comprendeva dieci curie. È difficile dire se le tribù originarie avessero avuto base territoriale o etnica. Quello che appare più sicuro è che con Servio Tullio le tribus aumentano di numero e hanno carattere certamente locale: quattro vengono comprese entro le mura della città; un numero non definito nell’agro romano. Nel 495 a.C. il totale delle tribù romane sarebbe stato di 21 (4 urbane più 17 rustiche).
La riforma centuriata in qualche misura trasforma la società romana e, allo stesso tempo, esprime i mutamenti che si erano ingenerati nei primi due secoli di storia della città. La partecipazione all’elezione delle cariche dello stato, alla guerra, al pagamento del tributo, diversamente da quanto avveniva in passato, non sono più conseguenza automatica, e uguale per tutti, della sola appartenenza alla cittadinanza: ora il ruolo politico dell’individuo nella città è misura del suo census, della sua valutazione complessiva da parte della comunità espressa autoritativamente dal re. Con la creazione del census e dei comizi che ne esprimono la logica, si realizza a Roma qualcosa di molto simile a ciò che il filosofo Aristotele giudicherà come il passaggio da una società a struttura aritmetica, in cui ogni cittadino equivale all’altro, a un’altra a struttura geometrica, in cui potere, onori e oneri di ogni individuo sono costituiti in modo differenziato e proporzionale alla sua valutazione sociale.