L'età romana
Nel millennio circa compreso fra la fondazione della prima colonia romana, Aquileia, nel 181 a.C., ed il sorgere di Venezia si sviluppa nell'area veneta una cultura artistica che, pur nella grande dispersione dei materiali avvenuta nei secoli successivi, è relativamente ben documentata e si presenta come la premessa naturale della grande stagione della Serenissima. Non si intende con questo affermare che esista fra le due una continuità di forme e di linguaggio, ché anzi esse sono separate da una netta cesura, segnata dai profondi mutamenti territoriali, economici e sociali dei secoli VII e VIII. L'eventuale coincidenza di iconografie o schemi decorativi non appare di per sé particolarmente significativa, posto che la tradizione paleocristiana e bizantina, e quell'esperienza classica di cui esse sono mediatrici, sono presenti in varia misura nel Medioevo italiano. Piuttosto, nelle manifestazioni dell'artigianato artistico dell'area che ha i suoi punti di riferimento primari nella fascia costiera, da Altino a Concordia, ad Aquileia e Grado, si coglie una connotazione peculiare, che si definisce nella prima età imperiale ed attraverso forme e contenuti diversi permane nei secoli successivi, per riproporsi con rinnovata evidenza in Venezia. Si tratta della straordinaria ricettività verso stimoli di matrice diversa, congiunta alla capacità di filtrarli e farli propri, ora assimilandoli ora rielaborandoli in espressioni di sicura individualità. Troviamo in ciò il riscontro alla specifica situazione geografica e storica, che fa dell'area veneta il naturale punto di incontro di itinerari terrestri e marittimi fra Oriente ed Occidente, fra bacino mediterraneo ed Europa continentale. L'alto Adriatico è infatti un ganglio dei più vitali nel sistema politico ed economico romano, che, pur fondamentalmente mediterraneo, è proiettato fin dalla prima età imperiale anche verso le regioni interne e settentrionali dell'Europa, dalla Pannonia al Norico, alla Germania, alla Britannia.
Nello sviluppo di Aquileia è determinante la componente mercantile, che sia pure in misura minore è presente anche negli altri centri della "Venetia" costiera e che si traduce nella formazione di una società aperta e dinamica, che gode di un livello notevole di benessere ed in cui hanno parte non trascurabile gli elementi allogeni: occidentali, africani ed in special modo orientali. In questa trama di rapporti l'Oriente greco appare l'interlocutore privilegiato, ma sono in piena evidenza anche l'Africa, non meno che le aree transalpine e, ovviamente, Roma. Sul piano della produzione artistica tali connessioni si concretano di volta in volta nell'apporto di manufatti d'uso e di merci di lusso, di modelli e di maestranze e, più in generale, nella familiarità con forme ed espressioni di altri ambienti culturali.
L'incidenza di questi contributi non è un fattore costante. In età romana, in presenza di una committenza diversificata quanto a cultura, esigenze e possibilità economiche, il panorama si presenta frammentario e apparentemente disorganico: da un lato la produzione ufficiale, che poco o nulla si distingue da quella della capitale, dall'altro la sfera privata, maggiormente segnata da suggestioni tipologiche e formali transmarine. In età tardo-antica invece, mutata la situazione economica e sociale e progressivamente ristrettosi l'ambito della committenza ai ceti più elevati, si definisce una produzione più omogenea quanto a funzioni e finalità espressive, nella quale la tradizione di un artigianato abile e disinvolto e gli apporti di continuo rinnovati dai grandi centri culturali del Mediterraneo si integrano in una sintesi organica ed originale. Sono questi processi di compenetrazione fra la realtà locale e le sollecitazioni esterne che mi propongo di illustrare in queste pagine (come anche fa G. Cantino Wataghin nel capitolo successivo), privilegiando quindi quegli aspetti della produzione che più appaiono legati all'apertura adriatica delle città venete, nei quali si può meglio cogliere quello specifico atteggiamento culturale, che affonda le sue radici nella natura stessa del territorio, intimamente legato al mare e naturalmente proiettato verso Oriente.
Di autonomia culturale della "Venetia" non si può certo parlare nella prima fase della romanizzazione, quando la produzione artistica locale appare decisamente condizionata dalle esperienze medio-italiche ed urbane; il fenomeno acquisisce contorni originali solo a partire dalla metà circa del I sec. a.C., in coincidenza con la ripresa dei commerci con l'Oriente greco, donde arrivavano, assieme alle merci, stimoli di cultura ellenistica non mediati attraverso la capitale. Inizia così a formarsi un particolare linguaggio che con la Sena Chiesa definirei "ellenismo padano", ove si fondono con eclettismo e vivacità creativa gli stimoli pervenuti attraverso la direttrice peninsulare a quelli autonomamente giunti nella "Venetia" attraverso quella grande via di penetrazione culturale che è il mare. Va da sé che l'"ellenismo padano" non può essere cercato nelle manifestazioni di arte pubblica e ufficiale (urbanistica, architettura, statuaria iconica, ritratto ecc.) che continuano a seguire pedissequamente le mode della capitale, bensì in alcune classi di materiali attinenti alla sfera privata (monumento funerario, scultura decorativa, artigianato di lusso, mosaico), nell'ambito delle quali più liberamente poteva manifestarsi il gusto della committenza, autonomamente aperta verso le tradizioni oltremarine (1).
La presenza di una molteplicità di suggestioni tipologiche e formali, riconducibili talvolta ad una precisa matrice culturale (ellenismo medio-italico, classicismo urbano, tradizione greco-orientale), frutto talaltra dell'elaborazione locale di un artigianato vitale e creativo, risulta particolarmente evidente quando si passino in rassegna i molteplici tipi di monumento funerario documentati nella "Venetia". I limiti cronologici entro cui si manifesta il fenomeno dell'acquisizione e della diversificazione delle tipologie sono comprimibili nell'arco di poco più di un secolo (seconda metà I sec. a.C.-I sec. d. C.), in coincidenza cioè con il consolidamento della presenza romana e la riscoperta della vocazione commerciale della "Venetia".
Dal punto di vista distributivo le necropoli, che si disponevano per lo più lungo le strade di accesso alla città, rispettano in pieno la tradizione romano-italica, cui anche ci riporta il costume di delimitare l'area sepolcrale per mezzo di bassi muretti o di elementi mobili, come transenne e palizzate (2), oppure con vere e proprie chiusure a carattere monumentale, come nell'aquileiese sepolcro degli "Statii", di età flavia, la cui balaustrata a pilastrini impostati obliquamente e riccamente decorati con elementi fitomorfi trova riscontro a Boretto, nel monumento dei "Concordii", ma anche a Roma nel rilievo degli "Haterii". I cippi con iscritte le misure dell'area funeraria, posti generalmente sulla fronte o agli angoli, servivano a ribadire la proprietà della zona, che soggiaceva a vincoli giuridici di cui spesso è data indicazione nelle iscrizioni. All'interno di questi recinti venivano posti i segnacoli che potevano assumere la connotazione di un vero e proprio mausoleo (su podio, quadrangolare o cilindrico, ad edicola o a "tholos", con copertura frontonata, a cuspide o piramidale) oppure presentare misure piu ridotte, come gli altari, le stele, i cippi, ottagonali o cilindrici, le urne, ecc.
A partire dalla metà del Il sec. d. C. tali diversificate tipologie monumentali vennero per lo più sostituite dai sarcofagi, il cui uso si generalizzò quando, per motivi non ancora del tutto spiegati (credenze filosofiche di stampo neo-pitagorico oppure suggestioni umanitarie), il rito dell'inumazione soppiantò quello dell'incinerazione. Non mancarono tuttavia persistenze della tipologia stelare, che nel IV sec. d.C. ebbe una rinnovata stagione di moda presso la committenza militare.
I numerosissimi frammenti di fregio dorico rinvenuti soprattutto nella "Venetia" orientale (Aquileia, Cividale, Pola), ma attestati anche lungo la direttrice dell'Adige (Este, Verona) e nella Padania interna (Brescia, Milano), documentano la recezione del monumento a dado con fregio dorico, interpretazione municipale del mausoleo ellenistico su podio, che, fra l'età sillana e la fine del I sec. a.C., godette del favore della "borghesia" italica (3). Dall'analisi di tale classe di monumenti risulta evidente che, nonostante l'adesione al modello sia completa dal punto di vista strutturale, non mancano influssi da ambienti diversi, che si concretizzano ad esempio nell'adozione del bucranio di tipo "Hautskelette" (4), che presenta la testa di bue scarnificata ma ancora coperta dalla pelle con ciuffo di peli fra le corna, secondo una tipologia greco-orientale (cf. i bucrani dell'"Arsinóeion" e del "Ptolemaion" di Samotracia o quelli del tempio di Demetra a Pergamo), mediata forse per il tramite della capitale (come ci istruiscono i bucrani del sepolcro di Bibulo). In area municipale sembra invece preferita la protome bovina naturalistica tipica della tradizione micro-asiatica e greco-insulare.
Nell'ambito di questa categoria di monumenti va ricordato quello di L. Alfio Stazio della prima età augustea, rinvenuto in località Petrada, lungo la strada per Ponte Sonti e ricostruito nel Museo di Aquileia (5): qui la massiccia struttura del dado viene spezzata orizzontalmente mediante l'inserzione di un meandro, partito decorativo di lontana ascendenza greca ma ben presente anche nel classicismo urbano (basti pensare all'"Ara Pacis"), che non ha solo funzione decorativa ma serve anche a separare la zona destinata all'iscrizione da quella che orgogliosamente ostenta, secondo la più genuina tradizione italica, i simboli della professione che aveva assicurato ad Alfio Stazio un ruolo importante nella compagine sociale aquileiese.
Fra i monumenti su podio godette di particolare fortuna quello con colonnato circolare e coronamento cuspidato, all'interno del quale venivano posti la statua o le statue dei defunti. Dal punto di vista tipologico il modello ispiratore può essere forse considerato il monumento coregico di Lisicrate (seconda metà del IV sec. a.C.), cui possono riconnettersi i mausolei greco-ellenistici ben documentati in area italica (Marsala: III sec. a.C., Cales: età sillana; Pompei, mausoleo degli Istacidii: I sec. a.C.; Sestino: età sillana; Ostia: fine I sec. a.C.; Nettuno: inizi I sec. d.C.; Terni, ecc.) (6).
Alla stessa matrice (ellenismo italico di ispirazione greco-orientale) possiamo riferire anche la copertura a lati concavi (si v. la tomba di Assalonne a Gerusalemme, le "tholoi" di Petra, il monumento di Termessos (7)), ben nota peraltro ai decoratori pompeiani e utilizzata in strutture funerarie anche nel centro e nord Italia (Nettuno, Sarsina, Maccaretolo, ecc.) (8).
Nell'adattamento alto-adriatico il tipo presenta numerose varianti da ascrivere da un lato ad una maggior incidenza del classicismo urbano, dall'altro ad autonomi stimoli dell'ellenismo greco-orientale. Tale molteplicità di componenti ben si coglie nel Grande Mausoleo di Aquileia, i cui resti, venuti alla luce nel corso di due campagne di scavo (1891, 1952) a Roncolon di Fiumicello, furono ricomposti con un restauro, oggi soggetto a revisione critica, lungo la Via Giulia (9).
La componente ellenistica di tradizione medio-italica emerge nella struttura generale del monumento e nei leoni, simmetricamente posti ai lati del sepolcro con le fauci ruggenti e la zampa posata sulla testa di un ariete; essi infatti, se pur genericamente ricollegantisi a quelli di Cnido e di Alicarnasso (ma confronti più puntuali, almeno sul piano iconografico, si possono fare con i leoni di Sagalasso e di Delo (10)) sono da porre in più diretta relazione con la rielaborazione di tali modelli operata in area municipale, come non ha mancato di sottolineare la Marini Calvani (11). Più specificamente romano-italica appare l'ostentazione dello "status" sociale del defunto, che si manifesta con la iscrizione sulla fronte, di cui resta purtroppo solo un minuscolo lacerto, e con l'evidenziazione degli emblemi della sua funzione (sella curule e fasci) (12).
Una più precisa suggestione classicistica emerge invece nell'utilizzo del meandro con funzione partizionale, come nel già citato monumento di L. Alfio Stazio, e nella delicata scansione delle membrature architettoniche (semipilastri addossati alla parete fra i quali si dispongono arcate semplicemente modanate), tipologicamente ricollegabili a quelle della rotonda sulla Via Appia della prima età augustea (13), in cui ritroviamo anche le ghirlande disposte entro le arcate, motivo di lontana derivazione ellenistica, ormai entrato nel tradizionale repertorio ornamentale romano. Per quanto riguarda le maschere teatrali appese alle estremità delle ghirlande, esse trovano riscontro nella pittura pompeiana e, in ambito locale, sugli altari cilindrici. Al gusto neo-attico, ampiamente documentato a Roma già nel I sec. a.C., possono essere riferiti sia il tritone sia il cantaro, che ricorda oggetti finemente cesellati, mentre i tori vittati sembrano rientrare nell'iconografia romana del sacrificio.
Nel complesso dunque il monumento manifesta un gusto eclettico nella associazione di tipologie di tradizione ellenistica, sia municipale sia urbana, ed è forse da riconnettere a quella ben documentata classe emergente aquileiese che aveva con l'Urbe stretti e continui rapporti.
La fortuna di cui godette il monumento funerario su podio in ambito alto-adriatico è confermata da alcuni ritrovamenti altinati: recenti scavi hanno messo in luce nella necropoli nord-orientale dell'Annia le fondazioni di un basamento pressoché rettangolare (m 8 di lato), su cui si impostavano colonne libere, reggenti un architrave decorato a foglie acantiformi e cantari; un grande capitello corinzio fungeva da coronamento alla copertura. Al medesimo complesso appartenevano un ritratto maschile e uno femminile di altissima qualità stilistica, rifacentisi rispettivamente al realismo italico e al classicismo urbano. Cronologicamente il complesso sembra doversi datare nei primissimi anni del I sec. d.C. (14).
A questa tipologia monumentale si può ricollegare anche il grande mausoleo altinate, venuto alla luce in occasione degli scavi condotti da J. Marcello nel 1952, e parzialmente ricomposto nel locale Museo. Originale rispetto alla tradizione italica appare la soluzione dell'alto basamento cilindrico decorato con motivi acantiformi - diametro m 3,50 circa - che potrebbe latamente riconnettersi a quello efesino con festoni e bucrani - diametro m 3,10 circa - datato, come d'altronde il mausoleo altinate, ad età augustea (15).
Più precisi riferimenti all'ellenismo orientale emergono nel singolare mausoleo dei "Curii", i cui elementi architettonici sono stati rinvenuti nel 1883 in località Colombara, e la cui ricomposizione ad opera dell'architetto Mayreder nel giardino del Museo di Aquileia appare nella sostanza attendibile (16). L'elemento caratterizzante è costituito dalla copertura a pianta triangolare a lati concavi, che culmina in un capitello corinzio pure triangolare. Tale forma, che non sembra documentata in area italica, ad eccezione dell'isolata testimonianza di Cosa (II sec. a.C.), trova invece significativi raffronti in Africa nei mausolei punico-ellenistici di Sabratha del II sec. a.C., e riecheggia anche nel contemporaneo monumento di Siga, che servì forse da sepolcro al re numida Vermina (17). In ambiente micro-asiatico questo singolare modello a pianta triangolare appare documentato per ben due volte a Mileto, nel monumento onorario del porto, dedicato verisimilmente nel 63 a. C. per la vittoria di Gneo Pompeo sui pirati, e nel monumento funerario di "Grattius" di età flavia (18). Una conferma della fortuna di cui godette questa singolare soluzione in area aquileiese è fornita dai due frammenti di cornice a lati concavi (fine I sec. a. C. - inizi I sec. d.C.) e da un capitello corinzio triangolare di età augustea, analogo a quello che fungeva da coronamento al mausoleo dei "Curii" (19).
Documentato solo da frammenti di lacunari, di rocchi di colonna, di acroteri, è invece il tipo ad edicola con coronamento a frontone o a cuspide, di tradizione medio-italica ma assai diffuso nell'"VIII Regio" (Sarsina, Maccaretolo, Beverara, ecc.); entro monumenti di tal genere erano verisimilmente inserite statue di defunti stanti o seduti, di cui restano numerose testimonianze nei Musei del Veneto (Aquileia, Altino, Padova, Este, ecc.).
A mezzo fra il monumento-mausoleo e il segnacolo funerario stanno i cosiddetti monumenti "ad ara", singolare categoria attestata quasi esclusivamente ad Aquileia (20); sotto questa denominazione si classificano quei monumenti che presentano una struttura cubica poggiante su gradini, con coronamento formato da pulvini a cui generalmente si aggiunge una snella cuspide. Si tratta quindi di un compromesso fra il tipo ad altare, di matrice ellenistica, che godette di una certa fortuna in area urbana e italica, e la riproduzione miniaturistica del mausoleo ad edicola con cuspide quadrangolare, di cui restano numerose testimonianze in area emiliana. Il rapporto con quest'ultimo appare particolarmente evidente nelle are di "Postumius Hilarus", di "Sabia Optata", di "Plotia Plotina", di "Oetius Rixa" (con coronamento non pertinente), che presentano la fronte inquadrata da colonnine e partizioni architettoniche anche sui lati (21). Poiché tale tipologia non sembra documentata prima della tarda età tiberiana si può plausibilmente affermare che questo tipo di sepolcro sostituì i mausolei precedentemente esaminati, cronologicamente riferibili all'età augustea.
In un periodo in cui la produzione aquileiese appare da un lato fortemente influenzata dalla tradizione urbana (si veda ad esempio il ciclo onorario giulio-claudio), dall'altro genericamente allineata alla contemporanea produzione cisalpina (si cf. la decorazione architettonica), appare particolarmente significativa l'elaborazione di questa fortunata tipologia monumentale, attestante la vitalità e la fantasia dell'artigianato locale, qualità che si manifestano anche nella varietà dei temi scelti per decorare i lati delle are. Ora è infatti riconoscibile un'ispirazione "romana" (l'uomo in toga con il rotolo), ora emerge con maggior evidenza il gusto attico, solo parzialmente filtrato attraverso la capitale (la raffigurazione dell'Estate, il tipo della defunta seduta con specchio e colomba, la donna gravemente ammantata), ora si coglie l'adesione più o meno pedissequa a un repertorio simbolico-funerario di matrice ellenistica, generalmente diffuso dal centro al nord Italia (Attidi, Eroti con fiaccola, Eroti su delfino, ecc.). Fra i vari soggetti mi sembra che valga la pena di sottolineare l'originale iconografia adottata per decorare i fianchi dell'ara di "L. Cantius Fructus ", rinvenuta nel 1962 nella necropoli di levante (22): il motivo dell'Erote su mostro marino, certamente di origine ellenistica, è attestato anche su gemme aquileiesi della prima età imperiale (23) e documenta la fitta circolazione di modelli fra le diverse botteghe artigianali.
Particolarmente diffuso nella "Venetia" è il segnacolo di forma cilindrica adorno di ghirlande di fiori o frutta, rette da bucrani, maschere o protomi umane. Esso compare precocemente ad Aquileia (metà circa del I sec. a.C.), ma non sembra godere del favore della clientela locale, mentre si generalizza nella produzione di Altino, con diffusione nella vicina Oderzo: altari cilindrici sono documentati anche a Verona, ove la tipologia evolve in modo sostanzialmente originale, come d'altronde a Este, in cui è attestata la contaminazione con il cippo cilindrico cordonato, di tradizione medio-italica.
L'origine di tale segnacolo è certamente da ricercarsi nell'Egeo orientale (24), donde esso sarebbe stato esportato verso Occidente; l'ampia diffusione del tipo, documentato con significativi esemplari anche nel centro e sud Italia, non consente di definire con certezza se esso sia pervenuto nella "Venetia" direttamente dall'Oriente greco oppure per il tramite medio-italico. La prima ipotesi sembra tuttavia acquistare spessore, se si tien conto che le prime testimonianze aquileiesi, databili fra la tarda età repubblicana e la prima età augustea, coincidono con la fase di autonoma proiezione verso Oriente. Sembra confermare questa ipotesi un frammento del Museo di Aquileia con danzatrice (o Vittoria?) reggi-ghirlanda, eseguito in calcare locale, che trova puntuale raffronto in altari cilindrici di produzione insulare (Rodi e Coo) (25). La maestria con cui l'artigiano traduce nella dura pietra la stoffa sottile e velificata, che sottolinea la posizione attorta del corpo, aprendosi al contempo in eleganti se pur manierati svolazzi, denuncia una lunga dimestichezza con modelli orientali. Non sembra pertanto azzardato ipotizzare che anche i più comuni altari a ghirlanda si siano diffusi nella "Venetia" per trasmissione diretta.
Tuttavia presto la originale, semplice struttura cilindrica venne vitalmente reinterpretata e modificata sia nei dettagli (sostituzione ai bucrani di maschere e protomi umane, ma si vedano anche le originali teste di leone entro clipei di Oderzo), sia nella concezione tettonica del monumento, la cui superficie venne progressivamente occupata da complicati viticci, spesso popolati da presenze animali.
Tale spiccata predilezione per la ridondanza decorativa caratterizza un'altra classe di monumenti funerari, diffusi soprattutto in area altinate-opitergina; si tratta dei segnacoli ottagonali, che presentano gli otto lunghi rettangoli del fusto decorati con inesauribile fantasia: viticci attorti, candelabre di foglie simmetricamente disposte rispetto al fusto verticale emergente da un cespo d'acanto o da un "kantharos", "anthemia" raccordati da foglie d'acanto, fiori trilobi, ecc. Ciascun rettangolo è poi inquadrato da ridondanti cornici, costituite da ovoli, astragali, bastoncelli di foglie, in una continua ricerca di rinnovamento decorativo (26). Poiché non si sono rinvenuti, almeno fino a oggi, precedenti sicuri del tipo né nell'Oriente greco né in Italia, non sembra azzardato ipotizzare che il cippo ottagonale sia una creazione locale sorta dalla contaminazione fra l'altare cilindrico, da cui vengono ripresi le modanature di base e di coronamento e il gusto della decorazione vegetale, e i pilastrini parallelepipedi che fungevano da delimitazione delle aree sepolcrali.
L'arco cronologico in cui tale segnacolo è documentato (età tiberiana/fine I sec. d.C.), leggermente posteriore rispetto a quello delle are cilindriche (età augustea/età claudia) e di poco anteriore a quello delle are parallelepipede (età claudia/età traianea), coincide con uno dei momenti più alti della creatività dell'artigianato locale.
Una certa originalità si manifesta anche nelle cosiddette stele architettoniche, ricollegabili dal punto di vista strutturale ai segnacoli ellenistici a forma di tempietto ("naiskoi") in una interpretazione pesantemente influenzata dal costume romano della esposizione dei ritratti degli antenati ("imagines maiorum") entro nicchie o armadi (27). Le prime testimonianze della diffusione di questo tipo di stele sono databili fra la tarda età repubblicana e la prima età augustea ed esso continuò a godere del favore della committenza fino all'avanzata età claudia, anche se non mancano testimonianze posteriori. La suggestione alla creazione di questa singolare tipologia monumentale, di cui non mancano varianti locali ricollegabili alle diverse botteghe artigianali, dovrebbe essere giunta nella "Venetia" dall'Oriente greco, come sembra suggerire la struttura rastremata delle stele altinati e opitergine, che ricorda quella degli esemplari insulari e micro-asiatici, anche se non si può del tutto sottovalutare l'influsso dei mausolei architettonici a edicola, di cui la stele rappresenterebbe la versione miniaturizzata.
Più sicuri riferimenti alla tradizione greca emergono nella stele altinate con coppia di defunti a figura intera (28); qui l'eclettismo tipico dell'artigianato locale si manifesta appieno nella contaminazione fra una concezione monumentale, riecheggiante la tradizione attica, e l'accentuato decorativismo dell'apparato architettonico, cui si può aggiungere l'abbigliamento della donna, che trova riscontro in una figura panneggiata da Aquileia.
Nell'ambito del fenomeno dell'acquisizione di modelli greco-orientali non si può dimenticare la più tarda, piccola stele atestina, di forma rastremata con nicchia ad arco di tipo greco-insulare, entro cui è rappresentato un personaggio maschile vestito di pallio, seduto nello schema del filosofo (29).
Il quadro delle direttrici di influenza si presenta più articolato quando si passi all'analisi dei sarcofagi, precocemente attestati nella "Venetia" con gli esemplari di Asolo e di San Canzian d'Isonzo (30); ma il numero dalle testimonianze di I sec. d.C. è destinato ad aumentare quando si riesamineranno alla luce delle nuove proposte di datazione (31) le casse lisce e quelle con iscrizione entro tabella che sembrano ricollegarsi alla coeva tradizione urbana. Ciò non toglie che gli esemplari citati acquisiscano un ruolo di particolare importanza nel panorama culturale locale, in quanto manifestano una precoce tendenza alla personalizzazione della cassa che viene ornata con un ricco apparato decorativo desunto dal comune repertorio funerario (32).
Intorno alla metà del Il sec. d. C., in coincidenza con una più ampia diffusione del rito dell'inumazione, la situazione cambia radicalmente e il mercato alto-adriatico si apre alla produzione greca (soprattutto attica, ma non mancano testimonianze di importazioni micro-asiatiche), mentre quasi del tutto abbandonata appare la direttrice urbana, che tornerà ad essere più incisiva dalla fine del II sec. d. C. in avanti.
I numerosi frammenti di sarcofagi attici conservati ad Aquileia confermano il ruolo egemone della città, capolinea di un'importazione che di lì veniva inoltrata verso l'entroterra per soddisfare la richiesta di una colta e raffinata committenza (33).
Prediletto appare il tema degli Eroti: amorini suonatori ornano la cassa di un sarcofago di età antoniniana di recente ritrovamento (34), cui fan riscontro quello coevo con erme barbate agli angoli della fronte e grande cratere baccellato al centro e il delicatissimo putto con cesto vimineo di elegante fattura databile al secondo venticinquennio del III sec. d.C. (35); a bottega attica si possono riferire anche gli Eroti danzanti di Gemona (36).
Ad Aquileia sono documentati, purtroppo solo da miseri frammenti, sfuggiti per caso allo scempio delle calcare, anche altri temi tipici della produzione attica: scene di battaglia fra Greci e Troiani oppure fra Greci e Amazzoni, episodi mitici (Meleagro e Ippolito) ed epici (Achille a Sciro, battaglia alle navi, il riscatto del corpo di Ettore); scarse le testimonianze del tipo con coperchio a "kline" e assenti, se si eccettua il "Kinderkomos", i riferimenti dionisiaci (37). Allargando l'orizzonte all'entroterra troviamo la battaglia di Maratona a Brescia, a Trieste e a Pola, le Muse a Milano, frammenti dionisiaci a Brescia e forse a Cividale, l'Amazzonomachia ad Asolo, a Venezia (ma il frammento è verisimilmente altinate), a Trieste, dove anche sono conservati frammenti di sarcofagi con Achille a Sciro e con Fedra e Ippolito (38). L'unico esemplare integro, con il mito di Meleagro, copia fedele di quello di Patrasso, che stava a Villa Altichiero presso Padova, risulta attualmente perduto (39). A queste testimonianze si può forse aggiungere il bel pezzo veneziano con battaglia alle navi (40), di cui però non è sicura la provenienza.
Accanto al fenomeno dell'importazione del prodotto finito si registra precocemente ad Aquileia quello dell'imitazione locale dei modelli greci che talvolta vengono pedissequamente copiati, come mostrano il frammento pertinente alla battaglia alle navi, di cui ci è casualmente pervenuto anche il modello attico, e le sfingi e grifoni eseguiti nel duro calcare locale (41), talaltra reinterpretati con l'aggiunta di elementi desunti da tradizione locale oppure urbana. È questo il caso del sarcofago conservato nella cattedrale di Torcello, che fu riutilizzato come sepolcro per il martire Eliodoro primo vescovo di Altino (42). Qui la forma della cassa, le cariatidi e gli alberelli angolari, il "symplegma" degli Eroti ebbri, la sfinge alata che poggia la zampa sulla testa di un ariete, i grifoni affrontati ai lati di un candelabro, parlano inequivocabilmente un linguaggio attico, ma la grande tabella con iscrizione che occupa gran parte del lato lungo, riducendo i "symplegmata" a elementi simmetrici e decorativi, si ricollega alla tradizione locale, come pure il leone accucciato, che sostituisce i più comuni animali fantastici (sfinge, grifone), e trova riscontro nelle poderose fiere del Grande Mausoleo aquileiese e nei leoncini accovacciati sugli spioventi delle stele e sulle coperture delle are.
Anche il tema attico del tiaso di Eroti venne imitato dagli artigiani aquileiesi, come mostrano i numerosi frammenti con putti, alati e non, intenti a danzare, a lottare, a trasportar cestelli, a meditare; fra tutti spicca quello con grandi ali che soffia entro la sua zampogna, variante del putto suonatore tipico del repertorio attico, che venne ripreso con modeste modifiche anche in un frammento di Portogruaro (43).
Il fenomeno della imitazione locale di modelli di tradizione attica risulta particolarmente evidente nel ben noto frammento con Admeto e Alcesti, che è stato più volte oggetto dell'attenzione degli studiosi (44): l'iconografia adottata riproduce infatti, con varianti trascurabili, quel gruppo di Ermes e Tetide che ritroviamo in secondo piano dietro ad Achille nei sarcofagi con la raffigurazione del riscatto del corpo di Ettore, di cui un frammento esiste anche ad Aquileia (45). L'interesse del gruppo Admeto/Alcesti non si esaurisce nel fenomeno, peraltro ben noto, della migrazione delle iconografie, ma acquista spessore se si tien conto che il mito, così pregno di suggestioni escatologiche, della sposa devota che si sacrifica per il marito, godette di ampio favore presso la committenza romana, ma non sembra attestato in ambito attico. Possiamo dunque supporre che un committente, avvezzo alla tradizione funeraria dell'Urbe, abbia commissionato il tema a un artigiano di cultura greca, che avrebbe adattato al nuovo soggetto un gruppo desunto da altro contesto, creando una sorta di "pasticcio", cui venne apposta, forse per non ingenerare errate interpretazioni, un'iscrizione esplicativa secondo un procedimento anomalo e non altrimenti documentato. A modelli attici si ricollegano anche i due frammenti patavini aquileiesi, con scene di Amazzonomachia riprodotte con inconsueta durezza (46).
Una molteplicità di suggestioni emerge invece nel sarcofago in calcare di Belluno (47): la fronte tripartita con le immagini dei defunti entro nicchie è ricollegabile alla tradizione locale ma assai rara è la cornice ottagonale per l'iscrizione di cui mi è noto solo un altro esempio a Salona; per il cavaliere a caccia si è utilizzato un modello documentato anche su un sarcofago di Eleusi, mentre l'iconografia di Diana appare frutto della contaminazione di modelli diversi (Eracle e la cerva cerinitide, Artemide cacciatrice tipo Versailles, Artemide che uccide l'animale tipo Delo); analogo processo traspare nel ritorno dalla caccia, raffigurato sul retro, che si ricollega alla lontana a iconografie mitiche (Meleagro) ma con un'originale e nuova interpretazione che denuncia la fantasia dello scalpellino locale. Non manca il richiamo alla cultura urbana che si esplica nell'apoteosi della defunta, secondo un procedimento che non sembra trovare riscontro in ambiente attico, mentre è pratica comune nei sarcofagi romani fin dalla tarda età antoniniana.
Emerge dunque a partire dalla fine del II - inizi III sec. d. C. accanto alla più tradizionale direttrice attica anche una componente urbana, che talvolta fornisce il tema (Admeto e Alcesti), talaltra il contenuto ("Privatapotheose"), talaltra infine le iconografie: è questo il caso ad esempio della drammatica figura di Egisto riverso a terra dopo essere stato colpito a morte dal figliastro, che sembra trovare riscontro nella versione urbana del mito piuttosto che nella più contenuta redazione attica (48).
Anche i due frammenti con Tritoni e Nereidi sono stati a ragione ricondotti a tradizione urbana, cui credo si possano riferire sia il frammento con figura maschile nuda su cocchio, erroneamente interpretato come Achille a Troia, più plausibilmente un Trittolemo che parte per la sua missione, sia quello con figura femminile in atto di scendere dal carro, in cui riconoscerei una Selene che si avvicina al fanciullo Endimione, sia infine la cosiddetta figura maschile eroica, che è forse un Atteone sbranato dai cani (49). Analoghe considerazioni valgono per il frammento convenzionalmente denominato della "pompa del magistrato" e per il Dioscuro del Museo di Treviso, la cui matrice urbana è stata a ragione sottolineata dal Canciani (50).
Ma le tradizioni attica ed urbana non sono le uniche attestate nella "Venetia", ove è ben presente, sia pur in misura minore rispetto all'area ravennate, l'influsso micro-asiatico. Di produzione efesia sono i due sarcofagi a ghirlande rinvenuti nel sepolcreto dei "Trebii" e databili alla metà circa del II sec. d. C., in coincidenza cioè con la prima fase dell'importazione attica (51); a officina caria si può forse riferire il frammento con putto reggi-ghirlanda e tabella, conservato ai Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, la cui provenienza dal territorio non è però del tutto certa (52), mentre è frutto della rielaborazione locale di iconografie micro-asiatiche e attiche il frammento aquileiese che conserva parte del fianco destro e del retro di un sarcofago architettonico: se infatti la ghirlanda con grappolo d'uva e l'Erote in volo trovano riscontro nella produzione dell'Asia Minore, la sfinge accucciata e il grifone sul retro appartengono piuttosto al repertorio attico (53).
Un'influenza dall'Oriente greco, che potrebbe essere mediata attraverso la contemporanea esperienza della capitale, si manifesta in quei sarcofagi architettonici, databili fra l'età severiana e la fine del III sec. d.C., caratterizzati da una ridondanza decorativa che interessa l'intera struttura architettonica (c.d. gruppo Aquileia-Grado) (54). L'esemplare giustamente più famoso è quello di Grado, databile intorno alla metà del III sec. d. C., come è stato di recente proposto, che presenta sulla fronte tre arcate ribassate che scaricano su colonne tortili, all'interno delle quali trovano posto tre coppie di personaggi: al centro il defunto e la defunta, ai lati filosofi e muse. Posteriormente l'eliminazione delle colonnine (ma non delle arcate) consente la raffigurazione di un mistico banchetto, con la coppia distesa su "kline" secondo la tradizione romana e diversamente da quella greca, che usava rappresentare la donna seduta ai piedi del letto (55). Alla medesima officina è generalmente attribuito anche il sarcofago di Tortona, che presenta la consueta tripartizione della fronte ma pone nell'arcata centrale la scena mitologica della caduta di Fetonte, di tradizione urbana (56). Testimonianze di questo tipo di sarcofago architettonico non mancano ad Aquileia, ove alla tripartizione della fronte si preferisce una maggiore articolazione dello spazio con almeno cinque arcatelle (57): fra i pochi esemplari che ci sono pervenuti, mi sembrano di particolare interesse due frammenti, uno con Stagioni, tema tipico della tradizione urbana, e uno con scene riferibili forse alla vita militare, espressione di quel gusto narrativo, così ben esemplificato nella produzione nord-italica (58).
Di imitazione micro-asiatica, ma di produzione romana, è il ben noto sarcofago concordiese "degli sposi", che presenta la medesima sovrabbondanza decorativa dei sarcofagi del gruppo Aquileia-Grado, ma con al centro una nicchia frontonata (59); il raffronto con gli esemplari di Villa Savoia e di Ostia consente di ipotizzare che il pezzo sia stato importato dall'Urbe non finito, per ricevere poi "in loco" i ritratti dei defunti (60).
Fra tanti stimoli diversi il vitale artigianato aquileiese seppe creare anche, fin dalla seconda metà del II sec. d. C., modelli autonomi: il sarcofago "a cassapanca" con tabella centrale, ansata e no, ed Eroti con ampie ali, la cui iconografia va a mano a mano allontanandosi dalle forme infantili dei modelli greci a favore di corpi più snelli e slanciati; il sarcofago architettonico con pilastri angolari, ispirato a forme attiche o micro-asiatiche ma originale nella partizione interna (tabella ansata ed Eroti, arcate ad archivolto e tabella centrale). Significativo sottolineare che la medesima pluralità di stimoli si evidenzia quando dall'esame della struttura si passi a quello dei contenuti figurativi, che ora si riallacciano alla tradizione attica (Eroti) ora a quella micro-asiatica (immagini stanti dei defunti) ora infine a quella italica narrativa (scene ispirate alle attività del defunto).
Le più antiche testimonianze di sculture aquileiesi si legano strettamente alle esperienze coroplastiche dell'area centro e sud-italica: verso la fine del II sec. a.C. si data la bella testa femminile di terracotta emergente da un cespo di foglie disposte con vivo senso decorativo, che apparteneva verisimilmente ad una cospicua struttura architettonica, di cui purtroppo non si può precisare la natura (61). Il classicismo del volto, su cui restano ancora tracce di colore, ben si inquadra nella tradizione dell'ellenismo italico, trovando confronti particolarmente stringenti con il mondo apulo, cui anche ci rimanda un frammento di fregio in calcare istriano all'incirca coevo (62). D'altronde i legami con il mondo apulo sono attestati già nella tarda età paleoveneta, come confermano ad esempio la stele patavina con guerriero a cavallo che incombe su un nemico caduto e il bronzetto atestino con Ercole giacente sulla leontea (63). Al classicismo urbano si può riconnettere il gruppo frontonale di Monastero, che trova riscontro nelle sculture di S. Gregorio e della Via Latina (64), mentre in Sicilia e in Magna Grecia (Agrigento, Siracusa, Monte Iato, Montescaglioso, Pompei) vanno cercati i precedenti dei monumentali telamoni di terracotta, databili all'incirca alla metà del I sec. a.C., di cui purtroppo non è possibile recuperare l'originaria collocazione essendo stati rinvenuti fuori contesto (65); alla medesima "koiné" culturale, anche se con accentuazione dell'elemento barocco, che nelle testimonianze aquileiesi è invece velato da una tendenza classicistica, appartiene un frammento altinate di alto livello qualitativo, mentre il telamone di Concordia, di dimensioni nettamente inferiori, presenta assonanze anche con esemplari delii (66); ad Aquileia è attestata da due statuette di arenaria anche la variante con panno drappeggiato intorno ai fianchi (67). Nell'ambito delle testimonianze della tradizione ellenistica mediata dall'area centro e sud-italica potremmo ricordare anche il fregio di ordine dorico di Este (68).
In questa prima fase (fine II-prima metà I sec. a.C.) la direttrice preferenziale (se non l'unica) è certamente quella peninsulare, nelle due componenti municipale e urbana, ma già intorno alla metà del I sec. a. C. si comincia a registrare un mutamento nel gusto che comporta l'acquisizione di alcune tematiche, che allo stato attuale delle nostre conoscenze sembrano direttamente rapportabili alla tradizione greco-orientale.
Di esecuzione sicuramente locale, come ci certifica il materiale usato (pietra d'Aurisina), è l'Icaro di Aquileia, per cui L. Beschi ha ipotizzato una collocazione come acroterio centrale nel monumento degli "Aquatores feronienses" (69). La statuetta, di cui resta il torso dal collo alla vita con l'attacco del braccio sinistro e parte del braccio destro (staccato ma pertinente), cui è fermata con spesse corregge un'ala, trova puntuale riscontro nel più completo esemplare altinate, purtroppo inedito. Entrambi i simulacri sembrerebbero usciti dalla medesima bottega attiva nella seconda metà del I sec. a.C. Raffigurazioni d'Icaro in contesto funerario sono ben attestate in area norico-pannonica, dove pervennero dal mondo alto-adriatico seguendo una consueta direttrice di penetrazione; scarsissime invece le testimonianze in area centro-italica dove l'unico Icaro sembra essere la statua dei Capitolini, rielaborazione adrianea di schemi policletei (70), che nulla ha a che fare con la vitale impostazione del modello alto-adriatico. Illuminante mi sembra invece il confronto con un bronzetto da Creta, attualmente al British Museum, probabilmente del I sec. a.C. (71): se si eccettua infatti l'assenza della clamide, che ad Aquileia e ad Altino è stata aggiunta probabilmente per facilitare il raccordo con il fastigio frontonale, le rispondenze appaiono stringenti, e non solo per la posizione ma anche per l'indicazione delle spesse corregge che fissavano le ali alle braccia dello sfortunato giovane. La diffusione del tema in area greco-orientale è confermata dal bronzetto di Smirne, dal gruppo d'Efeso, di cui resta solo la base con iscrizione dedicatoria, dai sarcofagi di Mira e Beirut e da una moneta di Pessinunte dell'età di Caracalla (72).
La fortuna del mito in ambiente alto-adriatico è forse da porre in connessione con la tradizione riportata dallo pseudo-Aristotele secondo cui "nelle isole Elettridi, che sono situate nell'intimo golfo dell'Adriatico, ci sarebbero due statue con dedica, una di stagno e una di bronzo [...> opera di Dedalo [...>. Dicono che Dedalo, giunto in queste isole, vi si sia insediato e abbia posto in una di esse la sua statua, nell'altra quella del figlio Icaro" (73).
A modelli greci del tardo V - inizi IV sec. a.C. ci riportano anche le due "Aurae", utilizzate probabilmente come acroteri laterali del medesimo tempietto degli "Aquatores feronienses": la veste velificata, strettamente aderente al corpo che emerge sodo dal lieve panneggio, è tipica espressione della corrente manieristica post-fidiaca che ha dato origine a una lunga serie di figure frequentemente utilizzate con funzione acroteriale (74). Il singolare accostamento di modelli della tradizione greco-orientale (Icaro) e greco-continentale ("Aurae"), unitamente al fatto che le due "Aurae" devono essere considerate rielaborazioni e non copie fedeli di un modello, denunciano chiaramente da un lato la molteplicità delle suggestioni, dall'altro l'eclettismo dell'ambiente artistico aquileiese.
Considerazioni analoghe valgono anche per la Sirena alata con frutta nel grembo rinvenuta ad Altino nella necropoli di Val Pagliaga, per cui è plausibile ipotizzare una originaria funzione quale acroterio di un monumento funerario (75). Il raffronto con le Sirene in pietra tenera di Taranto e con quelle del mausoleo numida-ellenistico di Dougga (Tunisia), datato agli inizi del II sec. a.C. e ispirato sia nella struttura sia nella decorazione alla tradizione micro-asiatica (76), ci consente di ipotizzare un modello comune di origine greco-orientale, che si sarebbe irraggiato con esiti diversi verso l'area apula, l'Africa settentrionale e l'Alto Adriatico. Il recente ritrovamento a Vittorio Veneto, zona strettamente legata alla produzione della vicina Altino, di una Sirena assai simile a quella sopra citata, attesta la fortuna di un modello iconografico che riecheggia forse anche in un problematico rilievo opitergino (77).
Pure da Altino (loc. Belgiardino) provengono i cosiddetti Tritoni, eseguiti sicuramente "in loco", come certifica l'utilizzo del calcare, ma pesantemente influenzati dalla tradizione pergamena, che si esplica sia nell'iconografia adottata (cf. il Gigante abbattuto da Tritone dell'Altare di Pergamo) sia nella poderosa trattazione del nudo, che non indulge però a troppo manieristica esasperazione del modellato. Ma se l'identificazione del modello non sembra presentare soverchie difficoltà, non ancora chiariti appaiono i problemi concernenti l'originaria collocazione delle due sculture e la loro datazione (78). Anche la corrente denominazione "Tritoni" non mi sembra estensibile a entrambe le sculture ma solo a quella di misure leggermente inferiori, che mostra il corpo coperto di squame e il collare di foglie d'acqua intorno al collo; all'altro, alato e barbato, meglio converrebbe la definizione di Gigante.
Tale considerazione ci consente di scindere il problema delle due raffigurazioni, che dovevano avere diversa collocazione nel monumento originario: il Tritone fungeva certamente da acroterio laterale, come confermano la lavorazione del fianco. e del retro, mentre il Gigante, che posteriormente appare grezzo ed è di dimensioni decisamente più grandi del Tritone, doveva essere pertinente ad un altorilievo (frontone oppure fregio). Credo pertanto che l'integrazione sulla sinistra del Gigante di una figura che su esso incomba, come d'altronde suggerisce la posizione del braccio sinistro sollevato a protezione del capo, e come conferma il confronto con una gemma aquileiese raffigurante Atena che atterra un Gigante (79), sia senz'altro più che plausibile. Il Tritone invece, che aveva il braccio sinistro appena scostato dal corpo (si veda la disposizione dei muscoli pettorali e il puntello visibile sul fianco sinistro), chiudeva la composizione equilibrando con l'obliquità del corpo eventuali spinte centrifughe.
L'aver identificato un Gigante in una delle due problematiche figure anguipedi consentirà forse in futuro di chiarire la destinazione originaria delle due statue che appartennero a un monumento che per l'ambizione del tema ricollegherei ad una committenza pubblica e ufficiale. Quanto alla data di esecuzione, pur non offrendo l'analisi stilistica elementi sicuri ed incontrovertibili, mi sembra che una collocazione nella prima età imperiale, come proposto dal Tombolani, possa convenire al vigoroso ma contenuto plasticismo. D'altronde è noto che iconografie desunte dalle tematiche propagandistiche pergamene furono utilizzate per la pregnanza simbolica fin dall'età tardo-repubblicana; ed anche se sembra che sia stata la Galatomachia a godere del maggior favore della committenza, non mancano però attestazioni di Gigantomachie, Amazzonomachie, oppure battaglie fra Greci e Persiani (80).
I due mostri anguipedi di Altino confermano dunque la molteplicità degli influssi che contribuirono a formare il gusto dell'artigianato locale, che utilizzò poi spesso il tema del Tritone soprattutto in accezione funeraria (v. ad esempio il rilievo del grande mausoleo di Aquileia, la stele altinate di Paconia Arisbe e quella aquileiese di Acilio Relato, il sarcofago di Belluno, il frammento altinate di statua a tutto tondo (81), ecc.); dall'area alto-adriatica il motivo sarebbe poi stato esportato verso la Germania come risulta dall'esame del grande monumento di Colonia, ricollegabile anche nella struttura a precedenti padani (82).
Un'altra significativa testimonianza della recezione locale di tipologie monumentali greche è la statuetta di Musa seduta, in cui la presenza del rotolo ci consente di riconoscere Clio (83).
A tradizione funeraria attica si può forse latamente ricollegare il gruppo funerario di età antoniniana rinvenuto fuori contesto nel sepolcreto dei "Trebii" (84): una figura femminile seduta è assorta in intimo colloquio con una Psiche nuda e alata, in uno schema che potrebbe essere pervenuto in area aquileiese anche per il tramite dei sarcofagi attici (il gruppo compare nei sarcofagi di Medea, di Pelope, ecc.), che proprio in quegli anni stavano invadendo il mercato.
Nell'ambito del fenomeno della traduzione in pietra locale di modelli chiaramente importati, un posto di particolare rilievo occupa il torso egittizzante in calcare che raffigura un uomo stante e gradiente con i fianchi cinti dal caratteristico "shenti", il gonnellino egiziano finemente pieghettato (85); esso documenta infatti la abilità degli artigiani aquileiesi nel riprodurre anche iconografie assai lontane da quelle correnti. Al torso egittizzante possiamo affiancare altri pezzi di sicura fattura egiziana, che attestano invece la pratica dell'importazione del prodotto finito: ricordiamo ad esempio un frammento di torso in basalto nero, una base di statua, una tavoletta d'inventario, alcuni bronzetti con raffigurazione di divinità egiziane e la bellissima urna azzurra in pasta di quarzo invetriata (86). Tali oggetti, espressione forse di un collezionismo antico, attestano il dilagare anche nell'area nord-adriatica dell'amore per l'esotico Egitto, che rappresenta uno dei fenomeni più caratteristici della cultura tardo-repubblicana e proto-imperiale; la diffusione di questa moda culturale trova in parte giustificazione nell'adeguamento agli indirizzi della capitale, in parte può essere ascritta al fatto che le zone costiere avevano per lunga tradizione intrattenuto rapporti commerciali con l'Egitto dei Tolemei (87), rapporti che si erano intensificati nel periodo della guerra civile, quando molte città della "Venetia" si erano schierate dalla parte di Antonio.
Più complessa si presenta l'analisi della ricca e diversificata produzione in marmo di cave greche e orientali, poiché per tali manufatti viene a mancare la certezza dell'esecuzione "in loco". Tuttavia al fine di chiarire gli influssi attivi nella formazione della "koiné" artistica della "Venetia" romana, anche le numerose sculture, che per le peculiarità tecnico-stilistiche possono senz'altro essere considerate importate già finite, oppure, ma ciò non cambia i termini della questione, eseguite "in loco" da qualche artigiano itinerante, appaiono significative, in quanto da un lato forniscono la concreta testimonianza dell'apertura del mercato alto-adriatico, dall'altro confermano la predilezione per le medesime aree culturali ed artistiche che abbiamo già individuato come determinanti nella produzione in pietra locale.
Tra le opere di importazione possiamo annoverare ad esempio il bel frammento di "peplophoros" rinvenuto ad Altino in località Belgiardino, probabilmente di officina attica, databile per la morbidezza dell'esecuzione e per la sobrietà del panneggio alla prima età imperiale, se non addirittura ad età ellenistica (88). Al medesimo ambito ci riporta la statuetta aquileiese di Asclepio, replica del tipo "Phyromachos" che il Beschi con convincenti argomentazioni ha posto in relazione con il simulacro di culto dell'"Asklepiéion" ateniese (89), mentre potrebbe essere opera attica la bella Venere pudica di Aquileia (variante del tipo Medici) di cui esistono una replica a Salona e numerose imitazioni locali di misura ridotta o ridottissima, per lo più rimaste allo stato di abbozzo (90).
Probabilmente di importazione urbana, a meno che non venga direttamente dall'Italia meridionale, è la statuetta in marmo di giocatrice di astragali che si riallaccia tipologicamente a modelli della piena classicità, che godettero di ampia fortuna soprattutto nella tradizione coroplastica magno-greca; il riferimento del pezzo aquileiese ad ambiente urbano o magno-greco nasce dal fatto che esso presenta una precisa identità, sia sul piano iconografico sia su quello dimensionale, con una statuetta dall'"Auditorium" di Mecenate, ora ai Musei Capitolini, generalmente considerata originale magno-greco degli inizi del IV sec. a.C. (91).
Ad ambiente insulare (ma non manca qualche imitazione locale) si possono forse riferire alcune significative testimonianze di microstatuaria, quali le testine di Altino e Torcello e i numerosi frammenti di torsetti di Afrodite, per lo più di provenienza aquileiese, fra cui particolarmente significativo mi sembra quello che riproduce un tipo semipanneggiato ricollegabile a testimonianze delie (92). La presenza di queste raffigurazioni miniaturistiche di Venere potrebbe documentare la diffusione del costume di donare alle fanciulle che andavano spose il simulacro della dea protettrice dell'amore come augurio di felicità (93). Non mancano però riproduzioni in formato ridotto anche di altre divinità: oltre all'Asclepio sopra citato ricordiamo alcune testine di Serapide e una piccola Atena con mano al fianco, che denuncia la sua dipendenza da un modello tardo-ellenistico per la completa perdita della maestà tipica della signora dell'Attica (94).
Di produzione insulare è probabilmente anche il rilievo aquileiese con Menandro, attualmente agli Staatliche Museen di Berlino (95), mentre il fanciullo con colomba mostra precise tangenze, sia per lo schema iconografico sia per le misure, con una statuetta delia (96). Dall'isola di Apollo potrebbe forse essere stata importata anche la testa femminile con i capelli avvolti in un fazzoletto legato a mo' di cuffia, che trova puntuale riscontro nell'Afrodite rinvenuta nello Stabilimento dei Poseidoniasti di Berito (97).
Dalla capitale dell'Egitto tolemaico proviene forse il delicatissimo ritratto di una giovane donna dall'ovale pieno, dalla bocca breve e sinuosa, dagli occhi lunghi ed infossati, che presenta precise tangenze con l'iconografia di Arsinoe III, figlia di Tolemeo III Evergete (98). Nel modellato delicatamente sfumato, secondo i modi tipici delle esperienze post-prassiteliche, e nel patetismo dello sguardo, ispirato invece a modelli scopadei, emergono i modi tipici dell'artigianato alessandrino, mentre le piccole corna sulla fronte, caratteristiche delle immagini di Io, mitica madre di Epafo, capostipite di dinastie, ci consentono di ipotizzare che la regina tolemaica sia qui effigiata sotto le sembianze dell'eroina-giovenca, secondo una moda inaugurata da Arsinoe II, madre adottiva di Tolemeo III (99). Anche la testina femminile di Treviso, a ragione rivendicata dal Traversari ad ambiente alessandrino, potrebbe dunque non essere giunta nella "Venetia" nell'ambito del collezionismo moderno, ma porsi come un'ulteriore testimonianza del fitto interscambio intercorso già in età romana fra l'Alto Adriatico e la metropoli del Delta del Nilo (100).
Fra le più tarde testimonianze del fenomeno dell'importazione del prodotto finito possiamo ricordare la malinconica testa di giovinetto coronato d'edera conservata al Museo di Aquileia e il ritratto di Costanzo Cloro, attribuibili forse a botteghe siriache (101).
Ma la maggior parte della produzione in marmo non sembra riconducibile con sicurezza a determinate direttrici o a ben definiti ambienti artistici, bensì mostra una pluralità di suggestioni che vengono rielaborate talvolta anche con una certa fantasia inventiva. Ed è proprio questa capacità di aprirsi a stimoli diversi, che d'altronde era già emersa nella scultura in pietra, che ci consente di ritenere opera di artigiani locali l'Afrodite in appoggio al pilastrino, che per la presenza del sostegno, per il lembo triangolare del manto, per lo scivolamento del chitone che quasi scopre il seno, può essere raffrontata con terrecotte micro-asiatiche e con bronzetti di manifattura greco-orientale, mentre per il gesto della mano sinistra che reggeva forse il lembo della veste sembra piuttosto ricollegarsi ad ambiente delio (102). Ad essa possiamo affiancare il più tardo Dioniso di Altino, rielaborazione di un tipo prassitelico, alcuni frammenti aquileiesi pertinenti a figure dionisiache, il Sileno di Padova, di ispirazione pergamena, il Socrate di Aquileia, variante del tipo A, e quelle teste ideali, copie, ma non fedeli, di originali classici, che ha recentemente riesaminato la Invernizzi (103). L'utilizzo di cartoni diversi è particolarmente evidente nella singolare cista aquileiese che associa l'iconografia del banchetto, di tradizione greco-orientale, ma forse mediata attraverso l'esperienza medio-italica, alla raffigurazione, tipicamente alessandrina, della servente effigiata nell'atto di coprire (o scoprire) un contenitore quadrato; e a modelli alessandrini si rifà anche la testina d'Iside del Kunsthistorisches Museum di Vienna, con piccole corna sulla fronte, "kalathos" e simbolo lunare (104).
Suggestioni molteplici emergono invece nella discussa ara che il liberto Eupor dedicò a Lucio Valerio Ninfodoto, a Gaio Stazio Primigenio e alla memoria di Gaio Stazio Eurete (105), che con la Di Filippo riterrei opera di un artigiano permeato di cultura aquileiese. I delicatissimi rilievi con scene ispirate al mito di Priapo (il primo bagno e l'orrore della madre, il sacrificio al dio), sono sì ricollegabili a tradizione ellenistica, ma denunciano in alcuni particolari la padronanza del linguaggio figurativo locale: si veda ad esempio il modo con cui è reso il terreno, che trova riscontro nelle are funerarie di Maia Severa e Arrio Macro, o il gesto di Afrodite che è ripetuto dalla liberta Arria Trofime. Né desta meraviglia ritrovare nel contesto aquileiese il culto di Priapo, in quanto esso appare ben documentato da una serie di testimonianze di ben più modesta qualità, che ribadiscono il legame con la "koiné" alessandrina, ove il culto del dio lampsaceno era particolarmente diffuso.
A conclusione di questa breve disamina vorrei ricordare la grande fortuna dell'iconografia della figura femminile danzante, più o meno strettamente ricollegantesi a modelli callimachei, magari rivissuti attraverso l'esperienza neo-attica. L'ampia diffusione del tema rende problematico individuarne le vie di trasmissione, anche se mi sembra di poter riferire alla tradizione greco-orientale la ballerina di Aquileia, che ripropone i ritmi attorti dell'ellenismo di mezzo, trovando raffronto soprattutto in testimonianze coroplastiche di area micro-asiatica (106). Appaiono invece piuttosto legate al neo-atticismo urbano la più manierata fanciulla effigiata su un'ara atestina e la Menade del rilievo reimpiegato nell'Abbazia di Badia Polesine, ove con maggior evidenza si coglie il riferimento callimacheo (107). Al medesimo ambito si può forse riferire anche la danzatrice scolpita su una lastra di marmo pertinente a un monumento cilindrico aquileiese, e non tanto per l'iconografia adottata, che nell'aprirsi a fiore della veste che scopre il corpo nudo denuncia un lontano e generico rimando a iconografie tardo-classiche, quanto per la struttura del monumento che ricorda quello della Via Prenestina della metà circa del I sec. a. C., a sua volta ricollegabile ai precedenti micro-asiatici di Pergamo e di Sagalasso (108). Diversi i modelli iconografici utilizzati a Roma e ad Aquileia ma identica la bipartizione dello spazio con la fascia adorna di viticci vegetali che chiude superiormente la composizione. Anche il particolare della scansione in pannelli ci riconduce ad area medio-italica, come ci istruisce il confronto con una lastra in travertino proveniente dalla necropoli di Ancona (109).
Più precisamente caratterizzate come Menadi sono le figure che procedono in danza sfrenata su due are cilindriche in calcare locale, rinvenute ad Altino, della prima metà del I sec. d.C., e il soggetto riecheggia a Padova, a Verona e su una base opitergina, che la Rigoni colloca nell'avanzato II sec. d.C. (110). La grande fortuna del tema della figura danzante ci porta forse l'eco di un costume locale: le numerose testimonianze di edifici teatrali nella "Venetia", unitamente al monumento funerario della danzatrice "Claudia Toreuma", conservato al Museo Civico di Padova, sembrano confermare la diffusione di spettacoli con mimi e danzatori (111).
La vocazione commerciale di Aquileia, situata alla naturale confluenza delle vie di traffico fra l'Oriente e l'Europa centrale, consentì lo sviluppo di un fiorente artigianato di prodotti di lusso, destinati non solo a soddisfare le richieste locali, ma anche a essere esportati lungo le consuete direttrici commerciali (Rezia, Norico, Pannonia, ma anche Grecia, Cirenaica, Mar Nero). L'industria glittica aquileiese si presenta pertanto come una delle più palesi testimonianze di un'economia di trasformazione: le pietre preziose giungevano nella quasi totalità dall'Oriente (diamante, smeraldo, diaspro dall'Egitto, sardonica, ematite, topazio dall'Arabia, nicolo, ametista, berillo, opale dall'India), venivano poi lavorate "in loco", magari da artigiani anch'essi di provenienza straniera, e riimmesse infine in un mercato a largo raggio. Tale processo non sembra documentato per la prima fase di vita della colonia, periodo in cui le gemme venivano importate dalle fiorenti officine medio-italiche, ma un artigianato locale, che si esprime, secondo la tradizione italica, con un linguaggio asciutto ed incisivo e con un sobrio senso plastico, è certamente attivo già agli inizi del I sec. a.C. (112). Successivamente stile e iconografia si allineano alla moda urbana, permeata di un ellenismo che andava via via arricchendosi grazie alla continua immigrazione di artigiani micro-asiatici, attici e alessandrini che abbandonavano l'Oriente greco, ormai in mano romana, per riversarsi nella capitale, ponendo la loro arte al servizio della nuova ricca committenza.
Dalla seconda metà del I sec. a.C. in avanti troviamo ben documentate ad Aquileia gemme improntate a un gusto classicheggiante come l'Apollo stante con braccio levato, mollemente appoggiato alla sua cetra, ricollegantesi probabilmente alla statua di Timarchide, la Venere Vincitrice vista di spalle con audace scorcio, che trova puntuale riscontro in emissioni augustee, l'Apollo seduto di fronte al tripode che si riallaccia a temi classici della propaganda del fondatore dell'Impero, ripresi poi dall'ultimo dei Claudii (113). Anche la manierata Atena in marcia con scudo e lancia, documentata già nella glittica ellenistica, appare su un dupondio di C. Clovio del 45 a.C., mentre il Nettuno con piede appoggiato alla prua di una nave ripete puntualmente lo schema riprodotto su una emissione di Sesto Pompeo (114).
Accanto alle immagini di divinità troviamo ben documentate fin dal I sec. a. C. raffigurazioni di tipo idillico-bucolico, secondo una moda ampiamente diffusa nella glittica tardo-repubblicana: le delicate scene di sacrifici campestri, di pastorizia e di mungitura si affiancano alla cruenta raffigurazione dello sventramento del porco che sembra riecheggiare un rituale dionisiaco di tradizione alessandrina (115). Trovano riscontro nella grande produzione tardo-repubblicana ed augustea anche i personaggi del tiaso marino, quali la Nereide con il capo aureolato dal manto, che spicca per delicatezza di intaglio pur nell'accademica freddezza dell'insieme (116).
Più dinamica e vibrante, certo rivitalizzata dall'apporto dell'Oriente greco, ove il tema era ben documentato già in periodo tardo-classico, è la Scilla di una pasta vitrea, purtroppo spezzata nella parte inferiore, che riproduce lo schema utilizzato in emissioni di Sesto Pompeo del 38 a.C. e in raffinati intagli tardo-repubblicani (117). Non mancano raffigurazioni ispirate a gruppi plastici e pittorici della grande tradizione classica ed ellenistica, fra cui ricordiamo il plasma di smeraldo con la scena del supplizio di Dirce, esemplato con poche varianti sul gruppo di Apollonio e Taurisco di Tralles (118).
Il cavaliere del grande onice di Altino, che incalza il nemico caduto, ripropone schemi molto amati dagli incisori della fine della Repubblica ed in particolare appare assolutamente stringente il raffronto con un intaglio già pubblicato dal Furtwängler e oggi purtroppo perduto, identico anche nella forma ovale con bordo rilevato (119). A un archetipo pittorico della tarda classicità si può riferire il bell'intaglio con Chirone che insegna ad Achille a suonare la lira, di cui esisteva anche, nei "Saepta" in Campo Marzio, una traduzione statuaria ricordata da Plinio; la Leda stante con il cigno (120) si ispira a una creazione neo-attica del tardo ellenismo e la già ricordata Atena che atterra il gigante riecheggia temi della grande tradizione pergamena assai di moda nella produzione glittica tardo-repubblicana (121).
Di grande fortuna godette il tema degli Eroti, riprodotti innumerevoli volte in schemi ben noti dalla tradizione decorativa ellenistico-romana; particolarmente interessanti mi sembrano le scene di uccellagione e di vendemmia, in cui meglio si poteva esplicare con riferimenti paesaggistici il gusto narrativo degli incisori aquileiesi. Non mancano scene di lotta fra Eros e Anteros, tema diffusissimo nella glittica ma già documentato nella ceramica tardo-classica, e qualche raffigurazione di sapore epigrammatico, come quella dell'Erote che difende il suo grappolo d'uva dagli attacchi di un focoso galletto, riecheggiante una iconografia funeraria, mediata forse attraverso la coroplastica greco-orientale (122).
Nel repertorio glittico aquileiese confluiscono dunque svariati temi di ispirazione attica, pergamena, alessandrina, generalmente mediati dal repertorio urbano, ma tradotti con quel particolare gusto per l'ambientazione paesistica che sembra tipico della produzione locale: basti pensare ad esempio alla Musa seduta con maschera tragica o comica, che riproduce un tipo ben noto, cui viene aggiunto un alberello che conferisce spazialità alla scena (123); e l'alberello ricompare accanto a Chirone, a Leda che si accoppia con il cigno, a Ganimede che offre da bere all'aquila, mentre gli elementi paesistici si moltiplicano ovviamente nelle già ricordate scene idillico-bucoliche. Non manca qualche esempio di originalità nella scelta dei soggetti, come la delicatissima Afrodite nuda che si staglia nella nicchia del manto tenuto levato con ambo le braccia; essa non appare altrimenti documentata nel repertorio glittico e può forse essere ricollegata a un archetipo greco-orientale, come suggerisce il confronto con una statuetta da Smirne, cui si possono affiancare alcune terrecotte da Priene, Mirina, Ierapitna, El Djem, che presentano però una lieve modifica nella posizione del braccio sinistro (124).
A cartoni greco-orientali si può verisimilmente riferire anche l'articolato gruppo della centauromachia, inciso su una corniola rinvenuta ad Altino, di notevoli dimensioni e di buona qualità. L'iconografia adottata dall'incisore riecheggia alla lontana la scena dell'Eracle con il centauro, nella redazione che ne diede Sosis, artigiano alessandrino del primo ellenismo, ma trova più puntuale possibilità di raffronto nelle raffigurazioni di sarcofagi romani di età antoniniana (125). Giustamente la Sena Chiesa ha sottolineato l'aggiunta della roccia su cui poggia un elmo, nota narrativa che rientra in quella particolare sensibilità per l'ambientazione paesistica, che abbiamo sopra sottolineato.
Sembra ricollegarsi a tradizione orientale anche il singolare intaglio riproducente il Sauroctono in uno schema a gambe incrociate scarsamente documentato, che a ragione la Sena Chiesa ha posto in rapporto con un'emissione di "Philippopolis" di Tracia (126). Ma con questa gemma siamo già nell'avanzato II sec. d.C., in un periodo cioè in cui la vitalità dell'artigianato glittico aquileiese sembra appannarsi e il mercato si apre a più dirette importazioni dall'Oriente; fra queste annoveriamo le "gemme gnostiche", con simboli magici, profilattici e beneauguranti, da attribuire forse ad ambiente alessandrino e il diaspro verde inciso su due lati con la figura di un giovane nudo e una testa laureata di profilo, che potrebbe essere ascritto a bottega siriaca (127).
A tradizione urbana si ricollegano invece gli intagli con simboli del potere fra cui spicca un frammento di calcedonio piano di cospicue dimensioni con aquila su globo inquadrato da due cornucopie, ricollegabile al consueto repertorio della propaganda ufficiale (128).
Anche gli oggetti d'ambra, rinvenuti in gran numero per lo più in corredi funerari cronologicamente databili fra la metà circa del I e la fine del Il sec. d. C., presentano la medesima pluralità di modelli: da un lato i delicati ritratti femminili su anello, che restituiscono minuscoli volti di dame inquadrati dalle voluminose acconciature di età flavio-traianea, che sembrano trovare la loro ragion d'essere nella concezione tutta romana del ritratto come sintesi della personalità, dall'altro bozzetti di gusto narrativo, dominati dalla presenza di Eros, ricollegabili a un ellenismo di maniera ampiamente presente in Aquileia, come è documentato dalla già ricordata produzione glittica (129). Ed è proprio nel repertorio glittico che vanno cercati i precedenti dei soggetti e delle iconografie trattati dagli incisori di ambra: il gruppo di Eros e Anteros in lotta trova raffronto in quello inciso su una corniola piana, ove è riprodotto anche il particolare del ramo di palma, simbolo di vittoria, mentre la coppia Eros e Psiche, più volte ripetuta sia a tutto tondo sia a rilievo, ricompare spesso sulle gemme coeve (130).
Di grande effetto è la pisside del British Museum, di provenienza aquileiese, che ripropone il tema dionisiaco degli amorini vendemmiatori, documentato, come abbiamo già visto, anche nella glittica e riecheggiante in una pisside altinate di probabile produzione aquileiese (131). Il raffronto con il bicchiere argenteo di Alessandria, che sviluppa con vivacità narrativa il medesimo soggetto, oppure con il vaso di Bois et Borsu, ora a Bruxelles ma di probabile manifattura alessandrina, consente di ipotizzare non solo l'utilizzo di cartoni alessandrini, ma forse anche la presenza di artigiani provenienti dalla metropoli del Delta; alla medesima matrice possiamo forse ascrivere la foglia d'ambra con maschere e strumenti del culto dionisiaco (132).
Fra i soggetti nilotici ricordiamo anche la lucertola fra fiori di loto e gli ibis che cacciano serpenti in mezzo ad erbe palustri, di cui abbiamo testimonianza ad Aquileia anche nella glittica e nella scultura (133); tuttavia almeno per quest'ultima iconografia non si può forse escludere una mediazione medio-italica dal momento che il medesimo soggetto compare anche nella ceramica aretina di "Cn. Ateius".
Un lontano richiamo a iconografie funerarie attiche che sviluppano il tema del rapporto defunto/animale, e un più preciso rapporto con la coroplastica soprattutto greco-orientale e siceliota, emerge nel delizioso bozzetto di amorino con cane, già della collezione Di Toppo ed ora al Museo di Udine (134), mentre ripropongono modelli ellenistici ampiamente diffusi in tutto il mondo romano la piccola Venere che si slaccia il sandalo di Concordia, effigiata in un singolare schema con appoggio esterno, che può essere utilmente raffrontata con una statuetta da Smirne ora al Museo di Karlsruhe, e il Dioniso ebbro rinvenuto a Esch, ma di probabile manifattura aquileiese, variante di un tipo che si può far risalire ad una creazione tardo-classica (135).
Considerazioni analoghe sono suggerite dall'esame della produzione toreutica: accanto a prodotti di probabile importazione, quali il famoso piatto di argento dorato con Antonio (?) come Trittolemo, opera forse di bottega alessandrina del 35-30 a.C., e la Medusa di Este, di età augustea, attribuibile forse a produzione magno-greca, non mancano prodotti da ascrivere al fiorente artigianato locale, permeato di tradizione ellenistica: fra questi ricordiamo la "phalera" d'argento con personaggi del tiaso dionisiaco e la laminetta d'argento dorato lavorata a sbalzo con figure di amorini in atto di cogliere frutta (136). Ben attestati e di finissima fattura i gioielli, fra cui spiccano il minuscolo Arpocrate d'oro e le famose mosche, ricollegabili forse alla grande tradizione dell'oreficeria magno-greca.
Numerosissime sono le statuette di bronzo di misura spesso ridottissima, destinate a stipi votivi, a larari privati oppure ad ornare le case dei ricchi. Anche in questa categoria di manufatti ben emerge la eterogeneità delle componenti che contribuirono a formare il patrimonio artistico della "Venetia" romana: accanto a bronzetti che riproducono temi e iconografie dell'accreditata tradizione paleoveneta (Ercole stante o combattente, cavalieri e cavalli, ecc.), vi sono opere di matrice indiscutibilmente romana (sacerdoti e camilli, lari danzanti e "genii", simulacri di Mercurio o di Fortuna, ecc.), e altre più genericamente etichettabili come di tradizione ellenistica: fra queste ricordiamo il raffinato Eracle aquileiese con i pomi delle Esperidi, di ascendenza lisippea, il Sileno di Lugugnana, che richiama alla mente il Cinico di Aquileia, e la figura maschile eroica da Affino, ora al Museo Civico di Treviso, rielaborazione eclettica dell'Alessandro con la lancia (137). Ancora un Alessandro è stato rinvenuto nella laguna di Grado e all'iconografia del duce macedone si è ispirato anche l'anonimo artigiano del Mercurio (?) di Concordia, che dell'eroe greco ha riprodotto la caratteristica acconciatura con i capelli scostati dalla fronte ("anastolè") (138). La fortuna del modello "alessandreo" più che a dirette suggestioni dal mondo greco-orientale (soprattutto Alessandria) è forse riconducibile all'adesione della popolazione locale a tematiche propagandistiche tipiche della prima fase del principato augusteo.
Le importazioni dall'Oriente sono meglio documentate nella "Venetia" interna che sulla costa - e basti pensare al cospicuo ritrovamento di Montorio Veronese - ma si può forse ascrivere a manifattura orientale la Diana cacciatrice di Concordia, dedicata da T. Aurelio Seleuco a Giove Dolicheno (139).
Fin dalla metà circa del I sec. a. C. è attiva ad Aquileia una fiorente industria vetraria la cui produzione presenta singolari tangenze con quella medio-italica, come ha messo in luce la Bertacchi in un recente contributo (140), mentre più specifici riferimenti orientali emergono in qualche prodotto di età imperiale. L'accurata classificazione della Calvi ha messo in luce la presenza in Aquileia di manufatti di probabile importazione dall'Oriente, soprattutto Siria ed Egitto (coppe a sacco, ampolle doppie, gutti, balsamari a lungo collo), che furono poi imitati dall'artigianato locale, cui si deve anche la creazione di modelli originali (141). All'elaborazione di questa vitale tradizione non fu estranea la probabile presenza nella "Venetia" di una filiale del siriaco Ennione, che firma in greco i suoi vetri prodotti con la tecnica della soffiatura a stampo: le sue singolari tazze cilindriche a due anse sono presenti nella pianura padana fino a Torino, Bra, Pavia e anche in Emilia; esemplari intatti sono conservati nel museo di Adria (142).
Nella fase più tarda della produzione aquileiese, accanto a qualche suggestione orientale (ad es. la bottiglia costolata e i vetri da finestra prodotti con il metodo "della corona"), appare predominante l'influsso "mittel-europeo" delle botteghe soprattutto renane, che dopo una prima fase di dipendenza dalla produzione alto-adriatica si erano successivamente rese autonome, creando nuove tipologie, che si irraggiarono largamente per tutto l'Impero (143).
I più antichi tipi di pavimentazione attestati nella "Venetia" presentano una sostanziale identità con quelli documentati in Italia centro-meridionale, come ha confermato il recente saggio di M. Donderer sulla produzione musiva dalle origini all'età antoniniana (144). Troviamo pertanto documentati i signini, consistenti in un battuto bianco o rosso spesso decorato con tessere formanti delicati disegni geometrici, gli scutulati, con schegge irregolari di marmo variegato inserite in un signino o in un tessellato, i "sectilia", formati da lastre di marmo policromo tagliate in forma geometrica, i tessellati, costituiti di piccole tessere di forma quadrangolare. Questi ultimi sono presenti sia nel tipo bianco-nero, a decorazione per lo più geometrica, sia nel tipo policromo, geometrico e figurato. Ed è su questo ultimo gruppo di testimonianze che si fermerà la nostra indagine, in quanto più direttamente ricollegabili alla tradizione ellenistica, rivitalizzata, almeno a partire dall'età severiana, dalla esperienza africana, cui non mancarono di sovrapporsi suggestioni siriache.
Dal fondo Cossar ad Aquileia proviene il famoso riquadro con tralci intrecciati di vite ed edera bianca, stretti al centro da un grosso fiocco rosa e campiti contro un fondo nero che funge da elemento di separazione fra un tessellato geometrico bicromo e uno scutulato, entrambi di tradizione italica (145). Il minuzioso naturalismo, con cui sono riprodotte le più piccole nervature delle foglie dai bordi frastagliati, e i cangianti riflessi che la luce trae dal fiocco di seta, denunciano chiaramente la mano di un artigiano avvezzo alla tradizione greca, che tratta con sicurezza un'iconografia di cui peraltro non mancano confronti in area nord-italica (Imola, Claterna). Nella stessa Aquileia è stato rinvenuto un frammento un po' più tardo con foglie frastagliate e corolle di fiori in tenui tinte pastello che spiccano contro il nero del fondo (146).
L'uso tipicamente ellenistico di disporre le raffigurazioni su campo scuro, è attestato anche su un mosaico altinate, analogo a quello del fondo Cossar anche nella ripartizione dello spazio, con due tessellati separati da una fascia di foglie d'edera chiare su fondo scuro, e su due pavimenti della primissima età augustea di Padova, ove ritroviamo la teoria di foglie chiare su fondo nero, utilizzate questa volta come cornice, nell'ambito di una decorazione cassettonata di chiara matrice medio-italica (147). I pavimenti patavini manifestano la medesima sensibilità cromatica anche nei quadrati adorni di rosette a otto petali, di gusto plastico, secondo la tradizione ellenistica. Analoghe considerazioni si possono fare per altri pavimenti aquileiesi, fra cui spicca quello con fiori a sei petali dalle punte convergenti a due a due, che trova significativo raffronto in esemplari delii e pompeiani (148).
Ma è nei giustamente famosi mosaici figurati aquileiesi del fondo Cassis che emerge con maggior evidenza l'adesione alla tradizione ellenistica: un modello pittorico sta certo alla base della bionda fanciulla che cavalca un candido toro, coronato da un sottile serto vegetale, accompagnata da un possente Tritone e da un Erote con fiaccola accesa. Si tratta di Europa, come è stato più volte proposto, o di una Nereide, riallacciantesi ad una iconografia già diffusa nel mosaico a ciottoli e acquisita alla tradizione repubblicana fin dal II sec. a.C. (149)? Personalmente propenderei per quest'ultima ipotesi e non solo perché l'Erote con fiaccola accesa, che.generalmente accompagna le nozze divine fra Giove in forma di toro e la figlia di Cadmo, non è fuori luogo in un corteggio marino (si vedano ad esempio un mosaico ostiense ed un sarcofago del Museo Nazionale Romano), ma soprattutto perché l'iconografia adottata trova riscontro già su un mosaico di Olinto della metà circa del IV sec. a. C., dove il contesto non lascia adito a dubbi circa la lettura come tiaso di Nereidi, e ricompare puntualmente riprodotto fin nei particolari più minuti in uno dei medaglioni di Abukir (III sec. d.C.), che reca al D la testa di Olimpiade (150). Sulla base di questi confronti appare più che verisimile che la fanciulla su toro marino del mosaico aquileiese sia stata estrapolata da una più vasta composizione, forse pittorica, celebrante le nozze di Peleo e Tetide. Meno agevole mi sembra invece stabilire se un artigiano così profondamente imbevuto di cultura ellenistica sia giunto ad Aquileia dall'Italia centro-meridionale o dalla Grecia, né contribuisce al chiarimento di tale problema l'analisi dell'altro tappeto musivo del fondo Cassis, quello cosiddetto dell'"asarotos oikos", il pavimento non spazzato, rinvenuto contestualmente al mosaico con la Nereide e verisimilmente della medesima mano, come suggerisce la perfetta identità dell'inquadramento a treccia doppia seguita da un bastone avvolto da nastri (151). Infatti, se è vero che l'idea di rappresentare sul pavimento di un triclinio i resti di un sontuoso pasto è attribuita da Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 184) a "Sosos ", mosaicista di Pergamo attivo nel II sec. a. C., è altresì vero che il tema godette di una certa fortuna soprattutto in Occidente, come confermano il mosaico del Laterano e alcuni esemplari africani (Oudna, El Djem) (152); inoltre, se il felice adeguamento alla tradizione naturalistica, che si esplica nella varietà dei resti del pranzo, nella minuziosa riproduzione di particolari, quali le nervature delle foglie, le lische dei pesci o le ombre accuratamente indicate sotto ciascun elemento, sembrerebbe riportarci verso un ellenismo greco-orientale, cui pure si ricollega l'inquadramento in forma di bastone plastico avvolto da nastri che trova significative possibilità di raffronto in mosaici di Delo (153), è invece pratica tipicamente italica l'adozione del fondo bianco. Emerge dunque già nei mosaici del fondo Cassis quel caratteristico gusto di fondere tradizioni diverse (ellenismo greco-orientale ed italico) che diventerà ancora più evidente in prosieguo di tempo, quando nell'arco dell'Alto Adriatico cominceranno ad arrivare anche gli stimoli della grande tradizione africana.
La direttrice peninsulare sembra invece senz'altro sostenibile per l'emblema con pesci che trova puntuale raffronto in mosaici pompeiani (154).
Assolutamente isolato nella produzione della "Venetia" è il mosaico disseminato di fiori multicolori, ordinatamente disposti su un graticciato geometrico diagonale (155): lo schema si trova già in soffitti dipinti della seconda metà del I sec. d.C. (criptoportico della "Domus Aurea", colombario di Via Taranto, casa di Arianna a Pompei, Collegio Arici di Brescia), che riecheggiano in testimonianze più tarde, soprattutto di area occidentale ("Carnuntum", "Virunum", Avenches, Allaz, Leicester), mentre nell'ambito della produzione musiva tale decorazione sembra aver goduto di una certa fortuna solo in età molto avanzata (V sec. d.C.), se si eccettua la isolata testimonianza di Bulla Regia (156), che ripropone anche se un po' irrigidita la medesima disposizione dei fiori del mosaico aquileiese.
Suggestioni africane si possono forse cogliere nel mosaico rinvenuto nel 1963 ad ovest di Monastero; e non tanto nella raffigurazione di Licurgo e Ambrosia o nelle protomi di Oceano (?) e Tetide (?), che occupano gli esagoni posti sull'asse centrale di un tappeto musivo sobriamente policromo, caratterizzato da uno schema geometrico tipicamente aquileiese, quanto negli animali campiti nei rimanenti esagoni (toro, leone, cinghiale), in cui si possono riconoscere i simboli delle Stagioni: significativo mi sembra il confronto con il mosaico di La Chebba della metà del II sec. d.C., in cui in una ridondante ripetizione le Stagioni sono raffigurate sia a figura intera, sia mediante l'indicazione delle piante, degli animali e delle attività proprie a ciascun periodo dell'anno. E ancor più convincente appare il riferimento ad un mosaico di "Thysdrus" (El Djem) della fine del II sec. d.C., ove gli animali sono, come ad Aquileia, raffigurati isolati (157).
Ad ambiente africano ci riporta anche il mosaico con testa di Tritone entro pseudo-"emblema" quadrato rinvenuto presso il cimitero moderno e databile alla seconda metà del III sec. d.C.; esso presenta infatti il campo circolare scandito dal singolare intreccio di tre otto allacciati che formano al centro un esagono a lati inflessi in una disposizione che ricompare anche in uno dei mosaici geometrici delle Grandi Terme: si tratta di una interpretazione dello schema di Genazzano, che trova puntuale riscontro in pavimenti di Sousse e Timgad (158). Generica invece appare la decorazione che riempie i triangoli mistilinei di anforette e schematici viticci vegetali.
Ma la testimonianza più evidente di un rapporto con l'area africana ci viene dal poco più tardo pavimento di Monastero, cosiddetto delle Bestie Ferite, attualmente ricoperto in attesa di poter essere convenientemente strappato e portato in Museo (159). I riferimenti emergono non tanto nella decorazione dell'abside che con i suoi tralci irrigiditi e schematici è probabilmente da ascrivere ad un restauro più tardo, quanto nelle raffigurazioni che occupano lo spazio rettangolare, diviso in tre diverse sezioni (quadrato centrale e rettangoli laterali). Il quadrato centrale è scandito da una serie di cerchi allacciati che isolano un ottagono a lati inflessi in una disposizione che, pur ricollegandosi latamente alle testimonianze dello "stile fiorito" di Villa Adriana, godette di grande fortuna soprattutto in Africa settentrionale (160).
All'Africa sembra improntata anche la scelta dei soggetti: nell'ottagono centrale riconosciamo i frammenti di una caccia con la rete secondo una tradizione che appare ben documentata soprattutto nella provincia d'oltre mare (Ippona, Cartagine, Utica, Kef, ecc.), anche se non mancano testimonianze in Italia (Piazza Armerina, Roma [pavimento dell'Esquilino>, Ravenna [c.d. Palazzo di Teodorico>) e nelle province occidentali (Villelaure, Centcelles) (161). Nei cerchi sono le immagini potentemente espressive di animali feriti a morte: la pantera, il leone, lo struzzo, la tigre, il cervo, tutti, eccettuato quest'ultimo, estranei alla fauna locale. Significativi raffronti è possibile istituire fra la pantera aquileiese e le fiere delle terme di Leptis Magna, i leopardi della "venatio" di Smirat oppure la leonessa ferita di Cherchel; mentre la tigre che si volge repentinamente ricorda la pantera del "catalogo degli animali" di Cartagine e il cervo caduto a muso avanti sembra dipendere dal medesimo cartone che ha ispirato il pittore di una casa di Merida in Spagna (162). Possiamo cautamente ricollegare a tradizione africana anche gli uccelli su frasca, documentati anche nella locale produzione glittica e ampiamente diffusi nel repertorio cristiano; mentre la raffigurazione dell'Estate, posta nell'angolo del pavimento, trova precise possibilità di raffronto nel putto alato di Haïdra recante, come il nostro, un cesto di spighe nella mano sinistra e la falce levata nella destra (163). Tuttavia, come è consueto nella produzione alto-adriatica, a tali precisi riscontri iconografici si uniscono suggestioni mediate da altri ambienti: la tripartizione del pavimento sembra ad esempio ricollegarsi a tradizione greco-orientale.
Questa capacità di sintetizzare stimoli diversi emerge con particolare evidenza nel mosaico opitergino con scene di caccia e di vita rustica, per lungo tempo ritenuto pertinente ad una villa suburbana, che si è rivelata invece essere una ricca "domus" affacciata sul foro (164). Purtroppo la grave frammentarietà dei reperti ci impedisce di cogliere appieno la grandiosità della concezione del vasto tappeto, che riuniva, secondo una tradizione ben documentata in area africana, episodi venatori (cacce alla lepre, al cinghiale, al cervo, scene di uccellagione) e raffigurazioni di vita rustica (la donna che dà il becchime ai polli, le pecore che pascolano [recentemente rivendicate dalla Bertacchi al complesso musivo in esame>, i buoi che si intravvedono sotto il muro di cinta della villa), senza dimenticare la riproduzione della dimora del signore che forse campeggiava al centro del rilievo.
Su questi preziosi frammenti musivi, testimonianza dell'altissimo livello della cultura artistica alto-adriatica fra la fine del III e il IV sec. d.C., molto è stato detto e scritto; in questa sede è sufficiente ribadirne la matrice africana che emerge soprattutto nella distribuzione delle figure nello spazio. Queste dovevano infatti essere disposte su diversi registri, ma non in narrazione continua, come a Cartagine o a "Thysdrus" (El Djem), bensì per nuclei giustapposti, uniti dalla comune ispirazione, come ad esempio ad Althiburos. Anche la casa del "dominus", che con la Bertacchi collocherei al centro della composizione, ci consente di istituire un parallelismo con i mosaici del "dominus Iulius" di Cartagine e della Piccola Caccia di Piazza Armerina, ove la narrazione si dispone per episodi intorno ad un elemento centrale. E all'Africa ci riportano anche alcune delle iconografie adottate: la scena di caccia alla lepre, ad esempio, ripropone lo schema di Oudna e El Djem, mentre il cervo in fuga, sottostante alla gabbia, è assai simile, se pur in rapporto rovesciato, a quello dell'offerta della gru di Cartagine. Tipicamente africano è anche il modo di rendere l'occhio degli animali con un cerchiello sottolineato da una sottile linea all'estremità interna, mentre più generica è l'iconografia della caccia al cinghiale, adattamento di quella mitica di Meleagro.
La scena di uccellagione, con la civetta dai grandi occhi sbarrati in funzione di richiamo, ha suggerito agli esegeti una connessione con il costume locale; in realtà si tratta di un'iconografia che affonda le sue radici nella tradizione greca, come ha ben dimostrato F.G. Lo Porto in un recente contributo (165). Per quanto poi riguarda la pratica di catturare gli uccelli con aste invischiate, essa era ecumenicamente diffusa nel mondo antico e trova raffronti iconografici dall'Attica a Roma, dall'Africa all'Alto Adriatico (Aquileia [gemme> e Altino [rilievo funerario> (166)). Analoghe considerazioni valgono per la scena di vita rustica: la donna che dà il mangime ai suoi polli si può genericamente raffrontare con la massaia del tondo da Antinoe, riecheggiante iconografie alessandrine, mentre gli animali che razzolano ritornano anche nel più volte citato mosaico cartaginese del "dominus Iulius" e i galletti affrontati appartengono al repertorio greco ampiamente diffuso in tutto il mondo antico (167) La pluralità delle suggestioni, cui si può anche aggiungere l'originale visione a volo d'uccello, sembra dar ragione alla Bertacchi, che attribuisce il pavimento di Oderzo a un "pictor peregrinus" di formazione eclettica.
L'ipotesi di maestranze non locali può essere forse invocata anche per uno dei più suggestivi complessi musivi aquileiesi, ancora per gran parte da indagare: quello delle Grandi Terme, databile alla metà circa del IV sec. d.C. (168). Qui sembra infatti dominare la tradizione siriaca, che si manifesta nel frazionamento del pavimento in pannelli, nella scritta in greco apposta alle Nereidi (Climene, Tetide, [...>one), nel modo in cui è reso il mare come superficie compatta e tuttavia trasparente ben separata dal cielo. Verso Antiochia ci riportano i massicci busti degli atleti, anche se non è esclusa una mediazione urbana, suggerita dal confronto con quelli ben noti delle Terme di Caracalla; ma l'inquadramento "a velario" che si dispone lungo i lati dell'ottagono sembra invece parlare ancora un linguaggio africano. Anche il poderoso Nettuno su carro del tondo centrale trova riscontro in iconografie documentate soprattutto in area nord-africana, cui pure ci riporta il particolare tecnico della resa del mare a brevi linee parallele costituite da tessere a colori digradanti, impostate di punta (169).
Ma, se per i mosaici delle Grandi Terme l'ipotesi di maestranze itineranti appare più che plausibile, è invece da ascrivere a botteghe locali una delle più tarde testimonianze della persistenza di soggetti pagani in un'Aquileia ormai del tutto cristiana: si tratta del mosaico di Licurgo e Ambrosia, che ripropone un soggetto che era già piaciuto alla committenza aquileiese di età severiana (170): la scena mitologica, purtroppo assai rovinata, occupa un quadrato inserito in un tessuto geometrico di croci, losanghe e ottagoni, entro cui trovano posto personaggi del tiaso, uccelli su frasca e, forse, il busto di una Stagione; al centro si disponeva un grande cerchio, di cui resta solo parte della treccia esterna. Il riferimento a botteghe locali è confermato dalla scansione geometrica del pavimento che trova riscontro nella seconda campata Nord dell'aula teodoriana, nel corridoio che collega le due aule e in un mosaico del fondo Cal: è evidente che i medesimi artigiani servivano indifferentemente i pochi nostalgici del paganesimo e la importante committenza cristiana. Ed è infatti nei pavimenti degli oratori e delle basiliche che continua la storia del mosaico alto-adriatico, come ben illustra in questa stessa sede il contributo di G. Cantino Wataghin.
L'analisi, necessariamente parziale e cursoria, di quelle classi di materiali in cui meglio si può cogliere l'adesione a tradizioni oltremarine, consente ora di trarre alcune considerazioni che, lungi dal proporsi come conclusive, vogliono solo essere spunto di meditazione per una ricerca futura.
Esaminando diacronicamente il fenomeno della formazione del linguaggio artistico della "Venetia", possiamo rilevare in una prima fase (fine II-prima metà I sec. a.C.) la sostanziale adesione all'ellenismo medio-italico ed urbano (si vedano, in particolare, il monumento funerario, la produzione coroplastica e la glittica). Intorno agli anni centrali del I sec. a. C. assistiamo a un progressivo mutamento della temperie culturale: mentre da un lato gli stretti legami fra la classe emergente locale e il centro del potere promuovono il deciso affermarsi di un classicismo di tipo urbano, dall'altro l'intensificarsi dei rapporti commerciali con l'Oriente greco favorisce l'autonoma recezione di tipologie ellenistiche. È soprattutto la scultura decorativa che ci consente di cogliere tale fenomeno: accanto a prodotti importati, dall'Attica ("peplophoros" di Altino), da Alessandria (testina di Arsinoe III), da Delo (fanciullo con colomba), dalle isole (rilievo con Menandro), da Roma o dalla Magna Grecia (giocatrice di astragali), troviamo rielaborazioni locali in pietra e marmo di sperimentate iconografie ellenistiche, direttamente recepite (Aure, Icaro, Afrodite al pilastrino, Iside, ecc.) o mediate attraverso la capitale (Tritoni). La sostanziale convergenza nelle caratteristiche tecnico-stilistiche delle sculture in pietra e marmo non ci consente di dubitare dell'esistenza di fiorenti botteghe, localizzate certamente ad Aquileia e ad Altino, che eseguivano indifferentemente le loro opere nei diversi materiali di cui potevano disporre. A queste botteghe dobbiamo ascrivere l'elaborazione di tipologie originali nell'ambito della produzione funeraria, come i grandi altari aquileiesi, i cippi ottagonali di Alzino e Oderzo, i segnacoli cilindrici di Aquileia, Altino, Oderzo.
Analoghe considerazioni valgono per l'artigianato di lusso, ove troviamo ampiamente operante il classicismo urbano, cui si aggiunge qualche significativa testimonianza di autonoma apertura soprattutto verso l'area alessandrina.
Nel Il sec. d. C. l'apporto ellenistico è sempre più legato a scelte personali: in questa prospettiva trova giustificazione il fenomeno della massiccia importazione dei sarcofagi soprattutto attici e delle imitazioni locali, da ascriversi all'attività di maestranze formate da elementi misti, fra cui certo non mancavano i Greci e gli Orientali.
Dopo la crisi del III sec. la "Venetia" si riapre al mare, ma i mercati sono ormai cambiati: è all'Africa e alla Siria che ci si volge per importare sia tradizione artistica (cartoni e maestranze) sia opere finite (Costanzo Cloro, testina coronata, gemme) (171).
1. Del singolare fenomeno della ricettività della "Venetia" nei confronti della tradizione ellenistica, oggi, grazie soprattutto agli studi di Guido Achille Mansuelli (Elementi ellenistici nella tematica monumentale della Valle del Po, "Arte Antica e Moderna", 10, 1960, pp. 107-128) e di Gemma Sena Chiesa (Recezione di modelli ed elaborazioni locali nella formazione del linguaggio medio-padano, in AA.VV., Atti 2° Convegno Archeologico Regionale. Como, aprile 1984, Como 1986, pp. 257 ss., con ulteriore bibliografia, in particolare pp. 280 ss. [pp. 257-307>), si può tentare di delineare un quadro ancora sommario ma abbastanza organico.
2. Sulle necropoli aquileiesi v. da ultimo Cristoforo Reusser, Zur Aufstellung römischer Grabaltäre in Aquileia, "Aquileia Nostra", 56, 1985, coll. 117 ss. (coll. 117-144).
3. Sul tipo si veda Mario Torelli, Monumenti funerari romani con fregio dorico, "Dialoghi di Archeologia", 3, 1968, pp. 32-54; Bianca Maria Felletti Maj, La tradizione italica nell'arte romana, Roma 1977, pp. 202 ss.; per le testimonianze nella "Venetia" orientale v. Giuliana Cavalieri Manasse, La decorazione architettonica romana di Aquileia Trieste e Pola, I, Aquileia 1978, nrr. 59-65; ulteriore bibliografia relativa all'area nord-italica in Gemma Sena Chiesa, Frammento con fregio dorico al Museo Archeologico di Milano, in AA.VV., Scritti in ricordo di G. Massari Gaballa e U. Tocchetti Pollini, Milano 1986, pp. 131-140.
4. Sul bucranio v. da ultimo Christoph Borker, Bukranion und Bukephalion, "Archäologischer Anzeiger", 90, 1975, pp. 244-50.
5. Valnea Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo delle sculture romane, Roma 1972, nr. 391; Luigi Beschi, Le arti plastiche, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, p. 376, fig. 350 (pp. 339-415); Gerhard Zimmer, Römische Berufsdarstellungen, Berlin 1982, nr. 95.
6. Marsala: Carmela Angela Di Stefano, Scoperte nella necropoli di Lilibeo, "Kokalos", 20, 1974, pp. 167 s. (pp. 162-171); Sestino e Cales: Monika Verzar, Frühauuusteischer Grabbau in Sestinum, "Mélanges de l'Ècole française de Rome. Antiquité", 86, 1974, pp. 385 ss., in particolare p. 401, n. 2 (pp. 385-444), Pompei: Arnold e Mariette De Vos, Pompei, Ercolano, Stabia, Bari 1982, p. 234; Ostia: Maria Floriani Squarciapino, Le necropoli. Scavi di Ostia, III, Roma 1968, fig. 91; Luigi Lanzi, Scoperte nel suburbio, "Notizie degli Scavi di Antichità", fasc. 10, 1907, p. 646 (pp. 646-650); cui si possono aggiungere le testimonianze di area picena: Lidiano Bacchielli, in AA.VV., Prime scoperte nella necropoli di Ricina, "Bollettino d'Arte", 28, 1984, pp. 24 s. (pp. 11-52). Per la persistenza del tipo in area orientale v. i monumenti di Termessos (fine I sec. a.C.): M. Verzar, Frühaugusteischer Grabbau, fig. 43; Efeso (metà I sec. a.C.): Wilhelm Alzinger, Augusteische Architektur in Ephesos, Wien 1972, pp. 37 ss.; Corinto (età tiberiana): Robert Scranton, Corinth, I, 3, Princeton 1951, pp. 17 ss.; sul problema in generale si veda Laura Quaglino Palmucci, Architettura funeraria dell'Asia Minore: rapporti con Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 165-183.
7. Jocelyn Toynbee, Death and Burial in the Roman World, London 1971, figg. 69, 70, 73.
8. Sandro De Maria, L'architettura romana in Emilia Romagna fra III e I sec. a.C., in AA.VV., Studi sulla città antica, Roma 1983, pp. 363 s. (pp. 335-381).
9. Giovanni Brusin - Vigilio De Grassi, Il mausoleo di Aquileia, Padova 1956; cf. anche Sandro Stucchi, Qualche osservazione sul motivo ad arcate del Mausoleo di Aquileia, "Aquileia Nostra", 53, 1982, col1. 229 ss. (coll. 229-236); Id., Possibili rapporti metrici nel Mausoleo di Aquileia, in AA.VV., Studi forogiuliesi. In onore di C.G. Mor, Udine 1983, pp. 47-57.
10. Sagalasso: Robert Fleischer, Forschungen in Sagalassos, "Istambuler Mitteilungen", 29, 1979, p. 284, tav. 76 (pp. 274-307); Delo: Jean Marcadé, Au musée de Délos, Paris 1969, tav. II.
11. Mirella Marini Calvani, Leoni funerari d'Italia, "Bollettino d'Arte", 24, 1980, pp. 7 ss. (pp. 7-14).
12. Filippo Coarelli, Su un monumento funerario romano nell'Abbazia di San Guglielmo al Goleto, "Dialoghi di Archeologia", 1, 1967, pp. 58 ss. (pp. 46-71).
13. Wilhelm Von Sydow, Eine Grabrotunde an der Via Appia Antica, "Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts ", 92, 1977, pp. 241-311; si v. anche il più antico mausoleo di Pietrabbondante: Id., Ein Rundmonument in Pietrabbondante, "Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 84, 1977, pp. 267-300. Circa la posizione delle arcate in rapporto al dado di base si veda un cippo del museo di Metz che prospetta una soluzione che potrebbe essere applicata anche al monumento di Aquileia: Guido Achille Mansuelli, Monumenti a cuspide e cippi cuspidati, "Aquileia Nostra", 29, 1958, col. 22, fig. 4 (coll. 17-24).
14. Bianca Maria Scarfì, in Bianca Maria Scarfì-Michele Tombolani, Altino preromana e romana, Quarto d'Altino 1985, pp. 132 ss. (pp. 101-158).
15. Jacopo Marcello, La Via Annia alle porte di Altino, Venezia 1956, pp. 36 ss.; per Efeso cf. W. Alzinger, Augusteische Architektur, pp. 43 ss.
16. G. Cavalieri Manasse, La decorazione architettonica, nr. 46.
17. Cosa: Frank E. Brown, Cosa, I. History and Topography, "Memoirs of American Academy in Rome", 20, 1951, p. 102, fig. 105 (pp. 5-114); si veda anche l'ultimo piano di un mausoleo romano: Michael Eisner, Zur Typologie der Grabbauten in Suburbium Roms, Mainz am Rhein 1986 (Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts, 26 Ergänzungsheft), p. 44, A 11; Sabratha: Antonino Di Vita, Il mausoleo punico-ellenistico B di Sabratha, "Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 83, 1976, pp. 273-285; Siga: Sandro Stucchi, L'architettura funeraria cirenaica, "Quaderni di Archeologia della Libia", 12, 1987, p. 297, fig. 88.
18. Gerhard Kleiner, Die Ruinen von Milet, Berlin 1968, pp. 56 ss., figg. 34, 36.
19. G. Cavalieri Manasse, La decorazione architettonica, nrr. 47, 48; v. anche un frammento di cornicione altinate: AL 3533.
20. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 362 ss.; v. anche Maurizio Borda, La scultura di età romana ad Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 1), Udine 1972, pp. 78 s. (pp. 59-89), L. Beschi, Le arti plastiche, pp. 375 s.; per una testimonianza patavina del tipo v. Francesca Ghedini, Sculture greche e romane del Museo Civico di Padova, Padova 1980, nrr. 69-70.
21. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 372, 374-376.
22. Ibid., nr. 377.
23. Gemma Sena Chiesa, Gemme del Museo Nazionale di Aquileia, Padova 1966 (da ora Gemme Aquileia), nrr. 275 ss.
24. Sugli altari cilindrici nord-adriatici fondamentale Hans Gabelmann, Oberitalische Rundaltàre, "Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 75, 1968, pp. 87-105; aggiornamenti bibliografici in Gemma Sena Chiesa, Are rotonde funerarie da Aquileia, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 757-776. Sugli altari microasiatici si v. Peter M. Fraser, Rhodian Funerary Monuments, Oxford 1977; Dietrich Berges, Hellenistische Rundaltäre Kleinasiens, Freiburg 1986.
25. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 582; cf. P.M. Fraser, Rhodian Funerary Monuments, pp. 31 s., figg. 84-85: D. Berges, Hellenistische Rundaltäre, p. 152, K 44.
26. Bibliografia e discussione del problema in Francesca Ghedini, La romanizzazione attraverso il monumento funerario, in AA.VV., Misurare la terra. Centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, p. 57 (pp. 52-71).
27. Ibid., pp. 60 ss.
28. Ettore Ghislanzoni, Altino. Antichità inedite scoperte negli ultimi decenni (1892-1930), "Notizie degli scavi di Antichità", ser. VI, 6, fasc. 10-11-12, 1930, p. 467, fig. 10 (pp. 461-484).
29. AA.VV., Arte e civiltà romana nell'Italia settentrionale dalla Repubblica alla Tetrarchia, Bologna 1964-65, p. 174, nr. 248, tav. XXXIX, 81.
30. Sui sarcofagi della "Venetia" si v. Hans Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, Bonn 1973; Fernando Rebecchi, I sarcofagi romani dell'arco adriatico, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A., 13), Udine 1978, pp. 201-258; Fulvio Canciani, I sarcofagi di Aquileia, in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), Udine 1987, pp. 401-418.
31. Hugo Brandenburg, L'inizio della produzione di sarcofagi a Roma in età imperiale, "Colloqui del Sodalizio", 5, 1975-6, pp. 81-105; Id., Der Beginn der Stadtrömischen Sarkophagproduktion der Kaiserzeit, "Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts", 93, 1978, pp. 277-327. Per le prime testimonianze in Grecia si v. Helga Herdejürgen, Frühkaiserzeitliche Sarkophage in Griechenland, "Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts", 96, 1981, pp. 413-435.
32. Per la ballerina di Asolo cf. ad esempio V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 580; per l'amorino su pistrice di S. Canzian d'Isonzo: ibid., nr. 378.
33. Non sembrano invece attestate importazioni attiche a Ravenna, ad eccezione forse di un frammento con testa di guerriero: F. Rebecchi, I sarcofagi romani, p. 238, n. 120. Sui sarcofagi attici aquileiesi si v. Antonio Giuliano, Il commercio dei sarcofagi attici, Roma 1962, passim; Guntram Koch-Hellmut Sichtermann, Römische Sarkophage, München 1982, pp. 366 ss.
34. F. Rebecchi, I sarcofagi romani, pp. 235 s., figg. 14, 16, 17.
35. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 472, 482; G. Kocl - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, pp. 429, 433.
35. Ibid., pp. 433, 434; v. anche gli Eroti di Zara: ibid., p. 430.
37. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 414-5, 417, 427-32 (scene di battaglia); 450 (Ippolito); 413 (battaglia alle navi); 433 (Achille a Sciro); 448 (riscatto del corpo di Ettore, v. qui sotto la n. 45); nr. 545 (tipo a "kline"). I frammenti dionisiaci con satiri danzanti o satiri e ninfe sono probabilmente pertinenti a sarcofagi di tradizione urbana.
38. Riferimenti bibliografici in A. Giuliano, Il commercio dei sarcofagi attici, passim; G. Koch - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, passim.
39. A. Giuliano, Il commercio dei sarcofagi attici, nr. 188.
40. G. Koch - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, p. 414 (Venezia).
41. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 413-14 (originale attico e imitazione locale); nrr. 503, 505 (sfinge e grifone in calcare, imitazione locale); nr. 454 (frammento di sarcofago con Muse, copia di originale attico [?>: cf. H. Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, pp. 25 ss., tav. 5, 1). Sono forse riferibili a tradizione attica anche il frammento di S. Canzian d'Isonzo: Fulvia Ciliberto, Un frammento inedito di sarcofago attico a S. Canzian d'Isonzo, "Aquileia Chiama", 33, 1986, pp. 2-3; e quello di Torcello: Francesca Ghedini, Un frammento di sarcofago con battaglia alle navi nel Museo Provinciale di Torcello, "Aquileia Nostra", 60, 1989, coll. 193-206 (Torcello).
42. Francesca Ghedini - Guido Rosada, Sculture greche e romane del Museo Provinciale di Torcello, Roma 1982, p. 112, nr. 39.
43. Aquileia: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 483; Portogruaro: H. Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, p. 230, nr. 28, tav. 16, 1; per altri frammenti con Eroti v. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 474, 475, 477, 478, 484, 485; AA.VV., Arte e civiltà, p. 504, nr. 721.
44. Luigi Beschi, Il frammento aquileiese di sarcofago con il mito di Alcesti, "Aquileia Nostra", 29, 1958, coll. 25-40; Fulvio Canciani, In margine ad un sarcofago di Aquileia, "Xenia", 2, 1981, pp. 66-70.
45. Sui sarcofagi con la raffigurazione del riscatto del corpo di Ettore v. da ultimo Pascale Linant De Bellefonds, Sarcophages attiques de la nécropole de Tyr, Paris 1985, pp. 37 ss., tavv. 6, 1-2; cf. il frammento aquileiese, V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 448, erroneamente interpretato come Meleagro.
46. F. Ghedini, Sculture greche e romane, nr. 71.
47. H. Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, p. 208, nr. 20; ulteriore bibliografia in F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, pp. 412 s.
48. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 435; cf. G. Koch-H. Sichtermann, Römische Sarkophage, p. 403.
49. Frammenti con Tritoni e Nereidi: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 480-1, F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, p. 406, n. 30; c.d. Achille a Troia: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 434 (per Trittolemo cf. G. Koch - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, pp. 187 s.); Selene: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 441 (cf. G. Koch-H. Sichtermann, Römische Sarkophage, pp. 144 s.); c.d. figura maschile eroica: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 465; cf. G. Koch - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, p. 135; Lucien Guimond, s.v. Aktaion, Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, I, Zürich-München 1981, nr. 75 (pp. 454-469). Per la tradizione urbana nella Dalmazia v. Nenad Cambi, Die stadtrömischen Sarkophage in Dalmatien, "Archäologischer Anzeiger", 1977, pp. 444-459.
50. Elena Di Filippo Balestrazzi, La "pompa del magistrato" e il dio di Emesa, "Aquileia Nostra", 56, 1985, coll. 337-360; Vittorio Galliazzo, Sculture greche e romane del Museo Civico di Treviso, Roma 1982, nr. 79; F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, p. 406, nr. 31.
51. H. Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, p. 13, n. 41; Nusin Asgari, Die halbfabrikate kleinasiatischen Girlandensarkophage und ihre Herkunft, "Archäologischer Anzeiger", 1977, p. 363 (pp. 329-380); F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, p. 407.
52. Ibid., fig. 3.
53. Ibid., figg. 4-5.
54. V. da ultimo Fulvio Canciani, Ancora sui sarcofagi del gruppo Aquileia-Grado, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 513-520.
55. F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, pp. 413 ss.
56. Ibid., p. 415, in particolare n. 71.
57. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 494-496; H. Gabelmann, Die Werkstattgruppen der oberitalischen Sarkophage, nrr. 52-55.
58. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 493, 496; Peter Kranz, Jahreszeitensarkophage, Berlin 1984 (Die antiken Sarkophagreliefs, V, 4), nrr. 555 ss.
59. Paolo Lino Zovatto, Il sarcofago a colonne di Iulia Concordia, "Felix Ravenna", ser. III, fasc. 1, 1950, pp. 34-40.
60. Per ulteriori testimonianze della direttrice urbana in epoca paleocristiana v. Renata Ubaldini, Scultura tardo antica ad Aquileia, in AA.VV., I musei di Aquileia. Preistoria. Architettura. Scultura. Mosaici. Collezioni fuori sede (A.A., 23), Udine 1983, p. 180 (pp. 175-200).
61. Maria José Strazzulla, Le terrecotte architettoniche della "Venetia" romana, Roma 1987, nr. 114.
62. Monika Verzar Bass, Contributo alla storia sociale di Aquileia repubblicana, in AA.VV., Les "bourgeoisies" municipales italiennes aux IIe et Ie siècles av. J. Chr., Paris-Naples 1983, p. 207 (pp. 205-215); di diverso avviso G. Cavalieri Manasse, La decorazione architettonica, pp. 72 s.
63. Anna Maria Chieco Bianchi, La documentazione archeologica, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, fig. 47 (pp. 49-73); Loredana Capuis, L'Eracle giacente del Museo di Este, in AA.VV., Venetia. Studi miscellanei di archeologia delle Venezie, I, Padova 1967, pp. 203-231.
64. M. J. Strazzulla, Le terrecotte architettoniche, pp. 75 ss.
65. Ibid., pp. 170 ss.; per i precedenti italici v. Eva-Maria Schmidt, Geschichte der Kariatide, Würzburg 1982, pp. 112 ss.
66. M. J. Strazzulla, Le terrecotte architettoniche, p. 264 (Altino), nr. 297 (Concordia); per un altro esemplare concordiese in pietra v. Paolo Lino Zovatto, Portogruaro. Museo nazionale concordiese, Bologna 1971, nr. 101; per le testimonianze delie v. J. Marcadé, Au Musée de Délos, tav. XXII.
67. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 22-3.
68. M. J. Strazzulla, Le terrecotte architettoniche, pp. 32 ss.
69. Luigi Beschi, La scultura romana di Aquileia. Alcune proposte, in AA.VV., I musei di Aquileia. Preistoria. Architettura. Scultura. Mosaici. Collezioni fuori sede (A.A., 23), Udine 1983, pp. 169 ss. (pp. 159-174).
70. Per le testimonianze di area pannonica v. ibid., p. 171, n. 37; per l'Icaro dei Capitolini v. Paul Zanker, Klassizistische Statuen, Mainz am Rhein 1974, p. 23, nr. 20.
71. Jakob E. Nyenhuis, s.v. Daidalos et Ikaros, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, p. 313, nr. 18 (pp. 313-321).
72. Ibid., nr. 16 (bronzetto da Smirne ora al Museo di Mariemont); nr. 15 (da coll. ora a Londra); nrr. 24, 35 (sarcofagi di Mira, Beirut e Messina); nr. 51 (moneta da Pessinunte); per il gruppo di Efeso v. Josef Keil, Skulpturengruppen in Ephesos, "Jahreshefte des österreichischen archäologischen Instituts in Wien", 39, 1952, p. 45, fig. 11 (pp. 42-46).
73. Sul problema v. da ultimo Lorenzo Braccesi, Grecità adriatica, Bologna 1979, pp. 30 ss.; Icaro compare anche nella glittica locale: G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 707; J. Marcello, La via Annia, p. 28.
74. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 50; L. Beschi, Le arti plastiche, p. 346. Il tipo non sembra attestato in ambito centro-italico ed urbano se non come acquisizione di simulacri greci nei bottini di guerra: Fulvio Canciani, s.v. Aurai, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, pp. 52-54.
75. J. Marcello La via Annia, pp. 26 ss., fig. 10.
76. Luigi Bernabò Brea, I rilievi tarantini in pietra tenera, "Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte", n. ser., I, 1952, pp. 220 s. (pp. 5-241); S. Stucchi, L'architettura funeraria, p. 297, fig. 87.
77. Margherita Tirelli, Oderzo, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, Il, Verona 1987, p. 385 (pp. 359-390); per il rilievo di Oderzo v. Francesca Ghedini - Guido Rosada, Frammento di rilievo funerario o votivo al Museo Civico di Oderzo, "Aquileia Nostra", 47, 1976, coll. 45-64; sembra pertinente ad una Sirena anche il frammento pubblicato in J. Marcello, La via Annia, p. 51, fig. 28.
78. L. Beschi, Le arti plastiche, p. 373, fig. 336; Michele Tombolani, Altino, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, Il, Verona 1987, p. 341 (pp. 309-344).
79. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 154.
80. Beatrice Palma, Il piccolo donario pergameno, "Xenia", 1-2, 1981, pp. 45-84.
81. Stele di Paconia Arisbe: Donatella Scarpellini, Stele romane con "imagines clipeatae" in Italia, Roma 1987, nr. 19; stele di Acilio Relato: V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 340; sarcofago di Belluno: cf. qui sopra alla n. 47; tritone di Altino: AA.VV., Arte e Civiltà, p. 179, nr. 256.
82. Gundolf Precht, Das Grabmal des Lucius Poblicius, Köln 1975.
83. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 48.
84. Ibid., nr. 105.
85. Ibid., nr. 25.
86. Claudia Dolzani, Presenze di origine egiziana nell'ambiente aquileiese e nell'Alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 125-133; per l'urna di Altino v. B.M. Scarfi-M. Tombolani, Altino preromana e romana, fig. 137; per la presenza di marmi egiziani ad Aquileia v. Patrizio Pensabene, L'importazione di manufatti marmorei ad Aquileia, in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), Udine 1987, pp. 376 s. (pp. 365-399).
87. Giovanni Gorini, Aspetti monetali: emissione, circolazione e tesaurizzazione, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, I, Verona 1987, pp. 229 ss. (pp. 225-285).
88. M. Tombolani, in B.M. Scarfì-M. Tombolani, Altino preromana e romana, p. 87, fig. 65.
89. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 8; Bernard Holzmann, s.v. Asklepios, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, II, Zürich-München 1984, nr. 186; sul tipo v. Luigi Beschi, Rilievi votivi attici ricomposti, "Annuario della Scuola Archeologica di Atene", 47-48, 1969-70, pp. 109 ss. (pp. 85-132).
90. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 31; Irene Favaretto, Sculture non finite e botteghe di scultura ad Aquileia, in AA.VV., Venetia. Studi miscellanei di archeologia delle Venezie, II, Padova 1970, p. 171 (pp. 129-231); P. Pensabene, L'importazione di manufatti, p. 390.
91. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 55; cf. José Dorig, Tarentinische Terrakotten, "Museum Helveticum", 16, 1959, pp. 48 ss. (pp. 29-58); L. Beschi, Le arti plastiche, p. 373.
92. Per le testine cf. F. Ghedini - G. Rosada, Sculture greche e romane del Museo Provinciale di Torcello, nr. 7; per il torsetto aquileiese V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 37; cf. J. Marcadé, Au Musée de Délos, tav. 45, A 5430; Achille Adriani, Repertorio d'arte dell'Egitto greco-romano, Palermo 1961, tav. 53.
93. Luciano Laurenzi, Un catalogo di piccole sculture, "Colloqui del Sodalizio", 2, 1951-54, pp. 132 ss.
94. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 123-124 (Serapide), 46 (Atena).
95. Gisela M.A. Richter, The Portraits of the Greeks, II, London 1965, p. 229, fig. 1524.
96. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 65; cf. J. Marcadé, Au Musée de Délos, tav. 51, A 5217. Più generici riferimenti alla tradizione greco-orientale emergono nelle statuette nrr. 62-64, 587 del catalogo della Scrinari, per cui cf. Giorgio Gualandi, Sculture di Rodi, "Annuario della Scuola Archeologica di Atene", 54, 1976, p. 195, nr. 198 (pp. 7-259).
97. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 132; cf. anche un frammento altinate inedito; per il gruppo di Delo v. Angelos Delivorrias, s.v. Aphrodite, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, II, Zürich-München 1984, nr. 514 (pp. 2-151); per il particolare della cuffia v. J. Marcadé, Au Musée de Délos, pp. 437 ss.; Ludger Alscher, Griechische Plastik, Berlin 1957, p. 35, fig. 8.
98. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 227; per Arsinoe III v. Helmut Kyrieleis, Bildnisse der Ptolemäer, Berlin 1975, pp. 102 ss., tav. 95 (L 5).
99. Birgitte Freyer Schauenburg, Io in Alexandria, "Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 90, 1983, pp. 35-49.
100. Gustavo Traversari, Testina femminile di arte alessandrina nel Museo Civico di Treviso, "Aquileia Nostra", 45-6, 1974-75, coll. 317-324.
101. Sandro Stucchi, Un ritratto di Aquileia e uno di Calcide, in AA.VV., Studi aquileiesi, Aquileia 1953, pp. 197-208; Paola Lopreato, Un ritratto di Costanzo Cloro dagli scavi di Aquileia, in AA.VV., Aquileia nel IV secolo (A.A., 22, 2), Udine 1982, pp. 359-368.
102. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 30; per le terrecotte v. Eva Topperwein-Hoffmann, Terrakotten von Priene, "Istambuler Mitteilungen", 21, 1971, tav. 46, 2 (pp. 125-160); per i bronzetti v. Marie Odile Jentel, s.v. Aphrodite (in peripheria orientali), in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, II, Zürich-München 1984, nrr. 216-220 (pp. 154-166).
103. Per il Dioniso v. M. Tombolani, in B.M. Scarfì- M. Tombolani, Altino preromana e romana, p. 87, fig. 67; cf. Carlo Gasparri, s.v. Dionysos, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, nrr. 120-122 (pp. 414-514) per le figure dionisiache v. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nrr. 3, 4, 6; per la testa di Socrate: ibid., nr. 115; per il Sileno di Padova: F. Ghedini, Sculture greche e romane, nr. 26; per le teste classicistiche Rosanina Invernizzi, Alcuni documenti di scultura colta ad Aquileia, "Aquileia Nostra", 49, 1978, coll. 77-94; Ead., Su alcuni aspetti della scultura "colta" aquileiese, "Rivista archeologica dell'antica provincia e diocesi di Como", 161, 1979, pp. 123-145.
104. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 322; App. nr. 3.
105. Ibid., nr. 554, Elena Di Filippo, L'ara di Eupor nel Museo di Aquileia, in AA.VV., Venetia. Studi miscellanei di archeologia delle Venezie, II, Padova 1970, pp. 11-126, per un riferimento a tradizione urbana v. F. Canciani, I sarcofagi di Aquileia, p. 406.
106. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 52; cf. Simone Mollard Besques, Myrina, II, Paris 1963, tavv. 80 ss., 131 d; Reynhold A. Higgins, Greek Terracottas, London 1967, tav. 59 B; Photographische Einzelaufnahmen antiker Skulpturen, nr. 1332 (statuetta da Arles).
107. Elisabetta Baggio, Este, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, p. 233 (pp. 219-234); menade di Badia Polesine: Raffaele Peretto-Enrico Zerbinati, Il territorio polesano, ibid., p. 284 (pp. 269-289).
108. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 580; cf. Heide Froning, Marmor-Schmuckreliefs mit griechischen Mythen im I Jh. v. Chr., Mainz am Rhein 1981, pp. 125 ss.
109. Giovanni Pellegrini, Regione V (Picenum), "Notizie degli scavi di Antichità", fasc. 9, 1910, pp. 358 ss., fig. 26 (pp. 333-366).
110. Are altinati: AL 6729, 6760; M. Tombolani, Altino, p. 339; are di Padova: F. Ghedini, Sculture greche e romane, nrr. 35, 68, ivi bibl. anche per quelle di Verona; altare opitergino: Marisa Rigoni, Ara o base con Menadi, in AA.VV., Sculture e mosaici del Museo Civico di Oderzo, Treviso 1976, nr. 36.
111. Per Claudia Toreuma v. F. Ghedini, Sculture greche e romane, nr. 75.
112. Sulla glittica aquileiese fondamentale G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia; Ead., Gemme romane di cultura ellenistica ad Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 197-214; v. anche Maria Carina Calvi, Le arti suntuarie, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, pp. 451-505. Un panorama completo della produzione locale sarà possibile solo quando saranno pubblicate le numerose gemme altinati e quelle aquileiesi disperse in collezioni (interessanti spunti in Gemma Sena Chiesa, Le gemme nel Museo Nazionale di Aquileia, in AA.VV., I musei di Aquileia. Arti applicate. Ceramica. Epigrafia. Numismatica [A.A., 24>, Udine 1984, pp. 13-28).
113. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nrr. 50 ss., 68, 248 ss.
114. Ibid., nrr. 141 ss.; nr. 46 (cf. Paolo Moreno, Una cretula da Cirene e il Posidone del Laterano, "Quaderni di Archeologia della Libia", 8, 1976, pp. 81-88).
115. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nrr. 752 ss.; 780 ss.; 810 ss.; per l'ispirazione dionisiaca dello sventramento del porco v. Charles Picard, Un thème alexandrin sur un médaillon de Bègram, "Bullettin de Correspondance Hellénique", 79, 1955, pp. 509-527.
116. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 522; Ead., Gemme romane di cultura ellenistica, p. 209, fig. 10.
117. Ibid., pp. 209 ss.; v. anche Ead., Gemme Aquileia, nr. 749.
118. G. Sena Chiesa, Gemme del Museo Nazionale di Aquileia, nr. 750; Ead., Gemme romane di cultura ellenistica, pp. 207 ss.; cf. Franz Heger, s.v. Dirke, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, pp. 635-644.
119. G. Sena Chiesa, Gemme romane di cultura ellenistica, p. 203 ss.; Gisela M.A. Richter, Engraved Gems of the Romans, London 1971, nr. 48. L'anomala posizione del braccio sinistro trova riscontro nella tradizione apula: cf. Ettore M. De Juliis, Archeologia in Puglia, Bari 1983, p. 9.
120. Chirone: G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 737 s.; cf. Madeleine Gisler-Huwiler, s.v. Cheiron, in Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, nrr. 65 ss. (pp. 237-248); Leda: G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nrr. 734-736; cf. Gustavo Traversari, La statuaria ellenistica del Museo Archeologico di Venezia, Roma 1986, nr. 56.
121. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 154; cf. Erika Zwierlein Diehl, Die antiken Gemmen des Kunsthistorisches Museums in Wien, Miinchen 1979, tavv. 4, 581; 12, 632.
122. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, pp. 165 ss.; nrr. 301 ss. (uccellagione; v. anche AL 11979); nr. 300 (vendemmia); nrr. 345 ss. (Eros/Anteros); nrr. 429 ss. (Erote che difende il grappolo d'uva).
123. Ibid., nr. 88; v. anche J. Marcello, La via Annia, tav. XII, 2.
124. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 244; cf. A. Delivorrias, s.v. Aphrodite, nrr. 774, 775, 778, Pietro Romanelli, Topografia dell'Africa romana, Torino 1970, tav. 239.
125. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 717; Ead., Gemme romane di cultura ellenistica, pp. 201 s.; per la gemma di Sosis v. Peter Zazoff, Die antiken Gemmen, München 1983, p. 207, tav. 53, 8; per i sarcofagi v. Carl Robert, Die antiken Sarkophagreliefs, III, 1, Berlin 1897, fig. 32, tav. XLI.
126. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 56-7.
127. Ibid., pp. 418 ss. e nr. 228.
128. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 1440. Ricordiamo infine le gemme con ritratti in cui emergono sia la tradizione urbana che quella ellenistica, soprattutto alessandrina: cf. Marie Louise Vollenweider, Die Porträtgemmen der römischen Republik, Mainz am Rhein 1972-74, Index; interessanti spunti anche in Gemma Sena Chiesa, Lusso: arte e propaganda nella glittica aquileiese tra tarda repubblica e principato augusteo, in AA.VV., Aquileia repubblicana ed imperiale (A.A., 35), Udine 1988, pp. 263-280.
129. Sulle ambre v. da ultimo M.C. Calvi, Arti suntuarie, pp. 458 ss.
130. Ibid., figg. 448-450, 457; cf. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nrr. 343 ss.
131. Maria Carina Calvi, Le ambre romane di Aquileia, "Aquileia Nostra", 48, 1977, col. 104, fig. 9 (coll. 93-104); cf. G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nr. 300; per la testimonianza altinate v. M. Tombolani, in B.M. Scarfì - M. Tombolani, Altino preromana e romana, p. 97, fig. 76.
132. M.C. Calvi, Arti suntuarie, p. 469, fig. 460.
133. Per la lucertola v. AA.VV., Arte e civiltà, p. 380; per la pisside con ibis: M.C. Calvi, Arti suntuarie, p. 470, figg. 463-64; per le gemme G. Sena Chiesa, Gemme Aquileia, nrr. 1322 ss.; per il frammento in marmo v. V. Santa Maria Scrinari, Museo Archeologico di Aquileia. Catalogo, nr. 286.
134. Teresa Biavaschi, Ambre aquileiesi nel Museo Civico di Udine, "Aquileia Nostra", 22, 1951, col. 18, fig. 2 (coll. 13-22).
135. Per la Venere v. P.L. Zovatto, Portogruaro, nr. 131; cf. A. Delivorrias, s.v. Aphrodite, nr. 464; per il Dioniso v. Maria Carina Calvi, Motivi alessandrini nella "Kleinkunst" di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 185-195; cf. G. Traversari, Statuaria ellenistica, nr. 21.
136. Per il piatto di Aquileia v. Francesca Ghedini, La figura recumbente del piatto di Aquileia e l'eleusinismo alessandrino, "Rivista di Archeologia ", 10, 1986, pp. 31-42; per la Medusa di Este v. Maria D'abruzzo, La Medusa bronzea del Museo Nazionale di Este, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 1, 1985, pp. 166-174; per la "phalera" v. Giovanni Brusin, Aquileia e Grado, Padova 1956, p. 157, fig. 93; per la laminetta v. AA.VV., Arte e civiltà, nr. 614; per le testimonianze epigrafiche di artigianato locale v. I.L.S., 7592, 7698.
137. Per l'Eracle v. Paola Càssola, Eracle coi pomi delle Esperidi, "Aquileia Nostra", 40, 1969, coll. 47-56; per il bronzetto di Altino v. Vittorio Galliazzo, Bronzi romani del Museo Civico di Treviso, Roma 1979, nr. 1; per il Sileno di Lugugnana v. Pierangela Croce Da Villa, Concordia, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, p. 419 (pp. 391-423)
138. Per l'Alessandro di Grado v. Vigilio De Grassi, Le rovine subacquee di S. Gottardo e Grado, "Aquileia Nostra", 53, 1982, col. 32, fig. 3 (coll. 27-36); per l'Alessandro - Mercurio di Concordia v. AA.VV., Antichi bronzi di Concordia, Portogruaro 1983, nr. 14.
139. Ibid., nr. 15; per il ritrovamento di Montorio v. Luigi Beschi, I bronzetti romani di Montorio Veronese, Verona 1962.
140. Luisa Bertacchi, La produzione vetraria aquileiese nelle sue fasi più antiche, in AA.VV., Vita sociale artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), Udine 1987, pp. 419-426.
141. Maria Carina Calvi, I vetri romani del Museo di Aquileia, Padova 1968; Ead., Arti suntuarie, pp. 482 ss.; Maria Luisa Uberti, I vetri, in AA.VV., I Fenici, Milano 1988, pp. 488 s. (pp. 474-491)
142. AA.VV., Arte e civiltà, nr. 507, tav. CXXXVII; Maurizia De Min, Adria, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, p. 264 (pp. 255-268).
143. M.C. Calvi, Arti suntuarie, p. 484.
144. Michael Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken in Venetien und Istrien bis zur Zeit der Antonine, Berlin 1986.
145. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 9, tav. 5; il nastro annodato a fiocco trova riscontro anche in due pannelli di Vienne, più tardi dell'esemplare aquileiese, ma significativi in quanto confermano gli stretti rapporti che univano l'artigianato alto-adriatico a quello d'oltr'Alpe (Janine Lancha, Mosaïque géometrique. Les ateliers de Vienne [Isère>, Roma 1977, p. 100, fig. 4 A,C).
146. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 63.
147. Ibid., Aq 3; Pd 4, 5; Cf. Maria Luisa Morricone, Mosaici cassettonati del I sec. a.C., "Archeologia Classica", 17, 1965, pp. 79-81.
148. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 54; v. anche 63, 74, 76; per Delo cf. Philippe Bruneau, Les mosaïques, Délos, XXIX, Paris 1972, p. 70 e nrr. 214, 217, 261.
149. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 60.
150. Ostia (metà II sec. d.C.): Giovanni Becatti, Mosaici e pavimenti marmorei, Scavi di Ostia, IV, Roma 1961, tav. CXXXII; sarcofago del Museo Nazionale Romano (fine II sec. d.C.): Bernard Andreae, in Wolfgang Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen Klassischer Altertümer in Rom, Tübingen 1969, nr. 2124; per il mosaico di Olinto v. Dieter Salzmann, Untersuchungen zu den antiken Kieselmosaiken, Berlin 1982, nr. 37, tav. 18; per i medaglioni di Abukir v. Clizia Bernardi, I niketeria, "Rivista Italiana di Numismatica", 72, 1970, pp. 84 s., nrr. 15, 18, tav. VI (pp. 79-103).
151. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 61.
152. Mosaico del Laterano: Klaus Parlaska, in W. Helbig, Führer, nr. 1084; per Oudna e El Djem v. Kathleen M.D. Dunbabin, The Mosaics of Roman North Africa, Oxford 1978, pp. 260, 266 (ivi si troveranno anche i riferimenti relativi a tutti i mosaici africani che si citeranno in seguito).
153. Ph. Bruneau, Les mosaïques, pp. 305 ss. (inizi I sec. a. C.); v. anche Erich Pernice, Pavimente und figürliche Mosaiken, Berlin 1938; per testimonianze più tarde (III sec. d.C.) v. Klaus Parlaska, Die römischen Mosaiken in Deutschland, Berlin 1958, tav. 89.
154. Luisa Bertacchi, Architettura e mosaico, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, p. 153, fig. 131 (pp. 99-336).
155. Ibid., pp. 163 ss., fig. 133.
156. Per il criptoportico della "Domus Aurea" v. Nicole Dacos, La découverte de la "Domus Aurea" et la formation des grotesques à la Rénaissance, London-Leiden 1969, pp. 30 s., figg. 23 ss.; colombario di Via Taranto: Massimo Pallottino, I colombari romani di Via Taranto, "Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma", 62, 1934, p. 49, tavv. I-II (pp. 41-63); casa di Arianna: Alix Barbet - Claudine Allag, Techniques de préparation des parois dans la peinture murale romaine, "Mélanges de l'Ecole Française de Rome. Antiquité", 84, 1972, pp. 998 ss., fig. 29 c (pp. 935-1069); soffitto Arici di Brescia: Antonio Frova, Pittura romana nella "Venetia et Histria", in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, p. 223, fig. 8 (pp. 203-228); Carnuntum, Virunum, Leicester: Norman Davey-Roger Ling, Wall-painting in Roman Britain, s.l. 1982, p. 131; Avenches: "Dossiers Archéologie", 89, 1984, p. 68; mosaici di V-VI sec.: Sergio Tavano, Considerazioni sui mosaici della "Venetia et Histria", in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, fig. 36, pp. 229-258; il pavimento di Bulla Regia, inedito, proviene dalla Casa della Caccia.
157. Luisa Bertacchi, Nuovi mosaici figurati di Aquileia, "Aquileia Nostra", 34, 1963, coll. 68 ss. (coll. 19-86); Ead., Architettura e mosaico, pp. 165 s.; per lo schema geometrico cf. M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken, Aq 93, 95; per i mosaici africani: David Parrish, Season Mosaics of Roman North Africa, Roma 1984, in particolare p. 26.
158. L. Bertacchi, Architettura e mosaico, p. 166, fig. 148; v. anche Giovanni Brusin, Aquileia. Scoperte di mosaici pavimentali romani e cristiani, "Notizie degli Scavi di Antichità", 7, 1931, pp. 134 ss. (pp. 125-138); mosaico di Genazzano: K. Parlaska in W. Helbig, Führer, nr. 2480; mosaici di Sousse e Timgad: Louis Foucher, Inventaire Mosaïque. Sousse, Tunis 1960, nrr. 57025, 57125; cf. anche nr. 57042; Suzanne Germain, Mosaïques de Timgad, Paris 1969, nrr. 20, 132.
159. L. Bertacchi, Architettura e mosaico, p. 171.
160. AA.VV., Le décor géometrique de la mosaïque romaine, Paris 1985, tav. 234; ulteriori confronti in K.M. Dunbabin, The Mosaics, passim.
161. Irving Lavin, The Hunting Mosaics of Antioch and their Sources, "Dumbarton Oaks Papers", 17, 1963, pp, 179-286.
162. Leptis Magna: Salvatore Aurigemma, Tripolitania. Le pitture, Roma 1962, tavv. 73 ss.; per le altre testimonianze africane v. K.M. Dunbabin, The Mosaics; Merida: "Dossiers Archéologie", 89, 1984, fig. 73.
163. D. Parrish, Season Mosaics, nrr. 49, 60.
164. Elisabetta Baggio - Donata Papafava, Il pavimento musivo con scene di caccia e vita rustica dell'ex Orto Gasparinetti, in AA.VV., Sculture e mosaici del Museo Civico di Oderzo, Treviso 1976, pp. 153 ss.; Luisa Bertacchi, Ricomposizione del mosaico opitergino con villa rustica, in AA.VV., Mosaïque. Hommages à H. Stern, Paris 1983, pp. 65-73; M. Tirelli, Oderzo, pp. 379 s.
165. Felice Gino Lo Porto, Anfora attica a figure nere con scene di aucupio dalla necropoli di Taranto, "Bollettino d'Arte", 48, 1963, pp. 18-22.
166. Sarcofago di S. Lorenzo: A. Giuliano, Il commercio dei sarcofagi attici, nr. 43; sarcofago del Museo Nazionale Romano: Henning Wrede, Stadtrömische Monumente, Urnen und Sarkophage in den beiden ersten Jahrhunderten nach Chr., "Archäologischer Anzeiger", 1977, pp. 404 s., fig. 77 (pp. 345-431); gemma di Aquileia: cf. qui sopra alla n. 122; rilievo di Altino: M. Tombolani, Altino, p. 339.
167. Tondo da Antinoe: Pierre Du Bourguet, Musée National du Louvre. Catalogue des Etoffes Coptes, I, Paris 1964, p. 137; galletti: Philippe Bruneau, Le motif des coqs affrontés dans l'imagerie antique, "Bulletin de Correspondance Hellénique ", 89, 1965, pp. 90-121.
168. L. Bertacchi, Architettura e mosaico, pp. 172 s., fig. 142; ulteriore bibliografia in Paola Lopreato, L'edificio romano della "Braida Murada", "Aquileia Chiama", 29, 1982, pp. 2-5.
169. Francesca Ghedini, Il Nettuno sul carro di Aquileia: divagazioni intorno a un motivo iconografico, "Aquileia Nostra", 59, 1989, coll. 181-220.
170. Luisa Bertacchi, Licurgo e Ambrosia, "Aquileia Nostra", 45-6, 1974-75, coll. 535-550.
171. Nelle more della stampa sono usciti due importanti contributi di Mario Denti, I Romani a nord del Po, Milano 1991 e Ellenismo e romanizzazione nella X Regio, Roma 1991.