di Enrico Fassi
Le politiche di vicinato rappresentano forse l’esempio più nitido di quella che è oggi l’azione esterna dell’Unione europea intesa nel suo significato più ampio e al contempo più ambizioso, ovvero come il tentativo dell’EU di incidere sul contesto internazionale attraverso l’utilizzo di un insieme di strumenti specifi ci e distintivi. Sin dagli albori del processo di integrazione, e nonostante le rigidità strategiche imposte dalla Guerra fredda, l’Europa delle Comunità ha infatti saputo sviluppare una propria modalità di azione internazionale ‘con altri mezzi’, basata sulla forza che gli derivava dal successo dell’integrazione economica e che gli è valsa l’appellativo di potenza civile. Sebbene proprio sul terreno della cooperazione alla sicurezza si siano registrati, nell’ultimo decennio, notevoli sviluppi, la politica estera dell’Unione ha continuato a essere marcata da un’impostazione prevalentemente ‘venusiania’, incentrata sull’utilizzo di strumenti ‘civili’ quali l’assistenza tecnica e umanitaria, la cooperazione economica, la promozione della democrazia e dei diritti umani. Il grande allargamento del 2004-2007, che ha visto l’ingresso nell’EU di 12 nuovi membri, ha rappresentato per certi versi l’apice, e ad oggi il maggior successo, di tale strategia: attraverso il processo di europeizzazione dei paesi canditati, l’Unione ha profondamente inciso sulle loro traiettorie di transizione, trasformando un problema di politica ‘estera’ – l’instabilità causata dal dissolvimento del blocco sovietico – in un problema di politica ‘interna’ all’EU. Al contempo, proprio tale allargamento ha avuto l’effetto di avvicinare ulteriormente il limes dell’Unione a un’area geopolitica estremamente complessa, che si estende dal Baltico al Mar Nero ed al Mar Caspio a Est, ed abbraccia l’intera sponda meridionale del Mediterraneo a Sud. La Politica Europea di Vicinato (PEV), lanciata nel 2003, nasce esattamente per rispondere alle formidabili sfide che si profilavano ai confini della nuova Europa: da un lato, il rischio che l’allargamento creasse nuove e insanabili fratture tra insiders e outsiders; dall’altro, nel contesto della guerra globale al terrorismo lanciata dagli USA, la necessità per l’EU di definire e implementare una propria strategia di sicurezza globale ma articolata, innanzitutto, sul piano regionale. Tale iniziativa si rivolge infatti ai nuovi stati confinanti con l’EU sul versante orientale (Ucraina, Bielorussia, Moldavia) e del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia), così come ai 10 partner mediterranei già coinvolti nel Partenariato Euro-Mediterraneo (dal Marocco alla Siria). Analogamente a quanto avvenuto con l’allargamento, l’obiettivo della PEV era – e rimane – quello di promuovere e assistere le riforme economiche (liberalizzazione) e politiche (democratizzazione) di questi paesi, perseguendo un processo di convergenza che garantisca una sicurezza sostenibile nell’area del Vicinato. Anche i meccanismi sono simili, essendo basati su un’offerta di cooperazione economica ancorata alla logica della condizionalità: sia ‘negativa’, per cui il mancato raggiungimento degli obiettivi dovrebbe portare alla sospensione del processo, sia ‘positiva’, per cui a fronte di un maggiore impegno l’EU è pronta a concedere maggiori benefici. Tuttavia, gli incentivi disponibili appaiono profondamente diversi da quelli dell’allargamento, in quanto la PEV non implica la prospettiva della piena membership, ma vuole anzi porsi come un’alternativa. Nel breve periodo tali paesi possono comunque beneficiare di relazioni rafforzate con l’EU grazie alla possibilità di partecipare ad alcune attività e godere di una maggiore cooperazione politica, economica e culturale. Nel medio-lungo periodo l’Unione offre poi l’opportunità di una relazione più stretta, che comporti «un livello significativo di integrazione economica e l’approfondimento della cooperazione politica». Ad oltre un decennio dal loro avvio, le politiche di vicinato sembrano mostrare diverse debolezze. A Sud, nonostante il tentativo di rilancio tramite l’Unione per il Mediterraneo, sono emersi chiaramente i limiti di una strategia fondata sulla cooperazione a livello di élite, su una concezione top-down dei processi di democratizzazione e sulla priorità assegnata de facto alla stabilità nel breve periodo. Se l’obiettivo era quello di una transizione progressiva, controllata e incruenta dei regimi mediorientali, non si può certo affermare che con le Primavere arabe tale risultato sia stato pienamente raggiunto. A Est, a tali fattori si aggiungono la maggiore ambiguità rispetto alle prospettive di membership, la competizione con progetti geopolitici alternativi (in primis quelli di una Russia tornata ad essere forte e assertiva) e soprattutto il parziale scollamento tra il progetto di sicurezza perseguito dall’EU – progetto di lungo periodo, ‘trasformativo’, centrato sulle cause strutturali delle minacce – e la dimensione hard della sicurezza, di fatto ancora pienamente appaltata alla NATO. Dopo la crisi Ucraina, forse culminata con l’annessione russa della Crimea, ma certamente ancora lontana dall’essere risolta, l’EU si trova quindi costretta a ripensare criticamente le proprie politiche verso l’area del Vicinato: conscia che gli strumenti civili saranno senza dubbio parte di una possibile soluzione, ma all’interno di un’equazione probabilmente molto più complessa di quanto a Bruxelles si potesse immaginare un decennio fa.