L'ETA MEDIEVALE
L'ETÀ MEDIEVALE I confini del medioevo sono ormai due frontiere mobili. Accantonati i tradizionali 476 e 1492, si tende a spostarli sempre più in avanti: quello che lo separa dalla tarda antichità, fino ai primi decenni del sec. VIII, se non oltre; quello che lo distingue dalla prima età moderna, addirittura bene addentro nel XVIII, incorporandola per intero. Ma non per questo il medioevo come tale è in pericolo. Appaiono infatti inestirpabili le radici che ha messo: in quanto campo di studi a sé stante, e ancora più in quanto acquisizione, da circa cinque secoli e mezzo, della coscienza storica dei paesi di cultura europea; nonché, infine, persino in quanto oggetto di un immarcescibile pregiudizio negativo. Ci dobbiamo, quindi, rassegnare ad ammettere che i suoi confini siano molteplici, individuando i punti di partenza e di arrivo che meglio convengano all'aspetto della storia dei secoli ritenuti più comunemente "medievali", sul quale ci proponiamo di fermare l'attenzione. Così, ora, per la storia del papato. Presupponendo che il papato medievale sia caratterizzato dai tratti salienti indicati qui di seguito, la sua storia può essere situata in modo conveniente negli otto secoli e mezzo circa compresi fra i due pontificati particolarmente emblematici di Gregorio Magno (590-604) e di Felice V (Amedeo VIII di Savoia), l'ultimo degli antipapi, che abdicò nel 1449. L'arco di tempo che abbiamo individuato presenta a un certo punto una soluzione di continuità di carattere, per così dire, terminologico: mentre dal sec. VI "papa" ("padre") aveva cessato di essere un titolo onorifico, per diventare un vero e proprio titolo riservato esclusivamente al vescovo di Roma, è solo verso la metà del sec. XI che risulta attestato per la prima volta il suo derivato "papatus". Se ciò non impedisce di usarlo anche in riferimento ai secoli precedenti, è pur vero che la comparsa di questo termine segna l'affermazione di un concetto - così G. Tellenbach - "che concerne in prevalenza l'aspetto terreno del papato come autorità ecclesiastica, il suo ruolo politico e politico-ecclesiastico, la sua signoria temporale e potenza (o impotenza) [...]. Così, accanto al papato nella sua esistenza spirituale si è fatto avanti il papato come istituzione transpersonale. Anche se la personalità del papa resta rilevante, ora la Chiesa romana ha al centro organi di governo". La comparsa del termine "papato" sarebbe, dunque, da interpretarsi come un segnale che preannunciava un mutamento epocale che si stava preparando nel corso della storia pontificia. La creazione della Curia nei decenni successivi può essere addotta a sostegno di tale tesi. Ma organi di governo centrali (gli "scrinia" dell'"episcopium", poi "patriarchium", infine a partire dall'età carolingia "palatium Lateranense") erano in funzione anche nell'alto medioevo, e anche dalla metà del sec. XI in avanti non furono pochi i papi che, con le loro prepotenti personalità, hanno oscurato l'istituzione di cui erano a capo. Sulla tela di fondo della storia della Chiesa nel medioevo si avverte la presenza costante e talvolta conflittuale di due modelli di governo e di organizzazione, formatisi sulla base di esperienze diversissime per forza numerica, estensione spaziale e durata. La prima esperienza si era svolta inizialmente a Gerusalemme fra il 30 e il 66/70. La parola "chiesa" aveva designato dapprincipio la comunità cristiana locale, prima di allargarsi a indicare anche le altre comunità formatesi su quell'esempio (ad Antiochia, Cesarea di Palestina, ecc.) e di vedere in seguito accoppiato a questo significato, originario e concreto, di comunità dei credenti in Cristo in una città determinata, che non ha peraltro mai dismesso di avere, quello, ulteriore, di complesso delle varie comunità cristiane sparse ormai un po' dovunque. Destinato però, questo secondo significato, a restare per lungo tempo un'astrazione, senza riscontro istituzionale. È la Chiesa primitiva, una realtà fugace, variegata, con forti tensioni al suo interno, e talvolta anche entro le singole comunità locali, afferrabile con difficoltà anche oggi che disponiamo di dovizia di nuove fonti sia scritte che archeologiche e, soprattutto, di strumenti critici adeguati per interpretarle. Figuriamoci nel medioevo. La sua immagine veniva allora ricavata unicamente dagli Atti degli apostoli e dalle lettere apostoliche e si risolveva in pochi tratti, generatori però di forti suggestioni: anzitutto, l'organizzazione economica, basata sulla comunanza dei beni; in secondo luogo, l'assetto interno delle diverse Chiese, definitosi mano a mano, pragmaticamente, all'insegna della varietà delle soluzioni e della loro flessibilità. Nei limiti del possibile, la salvaguardia dello spirito comunitario appariva coniugata con il bisogno di designare responsabili, variamente denominati, in grado di far fronte alle crescenti esigenze (liturgiche, assistenziali-caritative, disciplinari) di comunità ecclesiali in continua, prodigiosa estensione. Ma se, in tal modo, si veniva instaurando all'interno di esse una gerarchia di funzioni, la potenziale minaccia che questa rappresentava per la loro ispirazione originaria, sembrava trovare un temperamento nella morale che i lettori medievali della Lettera ai Galati (2, 11-16) non mancavano di trarre da un episodio riferito da Paolo, che concerneva il principe degli apostoli, colui che aveva ricevuto da Cristo il mandato di guidare la sua Chiesa: "quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistetti in faccia, perché era degno di reprensione". Questo, che era solo un aneddoto, cui però dava rilievo l'eccezionalità dei due protagonisti, trovava un riscontro di carattere generale in un terzo tratto costitutivo dell'immagine che la Chiesa primitiva aveva consegnato di sé: l'esistenza al suo interno, accanto all'apostolato "ecclesiastico", di un apostolato "carismatico". Ad esso a due riprese si riferisce Paolo: "Ed egli diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori" (Efesini 4, 11 e soprattutto 1 Corinzi 12, 20-31). Forti di tale duplice autorizzazione, i profeti (veri e falsi) sarebbero stati nel medioevo legione. A differenza della prima, che si sarebbe rivelata soprattutto un ineguagliabile serbatoio di motivi di contestazione, adoperabili contro l'assetto monarchico che il papato medievale avrebbe finito col darsi, la seconda esperienza, quella della Chiesa imperiale, ha influito direttamente sulla formazione di tale assetto, cui ha fornito un esempio passibile d'imitazione. Nella sua originaria versione costantiniano-costantinopolitana, essa prese forma nei secc. IV-VI, continuando poi a caratterizzare, durante l'arco di tempo convenzionalmente assegnato al medioevo europeo centro-occidentale, ma non senza subire via via mutamenti anche radicali, lo spazio, in via di progressiva riduzione, dell'Impero romano d'Oriente, detto dai moderni "bizantino" - ad opera, prima di Slavi, Longobardi e Persiani, quindi degli Arabi, in seguito dei Normanni (nell'Italia meridionale, dove Bisanzio fu presente fino alla caduta di Bari, nel 1071) e, infine, dei Turchi Osmanli che lo cancellarono del tutto alla metà del sec. XV -, e di quello, in via di altrettanto continua dilatazione, che D. Obolenski ha chiamato il "commonwealth" bizantino (Russia, Bulgaria, Armenia, Georgia), con il suo centro di gravitazione nella Terza Roma moscovita. Una storia del papato e della Chiesa latina in questo periodo che non tenesse d'occhio l'area greco-slava sarebbe, dunque, inconcepibile. Alla base dell'esperienza della Chiesa imperiale non ci fu tanto un preordinato disegno egemonico dell'Impero, fattosi cristiano, quanto uno sfasamento dei tempi, dovuto al grave ritardo nello sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche nei confronti di quelle civili, in particolare per ciò che concerneva i rispettivi vertici. Quando, con Costantino e i suoi successori, si venne a instaurare fra l'Impero e la Chiesa un rapporto nuovo, di intima collaborazione e, addirittura, di immedesimazione, la Chiesa non era ovviamente più la stessa dei primi due secoli. I vescovi che risiedevano nelle città capitali di una provincia civile avevano preso a distinguersi dai loro confratelli, in quanto provvedevano a radunarli periodicamente in un concilio, dove si prendevano decisioni di interesse comune. Ma, al di sopra di questo livello locale e provinciale, che già risentiva dell'esigenza di omologare l'organizzazione della Chiesa alle strutture di un Impero tuttora ostile, anche se solo intermittentemente persecutore, non c'era a un livello superiore nessuna struttura di governo ecclesiastico unificante. Infatti, quella che veniva già chiamata l'unità "cattolica" consisteva unicamente nell'uniformità (quando c'era) della fede professata dalle diverse Chiese cristiane, anche se per tempo, in conseguenza per ora della posizione speciale del "caput orbis", si era diffusa la convinzione che la garanzia, per così dire oggettiva, della persistenza di tale unità fosse offerta, per ciascuna Chiesa, dal trovarsi "in comunione" con quella di Roma. Era la premessa dell'effettiva unità cattolica di domani. A svilupparla concorsero due processi, solo in apparenza incompatibili e contraddittori, ma destinati in realtà a segnare entrambi la strada del papato medievale. Da un lato, si assiste fra IV e V sec. alla ricerca e alla conseguente, forte affermazione da parte della Chiesa di Roma di motivi diversi da quello politico-profano, per giustificare anche sul piano della storia sacra (missione e martirio a Roma di Pietro e di Paolo) il proprio "principatus", in un primo momento prevalentemente di dignità e d'onore. Dall'altro, abbiamo Costantino, l'autore della svolta del 313, che compie l'intero tragitto che avrebbe visto un imperatore non ancora battezzato farsi - da edificatore di basiliche monumentali destinate a un culto fino allora illecito; da generoso benefattore delle Chiese cristiane in genere e della romana in ispecie, e dei poveri, degli orfani, delle vedove da esse assistiti; da dispensatore di favori e privilegi legislativi ai loro vescovi -, non solo l'organizzatore logistico, ma il promotore, colui che prese l'iniziativa di convocare il primo concilio non più provinciale o regionale, ma aperto, almeno nelle sue intenzioni, alla partecipazione di tutti i vescovi dell'Impero. L'assise di duecentoventi/duecentocinquanta vescovi, riuniti a Nicea nel 325 per definire un punto basilare e controverso del dogma cristiano, rese per la prima volta visibile e tangibile la Chiesa cattolica, cioè universale, e costituì al tempo stesso l'epifania della Chiesa imperiale, al cui vertice assurgeva di fatto l'imperatore in persona, che la presiedette. È vero che, come non manca di precisare Eusebio, vescovo di Cesarea, Costantino lasciò che i lavori del concilio si svolgessero liberamente, limitandosi a pronunciare, all'inizio, un discorso (in latino) di esortazione alla pace e ad offrire, alla fine, un banchetto agli intervenuti; è vero che egli prese posto su un "piccolo" seggio, non su un vero trono: ciò non toglie che il concilio imperiale di Nicea inaugurò una prassi destinata a consolidarsi in una tradizione durata sei secoli. I primi otto dei ventidue concili ecumenici (fino al Vaticano II), compresi nella lista che si sarebbe andata precisando col tempo non senza incertezze e contrasti, sono stati infatti convocati e presieduti da imperatori e si sono tenuti in località dell'Impero d'Oriente: Nicea, 325; Costantinopoli, 381; Efeso, 431; Calcedonia, 451; Costantinopoli (II), 553; Costantinopoli (III), 681; Nicea (II), 787; Costantinopoli (IV), 869-870. I primi quattro e, soprattutto, il quarto, quello di Calcedonia, ebbero un'importanza tale che Gregorio Magno non esitò a mettere i loro canoni sullo stesso piano dei vangeli canonici. Gli ultimi tre o, almeno, gli ultimi due concili "imperiali" furono tenuti in un'età per l'Occidente ormai, a giudizio di tutti, medievale. Il nono della lista complessiva degli ecumenici, e primo della nuova serie dei "papali", risulta celebrato solo nel 1123, due secoli e mezzo dopo l'ultimo degli "imperiali", quando il papato aveva raggiunto la piena autoconsapevolezza della sua autorità sulla Chiesa universale, e sapeva farla valere anche nei fatti almeno in Occidente. Poiché "ad un imperium saldamente unitario la Chiesa non poteva contrapporre, ancora, un'altra salda unità" (S. Calderone), era stato, in un certo senso, inevitabile che l'Impero informasse la Chiesa dell'impronta unitaria che le faceva per il momento difetto, se non altro quando si trattava, non solo di rendere materialmente possibili, ma anche di promuovere con successo quelle riunioni plenarie di vescovi, cui, come a Nicea nel 325, veniva demandato il compito di dirimere nel senso indicato dalla maggioranza dei convenuti le controversie che insorgevano fra le diverse Chiese in materia di fede. La logica delle cose travolgeva così l'accortezza diplomatica, con cui Costantino, se davvero pronunciò il "propos de table" che il suo biografo gli attribuisce (4, 24), avrebbe cercato di rassicurare alcuni vescovi che un giorno sedevano alla sua mensa, affermando che si sentiva vescovo come loro - ma direttamente "costituito da Dio" (ciò che sottolineava la distanza che intercorreva fra lui e gli altri) - e che però intendeva limitare la propria sfera d'azione a un ambito "esterno" alla Chiesa. In un passo precedente della Vita (1, 44), Eusebio aveva scritto che, "essendovi disordini tra comunità di paesi diversi, come una sorta di vescovo comune, costituito da Dio, [Costantino] convocava sinodi dei ministri di Dio": e questa, fuori di dubbio, era una materia che concerneva l'"interno" della Chiesa. Al vertice di questa sedeva il "basileus e sacerdote", come si autodefinirà apertamente Leone III Isaurico (717-741). Benché invitati a prendervi parte (salvo che a Costantinopoli nel 381), i papi disertarono gli otto concili ecumenici imperiali. Ma ai legati romani fu quasi sempre assegnato il posto d'onore e, soprattutto, le proposte di cui erano latori su questioni di fede finirono sempre, o quasi, con l'essere approvate. L'opposizione romana fallì invece prima nel 381, poi nel 451, contro la promozione di Costantinopoli dall'ultimo posto nell'elenco dei cinque patriarcati al secondo, prima così di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, e a ridosso di quello di Roma. Ma tale questione di precedenza aveva le sue origini nella tradizionale rivalità fra Costantinopoli e Alessandria, più che nell'aspirazione della Nuova Roma di scavalcare anche l'Antica. La partecipazione indiretta, ma determinante, della Sede romana ai concili della tarda antichità e dell'alto medioevo ebbe tanto più risalto in quanto quella delle altre sedi occidentali fu anche numericamente irrilevante. Dalla sproporzione fra presenza orientale e presenza occidentale ad appuntamenti così importanti per la Chiesa, prese corpo il "cliché" di un episcopato occidentale "rozzo" per ciò che concerne la dottrina, ma "fermo nella fede" - come affermerà con orgoglio il sinodo di Roma del 680. La Sede apostolica ebbe infatti interesse a accreditare tale "cliché", in polemica con l'Oriente cristiano, più colto, ma instancabile fomentatore di eresie. Già Costantino e, poi, i suoi successori, sempre più disinvolti, di fronte alle reazioni negative provocate dalle decisioni dei concili da essi convocati e, per lo più, presieduti, che non potevano accontentare tutti, dato che venivano sempre indetti per dirimere questioni controverse, presero infatti l'abitudine di emanare decreti nei quali, senza contraddire alle decisioni prese, prospettavano quelle che potremmo definire sottili "interpretazioni evolutive". Se i vescovi di Roma seppero rimontare la iniziale condizione di inferiorità in cui erano venuti a trovarsi nell'ambito della Chiesa universale nei confronti degli imperatori divenuti cristiani, ciò fu dovuto non solo al successo che le loro proposte ottennero in sede conciliare, ma anzitutto alla ferma determinazione con cui - pur rimanendo sudditi fedeli della "respublica" di cui anche per loro la Chiesa era parte integrante, almeno fino alla metà del sec. VIII - assolsero a un compito preciso, che delineò un loro spazio specifico nell'ambito di questa. Tale spazio consisteva per il momento soprattutto nel porsi come custodi, anche in contrapposizione ai "basileis" e ai loro confratelli patriarchi costantinopolitani, di quello che, con un'espressione di s. Paolo (1 Timoteo 6, 20), ripresa dai teologi della fine del sec. XVI, verrà definito il "deposito della fede", così come lo avevano formato i canoni dei concili imperiali, che nemmeno gli imperatori avevano il diritto di intaccare. Dal 395 (morte di Teodosio I), l'Impero si divise in una "pars Orientis" e in una "pars Occidentis". Quest'ultima, verso la metà del secolo, era stata già quasi totalmente sommersa, tranne l'Italia, dalle invasioni e, nel 476, la deposizione di Romolo Augustolo ne segnò la fine. Quindici anni prima era morto Leone Magno, il trionfatore del concilio di Calcedonia, che, in quell'atmosfera di attesa della fine, almeno per la "pars Occidentis", dell'Impero dei Cesari, aveva mostrato d'aver preso coscienza della possibilità di un susseguente "trasferimento dell'universalità di Roma nell'universalità della Chiesa di Roma" (A. Momigliano) - un processo che, una volta concluso, avrebbe comportato la fine, se non anche dell'Impero d'Oriente, certamente della Chiesa imperiale, così come l'avevano costruita Costantino e i suoi successori. In attesa che questo processo giungesse a compimento e si arrivasse a sostenere (nella Summa Perusina, 1160/1170), senza rischiare il ridicolo, che "il papa è il vero imperatore", la Chiesa di Roma, senza forse averne dapprima la chiara consapevolezza, imboccò il cammino che avrebbe consentito a Gregorio VII di proclamare nel 1075 che "solo il papa può usare le insegne imperiali" (VIII proposizione dei Dictatus papae) e che costituisce un altro dei tratti salienti della storia del papato medievale. Il termine usato da Gelasio I (492-496) per indicare l'autorità di cui, in quanto successore di Pietro, si riteneva investito nei confronti della Chiesa universale, era "principatus", un derivato di "princeps". La formula "imitatio imperii" rende bene il processo per cui la Chiesa di Roma improntò all'Impero i modelli organizzativi e il suntuoso apparato esteriore che l'ha caratterizzata fino a qualche decennio fa. Essa non è, si badi, una creazione del linguaggio storiografico moderno, risale bensì alla Donazione di Costantino, il falso forse più famoso di tutti i tempi, redatto con ogni probabilità a Roma sotto il pontificato di Paolo I (757-767). La Donazione pretendeva che Costantino avesse attribuito a papa Silvestro I (314-335) e ai suoi successori gli elementi costitutivi del cerimoniale imperiale così come potevano essere conosciuti o immaginati a Roma nel sec. VIII, in modo di farne dei quasi-imperatori, ai quali venivano ceduti altresì, come adeguato appannaggio territoriale, "sia il nostro palazzo [il Laterano] che la città di Roma e tutte le province, contrade e città d'Italia nonché delle regioni occidentali". Questa clausola sensazionale ha fatto passare a torto in secondo piano le restanti clausole del documento, nelle quali non si faceva altro che generalizzare e portare paradossalmente alle estreme conseguenze un processo di imitazione in atto da tempo (durante il suo viaggio a Costantinopoli fra l'ottobre 710 e l'ottobre 711, l'ultimo ivi compiuto da un papa, prima di quello che vi compì Giovanni Paolo II nel 1979, il pontefice Costantino vi fu accolto con lo stesso meticoloso cerimoniale in uso per il "basileus") e che sarebbe proseguito anche a prescindere dalla falsificazione pseudocostantiniana. Con l'avvertenza che, da un certo momento in poi, e con sempre maggiore intensità a mano a mano che si andava completando la costruzione della "monarchia papale", a quel processo si affiancherà e farà seguito quello, parallelo e inverso, dell'"imitatio sacerdotii" da parte dei nascenti Stati nazionali europei (P.E. Schramm e E. Kantorowicz). Gli otto secoli e mezzo del papato medievale hanno visto una trasformazione radicale dell'estensione e della continuità d'esercizio - se non del fondamento, che è rimasto in sostanza lo stesso - del "principatus", o "primato", come diciamo noi oggi, che Gelasio I vantava per la Chiesa romana. Con buona approssimazione si può dire che, alla fine dell'età tardoantica, si distinguono sotto questo riguardo tre diversi ambiti territoriali, individuati da P. Battifol, e da lui disposti in ordine decrescente. Il primo può essere considerato la provincia ecclesiastica del vescovo di Roma. Comprendeva inizialmente tutta l'Italia e poi, da che, verso la metà del sec. IV, intorno a Milano, residenza imperiale, fu costituita una nuova provincia ecclesiastica, la sola Italia peninsulare (o "suburbicaria") e le isole. All'interno di quest'ambito, il papa ordinava i vescovi eletti dal clero e dal popolo locali, qualche volta li nominava e, se del caso, li deponeva. In un secondo momento, la parte orientale della provincia milanese avrebbe contribuito a dare vita alla provincia di Aquileia e, nell'Italia peninsulare, sarebbe stata costituita, a spese della romana, la provincia ravennate. Il secondo ambito coincideva con il resto dell'Occidente, compresa l'Africa. Su un piano generale, il vescovo di Roma era colui con il quale i vescovi d'Occidente si preoccupavano di trovarsi d'accordo nelle questioni concernenti la fede, regolandosi sulla normativa romana anche per questioni disciplinari, non senza però resistenze da parte di alcuni, per lo più africani. Nel terzo ambito, l'Oriente, il polo di raccordo fra le Chiese, costituito dalla Sede apostolica, entrava in concorrenza con quello rappresentato dall'imperatore, se non altro perché questi convocava i concili ecumenici. I vescovi orientali, se accettavano l'idea che Roma fosse diventata "domicilio degli apostoli", non potevano dimenticare che a Roma Pietro e Paolo, dottori della fede, erano arrivati muovendo dalle loro terre. In genere, essi si mostrarono fermamente decisi a regolare da sé i propri affari e contenziosi. Al giudizio di Roma si rimettevano solo nei momenti di crisi, quando qualcuno di loro avvertiva il bisogno di contrastare l'ingerenza del potere imperiale nelle questioni religiose. Tale situazione di partenza sarebbe stata modificata a favore delle pretese romane da un processo contrassegnato dapprima dall'alternanza di significative affermazioni, nelle terre di missione oltre Manica e oltre Reno, e di fasi di ripiegamento più o meno accentuate, nelle terre di più antica cristianizzazione, in coincidenza con la nascita delle Chiese territoriali, o nazionali, dei Regni romano-barbarici. Un processo purtuttavia deciso e irreversibile, se misurato nella prospettiva della lunga durata medievale, con una fiammata presto esauritasi, ma per molti aspetti precorritrice, subito dopo la metà del sec. IX, un ritorno di fiamma deciso alla metà dell'XI, quando, incassata la deriva dell'Oriente cristiano, il papato, nel corso di un secolo, arrivò a governare il primo e il secondo ambito, di cui si diceva, "quasi come un'unica diocesi" (G. Miccoli), raggiungendo un approdo, talmente consolidatosi nel corso del sec. XIII, sia sul piano pratico che su quello normativo, da non essere compromesso né dallo scacco subito da Bonifacio VIII nel suo braccio di ferro con il Regno di Francia e dal conseguente trasferimento ad Avignone dei suoi successori, né dallo scisma d'Occidente, né dalla ventata conciliarista della prima metà del sec. XV. La dottrina del primato spettante al titolare della Sede apostolica, formatasi nei primi quattro/cinque secoli di storia della Chiesa, sulla base dell'investitura che Matteo, in un famosissimo "loghion" (16, 18-19), attesta essere stata data, alla vigilia della Passione, da Gesù a Simone-Pietro; e quella della indefettibilità della fede dello stesso Pietro, per la quale Gesù rassicura quest'ultimo di avere pregato (Luca 22, 32), impersonando in lui - come intende Agostino - l'intera Chiesa fino alla fine dei tempi: hanno consentito ai padri del concilio Vaticano I di affermare nel preambolo del canone (il IV della IV sessione) in cui viene proclamato il dogma dell'infallibilità del vescovo di Roma, che esso è aderente alla "tradizione ricevuta dall'inizio della fede cristiana", in quanto deducibile da questi due passi della Scrittura. È stato però dimostrato che il concetto, se non anche il vocabolo usato per esprimerlo, di "infallibilità" fu l'"inattesa" creazione del teologo francescano Pietro Olivi (1247/48-1299) le cui opere furono peraltro condannate come eretiche al tempo di Giovanni XXII. Per Olivi, nelle parole di B. Tierney, "il primato di giurisdizione conferito a Pietro includeva necessariamente l'attributo di infallibilità [...]. L'inerranza della Chiesa universale implicava [...] l'inerranza del suo capo. Restava il problema di provare [...] che la fede destinata a non venire meno della Chiesa era davvero espressa infallibilmente negli insegnamenti del papa". E questo è, appunto, il passo compiuto dall'Olivi intorno al 1280. Avendo collaborato con Niccolò III alla stesura della bolla Exit qui seminat (14 agosto 1279), ove si dichiarava che la regola di s. Francesco era veramente evangelica e si ribadiva il valore della povertà volontaria, ed essendo preoccupato - sostenitore com'era dell'"usus pauper", cioè dell'uso limitato allo stretto necessario di ciò di cui si dispone, come parte integrante del voto francescano - che un altro papa assumesse in futuro una posizione diversa a tale riguardo (ciò che sarebbe effettivamente poi accaduto), Olivi intuì che, attribuendo l'infallibilità al papato, si limitava la sovranità di ogni singolo papa e, quindi, si mettevano al sicuro, che era poi quanto lo interessava, anche le pronunce, a lui gradite, di Niccolò III dall'eventuale sconfessione di un suo successore. Formulata in un contesto tanto particolare da non potere creare una tradizione, è difficile affermare che la proposta costituisca un tratto saliente della storia del papato medievale. Essa merita lo stesso il rilievo di una citazione in questa sede, perché evidenzia con grande anticipo le difficoltà che ha incontrato, e incontra tuttora, l'accettazione del dogma del 1870. Dei tratti salienti della storia del papato medievale almeno uno, quello concernente l'origine, non solamente del "dominio temporale" (territoriale) dei papi - posta di solito alla metà del sec. VIII, ma che Th.F.X. Noble propende ad anticipare al 680 -, bensì anche del loro "potere temporale" (l'utile distinzione è di O. Bertolini), non si manifesta nel pieno dell'arco di tempo attribuito di solito alla tarda antichità (secc. IV-VI), ma semmai nel suo ultimo segmento. Nell'"urbs regia" per eccellenza, Roma, la città-madre dell'Impero, aveva infatti tardato a verificarsi quel passaggio di attribuzioni dalle istituzioni civili al vescovo locale, di cui la legislazione imperiale di quei secoli registra puntualmente le fasi successive, poiché il legislatore tardoantico intendeva servirsi del prestigio che la Chiesa si era assicurata presso masse crescenti di cittadini dell'Impero, soprattutto nelle province orientali, ai fini di un rafforzamento indiretto dello Stato. È, insomma, in quei secoli che si produsse la clericalizzazione dello Stato, nella forma però di un'integrazione rigorosa dell'episcopato cattolico nell'organismo burocratico dell'Impero. Era un altro aspetto della "Chiesa imperiale", più incidente nel profondo di quello costituito dai concili ecumenici. Nell'Occidente altomedievale (diverso è ovviamente il discorso per il mondo bizantino), in una situazione caratterizzata dalla persistenza di numerosi tratti caratteristici dell'età tardoantica, ma non più inquadrati nel contesto statuale dell'Impero, si assisté al formarsi di un "ambiguo" intreccio fra i nuovi poteri pubblici ancora in via di definizione e il potente ordinamento ecclesiastico di ascendenza culturale romana, un intreccio che il rinnovato Impero d'Occidente si adopererà per normalizzare e volgere a proprio vantaggio, ponendosi come erede e successore dell'Impero romano cristiano (G. Tabacco). Sarà solo nei secoli centrali del medioevo che, prima, il papato riformatore sconfiggerà ogni velleità di dare vita a una "Chiesa imperiale" occidentale e, poi, i nascenti Stati nazionali cominceranno a riappropriarsi delle potestà temporali, che Costantino e i suoi successori, compresi quelli altomedievali, avevano delegato con larghezza ai vescovi, non senza incontrare resistenza da parte di questi e del papa con loro. La persistente presenza a Roma del Senato e della Prefettura urbana - con gli uffici, a cominciare dagli annonari - sia durante la dominazione ostrogota che durante la guerra goto-bizantina (quando la città ebbe a subire quattro assedi e passò cinque volte di mano, con il risultato di vedere decimato l'"ordo senatorius"), e a maggior ragione, nel dopoguerra, quando Giustiniano (527-565) si propose di ristabilire nell'Italia tornata "romana" l'ordine imperiale, furono invece d'ostacolo alla dilatazione del potere temporale dei papi, che gli interessati, del resto, non avevano nessun motivo di auspicare. Ben altre, in quei decenni, furono le loro preoccupazioni. Motivi attinenti, in un primo momento, alla guerra in corso e a un sospetto di tradimento da parte di papa Silverio, e, in seguito, alla controversia insorta a proposito dell'intenzione di Giustiniano di ingraziarsi i monofisiti, facendo condannare i Tre Capitoli, indussero l'imperatore - che pure non esitava a riconoscere il primato del vescovo di Roma, tanto è vero che, col suo comportamento, mostrava di non potere prescindere dal suo consenso prima di prendere decisioni in materia di fede che, contraddittoriamente, al tempo stesso, si riteneva legittimato ad adottare - a fare deporre Silverio (536-537), a fare deportare Vigilio (537-555) a Costantinopoli e a designare come suo successore Pelagio I (556-561). E, al di là di questi episodi, dovuti a circostanze eccezionali, la prassi per cui un nuovo papa, una volta eletto, doveva attendere il beneplacito imperiale prima di essere consacrato vescovo di Roma, la dice lunga sul rapporto di forza che si era instaurato durante e dopo la guerra goto-bizantina fra la vecchia e la nuova Roma. L'incalzare degli eventi aveva contribuito a rendere carta straccia la dottrina gelasiana, i cui "distinguo", per potere essere fatti valere, presupponevano l'equilibrio, ben presto rivelatosi molto fragile, fra papato, vescovi, Senato, governo ostrogoto e Impero d'Oriente. Certo, la prammatica sanzione del 13 agosto 554, con la quale Giustiniano promulgò le norme che dovevano regolare l'assetto amministrativo dell'Italia, restituita di diritto e di fatto all'Impero, non solo risulta emanata su richiesta di Vigilio, "venerabilis antiquioris Romae episcopi", ormai riconciliatosi con l'imperatore per avere sottoscritto le decisioni del quinto concilio ecumenico, ma contiene anche una clausola (§ 19), che assegnava al vescovo di Roma, accomunato però al Senato per il momento redivivo, il controllo dei pesi e delle misure, nonché la custodia dei relativi campioni. Al tempo stesso, altre clausole, che forse comportavano una minore responsabilità, ma avevano un rilievo di gran lunga maggiore, confermavano o, più probabilmente, richiamavano in vita, dopo la lunga parentesi bellica, una serie di servizi, funzioni, istituzioni e privilegi cittadini, tutti a carico dell'erario, come l'annona civica, le scuole pubbliche di grammatica, retorica, medicina e giurisprudenza, il restauro e/o la manutenzione di edifici pubblici, di mercati, di acquedotti, del porto, dell'alveo del Tevere. Tali servizi, di lì a poco, ammesso e non concesso che il loro decretato ripristino (quello delle scuole, per esempio) abbia davvero avuto luogo fra il 554 e il 569 (invasione longobarda), erano destinati a cadere per sempre in desuetudine, a meno che, senza che ormai nessun provvedimento legislativo intervenisse a sancire il passaggio dalla sponda civile a quella ecclesiastica, non se ne fosse fatto carico il vescovo di Roma. Già all'inizio del 593, quando forse ancora sussistevano un ultimo residuo di Senato e un depotenziato prefetto di città, Gregorio Magno constatava che appariva "spento nella Città ogni fasto di dignità secolare" (Omelia su Ezechiele II, 6), mostrando evidentemente di non apprezzare l'incremento del potere temporale della sua Chiesa, che il processo che giungeva a compimento sotto i suoi occhi necessariamente comportava. Ciò voleva in pratica dire che essa si accollava se non altro l'onere di provvedere al vettovagliamento cittadino e non più solo dei poveri e assimilati, suoi clienti abituali. A Roma, la "caduta dell'Impero", perché di questo in realtà si trattava, anche se avrebbe continuato a farne nominalmente parte fino alla metà del sec. VIII, avveniva così con un ritardo di più d'un secolo rispetto alla data canonica, trovando il papato in una condizione di subalternità nei confronti dell'Impero d'Oriente ben diversa da quella in cui Leone Magno e Gelasio I avevano vissuto, rispettivamente, i prodromi e le immediate conseguenze della caduta "senza rumore" del 476. Trovava però anche insediato sul soglio di Pietro l'ex prefetto di città, ex monaco, ex diacono e ex apocrisiario a Costantinopoli Gregorio, ultimo dei quattro grandi "dottori della Chiesa" antica, riconosciuti per tali già da Beda il Venerabile (morto nel 735), e solo fra di essi a essere stato anche papa, in coincidenza con uno dei passaggi più difficili fra i molti che costellano il percorso accidentato del papato. I ripetuti tentativi che gli imperatori hanno messo in atto fino alla fine del sec. VII per riguadagnare, con formule che sfumavano la portata delle decisioni antimonofisite di Calcedonia, il consenso dei dissenzienti - tanto più minacciosi per la "respublica" in quanto concentrati in alcune regioni ad alta conflittualità teologica (Siria, Egitto), che infatti, in odio all'ortodossia imperiale, saluteranno come liberatori gli arabo-musulmani invasori di quelle terre - incontrarono sempre la ferma opposizione del papato, salvo i casi di Anastasio II (496-498) al tempo dello scisma acaciano e dell'iniziale adesione di Onorio I (625-638) al monotelismo. L'intransigenza dei papi in difesa del "depositum fidei" andò però sempre accompagnata da attestazioni di fedeltà all'imperatore, nel quale non esitavano a indicare, con Gregorio Magno, il loro "dominus ex terrena potestate". Ma la logica implicita nella natura stessa dell'Impero cristiano faceva sì che l'opposizione a un decreto imperiale, indipendentemente dal suo contenuto, si configurasse come un atto sedizioso. Il processo e la condanna alla pena capitale, tramutata poi in esilio perpetuo, di papa Martino I (649-655), ch'era stato catturato e deportato da Roma a Costantinopoli, anche se vennero giustificati con l'accusa di tradimento per l'atteggiamento (forse ambiguo) da lui tenuto nei confronti dell'esarca d'Italia, Olimpio, che s'era ribellato all'Impero, miravano, in realtà, a punire in modo esemplare chi aveva convocato il concilio romano del 5-31 ottobre 649, nel corso del quale erano stati condannati i due editti imperiali, che, in forma più o meno esplicita, avevano avallato nel 638 e nel 648 le tesi dei monoteliti e dei monoenergeti, in quanto intaccavano le conclusioni del concilio di Calcedonia. Poco più di un anno prima che morisse a Cherson, in Crimea, Martino aveva subito l'oltraggio di vedere eletto e consacrato il suo successore, in seguito a pressioni della corte di Costantinopoli e del nuovo esarca d'Italia. Egli è stato l'ultimo papa venerato come martire, mentre il suo predecessore Teodoro (642-649) è stato il primo del quale si sappia che ha traslatato le reliquie di due martiri all'interno delle mura cittadine, ciò che non era consentito dalle leggi romane. Nel 403, s. Girolamo aveva scritto: "movetur Urbs sedibus suis" ("la Città si sta indirizzando altrove"), a proposito del popolo romano che accorreva in massa alle tombe dei martiri fuori le mura. Ora erano i martiri che compivano lo stesso tragitto in senso inverso. Poiché Martino era stato consacrato il 5 luglio 649 è impossibile pensare che abbia avuto il tempo di preparare il concilio che si tenne tre mesi dopo. Vi aveva provveduto il suo predecessore, un greco di Gerusalemme, che aveva fatto parte della cerchia del patriarca Sofronio (634-638), acerrimo avversario del monotelismo. Teodoro si era adoperato per fare di Roma il nuovo centro dell'opposizione contro questa dottrina, col risultato che, oltre a uno stuolo di dotti monaci orientali, vi era accorso anche Massimo il Confessore, monaco di Crisopoli (l'odierna Scutari), il più illustre teologo del suo tempo, che ebbe una parte preponderante, insieme ai monaci greci residenti stabilmente a Roma e a quelli venuti per l'occasione, nella stesura degli atti sinodali. Il tutto era stato redatto in greco e poi tradotto in latino da monaci greci bilingui, per renderlo accessibile ai vescovi della provincia ecclesiastica romana provenienti da sedi non soggette alla dominazione longobarda, allo stesso Martino che, umbro di Todi, il greco non lo conosceva, e ai pochi vescovi delle altre provincie ecclesiastiche italiane, che unitamente a qualche vescovo africano e a Stefano di Dora (in Palestina), ma in assenza di altri vescovi occidentali o orientali, furono i soli che presero parte al concilio, mentre Massimo e i suoi collaboratori grecofoni si tennero ai margini dell'assemblea, ai cui lavori parteciparono solo in qualità di auditori. Quello dell'ottobre 649 fu, dunque, uno strano concilio, nel quale praticamente non si discusse, ma ci si limitò a approvare testi preconfezionati, e non da coloro che avrebbero poi seduto fra i padri conciliari, i quali non sarebbero stati in grado di farlo. Ma fu anche un concilio che si tenne a Roma, sotto la presidenza del vescovo di Roma, e ad esso Massimo il Confessore non esitò a attribuire il valore di un concilio ecumenico, il sesto della serie, al pari dei cinque che si erano finora tenuti in Oriente, sotto la presidenza dell'imperatore; fu, insomma, un'affermazione solenne del primato universale della Sede apostolica e, insieme, del carattere di "urbs regia" della vecchia Roma, che papa Martino pagò con la vita, come se si fosse trattato di un "crimen laesae maiestatis". A non lasciarne sbiadire il ricordo, pensarono le comunità di monaci orientali che continuarono a cercare rifugio a Roma contro le persecuzioni di cui erano fatte oggetto in patria. Questa diaspora, che durò fino al sec. IX inoltrato, fece di Roma "senza alcun dubbio uno dei luoghi privilegiati dei rapporti fra il mondo bizantino e l'Occidente durante l'alto medioevo" (J.-M. Sansterre), anche se contribuì largamente a radicalizzare gli scontri fra Chiesa romana, Impero e Chiesa costantinopolitana, di modo che solo per una convenzione si può ancora considerare il 1054 come la data della brusca rottura della comunione fra le due Chiese, mentre invece anche nell'alto medioevo i periodi di disunione prevalsero su quelli di unione. Le occasioni di disunione fra la vecchia e la nuova Roma, collegate ai tentativi compiuti da imperatori e patriarchi, dal tempo dello scisma acaciano (484-519) in poi, per riformare surrettiziamente le decisioni di Calcedonia concernenti il monofisismo, ebbero fine solo col concilio del 680-681, che condannò nuovamente il monotelismo, quando ormai Siria ed Egitto erano cadute in mano agli Arabi. Anche il dossier per questo concilio, che sarà computato come il sesto vero concilio ecumenico, fu predisposto per lo più dai monaci greci di Roma, quattro dei quali vi presero anche parte. Ma questo, a differenza di quello del 649, fu un concilio ecumenico celebrato secondo la consolidata prassi della Chiesa imperiale: si tenne a Costantinopoli (è il terzo dei costantinopolitani), fu convocato e presieduto dal "basileus" Costantino IV; si concluse il 16 settembre 681, alla sua presenza, con una solenne adesione dei padri conciliari alla "proposta" recata dai legati del siciliano e bilingue papa Agatone (678-681). Vinta la contesa, la Chiesa di Roma rientrava così disciplinatamente nei ranghi della Chiesa imperiale, anche se Agatone e i vescovi del sinodo romano del marzo 680, nella loro lettera a Costantino IV, avevano arditamente menzionato il sinodo del 649 come tenuto "in questa città dei romani soggetta al vostro cristianissimo potere sotto papa Martino [condannato ventotto anni prima per tradimento da un tribunale imperiale] di apostolica memoria". Ma c'è anche dell'altro. Benché lo sforzo di Agatone di mobilitare le Chiese dell'Occidente in vista del concilio che si sarebbe tenuto di lì a poco, invitandole a pronunciarsi in merito alla questione all'ordine del giorno, si fosse risolto in un quasi fallimento - solo quattro vescovi transalpini, due dei quali si trovavano a Roma per altre ragioni, presero parte al citato sinodo del marzo 680, cui presenziarono centoventicinque vescovi per lo più italiani -, la "suggestio" approvata in tale sede fu fatta pervenire al "basileus", come se a formularla fossero stati "tutti i sinodi dipendenti dal sinodo della Chiesa apostolica". E, nelle due lettere di accompagnamento, sia Agatone che i padri conciliari si mostrarono consapevoli della forza che derivava loro dal fatto di avere alle spalle il grande spazio occidentale, un mondo ancora incompiutamente strutturato dal punto di vista ecclesiastico, ma pronto a fare da cassa di risonanza, pur nella sua complessiva arretratezza civile e culturale (che veniva ammessa, e addirittura ostentata di fronte ai supercolti bizantini, responsabili però di tutte le eresie), alle intransigenti pronuncie pontificie in materia di fede. Del resto, anche papa Martino, la cui vicenda si era svolta in una cornice sostanzialmente mediterranea e tardoantica, con l'Africa cristiana ancora presente e attiva sulla scena, si era dato da fare perché gli atti del concilio del 649 fossero recapitati a Costantinopoli da una legazione di vescovi franchi. Il contraccolpo della caduta, a suotempo, dell'Impero romano d'Occidente e del consolidarsi, nello spazio che gli era appartenuto, dei Regni romano-barbarici, dopo che la riconquista da parte di Giustiniano dell'Africa, dell'Italia e di una parte della Spagna era parsa per un momento segnare un'inversione di tendenza - ma l'invasione longobarda, nel 569, pose presto fine a ogni illusione al riguardo -, si era inevitabilmente ripercosso anche sul patriarcato romano. Già gli immediati predecessori e, poi, i successori di Leone I, finirono col venirsi a trovare allo scorcio del sec. VI in una situazione alla quale non erano preparati. Dei tre ambiti sopra delineati in riferimento ai diversi gradi di esercizio del loro "principatus", una parte non irrilevante del primo (corrispondente ai Ducati longobardi di Tuscia, Spoleto e Benevento) e buona parte del secondo (esclusi la testa di ponte ristabilita da Giustiniano in Spagna, l'Africa e l'Illirico) non erano infatti più sotto il controllo dell'Impero. Papa Leone aveva potuto ben dire che l'Impero "quod pax Christiana subjecit" era più esteso di quello "quod [...] bellicus labor subdidit". Ma restava il fatto, da lui stesso definito subito dopo come provvidenziale, ch'era stata l'unione di "molti Regni" in un solo Impero ad aver reso i popoli accessibili ("pervios") all'evangelizzazione. Ed ecco, invece, che ora i suoi successori si trovavano di fronte, proprio nell'area di loro particolare pertinenza, a una molteplicità di Regni, in ciascuno dei quali a un substrato di indigeni più o meno romanizzati e cristianizzati (le campagne erano lungi dall'essere state conquistate alla nuova fede: ci vorranno secoli per questo) si era sovrapposto un superstrato di invasori germanici, ancora, in maggioranza, pagani, anche quando i loro capi si erano fatti battezzare, abbracciando però il cristianesimo nella versione "ariana", condannata dal concilio di Nicea del 325. Essendosi rarefatti, anche per le sopravvenute difficoltà nelle comunicazioni, i rapporti, per altro non ancora istituzionalizzati, che collegavano Roma alle Chiese del patriarcato d'Occidente, queste ultime manifestarono la tendenza a organarsi intorno al sovrano del Regno in cui erano incluse, il quale, da parte sua, sentendosi erede del governatore o del generale romano, al cui posto era subentrato, si ingeriva, come quello a suo tempo faceva, nelle cose della Chiesa, comprese le nomine dei vescovi. Era come se, in Occidente, il modello della Chiesa imperiale si fosse frantumato insieme con l'Impero medesimo, riproducendosi in più esemplari, che ne ripetevano, deformati e su scala minore, i tratti essenziali. Ciò che non ha nulla a che vedere con una pretesa "germanizzazione" della Chiesa. Quella di chi pretende di vedere all'opera nell'alto medioevo precarolingio uno stabile governo centrale della Chiesa, capace addirittura di gestire dall'alto un'attività missionaria, è un'"idea antistorica": l'invio da parte di Gregorio Magno di missionari nella Britannia anglosassone non è che "un particolare del quadro d'insieme, un particolare che non coglie l'aspetto tipico del periodo" (Th. Schieffer). Lo stesso Beda, nella Historia ecclesiastica gentis Anglorum (II, 1), parafrasando le parole di Paolo (1 Corinzi 9, 2), vanta l'esclusività anglosassone dell'apostolato di papa Gregorio: "se per altri non è apostolo, lo è però per noi". È stato fra l'altro dimostrato che egli non ha mai pensato di promuovere una missione presso i Longobardi, impedito com'era da ragioni di carattere politico (conflitto fra Impero e Longobardi) e politico-ecclesiastico (scisma tricapitolino). Ma il patrimonio di prestigio che i papi, ponendosi come successori di s. Pietro, avevano accumulato soprattutto nel sec. V fece sì che anche nella nuova, ingrata situazione, continuassero a costituire un punto di riferimento, intermittente ma affidabile, per le "Chiese nazionali" dell'Occidente romano-barbarico, pur rimanendo, per necessità di cose, sostanzialmente inattivi nei loro confronti. Assorbiti in misura sempre maggiore dagli obblighi derivanti dalla supplenza di fatto dell'autorità imperiale (in materia, fra l'altro, di difesa e di approvvigionamento della città di Roma), che le inadempienze altrui li costrinsero a assumere, essi razionalizzarono lo sfruttamento dei "Patrimonia s. Petri", i grandi complessi in cui, fino dal terzo decennio del sec. VI, furono concentrati i possessi fondiari della Chiesa romana, cospicui soprattutto in Sicilia. A questo fine, in controtendenza rispetto all'Occidente, si servirono largamente della documentazione scritta. Nel momento in cui una buona parte d'Italia - quella conquistata dai Longobardi - rischiava di uscire dall'area della civiltà dello scritto e diminuiva anche di molto il volume dei contatti epistolari fra la Chiesa romana e le altre Chiese dell'Occidente romano-barbarico, l'amministrazione dei dispersi "Patrimoni di s. Pietro", così come ci è dato di vederla funzionare in qualche caso giorno per giorno attraverso il Registro delle lettere di Gregorio Magno, appare fondata prevalentemente sul documento scritto. Negli "scrinia" del patriarchio Lateranense, esemplati su quelli imperiali, erano anche redatte in modo tuttora consono alla dignità dell'istituzione da cui venivano spedite (e ricopiate su registri) le lettere papali (dirette per lo più a vescovi e abati della provincia ecclesiastica romana e alle autorità imperiali, più di rado ai grandi ecclesiastici e laici dell'Occidente), nonché le biografie dei papi (Liber pontificalis); e curata l'archiviazione degli atti dei concili romani, e non romani (questi ultimi inviati da sempre a Roma per debita conoscenza), e delle lettere in arrivo. Un'accumulazione sistematica di papiri e/o pergamene, che, quando fossero stati ristabiliti i rapporti con la periferia del patriarcato, avrebbe consentito un esercizio del potere giurisdizionale confortato dalla possibilità di un costante richiamo ai precedenti. Ma che, per l'intanto, dava modo di trovare una porta cui bussare con esito sicuro a chi, da lontano, conservandosi fedele al culto di s. Pietro, attendeva da Roma un'indicazione circa la norma o il precedente cui attenersi per risolvere un caso delicato, non certo, per il momento, la soluzione di esso e, tanto meno, l'autorizzazione a derogare, nel risolverlo, a una norma conosciuta, interventi nei quali si sarebbe manifestata in futuro l'autorità derivante ai vescovi di Roma dal possesso delle sacre chiavi. Senza governare per ora nel senso proprio della parola su quello che era stato il patriarcato d'Occidente, la Chiesa romana era, insomma, in grado di fornire, su richiesta, un prezioso supporto normativo alle Chiese nazionali. Fra i documenti conservati nell'episcopio lateranense occuparono per tempo un posto di grande rilievo le "decretali", cioè a dire lettere, o brani di lettere, di papi, cui si attribuiva il valore di legge come ai "responsa" imperiali (la più antica giunta fino a noi è stata redatta da papa Siricio: 385-399), di cui fra la fine del sec. V e gli inizi del VI furono compilate a Roma le prime collezioni. In omaggio, dunque, a un'antica consuetudine - attestata anche da s. Girolamo, che, nell'Apologia adversus libros Rufini (III, 20), essendogli stato contestato di avere falsificato una lettera di papa Anastasio I (399-401), replicava: "perché non la cerchi nell'archivio della Chiesa romana?" -, se sorgeva una disputa circa l'autenticità di una lettera papale, è a quell'archivio che si faceva ricorso. Lo stesso convincimento mostrerà di nutrirlo anche il monaco anglosassone Wynfrith-Bonifacio (675 ca.-754), che, quando scrive al papa, lo fa di solito per avere delucidazioni su norme esistenti, di cui il papa è riconosciuto depositario, a maggiore titolo di chiunque altro. Ma se giunge al suo orecchio la notizia che qualcuno ha ottenuto da Roma la licenza di poter derogare da qualche norma stabilita, egli non manca di scrivere al papa per denunciare quello che, dal suo punto di vista, non può essere che il frutto di un equivoco o di un imbroglio. Non fa quindi specie che, proprio all'inizio del pontificato di Niccolò I (858-867), l'arcivescovo di Sens Venilone, dovendo prendere dei provvedimenti nei confronti del vescovo di Nevers, Erimanno, ch'era uscito di senno, mandasse a chiedere al neoeletto pontefice la copia integrale di una decretale di papa Milziade (311-314), di cui aveva vagamente sentito parlare (in realtà, si trattava di un falso) e che doveva trovarsi certamente presso di lui, la quale avrebbe prescritto che nessun vescovo potesse essere deposto senza il consenso della Sede apostolica. Allo stesso modo la Sede apostolica si era segnalata per avere conservato e tramandato, integralmente e compiutamente attraverso i secoli, questa volta in senso non tanto materiale quanto anche, e soprattutto, ideale, il "depositum fidei", così come erano venuti costituendolo via via in misura principalissima gli atti dei diversi concili ecumenici. In altre parole, il ricorso a Roma che aveva il suo fondamento storico e ecclesiologico nella doppia origine apostolica di tale sede, si risolveva nel più dei casi, non nel sottoporre a quell'autorità giudicata da tutti suprema una questione da dirimere, bensì nel richiederle una norma autentica in base alla quale la questione stessa sarebbe stata poi debitamente risolta in sede locale. La decisione del re dei Franchi Clodoveo (481-511), giunto a estendere il suo potere su buona parte della Gallia, di convertirsi, primo fra i sovrani germanici, dal paganesimo, cui il suo popolo era rimasto tuttora fedele, non al cristianesimo ariano, ma direttamente a quello di fede niceno-costantinopolitana, cioè al cattolicesimo, ebbe l'effetto di spingere gli altri sovrani dei Regni romano-barbarici a seguire il suo esempio. Ultimi a farlo, addirittura alla fine del sec. VII, con conseguenze che si sarebbero rivelate fatali per il loro popolo, sarebbero stati i re longobardi d'Italia, che esitarono a lungo prima di rinunciare all'arianesimo, cui avevano aderito alla vigilia dell'invasione della penisola e che, insieme ai residui del paganesimo originario e, persino, agli ultimi strascichi dello scisma tricapitolino serpeggianti fra i cattolici del Regno, era subentrato come principale tratto distintivo di un'identità longobarda a rischio di esaurimento. La scelta di Clodoveo valse invece ad assicurare ai Franchi, in particolare agli occhi del papato, una sorta di primogenitura nell'ambito dell'Occidente romano-barbarico, della quale essi per primi acquisteranno piena consapevolezza, al punto che, nel prologo esteso della Lex Salica (sec. VIII), la "gens Francorum inclita" venne equiparata al popolo di Dio dell'Antico Testamento. Il seme gettato da Clodoveo diede tutti i suoi frutti all'incirca duecentocinquant'anni più tardi: non tanto in conseguenza della vittoria, pure importante sul piano politico-militare, ottenuta dal maestro di palazzo Carlo Martello, nonno di Carlomagno, a Poitiers, nel 733, sui Berberi islamizzati che avevano conquistato la Spagna, che talvolta è ancora prospettata anacronisticamente come la vittoria di una cristianità, di là da venire, sull'islamismo, ma che non fu avvertita come tale dai contemporanei; quanto per il carattere cattolico romano che Wynfrith-Bonifacio impresse alla sua azione di apostolato missionario, svolta con notevole successo nei territori oltre Reno confinanti col Regno franco (Frisia, Assia, Turingia), facendo sempre regolarmente capo al vescovo di Roma, da cui volle, a più riprese, legittimate le sue iniziative. Nell'871 l'imperatore Ludovico II, nel rispondere al "basileus" Basilio I, che aveva contestato duramente i meriti dei Franchi, scriverà: "non è solo perché sono stati rapidi nell'abbracciare la fede, che i Franchi hanno dato al Signore frutti abbondanti e ricchissimi, ma anche perché hanno convertito parecchi altri alla fede che salva" (avrebbe dovuto dire: i missionari anglosassoni spalleggiati dai Franchi). Prima ancora che essi, e in particolare Bonifacio, predicassero il vangelo, nel nome di Pietro e del suo vicario terreno, al di là del vecchio "limes", in terre nelle quali i legionari di Roma non si erano mai spinti, la conquista arabo-musulmana dell'Africa settentrionale e della Spagna, già sullo scorcio del sec. VII e all'inizio del successivo, con la conseguente cancellazione delle Chiese ch'erano state di Agostino d'Ippona e di Isidoro di Siviglia, aveva sgombrato il terreno dagli unici altri possibili concorrenti in grado di contrastare il primato della Sede apostolica nell'area dell'ex Impero romano d'Occidente. C'era, è vero, da fare i conti con le sempre più emergenti Chiese insulari celtico-irlandese e anglosassone. In specie la prima, con i suoi abati-vescovi, del tutto anomali rispetto alla tradizione urbanocentrica della cattolicità mediterranea, si presentava come possibile modello alternativo a quello costituito dalla romana. Ma la seconda, dopo un momento di esitazione, anche perché memore della primitiva cristianizzazione della Britannia, promossa da Gregorio I, finì con l'optare decisamente per la Chiesa di Pietro, "quel portinaio, che non voglio contraddire", come si espresse al concilio di Whitby (663-664) il re di Northumbria, Oswy. Rispetto alla novità rappresentata dal ripristino di un contatto diretto fra Roma e la periferia dell'ex Impero romano d'Occidente, i progressi sul piano istituzionale e giurisdizionale appaiono invece scarsi e malcerti. Dovendosi provvedere alla strutturazione ecclesiastica delle terre conquistate alla fede da Bonifacio, quest'ultimo e i suoi interlocutori romani pensarono necessariamente alla "provincia" (l'arcivescovo metropolitano, che riceveva il pallio dal papa, e i vescovi suffraganei, ciascuno in un ambito territoriale, e di competenze, ben delineato). Erano, questi, i modelli organizzativi che, a suo tempo, la Chiesa aveva mutuato dall'Impero romano post-dioclezianeo. Ma le difficoltà si presentavano addirittura per l'istituzione delle diocesi. Bonifacio aveva istituite le prime tre (Büraburg, Erfurt, Würzburg) nel 742, sulla base dei poteri conferitigli dieci anni prima da Gregorio III, e attendeva da Roma, per iscritto, una conferma definitiva del suo operato. Papa Zaccaria (741-752) acconsentì a spedire i tre diplomi, ma invitò Bonifacio a rimeditare sulla questione, tenendo presente un antico canone conciliare, espressione di una civiltà urbanizzata come quella tardo-antica: era proprio sicuro Bonifacio che le località scelte a sede delle nuove diocesi fossero "città" degne di ospitare un vescovo, come appunto richiedeva quel canone? Prevedendo forse la obiezione, nella lettera in cui dava notizia delle tre nuove fondazioni, Bonifacio era rimasto prudentemente sulle generali: la prima era "in castello [...] alteram in oppido [...] tertiam in loco [...] qui fuit iam olim urbs". Invece le difficoltà che ostavano alla creazione di una provincia ecclesiastica tutta sua - ch'era il sogno di Bonifacio, come lo era stato di Willibrord in Frisia - non erano di ordine sociologico-insediativo, ma politico. Una operazione del genere, alla quale dovevano tenere dietro altre, non era infatti pensabile senza l'appoggio del potere politico; e il maestro, o i maestri, di palazzo carolingi, non intendevano accontentare Bonifacio. È da ritenere che, anche volendolo, davvero non potessero farlo. Le difficoltà di Bonifacio, puntualmente registrate nei suoi sfoghi con gli amici anglosassoni, derivavano in gran parte dalla crisi gravissima che attraversava in quel tempo il Regno franco. Alcuni canoni dei famosi concili promossi da Bonifacio sono al centro delle discussioni degli storici moderni sulle origini del feudalesimo. La vicenda dei beni espropriati alle Chiese da Carlo Martello e ridistribuiti ai suoi fedeli, e poi, sotto Carlomanno e Pipino, della loro restituzione ai legittimi proprietari, che però non ne rientravano effettivamente in possesso, ma si sarebbero dovuti accontentare di un censo pagato dai beneficiari, è troppo radicalmente estranea alla logica romana che guidava il disegno di riforma ecclesiastica patrocinato da Bonifacio, perché questi non dovesse sentirsi spaesato. È a questo punto che la storia passa oltre la persona di Bonifacio, il quale, dinanzi all'impossibilità di realizzare il suo progetto di una provincia ecclesiastica, si fece costruire da Carlomanno il monastero di Fulda, proprio al centro del territorio in cui sorgevano le diocesi da lui fondate. Il processo da cui avrebbero preso forma la Chiesa, il papato e l'Impero d'Occidente medievali, mettendo davvero fine all'età tardoantica, anche per chi tende ad estenderla a dismisura, fu innescato dai decreti iconoclastici del "basileus" Leone III Isaurico (726 e 730). La ferma opposizione di papa Gregorio II contro questa ulteriore "novità" in materia di fede - che arrivava ad investire la pratica religiosa - trovò infatti una larga eco nelle popolazioni e negli stessi presìdi bizantini in Italia, che insorsero contro i duchi di nomina imperiale, eleggendone altri al loro posto. Leone III, da parte sua, replicò con la confisca dei Patrimoni di s. Pietro in Calabria e in Sicilia e con il distacco dall'obbedienza romana delle diocesi dell'Illirico, calabresi e siciliane. Quanto bastava per spezzare definitivamente il delicato equilibrio, che, dalla fine del sec. V, aveva consentito la permanenza della Chiesa di Roma nell'orbita dell'Impero. A crearne uno nuovo, si candidarono i Longobardi, con re Astolfo (749-756), il quale dichiarò che l'intero "popolo dei Romani" della penisola era stato "consegnato a lui dal Signore". Anche se, essendosi convertiti al cattolicesimo, i Longobardi si presentavano ormai con le carte in regola, i papi non avevano mutato l'atteggiamento di assoluta diffidenza nei loro confronti, che aveva indotto a suo tempo Gregorio Magno a dichiarare che era terrorizzato dall'idea di diventare, se non lo era già, "vescovo non dei Romani bensì dei Longobardi, i patti con i quali sono come spade, e il loro favore, una punizione". All'incirca un secolo e mezzo dopo, i suoi successori, per avere nel frattempo maturato un pregiudizio favorevole verso i Franchi, corsero, invece, senza esitazioni, il rischio, che pure era altrettanto reale, di ridursi ad essere i primi vescovi della Chiesa territoriale franca (P. Classen). Se tale eventualità non si verificò, fu solo perché, alla scadenza decisiva, quella Chiesa sarebbe stata ormai franca soltanto di nome. Di fatto, essa, procedendo nella direzione indicata da s. Bonifacio, si sarebbe andata sempre più configurando come una Chiesa territoriale o, se si preferisce, nazionale, che tendeva ad atteggiarsi a "Chiesa universale" e, dunque, si riconosceva con slancio nel culto di s. Pietro e si richiamava senza riserve all'insegnamento di cui Roma era depositaria. Con questo, però, di anomalo rispetto alla prospettiva di un Leone I, che il sovrano franco riteneva che, non al papa, ma a lui essa fosse stata "affidata perché la governasse tra le onde burrascose di questo secolo". Lo si legge nella prefazione ai Libri Carolini, di cui figura come autore lo stesso Carlomagno, re dei Franchi, "che, con l'aiuto di Dio, governa sulla Gallia, sulla Germania e sull'Italia, nonché sulle province ad esse finitime". Essi erano volti a confutare le decisioni del secondo concilio di Nicea (787), che aveva sì condannato l'iconoclastia, ma aveva anche, a giudizio di Carlo e dei suoi consiglieri ecclesiastici, concesso troppo agli iconoduli, con conseguenti rischi di finire nell'idolatria. Tale presa di distanza era tanto più grave in quanto i padri di Nicea avevano fatto propria la posizione intermedia - che ammetteva il culto delle immagini, in quanto rivolto a chi vi è raffigurato, ma escludeva la loro venerazione, in quanto oggetti materiali -, risalente a Gregorio Magno e riproposta da papa Adriano I (772-795) come piattaforma del concilio. Il concilio di Francoforte, indetto e presieduto da Carlo sei anni prima del Natale 800 (giugno 794), cui presero parte vescovi delle province a lui soggette, legati papali e rappresentanti della Chiesa anglosassone, contestò apertamente l'universalità del concilio di Nicea, che pure era stato presieduto "more solito" dalla "basilissa" Irene e da suo figlio Costantino IV. Ma Francoforte non inaugurò, come ci si sarebbe potuti attendere, una nuova serie di concili ecumenici imperiali, questa volta occidentali. Infatti, solo in un primo momento, finché visse Carlomagno, la restaurazione dell'Impero in Occidente sembrò a tratti sul punto di riproporre, nella parte di "orbis Romanus" che era caduta nelle mani dei barbari e ora appariva quasi tutta riunificata sotto il sovrano franco, il modello tardoantico della "Chiesa imperiale". Come, a suo tempo, venne imputato a Costanzo II, figlio e successore di Costantino, anche Carlo si faceva chiamare "episcopus episcoporum" (Notkero Balbulo, Gesta Karoli I, 25). Quanto basta comunque per confutare la tesi di un'adesione costante dell'Occidente alla "teoria dei due poteri", in contrapposizione all'Oriente "cesaropapista". L'attenzione che i successori di Gregorio II furono indotti a dedicare all'evolversi della situazione italiana aveva prodotto un restringimento dei loro orizzonti politico-ecclesiastici. Nella biografia di Stefano II (752-757) del Liber pontificalis, si accenna agli sforzi da lui compiuti per rendere più familiari con le Sacre Scritture i chierici di Roma e, in particolare, quelli del "palatium Lateranense", nonché, in un passo non riportato in tutti i manoscritti, alla sua preoccupazione di tenerseli buoni, fornendoli di vesti preziose e pagando i debiti di quelli che erano finiti nelle mani degli usurai. Sono manifestazioni della "crescente laicizzazione della corte pontificia" (N. Huyghebaert e P. Rabikauskas). Questo fenomeno era destinato ad accentuarsi dopo che, in seguito alla conquista di Ravenna da parte dei Longobardi (750), i superstiti Ducati bizantini, compreso quello di Roma, vennero a trovarsi in una situazione di sostanziale autonomia. A Roma, infatti, non fu eletto, come nelle Venezie o a Napoli, un nuovo duca di estrazione locale, ma la conquistata autonomia fu gestita in prima persona dal papa. Su tutto ciò non influirono comunque, come accade tuttora di sentire, né la Donazione di Costantino, né le donazioni carolingie. L'acquisto del dominio temporale provocò un cambiamento dell'immagine del papato, e quindi nelle aspettative di coloro che ambivano a assicurarsi il controllo di un centro di potere, che ora era, apertamente, anche di carattere politico-territoriale. Rivelatori immediati di questo cambiamento sono, da un lato, la successione, nel 757, di Paolo I al fratello Stefano II (per la prima volta due fratelli si succedevano sul soglio di Pietro), con cui l'aristocrazia locale, alla quale essi appartenevano, mise in atto o, più probabilmente, subì da parte di uno dei gruppi familiari in cui era articolata, forte dell'appoggio di un settore, almeno, del personale del "palatium Lateranense", nelle cui file avevano entrambi militato, un tentativo di instaurazione dinastica, analogo a quelli che avrebbero caratterizzato gli altri ex Ducati bizantini, a cominciare dal napoletano; e, dall'altro, la drammatica sequenza, alla morte di Paolo I (767), di due tentativi di occupazione a mano armata della cattedra papale, operati, il primo, da un casato della Tuscia romana, con addentellati in città, che cercò di imporre come papa il laico Costantino, fratello di Toto "duca" di Nepi; il secondo addirittura dai Longobardi sia del Regno che di Spoleto, che fecero eleggere Filippo, un prete addetto a un monastero sull'Esquilino. Fu Stefano III (768-772) a restaurare l'ordine, nel concilio Lateranense dell'aprile del 769, cui prese parte una folta delegazione di vescovi franchi inviata a Roma, su sua richiesta, dai "patrizi dei romani" Carlomagno e Carlomanno, da poco subentrati al defunto padre Pipino. Secondo il Liber pontificalis, erano tutti "molto dotti nelle divine Scritture e nei segreti dei santi canoni" - a differenza, parrebbe, di quello che era in grado di offrire la piazza romana. Fra le decisioni prese in tale sede, una escludeva che potesse essere eletto papa chi non era né diacono, né prete; con l'altra, la formula dell'elezione "per clerum et populum" veniva riproposta nel senso che ad eleggere il nuovo papa fosse il solo clero, mentre ai Romani veniva concesso solamente di recarsi al palazzo per salutare il prescelto. Lasciando impregiudicata la questione ultradibattuta concernente la fase preparatoria dell'incoronazione imperiale del Natale 800, e le condizioni e il modo in cui avvenne, il fatto stesso che abbia avuto luogo sta a significare che Roma aveva conservato intatta, grazie alla presenza del papato, la sua natura di "urbs regia". Sta anche a dire che i papi non ebbero la forza o rinunciarono da sé a farsi essi stessi imperatori del restaurato Impero d'Occidente, secondo il proposito adombrato nella Donazione di Costantino, redatta probabilmente da un chierico di S. Salvatore al Laterano. Riluttante, come si mostrò subito, a sottolineare l'impronta "romana" dell'Impero dei Franchi, Carlomagno, seguendo in ciò l'esempio di Pipino e, soprattutto, di s. Bonifacio, si adoperò invece per rendere "romana", cioè universale, la Chiesa franca, promovendo, in primo luogo, la romanizzazione del culto praticato nelle Chiese del suo Regno. Non solo i libri liturgici in uso a Roma, bensì anche la principale collezione romana di antichi canoni conciliari e decretali papali, la Dionysio-Hadriana, passarono allora le Alpi, talvolta nei bagagli al seguito di Carlo. E, negli "scriptoria" d'Oltralpe più direttamente influenzati dal sovrano carolingio, quei testi, dopo essere stati contaminati con testi locali, furono ricopiati in più esemplari, che rifluirono verso la periferia dell'Impero, diffondendo dovunque quello che veniva accreditato puramente e semplicemente come il verbo di Roma. Una sorte analoga toccò a una delle tante regole monastiche che erano state compilate nei secoli precedenti: quella che andava sotto il nome di Benedetto da Norcia. Gregorio Magno aveva lodato per tempo il "singolare discernimento" che la caratterizzava ("discretione praecipuam"), ma questo giudizio non era stato sufficiente a favorirne il decollo. A Roma, neanche il monastero fondato da Gregorio seguiva la Regola di Benedetto. Fu solo quando Carlomagno si recò a Montecassino nel 787, ne prese visione e ottenne che un esemplare di essa gli fosse inviato ad Aquisgrana, che finì coll'imporsi sulle altre. Poiché infatti la monarchia franca, con Carlo e poi con Ludovico il Pio, aveva progettato di ridurre a unità legislativa tutti i monasteri dell'Impero, Benedetto abate di Aniane (747 ca.-821) mise a confronto le regole monastiche che riuscì a raccogliere, con quella del suo omonimo, dimostrandone la superiorità. È stata soltanto questa straordinaria spinta promozionale a segnare l'inizio della carriera di Benedetto di Norcia come "patrono d'Europa". Questa azione, tendente a uniformare i riti e le norme che avrebbero dovuto improntare le manifestazioni del culto, l'attività pastorale e l'organizzazione interna delle Chiese e dei monasteri dell'Europa cristiana, contribuì a rendere visibile la posizione di incontrastato reggitore dell'"ecclesia universalis", che Carlo si era arrogato. Si aggiunga che, nel luglio 754, Carlo ancora giovinetto, insieme al fratello Carlomanno e al padre, aveva ricevuto a St.-Denis da papa Stefano II la "cresima dei re". Tale pratica era stata inaugurata nel 751 a Soissons da s. Bonifacio, sulla base di precedenti visigotici e col consenso di papa Zaccaria, nei confronti del solo Pipino, per surrogare con la virtù soprannaturale del sacramento dei re dell'Antico Testamento il prestigio dinastico di cui si paravano i sovrani della spodestata "razza" merovingia. Una prova in più che anche i sovrani cristiani (compresi gli occidentali!) avevano dei carismi e "che non si potrebbe annoverarli senza esitazione nel campo dei laici" (G. Dagron). Nei confronti dell'incisiva e coerente azione unificatrice intrapresa dal sovrano carolingio in campo ecclesiastico e monastico, la parte avuta dai vescovi di Roma fu press'a poco quella di semplici passacarte, che "non hanno mai sospettato la vera portata della riforma progettata dai Franchi" (C. Vogel). Ma questa azione era stata pur sempre intrapresa nel nome di Roma e di Pietro, ed era da attendersi che gli effetti di essa finissero prima o poi col ridondare in favore della Chiesa, che a Pietro si richiamava, e dell'autorità del suo capo visibile. Non toccata dal tonificante influsso insulare e ormai solo saltuariamente in rapporto, che non fosse conflittuale, con ciò che rimaneva, dopo le conquiste arabo-musulmane (Antiochia, Gerusalemme, Alessandria), della cristianità orientale (praticamente solo Costantinopoli), Roma tenne talvolta atteggiamenti ambigui - come di fronte al rigetto franco delle decisioni del secondo concilio di Nicea e, soprattutto, con l'intenzione, manifestata a più riprese da Adriano I di subordinare l'accettazione dei deliberati di quel concilio, ch'erano fatti per piacere a Roma, alla restituzione da parte dell'Impero dei Patrimoni di s. Pietro in Sicilia e in Calabria e delle diocesi di quelle regioni e dell'Illirico, rispettivamente confiscati e sottratti alla giurisdizione romana da Leone III nel 733 - oppure, come nel caso dell'adozianismo spagnolo, dette l'impressione di porsi "a rimorchio" (O. Bertolini) dell'alleato transalpino. Ma il prestigio che la Sede apostolica aveva accumulato nella tarda antichità rimaneva in sostanza inalterato. Data questa solida premessa, la situazione creatasi con la restaurazione dell'Impero d'Occidente, facilitò il pieno ripristino dei rapporti, del resto mai interrotti del tutto anche nei secc. VII e VIII, fra le Chiese dell'Occidente medesimo e la Sede apostolica, e favorì indirettamente l'evoluzione dell'antico, originario "principatus" d'onore, di cui godeva nei confronti delle altre Chiese, in un potere di giurisdizione effettivamente esercitato, e il conseguente rilancio della sua partecipazione attiva alle vicende dell'Impero carolingio e della Chiesa universale. Nell'agosto dell'877, papa Giovanni VIII (872-882), nel chiedere ai vescovi italiani, riuniti in concilio a Ravenna, di confermare l'innalzamento all'Impero di Carlo il Calvo, avvenuto a Roma il 25 dicembre 875, dette non solo notizia di avergli impartito in tale giorno l'unzione imperiale e di averlo incoronato imperatore dei Romani, ma mise soprattutto in rilievo il fatto, che, questo sì, costituiva una novità sensazionale, di essere stato lui a sceglierlo come successore di Ludovico II, dando seguito a un'"inspiratio caelestis" di Niccolò I (858-867), rafforzata dal suo personale apprezzamento delle doti intellettuali e guerriere di re Carlo, che inducevano a riconoscere in lui il "salvator mundi". Una scelta, la sua, che l'interessato non aveva né desiderata, né auspicata, né sollecitata, ma predisposta da Dio stesso e solo resa esecutiva da lui, dopo che, in omaggio a un'"antica consuetudine", era stata sancita dal voto unanime "di tutti i confratelli nell'episcopato e degli altri ministri di Santa Romana Chiesa, del magnifico senato [l'aristocrazia] e dell'intero popolo romano e della 'gens togata'". Giovanni VIII omise di dire, e non avrebbe avuto, in realtà, nessun motivo per farlo, che la scelta di Carlo non corrispondeva affatto alle intenzioni dell'imperatore defunto, che si era invece espresso a favore di suo cugino Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico. E, quanto alla "prisca consuetudo", cui egli dichiarava di essersi attenuto, essa non era mai invalsa almeno per ciò che concerneva l'elezione imperiale, bensì lo era, ma solo in parte, per quella del papa, dato che, fino all'898 (concilio di Roma e Ravenna), quando fu stabilito che il nuovo papa fosse eletto dai vescovi e dal clero, ma su proposta del Senato (aristocrazia) e del popolo, erano rimasti in vigore i decreti del concilio del 769. Anche se a venire proclamato imperatore dei Romani era stato il re del Regno franco occidentale, nipote e omonimo del grande Carlo, ciò che aveva preceduto l'evento del Natale 875 e il senso che chi l'aveva promosso tendeva a attribuirgli, stanno a dimostrare che il vescovo di Roma era ormai subentrato al clero franco-occidentale, e al suo leader Incmaro di Reims, nel ruolo di tutore dell'ideale unitario carolingio, che esso aveva esercitato nei decenni centrali del secolo: "la somma dei privilegi della Sede romana divenne quasi la garanzia dell'unità dell'Impero" (A. Dempf). La differenza stava nel fatto che Giovanni VIII era portato piuttosto a interpretare tale ruolo in quanto principale interessato a conservare in vita e ad assicurare prestigio a un'istituzione che aveva in Roma la sua sede ideale e nel vescovo di Roma la fonte della sua legittimazione, e che alla difesa della Chiesa di Roma contro i pagani (i Saraceni) e i "cattivi cristiani" (a cominciare dal duca di Spoleto) era stata preposta dalla volontà divina. Poiché la svolta dell'875 coincise con una sensibile accelerazione della crisi della "communitas imperii" carolingia, è naturale che si tenda a leggerla come l'ultima tappa di una vicenda, contrassegnata, all'inizio, dall'immagine di Leone III, che, tre giorni prima di incoronare imperatore Carlomagno, aveva subìto l'umiliazione di dovere pronunciare - venti mesi dopo l'aggressione di cui era stato vittima - un giuramento di discolpa davanti a un'assemblea di ecclesiastici e di laici presieduta dal sovrano franco all'apice della sua gloria; e, a un terzo del cammino, segnata dalla Constitutio Romana, emanata da Lotario I (novembre 824) con la scusa di prevenire disordini come quelli che s'erano avuti al momento della morte di Pasquale I (817-824), che prevedeva, fra l'altro, l'istituzione a Roma di due legati, uno imperiale, l'altro papale, che avrebbero dovuto ragguagliare annualmente l'imperatore sul modo nel quale "duces" e "iudices" avessero agito nell'ambito delle rispettive mansioni (cap. 4), nonché l'obbligo di un giuramento a Lotario e a suo padre Ludovico il Pio da parte degli elettori romani del papa, i quali si impegnavano anche a impedire che l'eletto fosse consacrato prima di avere a sua volta prestato, in presenza del legato imperiale e del popolo, il giuramento, appena pronunciato da Eugenio II (824-827), di rispettare e far rispettare dagli agenti del governo papale i legittimi diritti di tutti coloro che gli erano sottoposti. Ma, in realtà, non fu solo la crisi del potere imperiale a favorire automaticamente l'affermazione di quello papale - che fu, del resto, momentanea e, in sostanza, illusoria, perché anch'esso non tardò a subire le conseguenze della disgregazione, non tanto dell'Impero come tale, quanto dell'ordinamento pubblico che era alla sua base. Benché la Chiesa d'Occidente non potesse essere definita una Chiesa imperiale almeno nel senso in cui lo era quella d'Oriente, il suo radicamento nel tessuto politico-sociale era infatti così profondo da rendere impossibile che il suo vertice romano e le sue articolazioni territoriali non subissero a breve termine i contraccolpi di tale disgregazione. A favorire, per non più di cinque lustri, l'affermazione del potere papale contribuì in qualche misura anche il fatto che, "mentre i troni dei Carolingi erano tenuti da monarchi sempre più deboli, alla cattedra di Pietro salivano invece uomini [...] loro immensamente superiori" (F. Gregorovius): si pensi a Niccolò I e a Giovanni VIII, in particolare al primo dei due. Fra le riforme promosse da Carlo e, in questo caso, più particolarmente da Ludovico il Pio, va annoverato il sistematico ripristino delle province ecclesiastiche, e, quindi, dell'autorità degli arcivescovi. Il successo di tale riforma è attestato dallo spicco che ebbero alcuni arcivescovi del sec. IX, a cominciare dal sopraccitato Incmaro di Reims, ma ancora più dalla reazione che essa destò da parte dei vescovi suffraganei. Sentendosi direttamente minacciati, essi provvidero a tutelarsi fabbricando una collezione di falsi, le Decretali pseudoisidoriane, che attribuivano ai papi dei primi secoli prese di posizione che contraddicevano allo spirito della riforma o, meglio, indicavano un rimedio efficace alle sue paventate conseguenze, prevedendo che i suffraganei potessero non solo appellarsi a Roma contro la decisione di un sinodo provinciale, ma addirittura pretendere che le cause che li concernevano fossero giudicate anche in prima istanza dal papa. In un primo momento la Sede apostolica esitò a prendere per buono un falso palese, dal quale però, una volta stagionato, le collezioni canoniche del sec. XI avrebbero attinto, senza più riguardo, molto materiale che si rivelò utile alla contestuale definizione del primato giurisdizionale del vescovo di Roma; tanto è vero che il problema della recezione, più o meno immediata, di queste false decretali da parte del papato sarebbe stato al centro delle dispute, che, anche in campo cattolico, accompagnarono preparazione e svolgimento del concilio Vaticano I (H. Fuhrmann). Ma le Decretali pseudoisidoriane, a prescindere dalla loro recezione formale, già nel momento in cui avevano cominciato a circolare, avevano influito sui comportamenti dei papi, che, sollecitati sempre più spesso a intervenire nelle questioni delle Chiese locali, avevano fatto sentire la loro voce con un'intensità senza precedenti. È in riferimento a questo periodo che si può parlare per la prima volta di un effettivo esercizio del primato giurisdizionale da parte della Chiesa romana. Su tutt'altro piano, il recupero storico-agiografico-canonistico della figura di Gregorio Magno e un'intensa attività di traduzioni dal greco di opere di storia ecclesiastica, agiografia e teologia, avevano consentito alla Sede apostolica di affiancare e controbilanciare gli innegabili successi, conseguiti nei decenni precedenti dalla cultura continentale e insulare, con la riproposizione, talvolta anche apertamente polemica, del proprio retroterra culturale mediterraneo e tardoantico. Segni inequivocabili di questa ritrovata coscienza della propria funzione di guida da parte della Chiesa romana nella tarda età carolingia erano stati il folgorante, anche se effimero, successo conseguito dalla missione inviata in Bulgaria (866-867), guidata dal vescovo di Porto, Formoso, e la venuta a Roma, fra la fine dell'867 e l'inizio dell'868, di Costantino e Metodio, autorizzati a predisporre in alcune chiese il primo ciclo di ufficiature in lingua slava, a dispetto della dottrina (bollata come ereticale), che pretendeva che le tre sole lingue sacre fossero l'ebraico, il greco e il latino, e a conferma del ritrovato empito universalistico della Chiesa di Pietro. Una scelta ribadita ancora nell'880 da Giovanni VIII, malgrado l'opposizione della gerarchia ecclesiastica franco-orientale, che voleva assicurarsi il controllo della confinante, autonoma e slavofona Chiesa morava, fondata da Metodio; ma poi rinnegata da Stefano V (885-891), il quale cedette alle pressioni di quella gerarchia, con il risultato che i discepoli di Metodio sarebbero rifluiti dalla Moravia in Bulgaria, dove avrebbe messo radici una Chiesa slavofona nell'ambito dell'obbedienza costantinopolitana, e, dunque, perduta per Roma. La successiva crisi delle istituzioni ecclesiastiche dell'ex Impero carolingio ha nutrito in gran parte la leggenda nera del "secolo di ferro". Al centro di questa leggenda, alla cui formazione contribuì largamente il cronista coevo Liutprando di Cremona e che sarebbe stata portata alle estreme conseguenze, agli inizi del sec. XVII, per ragioni sulle quali non è il caso di soffermarsi in questa sede, negli Annales ecclesiastici del cardinale oratoriano Cesare Baronio, troviamo infatti il papato. Ecco, in sintesi, il quadro d'insieme: "pornocrazia", come il luterano antipietista tedesco V.E. Löscher ha battezzato nel 1705 il governo delle senatrici romane Teodora e Marozia: accusata (quasi certamente a torto) da Liutprando, la prima, di essere stata l'amante del futuro Giovanni X (914-928), quand'egli era ancora diacono; e madre di papa Giovanni XI (931-935/936), la seconda, la cui autorità era tale da imporre due papi in attesa che venisse il momento buono per il figlio avuto da papa Sergio III (904-911); "papato aristocratico", che è, con un'espressione divenuta di uso comune, il papato in balia delle fazioni dell'aristocrazia romana durante il sec. X e la metà circa del successivo, salvo le parentesi dei papi imposti a partire dal 962 dagli imperatori della casa di Sassonia; il tutto con l'antefatto orripilante del "sinodo del cadavere": Formoso (891-896), processato da Stefano VI, nel gennaio 897, dopo morto, con un diacono accanto a lui che rispondeva a suo nome, e poi gettato nel Tevere, senza più le tre dita della mano destra, con cui benediceva e impartiva le ordinazioni. Un episodio, questo, la cui genesi è da cercarsi nella storia di Roma più che in quella del papato, anche se la principale accusa che gli fu rivolta consisteva nell'essersi trasferito per ambizione da una sede episcopale minore, Porto, ad un'altra maggiore, Roma, in violazione di un antico canone, che però stava cadendo proprio allora in desuetudine, col consenso della Sede apostolica, per consentire una nuova collocazione ai vescovi le cui sedi originarie erano state rese inagibili dalle incursioni normanne. Dal nostro punto di vista, più che la genesi del "sinodo" dell'897, riveste particolare interesse la questione delle ordinazioni impartite da Formoso, invalidate da Stefano VI, riconosciute valide da Giovanni IX (898-900), nuovamente invalidate da Sergio III e tali rimaste per i primi due decenni del sec. X, con gravi effetti destabilizzanti per la Chiesa soprattutto italiana. Contro la situazione venutasi così a creare si levarono varie voci, in particolare a Napoli, che lasciano trasparire questo ragionamento: papa Formoso l'avete scelto voi romani; noi tutti, di fuori, ce lo siamo tenuto, così come voi l'avete fatto, senza guardare per il sottile (in realtà, essi trovavano che andava benissimo), perché vi riconosciamo da sempre un diritto di scelta in materia. Ma, una volta che l'avete fatto, non potevate disfarlo. Questo è per noi assolutamente inaccettabile. Veniva così sottolineato il condizionamento esercitato sul libero svolgersi della vita politica locale dal fatto di ospitare il vicario di Pietro, dimenticando che egli era anche il signore temporale di Roma. Tutte le volte che i Romani cercheranno di scrollarselo di dosso, saranno guai per la Sede apostolica. Il discredito che i filoformosiani del sec. X gettarono sui papi loro avversari (soprattutto su Giovanni X), del quale si fece portavoce Liutprando, ebbe certo una parte considerevole nella nascita della vulgata antipapale del "secolo di ferro". Ma i loro argomenti non intaccavano il principio del magistero universale del vescovo di Roma. Ad andare ben oltre è un'altra testimonianza risalente alla fine del secolo, che verte sull'inettitudine e l'indegnità dei papi fatti e disfatti, a turno, dalle fazioni locali e dagli Ottoni. Essa ha sostanziato l'atto di accusa con cui Arnolfo, vescovo di Orléans, durante il concilio tenutosi nell'abbazia di St-Basle de Verzy nel giugno 991 mise apertamente in discussione la pretesa del vescovo di Roma di governare la Chiesa universale. L'occasione fu offerta dalla disputa sorta circa la copertura della cattedra arcivescovile di Reims, cui aspirava Gerberto di Aurillac, il futuro arcivescovo di Ravenna e poi papa Silvestro II (999-1003), che ispirò quel feroce intervento, posto da taluni all'inizio della tradizione gallicana: dove sta scritto che tanti vescovi, che si distinguono per scienza e virtù, debbano essere sottoposti a tali mostri, il cui ricordo è un obbrobrio e che vivono nella più profonda ignoranza delle cose divine e umane? Chi è quell'uomo seduto su un trono, splendido nella sua veste di porpora e d'oro? "È una statua" - replicava lo stesso Arnolfo -, "un idolo nel tempio di Dio. Chiedergli responsi è come consultare un pezzo di marmo". Di là dalle evidenti forzature e dell'uso che se ne è fatto al tempo della riforma protestante, queste testimonianze rispecchiano un effettivo degrado e una conseguente perdita di autorità del papato, che risultano tanto più accentuati quanto più si abbia presente il punto di partenza immediato, cioè il ruolo di supremo regolatore che esso era arrivato a esercitare nell'Europa tardo-carolingia. Reso possibile dalla restaurazione dell'Impero in Occidente, il processo di centralizzazione ecclesiastica non aveva fatto ancora in tempo a tradursi in ben definite e stabili strutture di governo, che ne garantissero la persistenza anche quando venne meno il quadro politico generale che ne aveva favorito l'avvio. Quando questo quadro andò in frantumi, anche la cattedra episcopale romana, come quella di tante altre arcidiocesi e diocesi dell'ex Impero carolingio, fu alla portata delle ambizioni di non sempre bene definibili "forze locali", che a Roma si presentano come un ceto misto di "proceres ecclesiae" (gli officiali del "palatium Lateranense") e di "proceres militiae", un'aristocrazia, insomma, laico-ecclesiastica radicata nel territorio circostante, che, dalla metà del sec. VIII, esprimeva la sua forte coscienza di gruppo ammantandosi del nome collettivo, antico e glorioso, di "Senato". Ma, trascorso un primo periodo di rivolta generalizzata e di insicurezza (880 ca.-910 ca.), durante il quale, insieme alla Santa Sede, furono sul punto di essere travolte le posizioni della stessa aristocrazia senatoria, dal seno di questa, e su questa, emerse e si affermò una dinastia signorile. Essa, già nel primo quarto del sec. X, si assicurò il controllo della cattedra di s. Pietro e impose il ristabilimento della pace pubblica, garantendo l'integrità del "principato territoriale", che dal principe degli apostoli avrebbe preso successivamente il nome ("Patrimonium s. Petri"). La crisi dell'età postcarolingia non interessò solo il rapporto fra il papato e le Chiese locali, ma sconvolse l'assetto di queste, anzitutto mediante la proliferazione di "Chiese private", che ebbe l'effetto di creare nel territorio diocesano delle enclaves, sottratte alla giurisdizione vescovile, contestata nel contempo anche dai monasteri, che, ancora in età carolingia, facevano capo al vescovo della diocesi, nel cui territorio sorgevano. Monasteri di diocesi diverse erano frequentemente accomunati dall'osservanza dello stesso "ordo", o stile di vita. L'età postcarolingia assisté alla costituzione della prima grande "congregazione" di monasteri - non ancora un "ordine monastico". Essa si formò, con una rapidità sorprendente, intorno al monastero di Cluny, fondato nel 910 da Guglielmo I d'Aquitania, che lo concepì come un "monastero privato", dotandolo di un cospicuo patrimonio fondiario, che Guglielmo, nel suo testamento, si preoccupa di tutelare nei confronti degli appetiti dei "principes saeculares", dei conti e dei vescovi, nonché della Sede apostolica, la quale ultima, in un paragrafo successivo, viene invitata a colpire con sanzioni spirituali "i 'praedones atque distractores harum rerum' [ancora, i beni di Cluny], che io, Guglielmo [...], concedo in proprietà a voi, santi apostoli Pietro e Paolo, e pontefice romano". La duplice veste in cui appare la Chiesa romana, prima annoverata fra i possibili depredatori di Cluny, poi designata come proprietaria e tutrice dello stesso monastero, è un sintomo eloquente della natura di quei tempi. Alle dipendenze di Cluny sorsero un po' ovunque numerosi "priorati", mentre anche molti monasteri già esistenti, rimanendone autonomi, si associarono a Cluny, adottandone le consuetudini, volte a restaurare l'osservanza della Regola benedettina. La lotta che la congregazione cluniacense intraprese con successo perché tutti i monasteri che ne facevano parte fossero esentati dall'obbligo di ricorrere all'ordinario diocesano e potessero scegliere il referente ecclesiastico lì dove fosse loro piaciuto, si risolse in un ulteriore attentato alla compattezza delle giurisdizioni vescovili, come avveniva per le Chiese private. Nel contempo Cluny si preparava a mettere a disposizione dei vescovi di Roma una schiera di monaci, che, a partire dal momento in cui, verso la metà del sec. XI, riusciranno a liberarsi dalla tutela dell'aristocrazia locale, costituiranno una sorta di prezioso braccio "regolare" al quale attingere energie spirituali, e non solo spirituali, da impiegare a favore dell'azione riformatrice che intendevano intraprendere, senza che possa dirsi che il monastero di Cluny in quanto tale, organico com'era alla società del tempo, abbia rappresentato un precedente diretto di questa azione. Né deve destare meraviglia che l'affiliazione a Roma di Cluny abbia avuto luogo mentre sul soglio di Pietro sedevano creature di Teofilatto, di Marozia e di suo figlio Alberico (alcuni di questi, del resto, tenuto conto delle condizioni in cui agivano, furono perfino buoni papi), vista l'importanza che il culto di Pietro stesso ha avuto nella formazione della spiritualità cluniacense. Non si può onestamente dire che solo con la nascita della "congregazione cluniacense" il monachesimo occidentale entri nella grande storia (le esperienze monastiche irlandesi e anglosassoni basterebbero da sole, a tacere d'altro, a provare il contrario). Entra però a piene vele nella storia del papato. Un effetto collaterale del modo in cui, nel IV sec., aveva preso l'avvio il processo di istituzionalizzazione della Chiesa, era stato, in polemica con l'assetto "imperiale" che questa si stava dando, la nascita di una vera e propria Chiesa nella (e accanto alla) Chiesa, se così può venire configurata rispetto alla comunità dei sacerdoti e dei fedeli che facevano un tutt'uno, la comunità dei monaci, che erano cristiani che abbandonavano le città per addentrarsi in località sempre più appartate dei deserti egiziano e libico, nell'intento di darsi in forma esclusiva alla contemplazione e alla preghiera, convinti di potere fare rivivere, fuori di esse, che ne erano state il terreno di elezione, lo spirito, se non le forme, della Chiesa primitiva. D'allora in avanti, la Chiesa "regolare", così detta dal complesso di norme, o "regole", che avrebbero presto disciplinato la vita dei monaci, sia che vivessero in eremi o in cenobi, si affiancò stabilmente alla Chiesa "secolare", di quanti cioè operano al servizio di Dio, ma restando nel "secolo". A differenza dei "secolari", per lo più allineati, quelli almeno del patriarcato di Costantinopoli e fino alla fine dell'iconoclasmo, sulle posizioni del patriarca e dell'imperatore di turno (ad Antiochia e ad Alessandria era già tutta un'altra cosa), i "regolari" d'Oriente, come s'è visto, furono spesso dissenzienti nei confronti del potere imperiale che occupava in quella Chiesa press'a poco lo stesso posto che la Sede apostolica avrebbe finito con l'occupare stabilmente nella Chiesa d'Occidente a partire dal sec. XI. Qui, invece, a più riprese, gli Ordini monastici, tranne minoranze costituitesi talvolta al loro interno, si rivelarono molto spesso disponibili, a cominciare appunto dai Cluniacensi, a mettere le loro forze al servizio di cause che il papato aveva fatte proprie. Il 2 febbraio 962, Ottone I di Sassonia, re del Regno franco orientale, interrompendo una vacanza del trono imperiale cominciata nel 924, fu unto e incoronato imperatore a Roma da papa Giovanni XII, figlio di Alberico, "princeps et senator omnium Romanorum", che lo aveva probabilmente soprannominato - non chiamato, come molti ritengono - Ottaviano, perché forse dapprincipio aveva programmato di farne un ...Augusto, anche se poi, poco prima di morire nel 954 si sarebbe fatto promettere solennemente dai nobili romani di fare di quell'Augusto mancato il successore sul soglio di Pietro di Agapito II. Ciò che puntualmente accadde nel dicembre 955, in dispregio delle norme esistenti. Più che alla posizione dei papi precedenti all'avvento al potere della dinastia di Teofilatto, che erano anche signori del principato territoriale di s. Pietro, quella che, grazie alla sua estrazione familiare, venne a occupare il diciottenne Giovanni XII durante gli anni che vanno dalla morte del padre alla venuta di Ottone, da lui sollecitata, è paragonabile piuttosto alla posizione di un Atanasio II, vescovo di Napoli dall'876. Questi, venuto a conflitto con il duca Sergio II (erano entrambi figli del duca Gregorio III), lo aveva preso prigioniero, accecato e inviato a Roma, a Giovanni VIII, in segno di vittoria contro il persecutore del vescovo Atanasio I (fratello di Gregorio III e, quindi, zio di Atanasio II e di Sergio II), suo predecessore sulla cattedra napoletana, con la conseguenza che gli restarono affidate le redini del governo ecclesiastico e civile, rimaste finora distinte pur nell'ambito della dinastia ducale napoletana. Il caso di Giovanni XII non era, quindi, senza precedenti negli ex Ducati bizantini - ma Roma era sempre Roma. Il paramento del neo-imperatore il 2 febbraio 962 apparve ai presenti, secondo quanto riferisce Liutprando di Cremona (Historia Ottonis I, 3), "mirabile" e "insolito", soprattutto - come è stato arguito da P.E. Schramm - per la foggia inusitata della corona, postagli sul capo, consistente in un cerchio su cui insiste un solo arco, in modo da lasciare spuntare le due cuspidi della mitra vescovile portata sotto. Non deve perciò sorprendere che, con la stessa disinvoltura con cui il "'basileus' e sacerdote" di Costantinopoli intronizzava e detronizzava i patriarchi, Ottone non si peritò: di fare deporre da un sinodo, presieduto da lui stesso, l'indegno Giovanni XII; di proporre come suo successore il non indegno Leone VIII, un laico, notaio in capo del palazzo Lateranense, che dovette giurargli fedeltà prima di essere consacrato (4 dicembre 963), come prescritto dalla Constitutio Romana dell'824, ch'era caduta nel dimenticatoio; di fare deporre da un sinodo, sempre presieduto da lui, dopo avere assediato e preso per fame Roma, Benedetto V - un diacono colto e sensibile alle istanze di riforma della Chiesa, che i Romani avevano eletto papa alla morte di Giovanni XII, ma ancora vivente Leone VIII -, spezzandogli sulla testa il pastorale, mentre era prostrato al suolo dopo essere stato spogliato dei suoi paramenti; di influire sull'elezione di altri due papi, Giovanni XIII (965-972) e Benedetto VI (973-944), probabilmente sensibili alle istanze riformatrici condivise dall'imperatore medesimo... Era come se la storia camminasse all'indietro e fossero tornati i tempi di Giustiniano. La serie di "rimozioni di papi nel medioevo", particolarmente nei secc. IX-metà XI, è un chiaro segnale dell'accidentalità che caratterizza il percorso compiuto dalla Chiesa romana in questi secoli, in netto contrasto con i postulati giuridico-dogmatici che ormai da tempo ne definivano in linea di principio lo "status", come, appunto, quello secondo cui "prima sedes non iudicabitur a quoquam", attestato, già al tempo di Simmaco (498-514), in atti sinodali apocrifi che tendevano a dimostrare che esso vigeva addirittura all'inizio del quarto secolo, e che ritroviamo formulato, in modo quasi identico, nel can. 1404 del vigente Codex iuris canonici. Più o meno sensibili che fossero alle istanze di riforma soprattutto monastica, i papi scelti o in qualche modo spalleggiati da Ottone I, dal suo figlio e successore (nel 973) Ottone II (Benedetto VII, 971-983; Giovanni XIV, 983-984) e da Teofane (Giovanni XV), l'imperatrice vedova (dal dicembre 983), reggente per Ottone III, erano tutti di estrazione locale e, quindi, per lo più coinvolti, anche loro malgrado, nelle lotte di fazione cittadine, ad eccezione del pavese e vescovo di Pavia Giovanni XIV, ex arcicancelliere imperiale per l'Italia, primo papa proveniente dalla Padania. Con il primo papa scelto dal sedicenne Ottone III, appena uscito di tutela e non ancora imperatore (a incoronarlo il 21 maggio 996 sarà Bruno di Carinzia, figlio di un suo cugino, e prete, papa da diciotto giorni col nuovo nome di Gregorio V), si ebbe invece, proprio sotto il profilo tutt'altro che trascurabile della provenienza geografica, una svolta di grande rilievo. Egli inaugurava infatti la folta, discontinua lista di vescovi di Roma non romani, ma neppure laziali o italiani peninsulari, bensì stranieri transalpini, che si sarebbe conclusa con l'olandese Adriano VI (morto nel 1523), per riaprirsi - dato che di un nuovo inizio davvero si tratti - solo con Giovanni Paolo II, quattrocentocinquantacinque anni dopo. I rapporti fra Ottone III e Gregorio V non furono però così lisci come sarebbe stato d'attendersi viste le premesse, anche se alla fine si trovarono d'accordo nel consentire che venisse mutilato con una crudeltà disumana l'antipapa (dal febbraio 997) Giovanni (XVI) Philagatos, prima che un sinodo regolarmente presieduto da Gregorio sentenziasse la sua deposizione e riduzione allo stato laicale, ridotto com'era. Alla morte di Gregorio V (febbraio 999), Ottone III chiamò a succedergli un altro suo ex tutore ed amico, Gerberto di Aurillac (Auvergne), in quel momento arcivescovo di Ravenna, dopo vicissitudini delle quali si è già in parte detto. Anch'egli, come Bruno di Carinzia, decise di cambiare nome, creando così una tradizione che persiste fino ad oggi e che, per essersi caratterizzata dall'inizio nel senso che il nome prescelto doveva essere già stato portato in precedenza da un vescovo di Roma, consente, da un lato, al neo-eletto di manifestare da subito i suoi propositi, mediante l'assunzione del nome di quello dei suoi predecessori, alla cui azione di governo della Chiesa si propone di ispirare la propria; e ha reso, dall'altro, visibile nelle liste dei papi, dove fino a quel momento il frequente ritorno di alcuni nomi (Giovanni, Stefano, Leone, Benedetto, Bonifacio...) rispecchiava solo la frequenza con cui essi ricorrevano nell'onomastica romana, la tendenza a favorirne alcuni piuttosto che altri, analoga a quella che si riscontra nelle dinastie imperiali e regie. Se Bruno di Carinzia scelse di chiamarsi Gregorio avendo forse presente il primo della serie, la scelta di chiamarsi Silvestro, compiuta da Gerberto di Aurillac, non lascia spazio al dubbio, perché di Silvestro ce n'era stato uno solo, che, a parte il successo conseguito guarendo dalla lebbra l'imperatore Costantino che gli venne attribuito dalla successiva leggenda, ebbe soltanto i due meriti di essere stato il destinatario diretto dei ricchi donativi offerti dal succitato Costantino alla Chiesa di Roma, dal momento che il diritto romano non conosceva l'istituto della personalità giuridica, e di avere avuto in sorte di essersi trovato ad essere il vescovo di tale Chiesa per più di due terzi del regno trentennale del primo imperatore cristiano. A differenza di ciò che aveva rappresentato il primo Silvestro rispetto a Costantino, il secondo fu coprotagonista di Ottone III, benché su un gradino più basso, del tentativo di richiamare in vita ("renovare") l'Impero romano cristiano, al cui centro doveva ora essere, come non era mai stata prima, Roma, sede dell'imperatore, tornato a risiedere stabilmente sul Palatino e, insieme, del vicario di Pietro, chiamati a reggere, di comune accordo, senza che si soffermassero troppo a distinguere le loro rispettive funzioni, le sorti del mondo - ciò che, in sostanza, comportava una riedizione riveduta e corretta della Chiesa imperiale costantiniana. Non è un caso che a cogestire un progetto di respiro così universale Ottone avesse chiamato un papa estraneo alla romanità locale, sia ecclesiastica che civile, anche se Gerberto era stato il suggeritore non tanto occulto dell'atto di accusa antiromano pronunciato da Arnolfo, vescovo di Orléans, durante il concilio di St-Basle de Verzy. Tre secoli prima, Roma aveva conosciuto altri papi stranieri. Dei tredici che risultano eletti fra il 678 e il 752, solo due erano romani; gli altri erano grecofoni (siciliani, siriani, "greci" nel senso di provenienti dalle provincie, in genere, dell'Impero bizantino). Ma, sia che fossero figli di funzionari o militari bizantini, o profughi dalle provincie invase dai musulmani, prima di diventare papi avevano tutti fatto parte del clero romano, di modo che l'ascesa di alcuni di essi al pontificato, una volta escluso, perché non attestato, l'intervento di imperatori ed esarchi, "può solo volere dire che la composizione del clero era radicalmente cambiata nel corso del secolo settimo" (J. Richards). Invece, i Bruno di Carinzia, i Gerberto di Aurillac e gli altri papi stranieri che avrebbero tenuto loro dietro, anche perché l'antico divieto di passare da una sede episcopale all'altra cadeva sempre più in desuetudine (sarebbe stato formalmente abolito nel 1059), erano stranieri a tutti gli effetti: non avevano fatto anticamera nel palazzo Lateranense, né nelle fila del clero romano, né in una delle sette diocesi suburbicarie, rivelatesi solo in seguito adattissime come sedi di acclimatazione per coloro che, venuti da lontano, sarebbero un giorno ascesi al papato. In questo contesto di "deromanizzazione" del papato va individuata la vera ragione per cui, proprio a partire da Gregorio V e Silvestro II, si affermò la prassi del cambiamento di nome. In mancanza di meglio, l'abbandono del nome di battesimo e l'assunzione di un nome scelto nella lista dei loro predecessori, escluso Pietro di cui erano, oltre che successori, anche vicari, era un modo di ribattezzarsi, facendosi, almeno onomasticamente, "romani". E, una volta invalsa nell'uso, è logico che tale prassi fosse adottata anche da papi che romani o viciniori lo erano già di fatto. In conseguenza di ciò, Landone (913-914) è l'ultimo nome nuovo nella lista dei papi prima di Giovanni Paolo I. Mentre sono all'incirca una quarantina quelli che attendono ancora un papa disposto a essere il secondo a onorare il loro nome. Il carattere "imperiale" che la Chiesa venne acquistando sotto gli imperatori tedeschi della dinastia sassone e delle successive risiedeva non solo nella loro ingerenza nella scelta del papa, ma soprattutto nel riservare una posizione di sempre maggiore rilievo politico ed economico ai vescovi dell'Impero (Germania e Italia). Non fidandosi del personale laico, i sovrani preferivano infatti assicurarsi l'appoggio dei vescovi, colmando di benefici le loro Chiese, se non altro perché i vescovadi non erano in linea di principio ereditari ed era comunque possibile intervenire al momento della successione, imponendo candidati graditi. I vescovi, da parte loro, reclutavano clientele vassallatiche, pronti a metterle a disposizione del sovrano. In qualche caso, ebbero conferita la giurisdizione pubblica su un intero comitato e, più frequentemente, sulla città in cui risiedevano. L'aumento del potere temporale dei vescovi, con le conseguenze che ne derivavano sulla procedura anomala della loro elezione, non interessava solo le terre dell'Impero, ma, fatte le debite differenze, anche il resto d'Europa. La conseguenza di tutto questo era una sempre più accentuata tendenza dei vescovi ad allentare il loro rapporto con Roma. Dopo l'interruzione, per la morte di Ottone III a soli ventidue anni (nel 1002), del tentativo di restaurare a Roma l'Impero romano cristiano, la cattedra papale tornò a essere in balìa delle famiglie aristocratiche romane. Nel 1046, di fronte allo scandalo della presenza contemporanea di tre papi, l'imperatore Enrico III di Franconia (1039-1056) ingiunse a tutti e tre di comparire davanti a un sinodo da tenersi a Sutri il 20 dicembre 1046, dove Silvestro III e Gregorio VI furono deposti, mentre Benedetto IX subì la stessa sorte a Roma il 24 dicembre. Dopo di che Enrico fece eleggere un suo candidato, il vescovo di Bamberga, Suidgero, primo di quattro papi tedeschi da lui nominati che, "abbastanza paradossalmente, [...] dovevano inaugurare un'età nella quale fu violentemente contestata la procedura con cui essi stessi erano diventati papi" (W. Ullmann). La scelta che Suidgero fece di chiamarsi Clemente (II), o quella che fece il quarto, Gebhard di Dollenstein-Hirschberg, vescovo di Eichstätt, chiamandosi Vittore (II), volevano essere un richiamo alla mitica stagione della Chiesa primitiva o, comunque, alla Chiesa precostantiniana. Se Enrico debuttò tardi (era imperatore da sette anni), sulla scena romana, convocando un concilio chiamato a giudicare della legittimità e/o dei comportamenti di tre papi, egli con questo suo intervento, che sembrava riportare la Sede apostolica nell'alveo della Chiesa imperiale, ispirato com'era da sincere esigenze religiose, compì la svolta che preluse alla cosiddetta "riforma della Chiesa". La condanna della simonia, del concubinato ecclesiastico e dell'alienazione dei beni della Chiesa, e la riaffermazione della norma canonica per l'elezione dei vescovi a clero e a popolo sono punti già richiamati con fermezza dai "papi tedeschi". In particolare Leone IX, in una serie di concili, cui presenziò, da Reims a Magonza, a Vercelli, a Siponto, diffuse anche fuori dei confini dell'Impero le linee maestre del nuovo corso riformatore. Intorno a lui troviamo riuniti in un consiglio ristretto alcuni dei maggiori protagonisti del moto di riforme che prendeva allora l'avvio: dal toscano Ildebrando (papa Gregorio VII nel 1073-1085: la riforma stessa sarà, per gli storici moderni, "gregoriana") al lorenese Umberto di Moyenmoutier (poi cardinale vescovo di Silvacandida: morto nel 1061). Essendo scomparso il 19 aprile 1054, Leone IX non fece in tempo ad assistere al fallimento della missione a Costantinopoli, di cui aveva incaricato nel gennaio Umberto di Silvacandida. Preceduta da atti provocatorî di ostilità antilatina del patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario (1043-1058) - che vanno considerati nel contesto dello sforzo compiuto dal patriarcato, dopo la conclusione dell'iconoclasmo, di capovolgere a proprio favore la condizione di inferiorità in cui versava nei confronti del potere imperiale, facendo del patriarca "un sovrano pontefice dell'Oriente cristiano" (G. Dagron) -, questa missione, che Leone IX avrebbe voluto distensiva nei confronti del "basileus", naturale alleato nella lotta contro i Normanni nell'Italia meridionale, si risolse invece in uno scontro aperto fra l'irriducibile vescovo di Ostia e l'altrettanto irriducibile patriarca, che, prendendo fra l'altro a pretesto il contrasto fra "azymitae" occidentali, usi a servirsi del pane senza lievito nell'eucarestia, e i "fermentarii" orientali, che impiegavano per lo stesso uso il pane lievitato, culminò il 16 luglio 1054 nella pubblica deposizione sull'altare di S. Sofia, da parte di Umberto, di una bolla di scomunica per Michele e i suoi, e, otto giorni dopo, nel controanatema dello scomunicato. Era l'inizio dello "scisma d'Oriente". La rottura si sarebbe infatti rivelata definitiva, e vani sono risultati a tutt'oggi i tentativi di ricucitura, il primo dei quali fu compiuto già nel 1071 da Alessandro II, ma soprattutto nei concili di Lione del 1274 e di Ferrara-Firenze del 1438-1439. Giungeva così a conclusione il costante processo di "estraniamento" (Y. Congar) della Chiesa di Roma da quella di Costantinopoli - e viceversa -, aggravato e, in ogni caso, reso evidente dalla crescente difficoltà di comunicazione linguistica, succeduta al comune bilinguismo iniziale, che è stata fonte, da un lato, di reciproche incomprensioni (a proposito, per esempio, del titolo di "patriarca ecumenico", usato da quello di Costantinopoli, e dell'introduzione nel Credo da parte dei latini del Filioque) e ha facilitato, dall'altro, le manipolazioni di documenti ufficiali (in particolare, da parte dei Greci), denunciate, vere o presunte che fossero, dai sempre più rari, e anch'essi talvolta inaffidabili, "utriusque linguae periti" latini. La rottura della Chiesa di Roma con quella di Costantinopoli e, in definitiva, la perdita di ogni suo potere su ciò che sussisteva dell'Oriente cristiano, ebbero alla lunga una contropartita nella restituzione, tra sec. XI e sec. XII, all'area della cristianità latina, e alla giurisdizione della Sede apostolica, delle diocesi calabresi e siciliane, che il "basileus" Leone III Isaurico aveva sottratto all'obbedienza romana nel 733. Per tempo, le siciliane, salvo Catania ma senza suffraganee, erano state cancellate anche dalle liste episcopali bizantine in seguito alla conquista dell'isola, fra l'827 e il 902, a opera degli aglabiti di Kairouan (Tunisia). In compenso, il numero delle continentali, e non solo delle calabresi, di rito greco si era notevolmente accresciuto nella seconda metà dello stesso sec. IX, in seguito alle campagne promosse nell'Italia meridionale da Basilio I il Macedone (867-886). Le diocesi delle terre riconquistate furono però grecizzate solo in misura relativa, accontentandosi i nuovi venuti di vederle ricoperte da elementi di estrazione locale, purché a loro graditi, e di promuoverne alcune ad arcivescovati, per sottrarle all'attrazione dell'arcidiocesi latina di Salerno. Ben più profonda e capillare, anche sotto il profilo dell'irradiazione spirituale e culturale, fu invece la penetrazione, nelle terre mai perdute dall'Impero e in quelle riconquistate, a cominciare dall'ἐπαρχία τοῦ Μερκουρίου fra Calabria e Lucania, degli insediamenti cenobitici e eremitici greci (compresi quelli rupestri), anche in conseguenza dell'afflusso di monaci profughi dalla Sicilia in via di islamizzazione. A estirpare la grecità ecclesiastico-monastica dall'Italia meridionale e a ricristianizzare la Sicilia avrebbero provveduto i cavalieri normanni, venuti nella penisola a partire dal 1016. Destreggiandosi fra principati longobardi, domini bizantini e città della costa campana, anche se dapprima frazionati in nuclei familiari distinti e contrapposti fra loro, riuscirono infatti a essere ben presto la forza egemonica dell'intero Mezzogiorno, ponendo così fine al secolare, alterno, duello, in cui si erano impegnati i due Imperi per conseguire lo stesso obiettivo. Esso aveva visto, in un primo momento, nell'871, la riconquista di Bari, saracena da trent'anni, ad opera di Ludovico II e, subito dopo, l'onta della sua cattura da parte del principe longobardo di Benevento; in un secondo momento, con l'avvento a Costantinopoli, nell'867, della dinastia dei Macedoni, il ritorno in forza nella penisola dei Bizantini; e, in un terzo momento, lo sforzo messo in atto dai due primi Ottoni, per riprendere, a cento anni di distanza, il tentativo, ancora vano, di avventurarsi oltre Roma intrapreso da Ludovico II. Dai tempi almeno di Giovanni VIII, il Mezzogiorno era anche stato al centro dell'attenzione della Sede apostolica, se non altro in quanto parte integrante della provincia ecclesiastica romana. Persino nella prima metà del sec. X, quando Roma conobbe un periodo di quasi completo isolamento, quel poco di politica "estera" che possiamo intravedere riguarda l'Italia meridionale. Se, nel 958, l'attacco portato a Capua e a Benevento da Giovanni XII fallì miseramente, Giovanni XIII, rispettivamente nel 966 e nel 969, provvide a erigere le due città a sedi metropolitane, come basi per la riconquista ecclesiastica latina. Fu allora (968) che i Bizantini eressero in Chiesa metropolitana dipendente da Costantinopoli il vescovato di Otranto, in aggiunta alle arcidiocesi calabresi di Reggio e di Santa Severina, cercando in tal modo di stabilizzare i vantaggi territoriali conseguiti in Italia alla fine del secolo precedente. A sua volta, nel 983, Benedetto VII, fece di Salerno un'arcidiocesi ed eresse Trani a vescovato di obbedienza latina, indipendente da Bari, sede dal 975 del "catepanato d'Italia", accrescendo, non senza serie motivazioni, quel pulviscolo di circoscrizioni ecclesiastiche, che la Chiesa, secondo un articolo del concordato del 1929 con lo Stato italiano, avrebbe dovuto eliminare e che, invece, sussiste tuttora. Non sorprende, dunque, che i Normanni abbiano dovuto fare i conti con l'iniziale ostilità del papato. Dopo avere accolto nel 1051 la dedizione di Benevento, Leone IX aveva ricercato l'alleanza dei Bizantini per un'azione, concertata anche con Enrico III, contro i nuovi venuti. Ma l'iniziativa si concluse con la sconfitta del giugno 1053 presso Civitate del Fortore e con la sua cattura da parte di Roberto il Guiscardo - uno dei sette figli di Tancredi, feudatario di Hauteville-le-Guichard (Manica), tutti emigrati in Italia -, astro sorgente della diaspora normanna nel Mezzogiorno, che, dopo averlo tenuto prigioniero per nove mesi, lo costrinse a un riconoscimento di fatto della presenza sua e dei suoi conterranei in quelle terre. Era solo questione di tempo. I Normanni, superata non senza esitazioni e difficoltà la diffidenza iniziale, non tardarono a diventare gli alleati "più spregiudicati" e "meno affidabili per una 'moralizzazione' ecclesiastica" che il papato riformatore avrebbe potuto avere nel sud della penisola (O. Capitani), ma anche i suoi difensori più agguerriti contro prevedibili soprassalti dell'aristocrazia romana, soprattutto dopo che la morte, nel 1056, di Enrico III e l'inizio della reggenza della sua vedova Agnese per Enrico IV (1056-1106), ancora minorenne, aveva reso più incerti, in attesa di vederli diventare apertamente conflittuali, i rapporti di Roma con l'Impero. Nell'agosto del 1059, al sinodo di Melfi, convocato allo scopo di divulgare anche nel Mezzogiorno le parole d'ordine della riforma ecclesiastica, Niccolò II (1058-1061), un lorenese vescovo di Firenze dal 1045, dopo che il Guiscardo, conte di Puglia, e Riccardo I Drengot, conte di Aversa, ebbero giurato fedeltà alla Chiesa romana, investì il primo del Ducato di Puglia, Calabria e Sicilia - senza distinguere fra ciò che era stato conquistato dai Normanni e ciò che restava loro ancora da conquistare a spese degli scismatici e degli infedeli -, e confermò al secondo il Principato di Capua, del quale era stato già investito poco prima dall'allora suddiacono Ildebrando, in veste di legato papale. Nell'ottica di chi aveva ricevuto il giuramento, si era così instaurato un vero e proprio rapporto vassallatico-beneficiale, il cui peso fu avvertito dalla controparte, soprattutto dopo che, nel settembre 1130 - conquistata la Sicilia fra il 1061 e il 1091 dal Guiscardo e, soprattutto, dal suo fratello minore Ruggiero, cui il primo la concesse, a sua volta, in feudo quasi per intero nel 1072; e morti in seguito sia il Guiscardo (nel 1085) che Ruggiero I (nel 1001) -, il figlio di questi, Ruggiero II, era stato incoronato, col beneplacito dell'antipapa Anacleto II (1130-1138), re del Regnum Siciliae, che si estendeva anche all'Italia meridionale e all'Abruzzo. A Melfi, l'istituto dell'infeudamento, che all'interno del Patrimonio di s. Pietro aveva avuto una sola applicazione, per altro discutibile, da parte di Silvestro II (Terracina, 26 dicembre 1000), venne usato per la prima volta dal papato in casa altrui, sulla base della clausola territoriale della Donazione di Costantino, anche se, solo poco prima, territori corrispondenti quasi esattamente a quelli infeudati da Niccolò II erano stati concessi, sempre ai Normanni, come feudo imperiale, dai sovrani tedeschi Corrado II ed Enrico III. Quella di Melfi era stata la prima volta, ma non sarebbe stata l'ultima: "la curia papale nei successivi centocinquant'anni sarebbe diventata la più potente corte feudale d'Europa" (W. Ullmann) e, almeno sulla carta, s. Pietro il più riccamente dotato dei signori feudali. Non erano mancati precedenti in materia soprattutto nell'Europa centro-orientale. Verso il 990, Mieszko I, duca di Polonia, che aveva ricevuto il battesimo nel 966, insieme con la moglie e i figli, donò il suo intero regno a s. Pietro e, per lui, al papa regnante Giovanni XV, col probabile intento di dare stabilità alle strutture della Chiesa in Polonia. Tant'è che, nell'ottobre 999, suo figlio Boleslao I ottenne da Silvestro II la creazione di un'arcidiocesi a Gniezno, ciò che sottrasse definitivamente la nascente Chiesa polacca al rischio di cadere sotto la giurisdizione dell'arcivescovo di Magdeburgo. Analogamente, gli Ungheresi, dopo essersi stabiliti nella pianura del Danubio, si convertirono al cristianesimo con l'árpade Stefano I, che fu battezzato a Colonia il Natale del 996 alla presenza di Ottone III, e, da duca che era, fu incoronato re nell'agosto 1001 con una corona inviatagli da Silvestro II, il quale autorizzò anche in questo caso la creazione di una diocesi a Esztergom. Sia in Polonia che in Ungheria, un'affiliazione di tipo vagamente feudale alla Sede apostolica fu, dunque, il presupposto dell'ottenimento di una struttura ecclesiastica autonoma, che metteva le due nuove Chiese al riparo dagli appetiti ecclesiastici occidentali. Sotto Alessandro II (1061-1073), immediato successore di Niccolò II, il re d'Aragona Sancho Ramirez nel 1068 pose il suo Regno sotto la protezione feudale del papa (un vincolo che fu ribadito, dopo un periodo di appannamento, da Pietro II, nel 1204). Seguiranno, nei decenni successivi, gli infeudamenti a s. Pietro del Portogallo (con Afonso I Henriques, nel 1143), della Castiglia, della Bulgaria (con lo zar Johannitza, nel 1204), dell'Inghilterra (con Giovanni Senza Terra, nel 1213). Quest'ultimo vincolo fu annullato dal Parlamento sotto Edoardo III (1327-77). Ma la specialità, se così si può dire, di Alessandro consistette nella consegna del "vessillo di s. Pietro" a principi e re che, in un momento in cui non era ancora in vista il "bellum sacrum" per eccellenza - la crociata oltremarina -, stessero per intraprendere una campagna militare per conseguire un obiettivo gradito alla Sede apostolica, nell'intento di legarli a sé con un vincolo particolare: così, nel 1066, con Guglielmo, duca di Normandia, alla vigilia dell'invasione dell'Inghilterra; nel 1063, con Guglielmo VIII, duca di Aquitania, alla vigilia di una spedizione nella Spagna musulmana; nel 1064, con Ruggiero d'Altavilla, impegnato dal 1061 nella conquista della Sicilia; nel 1072, con il suo fratello maggiore Roberto, lo stesso che aveva combattuto o stava ancora combattendo per liberare il Mezzogiorno dalla presenza dei Greci scismatici e la Sicilia dalla presenza musulmana; nel 1065, con il "miles" Erlembaldo, capo della Pataria milanese, "esortante e imperante come un re" (Landolfo Seniore, Historia Mediolanensis III, 27). Nello stesso periodo si stava affermando quello che sarebbe diventato uno dei più tipici strumenti di accentramento del governo della Chiesa, la nomina cioè di "legati papali" ("missi", se non cardinali; "a latere", se cardinali), che - recandosi là dove i papi non intendevano andare erano abilitati a agire in loro nome, "affinché", come si sarebbe letto in una decretale di Clemente IV (1265-1268), "estirpino e disperdano, costruiscano e seminino". Se ai legati si aggiungono i frequenti viaggi compiuti dai papi per andare a presiedere concili, si può dire, con W. Ullmann, che "il papato cominciò a essere ascoltato e considerato non solo da lontano, ma anche a essere visto e rispettato in carne ed ossa". Umberto di Silvacandida, come la maggioranza dei cardinali vescovi a partire da Leone IX, compreso Pier Damiani (1007-1072), divenuto, lui malgrado, vescovo di Ostia, provenivano, sia che fossero italiani o non italiani, dalle file dei monaci. In questo ambito e dall'età carolingia, anche in quello dei Canonici regolari (la regola di Aquisgrana dell'816 prescriveva per i chierici la mensa e il dormitorio comuni), era stato coltivato nei secoli precedenti il ricordo della comunità di Gerusalemme. Monaci e canonici erano portati istintivamente a vedere in essa il modello di entrambe quelle loro esperienze di perfezione cristiana. Con i riformatori ecclesiastici del sec. XI - mediante un mutamento di prospettiva che ebbe un rilievo straordinario e che, anche se poi i loro propositi iniziali furono in buona parte abbandonati per via, segnò lo stesso una svolta di carattere epocale nella storia della Chiesa latina - da punto di riferimento per pochi eletti, "la forma primitivae ecclesiae [il modo di essere della Chiesa primitiva] divenne una pietra di paragone su cui misurare la realtà dottrinale e disciplinare della Chiesa, ed insieme un mito, un'idea-forza da realizzare praticamente al di fuori di un troppo limitato contesto istituzionale" (G. Miccoli). Il pressante invito a ritornare alle origini, contrapposto alla realtà presente di un "mundus senescens" e della Chiesa, in particolare, in esso del tutto coinvolta, ebbe l'effetto di risvegliare diffuse energie riformatrici, manifestatesi - e qui sta la grande novità - anche fra i laici. Per la Chiesa, da lui voluta e istituita come società visibile e permanente dei cristiani, Cristo aveva previsto una guida individuale. Questa si era poi andata articolando in una struttura gerarchica complessa, composta dai tre "ordini" maggiori (vescovi, sacerdoti, diaconi), nonché dagli "ordini" minori (ben cinque, a Roma e in Occidente, già dal sec. III; uno solo in Oriente). La castità era richiesta solo dal diaconato in su; per gli altri, era ammesso un solo matrimonio, ma con una vergine. Questa gerarchia, al cui vertice supremo era assurto col tempo il vescovo di Roma, si era andata sempre più differenziando dal popolo dei fedeli, anche per il progressivo svuotamento degli "ordini" minori, che costituivano una sorta di ponte fra i due poli. Già in un testo legislativo di Teodosio II e Valentiniano II, riportato dal Codex Theodosianus e ripreso, nel sec. IX, da Floro di Lione (morto nell'860) e dallo pseudo-Isidoro, si legge che la Chiesa "consiste nei sacerdoti" o "principalmente nei sacerdoti". Ma, "in occasione della crisi che scosse l'istituzione ecclesiastica tra la fine del X e l'inizio dell'XI sec., i laici in certi luoghi si erano sostituiti alle gerarchie inadempienti per prendere l'iniziativa di una riforma del clero, o appoggiarla là dove era stata avviata dal clero stesso. Questi movimenti popolari [...] non sono, almeno in un primo momento, anticlericali. Al contrario, si oppongono a tutte le forme di secolarizzazione che hanno investito il clero [...] e vogliono ristabilire la purezza che conviene ai servitori di Dio" (A. Vauchez). Anche se poi proprio sul punto della validità o invalidità dei sacramenti impartiti da sacerdoti indegni - che era tale da mettere in discussione il carattere indelebile dell'"ordinazione" sacerdotale - il fronte dei riformatori si divise fra intransigenti e moderati, che finiranno col prevalere. La proposizione XXIV dei Dictatus papae di Gregorio VII asseriva, contro ogni tradizione in proposito, che, "con l'esortazione e il permesso del papa, era lecito agli inferiori farsi accusatori", anche - come parrebbe potersi intendere - dei vescovi indegni. In tal modo egli invitava anche i laici a mobilitarsi nella lotta in corso per il risanamento dei costumi del clero, ma, al tempo stesso, non trascurava, con quella perentoria clausola iniziale, di cercare di mettere un freno ai moti spontanei, potenzialmente sovvertitori, in quel clima di rivoluzione strisciante, dello stesso ordinamento ecclesiastico. Alla fine ne uscì rafforzato il primato del vescovo di Roma su una Chiesa migliorata nei costumi, ma rimasta agli antipodi del modello gerosolimitano per il punto tutt'altro che secondario del possesso di beni materiali e, soprattutto, per la distinzione ormai nettissima fra il clero, dispensatore dei sacramenti - il cui numero fu proprio allora definitivamente fissato in sette - e il popolo dei fedeli. "La comunità di tutti i cristiani, laici e chierici, si chiama ora, e così si chiamerà in futuro, 'christianitas', cristianità, non più Chiesa" (H. Fuhrmann). La Chiesa primitiva tornava a essere il modello di monaci e canonici. Mentre l'imitazione della "vita vere apostolica" - non più un'istituzione, com'era la comunità di Gerusalemme, ma la prassi di vita del Vangelo - contrassegnerà la radicale presa di distanza dalla nuova "chiesa clericale" (G. Miccoli) di miriadi di "pauperes Christi", predicatori itineranti che operavano ai limiti, e sempre più spesso oltre, di ciò che verrà considerato eresia. Parallelamente, ebbe luogo il divorzio non consensuale fra "sacerdotium" e "imperium", perseguito dal papato in nome della parola d'ordine della "libertas ecclesiae" (liberazione della Chiesa dalle inframmettenze del potere politico, in particolare per ciò che concerneva la nomina dei vescovi), negatrice di quella che era l'ispirazione di fondo della Chiesa imperiale. Le premesse le pose Niccolò II nell'aprile del 1059 col decreto che attribuiva in prima istanza la scelta del papa ai vescovi delle sette diocesi cosiddette "suburbicarie", che avevano avuto dapprima il compito di assicurare il servizio liturgico nella basilica Lateranense, ma tre dei quali, quelli di Ostia, Porto, Albano, avevano già tradizionalmente parte nella cerimonia di consacrazione del loro confratello di Roma; intervenivano poi i preti responsabili delle chiese cosiddette "titolari" di Roma; da ultimo, il resto del clero e il popolo acclamavano l'eletto. La nuova, rigida procedura avrebbe reso d'allora in avanti impossibili gli sconfinamenti imperiali, che pure avevano dato buoni frutti al tempo di Enrico III, ma, soprattutto, i ritornanti colpi di mano dell'aristocrazia romana, che il decreto conciliare del 769 non era valso a scongiurare. Ma il passo decisivo lo compì Gregorio VII, proibendo l'investitura dei vescovi con anello e pastorale da parte del sovrano, ch'era allora Enrico IV. La cerimonia della loro consegna, contestuale alla concessione dei "regalia", proprietà e diritti pubblici, finiva infatti col configurare l'investitura come atto, che, prima della consacrazione, immetteva i vescovi nell'esercizio, oltre che dei loro poteri temporali, delle loro funzioni di pastori di anime. La "lotta per le investiture", che fu combattuta senza esclusione di colpi, sembrò concludersi nel febbraio 1111, quando Pasquale II (1099-1118) propose al nuovo imperatore Enrico V (1106-1125) la rinuncia all'investitura in cambio della rinuncia dei vescovi ai "regalia". Ma questa soluzione radicale, nello spirito di uno degli aspetti più caratterizzanti della Chiesa primitiva, fu respinta da tutti. Solo nel settembre 1122, a Worms, essendo papa Callisto II (1119-1124), fu raggiunto un accordo, il cui punto principale era che l'imperatore avrebbe acconsentito a sostituire l'investitura con lo scettro a quella con anello e pastorale. Il compromesso non scioglieva il nodo di fondo dell'"investitura laica", ciò che avrebbe messo in crisi la struttura di potere del Regno di Germania e lo stesso assetto dei vescovati. L'Impero usciva dal conflitto definitivamente desacralizzato (cercò poi nel diritto romano insegnato a Bologna una nuova legittimazione). Il papato, richiamandosi, a sua volta, al modello della Chiesa imperiale con la "nostalgia d'unità" fra governo temporale e governo spirituale che gli andava congiunta (G. Dagron), avanzava ora la pretesa di governare, con la Chiesa, l'intero Occidente, se non il mondo intero. Come visto, secondo l'VIII proposizione dei Dictatus papae gregoriani, "solo il papa può usare le insegne imperiali" (e in effetti Bonifacio VIII, 1294-1303, talvolta le indosserà); all'incirca un secolo prima, intitolandosi ufficialmente "vicarius Christi", e non più "vicarius Petri", Innocenzo III (1198-1216) collegava tale titolo con la dignità, a un tempo, sacerdotale e regale del Signore, anche se la rivendicazione dell'autorità terrena per allora si risolveva in un'affermazione di principio, salvo che per ciò che concerneva il dominio temporale della Sede apostolica. Il secolo XIII avrebbe visto la nascita di quella che si suole definire la "monarchia papale" - un'espressione che, se non altro, ha una giustificazione nel fatto che, sotto Gregorio X (1271-1276), l'"incoronazione" del papa, destinata a prendere il posto della "consacrazione", cioè dell'ordinazione episcopale, dal momento in cui era diventato praticamente normale che l'eletto fosse un vescovo, trasferito a Roma da un'altra sede, divenne l'"elemento costitutivo autonomo e solenne" del rituale di insediamento, rappresentando "anche una sorta di apice nella secolare storia dell'imitatio imperii" (A. Paravicini Bagliani). Ma un sovrano non poteva non avere accanto a sé una corte. E la corte del papa, la Curia romana (di cui si parla per la prima volta in un documento del 1089, sotto Urbano II), si era formata fra sec. XI e XII. Nell'Europa del tempo, "curia" stava anzitutto per "corte principesca"; e una "corte", esemplata su quella dei sovrani laici del tempo, con una amministrazione finanziaria ("camera"), una cancelleria, un tribunale, una "capella" (l'insieme dei chierici addetti al servizio liturgico), era appunto, o si avviava a essere, fra sec. XI e XII, la Curia romana, che subentrava di nome e di fatto al vecchio "palatium Lateranense", il quale, dopo essersi incessantemente arricchito dal sec. VIII al X di apporti carolingi e ottoniani, aveva manifestato, dall'inizio del sec. XI, segni indubbi di sclerosi e di inadattabilità. Ma le corti dei sovrani del tempo erano pure caratterizzate dalla presenza pressoché stabile di una cerchia di vescovi. E anche questo attributo della sovranità non poteva mancare a quel sovrano "sui generis" che era il papa (un vescovo anche lui), tanto più se si trattava di un papa riformatore, impegnato a sottrarre la Chiesa di Roma all'atmosfera un po' asfittica, in cui l'aveva ridotta lo strapotere dell'aristocrazia locale, padrona per più di un secolo delle leve di comando nel palazzo del Laterano. A formare il gruppo dei vescovi di Curia concorsero i titolari di alcune diocesi circonvicine, sette di numero (ma non sempre le stesse), i medesimi che, come s'è già detto, prima dell'istituzione della "capella" papale assistevano il papa nelle ufficiature liturgiche. Senza che ancora formassero un collegio, fino dal sec. VIII venivano chiamati "episcopi cardinales hebdomadarii" (perché avevano turni settimanali). In seguito verranno chiamati "episcopi suburbicarii", ripristinandosi così l'uso di un aggettivo usato nella tarda antichità, in riferimento però a un tutt'altro ambito geografico. Sottratti alle loro funzioni liturgiche, i vescovi suburbicarî divennero i consiglieri permanenti del papa, i suoi agenti esecutivi di grado superiore e, in primo luogo, il nucleo iniziale del collegio da cui questo avrebbe dovuto d'ora in avanti venire eletto. Insieme ai preti e ai diaconi della Chiesa romana, questi sette vescovi daranno vita a un "senato del papa", degno di questo nome, e destinato a conservarlo fino al 1917 (Codex iuris canonici, can. 230), per perderlo nel 1983, quando, nel nuovo Codice, al posto del can. 230 fu inserito il can. 349, che non fa più parola di un "Senatus Romani Pontificis", bensì, semplicemente, di un "Collegium" di cardinali. Nel corso del sec. XIII, il dominio temporale si allargò dal Lazio alla Romagna, alle Marche e al Ducato di Spoleto, dando corpo all'antica aspirazione a una signoria territoriale, non più solo tirrenica, ma transappenninica, estendentesi dalle foci del Tevere a quelle del Po. L'Occidente conobbe altri principati ecclesiastici, ma quello del papa assunse un rilievo particolare. Specialmente nel basso medioevo e nella prima età moderna, fece a tratti apparire il vescovo di Roma soprattutto come il sovrano temporale di uno degli Stati regionali italiani. Nel medioevo, il problema di un papato, che aveva "un corpo e due anime" (P. Prodi), la spirituale e la temporale, non fu però avvertito come tale, bensì accettato come realtà di fatto. Oltre che di un territorio adeguato, la "monarchia papale" si dotò nel sec. XIII di alcuni ingredienti che la configuravano come uno Stato "sui generis": un'organizzazione finanziaria, per l'incameramento degli introiti provenienti sia dai diritti sovrani sullo Stato della Chiesa che da altre fonti, e un corpo organico di leggi. Alle collezioni canoniche del sec. XI aveva fatto seguito, segnando un grande passo avanti, la Concordia discordantium canonum, armonizzazione di regole canoniche discordanti, di diversa natura (canoni conciliari, decretali papali, brani di padri della Chiesa, testi di diritto romano, ecc.), redatta a Bologna intorno al 1140 da Graziano, probabilmente un monaco, di sua iniziativa. Nel corso dello stesso secolo, intensificandosi il numero delle decretali, l'attività pontificia si pose sempre più come fonte di diritto. Nel sec. XIII, prima Gregorio IX (1227-1241), con il Liber extra (1234); poi Bonifacio VIII, con il Liber sextus (1298), sistemano "in modo organico la massa di decretali [...] che rappresentavano il volto nuovo del diritto canonico, [...] nel suo sforzo di erigersi a norma di una Chiesa espansiva e dominativa" (P. Grossi). Sempre nel sec. XIII, il papato, di fronte al dilagare dell'eresia di massa, frutto delle delusioni e delle frustrazioni dell'età postgregoriana, si dotò di un proprio apparato repressivo, che prima fiancheggiò, poi finì col prevalere sull'azione antiereticale svolta tradizionalmente dai vescovi. L'"officium inquisitionis", come è denominato per la prima volta nella bolla Ad extirpandam (1252) di Innocenzo IV (1243-1254), venne costituendosi poco per volta e prese il nome dalla procedura "ex officio" e "per inquisitionem" ("mediante inchiesta"), che nei tribunali si andava sostituendo, indipendentemente dalla sua applicazione alla lotta contro l'eresia, alla procedura fondata sull'accusa formale, in cui l'onere della prova era a carico dell'accusatore. Nella stessa occasione, Innocenzo IV sancì il ricorso alla tortura, che restava però affidato alle autorità civili. Gli "inquisitores heraeticae pravitatis" venivano reclutati di norma tra i Domenicani e, in un secondo tempo, anche tra i Francescani. I due nuovi Ordini religiosi erano sorti all'inizio del sec. XIII - prima che il IV concilio Lateranense (1215) mettesse un fermo alle nuove fondazioni (constitutio 13) -, fuori della tradizione monastica benedettina, in quanto dediti alla predicazione itinerante (come gli eretici e i "falsi profeti"!) e, per ciò che concerne in particolare i secondi, almeno nella fase iniziale in cui rimasero fedeli all'esempio di Francesco, anche in quanto praticanti la "vita vere apostolica", con la congiunta istanza pauperistica, che suonava ormai provocatoria agli orecchi dei più. Postisi al servizio del papato, che, nel corso del Duecento, li colmò di privilegi, intuendo per tempo i vantaggi che ne sarebbero derivati alla sua politica centralizzatrice, i frati mendicanti entrarono spesso in conflitto con il clero secolare, anche perché ricercatissimi come confessori, laddove un'altra costituzione del concilio del 1215 (la ventunesima), nel sancire l'obbligo della confessione annuale, precisava che essa andava resa "proprio sacerdoti". Un episodio clamoroso fu lo scontro avvenuto a Parigi fra maestri secolari e mendicanti, dovuto alla pretesa di questi di ricoprire cattedre della facoltà di Teologia dello Studio, senza prestare giuramento agli statuti universitari (1253-1259). Risoltosi a favore dei Mendicanti per l'appoggio prestato loro da Roma, questo scontro, e più ancora quello che scoppiò più tardi per motivi dottrinali in seno alla facoltà delle Arti, provocò alla lunga il fallimento della "politica scolastica" del papato tendente a fare della facoltà teologica parigina l'unico centro di formazione da cui si uscisse addottorati in quella che era considerata la "regina scientiarum", quando era risultato irrealizzabile il precedente progetto di fare impartire tale insegnamento in scuole da istituirsi presso tutte le Chiese metropolitane. Nel 1095, la cristianità conquistatrice postgregoriana aveva risposto con entusiasmo all'appello di Urbano II (Clermont, 27 novembre) per una spedizione in soccorso dei cristiani d'Oriente. Ma la crociata nella sua ampiezza di fenomeno religio- so non è riconducibile unicamente all'iniziativa di Urbano II: "è l'anima religiosa dell'Occidente del sec. XI che la crea, molto più di una decisione papale" (P. Alphandéry). Ci furono infatti anche crociate spontanee e autogestite, risoltesi per lo più in autentici disastri; ma di solito furono i grandi signori feudali dell'Europa settentrionale e gli stessi sovrani a prendere l'iniziativa e assumerne la guida, stante l'ovvia difficoltà in cui si trovava il papato nell'organizzare e gestire direttamente spedizioni armate. Nei secc. XII e, soprattutto, XIII, esso riuscì a assicurarsi lo stesso il patrocinio non solo morale del movimento, promuovendo fra l'altro il pagamento di tributi straordinari, le "decime della crociata", destinati a contribuire al finanziamento della stessa. Ma la crociata offrì, in primo luogo, al papato l'occasione di sperimentare la pratica delle "indulgenze", cioè della remissione delle pene temporali, concessa a coloro che vi prendevano parte - "uno dei più autentici mezzi del reggimento della teocrazia medievale e, al tempo stesso, uno dei segreti di un ordine dell'unità, nel quale doveva essere sempre possibile il legame fra il conseguimento della salvezza individuale e il servizio di religione" (P. Alphandéry). In giorni lontani, aveva aperto la strada Giovanni VIII, promettendo la salvezza ai morti in combattimento contro pagani e Saraceni, allora associati e confusi - un esempio, questo, non seguìto, anzi contraddetto dalla Chiesa d'Oriente. Più di recente, le prime tappe della "reconquista" spagnola avevano riproposto il problema di un'adeguata "remuneratio" per i partecipanti, che veniva fatta consistere nella remissione dei loro peccati. Sarebbe stata però solo la crociata vera e propria a generalizzare tale pratica, a regolamentarla in una casistica minuziosa, estendendone col tempo i benefici anche a chi, senza muoversi da casa, come, per esempio, un proprietario, o un costruttore, di navi per il trasporto dei cavalieri crociati e dei loro cavalli, contribuiva alla realizzazione dell'"Expeditio pro recuperatione terrae sanctae" (cfr. constitutio 71 del IV concilio Lateranense). La crociata oltremarina, con la sua variante in terra di Spagna, non è la sola che il papato abbia bandito. A essa si aggiunse nel sec. XIII la "crux cismarina", che, con gli stessi benefici connessi alla prima, era rivolta contro nemici più domestici, comunque cristiani, fossero essi gli eretici della Linguadoca (crociata degli Albigesi) o l'imperatore Federico II e il suo uomo di fiducia nella Marca Trevigiana, Ezzelino (III) da Romano. Dei papi che si sono susseguiti finora, settantotto sono annoverati fra i santi. Di questi, settantatré vissero nel primo millennio. Dopo il Cinquecento se ne contano appena due, ai quali ne stanno per essere aggiunti altri due. Risulta così disattesa la XXIII proposizione dei Dictatus papae di Gregorio VII, per la quale "il vescovo di Roma, purché consacrato in modo canonico, diventa senza dubbio santo per merito del beato Pietro". Questa santità ereditaria, estremo corollario della fondazione petrina del papato, che veniva attribuita a un vivente sulla base dell'ufficio che ricopriva, alla sola condizione che ne fosse entrato in possesso rispettando le regole stabilite, era tutt'altra cosa dalla santità ordinaria, riconosciuta in base al duplice criterio delle virtù manifestate da vivo e dei miracoli impetrati dopo morto. Ma, se il dettato di Gregorio VII è rimasto lettera morta, venne il momento nel quale i papi, che nel frattempo non si erano visto riconosciuto il diritto di diventare essi stessi tutti santi in quanto tali, si attribuirono quello di essere i soli cui fosse consentito di proclamarne di nuovi. Dalla seconda metà del sec. XII (fu Alessandro III, 1159-1181, ad affermarlo esplicitamente), solo il papa, e non più anche i vescovi com'era stato fino ad allora, si ritenne infatti abilitato a "elevare alla gloria degli altari". Con questo di nuovo, però - e non era poco - che, mentre un tempo tutto si risolveva nell'operazione materiale di traslatare le spoglie del nuovo santo dal sepolcro in cui erano state deposte al momento del decesso, e presso il quale avevano avuto luogo gli eventuali miracoli, all'"altare" cui venivano "elevate", o, meglio, sotto il quale sarebbero state da allora in avanti esposte al culto dei fedeli, ora la proclamazione di un santo era subordinata allo svolgimento favorevole della complessa procedura del "processo di canonizzazione", che fu messa a punto nella prima metà del sec. XIII per accertare con tutto il rigore possibile la presenza dei requisiti richiesti nei candidati proposti dai postulanti locali ecclesiastici e laici. A. Vauchez ritiene che "la prima volta che un papa intervenne fuori d'Italia in una questione concernente il culto dei santi" sia stata quando, nel 993, Giovanni XIV fece redigere una bolla, "la prima bolla di canonizzazione conosciuta", nella quale, su richiesta del successore di Ulrico, vescovo di Augusta (morto nel 973), ordinava che la memoria di tale prelato fosse venerata solennemente; ma "questa canonizzazione non costituiva, propriamente parlando, un'innovazione giuridica", a differenza della procedura adottata due secoli dopo con cui i vescovi venivano espropriati di una loro prerogativa tradizionale. Il conflitto fra "sacerdotium" e "imperium" non era terminato nel 1122. A un secolo di distanza dalla prima crisi, esso aveva attraversato, con Rolando Bandinelli, poi Alessandro III, e Federico I Barbarossa (1152-1190), una nuova fase calda cui fornì la miccia d'accensione un passo della lettera che Adriano IV (1154-1159) aveva affidato alla delegazione inviata alla Dieta imperiale di Besançon (ottobre 1157), capeggiata, appunto, dall'allora cardinale Bandinelli, in cui il papa, che, non senza che fossero sorti anche allora problemi analoghi, aveva incoronato Federico imperatore a Roma nel giugno 1155, gli faceva presente di essere propenso a conferirgli anche altri e più grandi "beneficia" - passo che, quale che fosse stata l'intenzione dello scrivente, fu interpretato dai presenti nel senso che Adriano avesse voluto dire che anche l'Impero era un "beneficio", nel significato feudale del termine, che il vescovo di Roma aveva la facoltà di concedere, e che infatti Alessandro aveva concesso a Federico. Ma, una volta chiusa a Venezia, nel 1177, la partita fra il papa e il Barbarossa, anche se le ragioni di conflitto fra papato e Impero certo non mancarono mai (prima fra tutte, la contesa eredità di Matilde di Canossa e le mire imperiali sul Regno di Sicilia), nei rapporti fra i due poteri universali le fasi in cui prevalse il dialogo si alternarono più di frequente a quelle caratterizzate dal rinnovarsi di scontri talvolta anche duri. Finché la morte prematura di Enrico VI nel settembre 1197, con la conseguente crisi dinastica sveva, e l'ascesa sul trono papale, poco più di tre mesi dopo, di un papa fuori dall'ordinario come Innocenzo III, spostarono decisamente la bilancia a favore di quella che, nel nuovo secolo alle porte, si sarebbe configurata come la "monarchia papale". Tramontate, con la morte di Federico II (1250), le ambizioni universalistiche dell'Impero, che peraltro egli stesso si era sforzato di fare convivere con quelle, altrettanto e più urgenti, di cui era portatore il suo Regno di Sicilia anche per ciò che concerneva i rapporti col papato, il conflitto fra "sacerdotium" e "imperium" si fece sempre meno ideologico e sempre più politico, anche perché ormai, come del resto era già avvenuto spesso in passato, al posto dell'Impero stavano subentrando gli Stati nazionali. Fece ancora eccezione l'episodio che avrà come protagonista Ludovico IV di Baviera (1314-1347), al cui fianco, nel conflitto che lo contrapporrà a papa Giovanni XXII (1316-1334), troviamo schierati i Francescani dissidenti dall'Ordine e Marsilio da Padova. Ma già tra la fine del sec. XIII e l'inizio del XIV il vescovo di Roma dovette misurarsi, per uscirne clamorosamente perdente, con quel re di Francia di cui Innocenzo III, con lungimiranza e, ad un tempo, dal suo punto di vista, con imprudenza, aveva sentenziato che, "non riconoscendo nessun superior", era "imperatore nel suo Regno", tenendo così involontariamente a battesimo lo Stato moderno. A Celestino V - l'eremita di Monte Morrone, che fu papa solo per pochi mesi (luglio-dicembre 1294) prima di dimettersi, e che, per il suo disarmante modo di essere, fu identificato dagli Spirituali francescani con il "pastor angelicus" di una diffusa attesa escatologica - successe Bonifacio VIII, il papa che, invece, volle essere anche imperatore. Egli portò al parossismo la rivendicazione, già avanzata da Innocenzo III, della "plenitudo potestatis" per la Sede apostolica, chiamata da Dio a esercitarla mediante "due spade", la spirituale, maneggiata dalla Chiesa, e la temporale, maneggiata per la Chiesa dai re e dai cavalieri, con il consenso e il permesso del sacerdote. A Bonifacio non toccò di scontrarsi con un successore di Costantino, né di Carlomagno e di Enrico IV, bensì con il sovrano di un Regno particolare: Filippo IV il Bello, re di Francia. Questi infatti rifiutò di sottostare ai divieti opposti dal papa alla tassazione del clero del suo Regno e all'imprigionamento del vescovo di Pamiers. Se, nel secondo, era in gioco la "libertas ecclesiae", nel primo si trattava anche di decidere se il clero francese dovesse contribuire alle spese per la guerra contro l'Inghilterra o a quelle di Bonifacio per la riconquista della Sicilia da parte degli Angioini di Napoli. Le sconfitte subite offuscarono il successo ottenuto da Bonifacio con l'indizione del primo giubileo, quando concesse l'indulgenza plenaria ai moltissimi pellegrini accorsi nel 1300, dapprima per un moto spontaneo, alle tombe degli apostoli. Per i vescovi, recarsi "ad limina" voleva dire da tempo rendere la debita visita al papa. Sinibaldo Fieschi (poi Innocenzo IV) era andato più in là: i "limina apostolorum" erano "ubi papa est", quindi non necessariamente a Roma. Quando, nel 1309, Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, fu eletto papa a sua insaputa a Perugia (non era cardinale), e, di fronte alle pressioni di Filippo IV, rinunciò a recarsi subito a Roma, stabilendosi provvisoriamente ad Avignone, la sua decisione non destò un grande scalpore. Senza proporselo, Clemente V (1305-1314) dava così inizio ai sessantasette anni (1309-1376) della cosiddetta "cattività babilonese". Cosiddetta, anche perché Avignone non apparteneva al re di Francia, ma al re di Sicilia e conte di Provenza. Aveva una popolazione tranquilla, non sediziosa, come era quella di Roma; era contermine al Contado Venassino, unica appendice dello Stato della Chiesa al di là delle Alpi; e occupava una posizione molto favorevole nella rete delle vie di comunicazione terrestri, fluviali e marittime dell'Occidente. Per queste ragioni, Avignone, che nel 1348 fu acquistata dal papato, finì col diventare la residenza stabile, salvo le brevi villeggiature nel Contado Venassino, di sei o, almeno, di quattro dei sei papi, anch'essi francesi del Mezzogiorno, che succedettero a Clemente V, e, soprattutto, della Curia, che continuava a dirsi "romana" e che, diversamente da ciò che accadeva quando i papi del sec. XIII se la portavano dietro nei loro prolungati soggiorni in città del Lazio e dell'Umbria, non si spostava mai da Avignone. Il palazzo dei papi, che vi fu costruito durante i pontificati di Benedetto XII (1334-1342), Clemente VI (1342-1352) e Innocenzo VI (1352-1362), contribuì per alcuni aspetti a modellare lo stesso Vaticano. Questa sedentarietà favorì il consolidamento e lo sviluppo degli organi di governo della "monarchia papale" (Camera apostolica, Cancelleria, Penitenzieria, ecc.), alla cui testa si succedettero, con l'eccezione di Benedetto XII, papi con formazione giuridica, non teologica: il dilemma se l'una o l'altra formazione fosse la più opportuna per un papa, costituiva l'oggetto di una "quaestio" dibattuta nelle Università. È da Avignone che fu estesa la pratica della provvisione diretta da parte del papa dei benefici ecclesiastici (in particolare, vescovati e abbazie) e creato un nuovo sistema fiscale, per il quale si esigeva, fra l'altro, il pagamento delle "annate", cioè del reddito del primo anno di ciascun beneficio ecclesiastico. Questi sviluppi provocarono la riproposizione polemica del modello della Chiesa primitiva da parte di consistenti frange francescane e anche di laici, come Marsilio da Padova, le cui idee, tendenti a ridare spazio a quest'ultimi nella vita della Chiesa, furono in parte riprese dal francescano inglese Guglielmo di Occam e dal suo connazionale John Wycliffe. La prospettiva di un ritorno da Avignone "ad limina apostolorum", là dove si trovavano veramente, cioè a Roma, ravvivata con crescente insistenza dai Romani e, in genere, dagli Italiani (fra gli altri, Petrarca e Caterina da Siena), era però sempre attuale, anche se di continuo ne veniva rinviata l'attuazione. Il fatto stesso che Clemente VI riducesse dai cento anni, previsti da Bonifacio VIII, ai cinquant'anni del giubileo ebraico, l'intervallo fra un anno santo e l'altro, per potere indire, come i Romani gli chiedevano di fare, quello del 1350, che si tenne appunto a Roma, si presenta come una smentita a distanza della tesi oltranzista di Sinibaldo Fieschi. Ma, per ciò che concerneva invece il ritorno del papa stesso "ad limina", si attendeva che fosse ristabilita la sovranità pontificia sullo Stato della Chiesa e che terminasse la guerra fra la Francia e l'Inghilterra - un obiettivo, questo, al cui conseguimento, premessa dell'auspicata crociata contro i Turchi, i papi potevano lavorare meglio da Avignone che da Roma. Attuatesi in parte e provvisoriamente queste due condizioni, prima Urbano V (1362-1370), ma solo per poco più di tre anni per farvi poi ritorno, e quindi Gregorio XI (1370-1378), definitivamente dal settembre 1376, lasciarono Avignone per l'Italia e per Roma. Entrambe le volte, una consistente parte della Curia rimase in attesa sulle rive del Rodano. A Roma Gregorio XI morì. Al suo posto, sempre a Roma, fu eletto un napoletano, Urbano VI (1378-1389), fra i clamori di una folla inferocita, che il papa lo avrebbe voluto non solo italiano, ma romano. Per tutta risposta, i cardinali, ritiratisi a Fondi, nel Regno di Napoli, elessero un altro papa, Roberto, vescovo di Cambrai, un ginevrino, che prese il nome di Clemente VII (1378-1394) e si andò a stabilire ad Avignone, mai come ora una seconda Roma. Era l'inizio dello "scisma d'Occidente" (1378-1417). Nei Dictatus papae di Gregorio VII, la XVI proposizione prescriveva che "nessun concilio possa essere chiamato generale senza l'autorizzazione del papa". Si riferiva evidentemente ai concili di più province ecclesiastiche. A maggior ragione erano considerati "generali" i numerosi concili che, nella seconda metà del sec. XI, furono tenuti a Roma o altrove, per volontà e alla presenza del papa. Benché avessero preso decisioni che valevano per l'intera Chiesa, non si pensò subito di assimilarli agli otto concili ecumenici "imperiali" della tarda antichità e dell'alto medioevo. Successivamente, questi concili "papali" ebbero come sede il Laterano, "madre di tutte le chiese". Al concilio Lateranense, che si aprì l'11 novembre 1215, Innocenzo III "alla antica maniera dei santi padri" aveva invitato i vescovi dell'Oriente e dell'Occidente, i superiori dei grandi ordini religiosi, i rappresentanti dei capitoli delle cattedrali, nonché i sovrani di tutta Europa, ciò che invece costituiva in parte una novità. Il concilio del 1215 fu, dunque, progettato scientemente fin dal principio come ecumenico. Non è però considerato come il nono della lista dei concili classificati come tali, bensì il dodicesimo di essi, nonché il quarto dei Lateranensi, dato che in seguito anche i concili tenuti in tale sede nel 1123, nel 1139 e nel 1279 vennero considerati ecumenici, allo stesso modo che il concilio di Calcedonia aveva decretato che fossero ritenuti tali quelli di Nicea, Costantinopoli ed Efeso. Ai primi quattro concili ecumenici papali ne tennero dietro altri tre fuori Roma: il primo (1245) e il secondo (1274) di Lione, e quello di Vienne (1311), rispettivamente il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo della lista complessiva degli ecumenici. Altri canonisti posero il vero, scottante problema: quello del rapporto fra papa e concilio, pervenendo a conclusioni discordanti, che riflettevano però, in più di un caso, l'opposizione alla pienezza del potere rivendicata dal vescovo di Roma. Nella sua formulazione più radicale, la dottrina del "conciliarismo" sosteneva apertamente la subordinazione del papa al concilio ecumenico, concepito come rappresentanza dell'intera Chiesa. Ma il "conciliarismo" sarebbe probabilmente rimasto un'ipotesi di lavoro se non fosse intervenuto lo "scisma d'Occidente", quando, di fronte allo scandalo di due o tre papi contemporaneamente (dai tempi di Alessandro III, 1159-1181, non si era più visto un antipapa!), si presentò l'occasione per un rilancio in grande stile, in contrapposizione alla monarchia papale, dell'istanza conciliare. Falliti i tentativi di indurre il papa di Roma e quello di Avignone ad abdicare o a sottomettersi a un collegio arbitrale, vent'anni dopo l'inizio dello scisma la convocazione di un concilio apparve infatti come l'unica soluzione possibile. Tredici cardinali delle due parti, abbandonate le rispettive "obbedienze", convocarono un concilio a Pisa per il 1409. Esso pretese di costituirsi come concilio ecumenico; depose i due papi; e autorizzò i cardinali presenti a riunirsi in conclave per eleggerne uno nuovo, Alessandro V. Ma i due papi deposti in contumacia non cedettero, e così, al posto dello "scellerato dualismo" subentrò, come scrive un contemporaneo, un "maledetto trinomio". La soluzione conciliare fu rilanciata da Sigismondo, re dei Romani dal 1411 e poi imperatore (1433-1437), che non senza fatica indusse Giovanni XXIII (1410-1415) a convocare nel 1413 un nuovo concilio, quello, almeno all'inizio, imperial-papale di Costanza (novembre 1414-aprile 1418), che è il sedicesimo della lista degli ecumenici. La decisione di votare non per testa ma per nazioni, imposta da Inglesi, Tedeschi e Francesi, impedì ai numerosi Italiani presenti di confermare come unico papa lo stesso Giovanni XXIII, che, vista la mala parata, fuggì da Costanza, offrendo un buon pretesto per la sua deposizione. Per le pressioni di Sigismondo e convinti da un intervento di Jehan de Gerson, cancelliere dello Studio di Parigi, i partecipanti al concilio proseguirono i lavori in assenza del papa che lo aveva convocato. La sostanza del "conciliarismo" fu recepita nel decreto Sacrosancta (6 aprile 1415). A Roma, Gregorio XII (1406-1415) accettò di dimettersi, dopo avere ribadito la sua legittimità col promulgare una nuova bolla di convocazione del concilio in corso a Costanza; a Avignone, Benedetto XIII (1394-1417) non volle invece farlo e fu deposto. La tesi di chi non intendeva procedere all'elezione di un nuovo papa senza avere prima provveduto a riformare la Chiesa "nel capo e nelle membra", risultò minoritaria. Ci si accordò solo sull'approvazione di alcuni decreti già pronti, fra cui il decreto Frequens, che prevedeva che il concilio ecumenico si riunisse a scadenze fisse, diventando così un contropotere stabile del papa. L'11 novembre 1417 i cardinali e sei delegati per "nazione" elessero papa il cardinale romano Oddo Colonna. Fu appunto Martino V (1417-1431) a convocare, poche settimane prima di morire, in ossequio a quanto si era convenuto, il concilio di Basilea, che, nelle aspettative generali, avrebbe dovuto portare a termine quella riforma della Chiesa di cui nelle residue sessioni conciliari e dopo chiuso il concilio di Costanza, Martino, che nel 1420 aveva fatto ritorno a Roma, si era limitato a abbozzare alcuni tratti, avendo soprattutto a cuore di salvaguardare o di restaurare il prestigio compromesso del "sovrano pontefice". Il compito del suo successore, Eugenio IV (1431-1447), che, nonostante l'impegno preso col Collegio cardinalizio, mostrò subito di condividere la linea sostanzialmente antiriformista di Martino V, fu facilitato dal disaccordo che regnava fra i riformatori riuniti in concilio a Basilea dal 23 luglio 1431 e dal crescente e inconcludente radicalismo che finì col prevalervi, dopo una fase iniziale nel corso della quale erano stati approvati alcuni decreti che, se applicati, avrebbero fornito un sostanziale contributo al rinnovamento della Chiesa. La rottura fra Eugenio IV e il concilio di Basilea avvenne quando il papa indicò come sede per un concilio di unione con i Greci una città italiana. Al decreto di trasferimento del concilio da Basilea a Ferrara, promulgato da Eugenio il 18 settembre 1438, la maggioranza basileese replicò deponendolo e nominando al suo posto Amedeo VIII di Savoia, che prese il nome di Felice V. Da parte sua, Eugenio, che spostò da Ferrara a Firenze il concilio di unione, ottenne un effimero, ma clamoroso, successo, realizzando la riunificazione con la Chiesa orientale sulla base delle posizioni romane. Il concilio di Basilea si concluse con un nulla di fatto, dopo essersi trasferito nel 1443 a Losanna; Felice V, l'ultimo antipapa, abdicò nel 1449. Ristabilita in sede conciliare a Costanza l'unità della Chiesa, i vescovi di Roma tralasciarono di impegnarsi nella difficile impresa di attuarne la riforma secondo i principi già decretati in parte nella stessa sede. I loro predecessori tardoantichi e altomedievali non solo si erano battuti con tenacia in difesa della lettera dei canoni dei grandi concili del IV e V sec., in particolare di quello di Calcedonia, contro la pretesa degli imperatori di decretarne autoritativamente interpretazioni di comodo, ma (come faceva notare polemicamente il conciliatorista Nicolò da Cusa in una memoria scritta nel 1433, durante il concilio di Basilea) essi per primi avevano "sempre [...] osservato scrupolosamente tutti i decreti dei concili generali", perché, non ritenendo "che il loro potere fosse superiore alle decisioni dei padri", riconoscevano di essere "soggetti al concilio ecumenico". I papi del dopo Costanza si contentarono invece di vedere restaurato dopo lo scisma il primato della Sede apostolica, anche se, negli stessi ambienti curiali e, in genere, ecclesiastici, la riforma della Chiesa era ormai, almeno a parole, ritenuta indifferibile. Agli albori dell'età moderna, il percorso accidentato del papato medievale si concludeva fra i fasti e i nefasti di Roma nel Rinascimento. Prima della fine del secolo, i sovrani pontefici, al pari degli altri potentati italiani, furono coinvolti nella bufera delle "guerres d'Italie". All'incirca venti anni dopo, in terra tedesca, là dove il papato, nei secoli centrali del medioevo, aveva affrontato con determinazione e superato con un parziale successo la prova più dura, sarebbe esplosa la Riforma propriamente detta, che, per il fatto di disconoscere, con la dottrina luterana della giustificazione mediante la fede, la necessità di intermediari fra la coscienza dei singoli credenti e Dio, sarebbe stata indotta a radicalizzare le tesi antipapali e, in genere, antiecclesiastiche avanzate in precedenza da John Wycliffe e dal boemo Jan Hus, nel solco, almeno in parte, della tradizione ereticale del sec. XI e seguenti, arrivando ad affermare, anche sulla scorta di 1 Pietro 2, 9 ("voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa"), che, "attraverso il battesimo, siamo tutti sacerdoti". I roghi, a Costanza, delle ossa, riesumate per l'occasione, di Wycliffe, e di Hus, bruciato vivo, non sarebbero bastati a risparmiare al papato, che proprio a Costanza aveva visto ristabilita l'unità della Chiesa nell'obbedienza al solo vescovo di Roma, la prova suprema che di lì a poco lo attendeva.