L’euro: una moneta senza Stato
Il 1° gennaio 1999, con l’assunzione da parte della Banca centrale europea (BCE) della piena responsabilità della politica monetaria dei Paesi dell’area dell’euro, si inaugura la terza fase del processo di creazione dell’Unione monetaria europea (UME). Si tratta di uno dei più significativi eventi del primo decennio del 21° sec., che ha ormai portato all’integrazione monetaria di sedici Paesi europei, i quali hanno rinunciato alle loro valute nazionali adottando l’euro. Dopo circa dieci anni, è possibile provare a tracciare un primo bilancio di questo importante esperimento europeo. I problemi che un’analisi dell’UME solleva sono molteplici e di diversa natura, riguardando sia l’interpretazione di concreti fenomeni storici, politici ed economici, sia questioni di carattere teorico e analitico. Tutti questi aspetti sono ovviamente intrecciati fra loro, ma qui, per comodità espositiva, si tenterà di considerarli, per quanto possibile, separatamente.
Una prima questione da valutare è l’intreccio fra l’evoluzione del quadro economico internazionale, la decisione europea di procedere verso l’integrazione monetaria e lo stato del dibattito teorico, soprattutto quello concernente i regimi di tassi di cambio. Ma l’esperimento europeo di creazione di una moneta unica solleva altri problemi di ordine concettuale, riguardanti in particolare il problema dei criteri di convenienza (ottimalità) per la creazione di un’area valutaria qual è l’area dell’euro. Un altro importante problema da affrontare è l’analisi dei principi ispiratori della strategia monetaria della BCE alla luce dello stato attuale del dibattito teorico e del modo di operare di altre grandi banche centrali. I paragrafi La ricerca di tassi di cambio stabili e l’integrazione monetaria europea e Strategia e politica monetaria della BCE affrontano questi temi.
La creazione dell’UME non ha precedenti storici. Tutte le esperienze storiche di costruzione di un’area valutaria sono sostanzialmente diverse da quella europea (Eichengreen 2008). In alcuni casi sono state realizzate aree valutarie in cui non esisteva un’unica banca centrale; in altri casi la banca centrale unica è affiancata da un governo federale che esercita la sua autorità fiscale sull’intera area. In Europa esiste invece un’unica autorità monetaria e, quindi, un’unica politica monetaria, ma non esiste nulla di simile a una politica fiscale unica amministrata da un governo federale. In altre parole, con l’esperienza dell’euro è stato scisso il legame storicamente sempre esistente fra moneta e autorità statale, che esercita la propria sovranità tramite il fisco e la moneta.
Questo carattere di unicità dell’esperienza europea pone importanti questioni, sia di natura teorica, riguardanti il rapporto fra politica fiscale e monetaria o più in generale fra Stato e moneta, sia di natura più concreta, riguardanti gli effetti dell’attuale assetto dell’Unione monetaria europea sulla dinamica economica dei Paesi a essa appartenenti. I paragrafi Il’mix’ di politica fiscale e monetaria e Il paradosso dell’UME sono dedicati a questi temi.
La ricerca di tassi di cambio stabili e l’integrazione monetaria europea
Sin dalla fine del regime di tassi di cambio fissi di Bretton Woods, la Comunità economica europea è stata sempre alla ricerca di un regime di tassi di cambio stabili nel continente, considerato come il più adeguato a garantire l’espansione del commercio internazionale e l’integrazione economica fra Paesi. La creazione dell’UME e dell’euro può considerarsi l’esito finale di questo lungo processo di ricerca. Dopo il fallimento del cosiddetto serpente monetario (1972-73), che comunque coinvolgeva pochi Paesi europei, fu creato il Sistema monetario europeo (SME), basato su tassi di cambio fissi ma aggiustabili. Con lo SME fu creato l’ECU (European Currency Unit, 1979), un paniere di quantità fisse delle valute dei Paesi aderenti, usato come unità di conto. Ma anche lo SME entrò in crisi quando, nel 1992, Italia e Gran Bretagna furono costrette a uscirne, essendo le loro valute sottoposte a massicci attacchi speculativi. Nello stesso anno veniva firmato il Trattato di Maastricht, che pose le basi fondamentali dell’UME e della BCE.
L’esistenza dello SME era stata caratterizzata dal ruolo svolto al suo interno dalla Germania. Essendo l’economia tedesca dominante nell’area europea, le sue linee di politica monetaria determinavano quelle di tutti gli altri Paesi, vincolati a mantenere fissi i lo;ro tassi di cambio con il marco tedesco. Ciò generava tensioni e frizioni all’interno del sistema, e la Francia in primo luogo mostrava una crescente insofferenza nei confronti dell’egemonia tedesca. In questo quadro, la Commissione europea adottò la strategia dell’integrazione monetaria per tentare di superare tali tensioni. Tale strategia mirava a rispondere alle pressioni francesi, e anche italiane, per una maggiore incidenza nei processi decisionali e, allo stesso tempo, a tacitare i timori tedeschi che una politica monetaria diversa da quella della Bundesbank avrebbe generato pressioni inflazionistiche. La Germania temeva che un’ulteriore integrazione avrebbe condotto a politiche e atteggiamenti meno rigorosi ed era specialmente avversa al coinvolgimento di un Paese come l’Italia, considerato fra i meno virtuosi nella lotta all’inflazione e al controllo delle finanze pubbliche. La creazione dell’UME e della BCE con le caratteristiche che hanno concretamente assunto è la risposta della Commissione europea a questi problemi. Da un lato, la politica monetaria è decisa in modo collegiale e non più implicitamente determinata dai comportamenti e scelte dell’economia più forte; dall’altro lato, alla BCE è stata assegnata una strategia inequivocabilmente antinflazionistica, che non dovrebbe lasciare spazio ai comportamenti ‘permissivi’ temuti dalla Germania.
Al di là delle scelte di strategia politica della Commissione europea, va anche sottolineato che, dopo la crisi dello SME, il panorama teorico non offriva molto supporto a tentativi di ricostituire un nuovo regime di tassi di cambio fissi. Per la maggior parte degli economisti, un regime di tassi di cambio flessibili era più efficiente. Inoltre, l’accresciuta mobilità dei capitali a livello internazionale rendeva praticamente impossibile il mantenimento di tassi di cambio fissi. Il regime di Bretton Woods era associato a controlli rigorosi sui movimenti di capitali, e ciò gli aveva consentito di funzionare relativamente bene per circa un quarto di secolo, ma il quadro degli anni Novanta era drasticamente mutato: molti dei controlli sui movimenti di capitali erano stati eliminati o erano facilmente aggirati, anche grazie a innovazioni nel funzionamento dei mercati finanziari. In tale nuovo contesto, la sola alternativa praticabile a un regime di tassi flessibili era individuata nell’adozione di una valuta unica da parte di un gruppo di Paesi, cioè la creazione di un’area valutaria. L’Europa scelse questa alternativa.
Ma la scelta europea pose ulteriori questioni. Sorse infatti il problema di stabilire se e quando fosse ottimale per un gruppo di Paesi adottare una valuta unica. Di questi temi si cominciò a discutere nei primi anni Sessanta, grazie soprattutto al contributo pionieristico di Robert A. Mundell (A theory of optimum currency areas, «The American economic review», 1961, 4, pp. 657-65). Stando ai criteri di ottimalità emersi negli anni Sessanta, i Paesi europei oggi appartenenti all’UME sono ben lungi dal costituire un’area valutaria ottimale. I criteri stabiliti da Mundell per l’ottimalità di un’area valutaria erano incentrati essenzialmente sulla flessibilità di prezzi e salari e sul grado di mobilità dei fattori della produzione in seno all’area: quanto maggiori sono la flessibilità dei prezzi e la mobilità dei fattori, tanto più una certa area geoeconomica si avvicina alle condizioni per realizzare un’area valutaria ottimale (optimal currency area). Per comprendere la logica di tali criteri occorre ricordare che l’adozione di una valuta unica da parte di un gruppo di Paesi implica necessariamente la rinuncia da parte di ciascuno di essi alla possibilità di condurre politiche monetarie autonome. La valuta unica deve essere amministrata da una banca centrale unica, che assume la responsabilità della politica monetaria per l’intera area. La rinuncia all’autonomia monetaria è un costo per i Paesi che aderiscono all’area valutaria; tale costo è tanto minore quanto più questi Paesi si avvicinano al rispetto dei criteri di ottimalità menzionati sopra. Si supponga, per es., che due Paesi di un’area siano soggetti a uno shock che determina una riduzione della domanda aggregata nel Paese A e un aumento della domanda aggregata nel Paese B. In A ci sarà una riduzione della produzione e dell’occupazione; in B ci sarà invece un aumento di entrambi. Nell’ottica delle tradizionali politiche macroeconomiche, in tale situazione i due Paesi richiederebbero interventi di politica monetaria di segno opposto: in A una politica espansiva (riduzione dei tassi d’interesse), per stimolare domanda, produzione e occupazione; in B una politica restrittiva (aumento dei tassi d’interesse), per neutralizzare le possibili pressioni inflazionistiche derivanti dall’aumento della domanda aggregata. Ciò tuttavia è evidentemente impossibile se i due Paesi debbono adottare la stessa politica monetaria (un unico tasso d’interesse), stabilita dall’unica banca centrale, che si basa sulla situazione globale dell’area e non su ciò che accade in una o più specifiche regioni.
Se, tuttavia, i due Paesi sono caratterizzati da un elevato grado di flessibilità di prezzi e salari, gli svantaggi derivanti dall’impossibilità di adottare un’autonoma politica monetaria sono sostanzialmente eliminati. La flessibilità dei prezzi, infatti, assicura il ritorno dei due Paesi ai loro equilibri iniziali. In A i prezzi e i salari diminuiscono, mentre in B aumentano; in tal modo offerta e domanda aggregata nei due Paesi si aggiustano e ritornano verso l’equilibrio iniziale disturbato dallo shock (per es., i beni prodotti in A divengono più competitivi, mentre quelli di B lo divengono di meno, cosicché le esportazioni di A aumentano e quelle di B diminuiscono). La mobilità dei fattori concorre ugualmente al processo di riaggiustamento: i fattori della produzione in A si spostano in B, con la conseguenza che la riduzione della loro offerta in A riduce la disoccupazione e la deflazione, mentre l’aumento della loro offerta in B riduce le pressioni inflazionistiche generate dall’aumento di domanda.
Già sul finire degli anni Sessanta, i criteri di ottimalità di un’area valutaria vennero in qualche misura ampliati, prendendo in considerazione altri elementi, quali il grado di apertura al commercio internazionale e il grado di diversificazione della struttura economica dei Paesi interessati da un processo d’integrazione monetaria. Quanto più un gruppo di Paesi è aperto al commercio internazionale, tanto più è efficiente l’appartenenza a un’area valutaria; quanto più la struttura economica di un Paese è diversificata, tanto minori sono gli svantaggi dell’appartenenza a un’area monetaria (De Grauwe 20077). Tuttavia, più recentemente, sono intervenuti anche altri fattori, che danno maggior supporto al tentativo europeo di creazione di un’area valutaria.
La teoria delle aree valutarie ottimali fu sviluppata e discussa in un clima teorico, politico e culturale ancora ampiamente dominato da posizioni d’ispirazione keynesiana, secondo cui le politiche economiche dal lato della domanda (fiscali e monetarie) in generale sono efficaci, cioè in grado di modificare in modo permanente le posizioni d’equilibrio dell’economia. Tali politiche sono necessarie per consentire all’economia di realizzare equilibri caratterizzati da maggiore produzione e occupazione rispetto a quelli che essa realizzerebbe in modo spontaneo. Dai primi anni Settanta, le teorie economiche d’ispirazione keynesiana e le politiche a esse associate entrano in una crisi profonda e si affermano posizioni che, sebbene differenti l’una dall’altra, sono tutte contraddistinte dall’idea che, nel migliore dei casi, le politiche economiche ‘keynesiane’ possono avere effetti su produzione e occupazione solo nel breve periodo. In un più lungo periodo, l’economia realizza equilibri che non possono essere modificati attraverso misure di alterazione della domanda aggregata. Se questi equilibri sono ritenuti ‘insoddisfacenti’, le politiche per modificarli debbono essere di natura diversa, più precisamente politiche dal lato dell’offerta. In questo contesto teorico e analitico, la politica monetaria può essere utile e necessaria per garantire all’economia maggiore stabilità nel breve-medio periodo, ma nel lungo periodo essa è comunque incapace di modificare le posizioni di equilibrio dell’economia.
Inoltre, dalla metà degli anni Novanta comincia ad affermarsi l’idea che i criteri di ottimalità di un’area valutaria debbono essere considerati variabili endogene piuttosto che condizioni che i Paesi debbono rispettare ex ante, cioè al momento di dare vita a un’area valutaria. In altre parole, non si tratta di crearne una soltanto quando i Paesi hanno realizzato i criteri che la rendono ottimale, ma è giustificato procedere alla creazione dell’area anche prima che tali criteri siano soddisfatti, poiché, si sostiene, è la stessa creazione dell’area valutaria che promuove la realizzazione ex post dei criteri di ottimalità. Per es., se l’ottimalità dell’area valutaria richiede una forte integrazione commerciale fra i vari Paesi membri, questa integrazione invece di essere presente sin dall’inizio può essere il risultato della stessa decisione di dare vita all’area valutaria. Infatti, l’adozione di una valuta unica da parte di questi Paesi costituisce un fattore d’integrazione commerciale, in quanto, per es., fa ridurre i costi di transazione fra diversi Paesi e nel contempo riduce l’incertezza sui tassi di cambio.
Se l’adesione a un’area valutaria da parte di un Paese significa rinunciare alla possibilità di effettuare politiche monetarie indipendenti, il costo di tale rinuncia è evidentemente minore se, al meglio, la politica monetaria può essere impiegata a fini stabilizzanti di breve periodo piuttosto che per la realizzazione del pieno impiego. È così ovvio che il nuovo quadro teorico ‘antikeynesiano’ favorisce la decisione di procedere all’integrazione monetaria da parte di Paesi fra loro eterogenei e che non rispettano i criteri di ottimalità menzionati precedentemente. Resta vero che questi Paesi devono rinunciare alle loro politiche monetarie indipendenti, ma è anche vero che essi rinunciano ad assai meno di quanto predicato dalla teoria economica keynesiana e dalla tradizionale teoria delle aree valutarie ottimali. Se la politica monetaria non può produrre effetti permanenti sul livello di produzione e su quello di occupazione, compito fondamentale, se non esclusivo, delle banche centrali diventa quello di garantire la stabilità dei prezzi tanto nel breve quanto nel lungo periodo. Il ruolo delle banche centrali, per così dire, si ‘semplifica’, dovendosi esse occupare di un solo fondamentale obiettivo.
Per giunta, gran parte dell’analisi economica arriva anche alla conclusione che gli interventi delle banche centrali devono essere quanto più possibile caratterizzati da una qualche sorta di automatismo e non da discrezionalità. Tutto ciò rafforza ulteriormente le ragioni a favore dell’adesione a un’area valutaria. Se tutte le banche centrali devono fare sostanzialmente la stessa cosa e devono tutte agire in modo non discrezionale (cioè obbedendo a qualche regola funzionale prestabilita), è più facile rinunciare ad avere tante banche indipendenti sostituendole con un’unica banca centrale. D’altro lato, l’idea che i criteri di ottimalità di un’area valutaria sono largamente endogeni concorre a rafforzare l’idea che il fattore politico ‘soggettivo’ debba svolgere un ruolo primario in un processo d’integrazione. Sono i decisori politici che pongono le basi perché l’ottimalità di un’area valutaria possa realizzarsi ex post. In quest’ottica, la realizzazione dei criteri di convergenza di Maastricht non deve essere interpretata come la realizzazione di criteri di ottimalità, ma soltanto come la fase iniziale di un processo più lungo che dovrebbe infine generare un’area valutaria ottimale in Europa.
In conclusione, sia fattori di carattere più propriamente storico e politico sia fattori di ordine teorico e analitico hanno condotto alla realizzazione dell’UME, la cui istituzione fondamentale è la BCE. Il paragrafo seguente prende in esame la questione di come la Banca centrale europea si collochi rispetto allo stato del dibattito attuale di politica monetaria e di come abbia realizzato gli obiettivi e i compiti a essa affidati sin dal Trattato di Maastricht.
Strategia e politica monetaria della BCE
I principi di fondo su cui si basa la strategia monetaria della BCE appaiono fondamentalmente in linea con quelli delle altre principali banche centrali, che oggi operano avendo come obiettivo prioritario (se non unico) la stabilità dei prezzi. Alcune di esse, come la Banca d’Inghilterra, adottano inoltre un preciso tasso d’inflazione come esplicito obiettivo di politica (inflation targeting). Le banche cercano di realizzare i loro obiettivi usando come variabile strumentale tassi d’interesse a brevissimo termine. Sulla base dell’idea che variazioni del tasso d’interesse reale determinino variazioni di segno contrario della produzione aggregata e che il tasso d’inflazione è funzione diretta dello scarto fra produzione effettiva e produzione d’equilibrio (al quale non sono associati fenomeni inflazionistici), la banca centrale opera affinché il tasso d’inflazione si assesti su un certo valore. Questa sintetica descrizione dei principi di fondo delle politiche monetarie correntemente attuate rappresenta un cambiamento rispetto all’esperienza passata. Anche nel passato la stabilità dei prezzi era un obiettivo delle banche centrali, ma esse cercavano di assicurarla usando in particolare la quantità di moneta come variabile strumentale (Goodfriend 2007).
In questo contesto, le banche centrali hanno un interesse scarso o nullo per obiettivi di natura ‘reale’, quali il pieno impiego. Ciò deriva dalla profonda convinzione che, nel lungo periodo, la moneta è neutrale, incapace cioè di influenzare le variabili reali del sistema, ma solo il livello generale dei prezzi. Quello che definisce in particolare le posizioni correnti è l’idea che, nel breve periodo, la politica monetaria può avere effetti reali attraverso i suoi effetti sulla domanda aggregata. In tal senso, la politica monetaria può essere usata con successo a fini di stabilizzazione, cioè per far sì che le variabili reali non si discostino eccessivamente dai loro valori ‘normali’ (o ‘naturali’), determinati da fattori reali e non influenzabili dalle variabili monetarie. I tassi d’interesse di breve periodo vengono usati prevalentemente per ricondurre l’economia ai suoi livelli ‘normali’ ogni qualvolta essa se ne allontani a causa di uno shock.
Il nuovo quadro concettuale entro cui si colloca la politica monetaria è caratterizzato dall’importanza centrale che assumono le aspettative degli agenti economici, in particolare quelle concernenti il tasso d’inflazione. Innanzi tutto, il tasso d’inflazione atteso entra nella determinazione del tasso d’interesse reale atteso, e il tasso d’inflazione corrente dipende tanto dal tasso d’inflazione passato quanto da quello atteso. In secondo luogo, è necessario rammentare che la banca centrale è in grado d’influenzare i tassi d’interesse a breve e brevissimo termine, ma i tassi d’interesse d’importanza cruciale per l’economia sono quelli a più lungo termine, in quanto sono quelli che influenzano componenti della domanda aggregata come investimenti e consumi. Si pone quindi il problema di come, in che misura e con che rapidità le variazioni dei tassi a breve determinate dalla banca centrale si riflettono su quelli a lunga. Si tratta del problema della ‘trasmissione’ della politica monetaria, in cui le aspettative hanno un’importanza cruciale. Infatti sono le aspettative dell’economia, e in particolare quelle sul livello futuro dei prezzi, che determinano essenzialmente la relazione fra tassi a breve, determinati dalla banca centrale, e tassi a lunga, rilevanti per l’economia.
Riconoscendo l’importanza cruciale delle aspettative nel processo di trasmissione della politica monetaria, le banche centrali si pongono il compito di agire in modo tale da influenzare significativamente le aspettative degli agenti economici. Da qui discende l’importanza assai elevata che esse danno alla propria credibilità: solo una banca centrale credibile, per es., è in grado di dar vita ad aspettative ‘ancorate’ al suo tasso d’inflazione obiettivo o, più in generale, alla sua strategia antinflazionistica. Una banca centrale credibile riesce a influenzare meglio le aspettative degli agenti e, quindi, a facilitare il ritorno dell’economia al suo equilibrio, minimizzando le perdite generate dagli shock. A sua volta, si ritiene che la credibilità della banca centrale risulti significativamente accresciuta dalla sua indipendenza dal governo, caratterizzato come un’istituzione assai meno preoccupata dell’inflazione. Un altro fattore che concorre a determinare il grado di credibilità di una banca centrale è la trasparenza dei suoi processi decisionali, cioè il grado con cui essa comunica con chiarezza all’economia nel suo complesso la logica e le motivazioni alla base delle sue decisioni.
Da diversi punti di vista, gli obiettivi e lo stesso assetto organizzativo della BCE appaiono in linea con quanto deriva dall’elaborazione teorica oggi prevalente, che, d’altro canto, è stata a sua volta significativamente influenzata dal concreto operare di molte banche centrali nel corso dell’ultimo quarto del 20° secolo. Le decisioni della BCE vengono prese in completa indipendenza dalle autorità politiche nazionali e sovranazionali. La BCE non può effettuare prestiti ai settori pubblici dei Paesi membri. Il suo compito primario è di garantire la stabilità dei prezzi. Subordinatamente alla realizzazione di tale obiettivo primario, essa può contribuire alla realizzazione degli altri obiettivi della Comunità europea (elevata occupazione, crescita, competitività, convergenza economica fra Paesi). La BCE considera la stabilità dei prezzi requisito fondamentale per un funzionamento efficiente e non distorto dell’economia. Poiché offre la base monetaria in condizione di monopolio, essa è pienamente in grado di determinarne il tasso d’interesse, che rappresenta un costo che le banche ordinarie trasferiscono sulla loro clientela. I tassi d’interesse sul mercato monetario influenzano i tassi a più lungo termine attraverso variazioni delle aspettative sui tassi ufficiali futuri. La politica monetaria influenza anche altre variabili; in particolare i prezzi azionari e i tassi di cambio, che a loro volta incidono su processi decisionali cruciali per l’economia (risparmi e investimenti di famiglie e imprese). Data l’importanza delle aspettative, la BCE considera cruciale la sua capacità di influenzarle. La politica monetaria è più efficace se essa riesce ad ‘ancorare’ le aspettative d’inflazione, almeno nel medio-lungo periodo. In quest’ottica, la BCE ritiene che una definizione quantitativa della stabilità dei prezzi sia di grande importanza, e adotta la seguente definizione: i prezzi sono stabili se il tasso d’inflazione, nel medio termine, rimane al di sotto ma prossimo al 2% (European central bank 2004, p. 51).
La BCE basa le sue decisioni di politica su un’analisi degli eventi economici effettuata a due livelli, noti anche come i due pilastri della sua strategia. Il primo pilastro è l’analisi economica, che valuta la dinamica dei prezzi nel breve-medio termine, concentrandosi sulle attività reali e sulle condizioni finanziarie dell’economia. Nel condurre l’analisi economica, la BCE considera variabili come la produzione totale, la domanda aggregata, la politica fiscale, le condizioni del mercato dei capitali e di quello del lavoro, un ampio insieme di indicatori di prezzi e costi, l’andamento del tasso di cambio dell’euro, dell’economia internazionale, della bilancia dei pagamenti e dei mercati finanziari. Il principio su cui si basa l’analisi economica è che, pur essendo gran parte degli shock di natura temporanea, alcuni di essi (come, per es., aumenti salariali non in linea con l’andamento della produttività) possono produrre effetti inflazionistici permanenti. Pertanto le risposte di politica monetaria debbono essere differenziate, e più vigorose e decise quando si ritiene che uno shock possa produrre effetti permanenti. Il secondo pilastro è l’analisi monetaria, che riguarda un periodo temporale più lungo e s’incentra sulla relazione di lungo periodo fra quantità di moneta e livello generale dei prezzi. L’analisi monetaria ha anche la finalità di controllare e valutare, in un’ottica di medio-lungo termine, le indicazioni di breve che discendono dall’analisi economica. Alla base di quest’impostazione dell’analisi monetaria vi è l’accettazione da parte della BCE di una versione di medio-lungo termine della teoria quantitativa della moneta (European central bank 2004, pp. 62-65).
Quanto appena ricordato mostra che la BCE è sostanzialmente allineata con i predicati teorici oggi prevalenti e con i principi strategici adottati da molte altre grandi banche centrali. Non mancano però elementi di diversità. In particolare, l’esplicita adozione di due pilastri strategici da parte della BCE costituisce una sua peculiarità. Inizialmente essa poneva come suo primo pilastro proprio l’analisi monetaria; solo in seguito, nel 2003, ha sottoposto a revisione la sua strategia, adottando come primo pilastro l’analisi economica. Tuttavia, a vari osservatori questa revisione non appare del tutto soddisfacente, poiché lascia ancora eccessivo spazio all’analisi monetaria. È stato osservato che questo tipo di analisi è sostanzialmente superflua e non giustificabile sulla base delle argomentazioni offerte dalla BCE. Più in particolare, viene messa in discussione la significatività di una relazione statistica fra tasso d’inflazione e tasso di crescita dell’aggregato monetario nel medio-lungo periodo, osservando al tempo stesso che alla preoccupazione per l’andamento dell’inflazione nel più lungo termine si può rispondere con altri e più efficienti strumenti (Galí, Gerlach, Rotemberg et al. 2004). La BCE, inoltre, è criticata per un’insufficiente trasparenza dei suoi processi decisionali, un aspetto che, è stato osservato, può pregiudicare e indebolire i buoni risultati realizzati sul piano delle sue concrete politiche (Geraats, Giavazzi, Wyplosz 2008).
Infatti, se la BCE viene valutata in base alla sua capacità di garantire la stabilità dei prezzi, il bilancio appare sostanzialmente positivo. Nell’area dell’euro, nel periodo che inizia nel 1999, il tasso d’inflazione è sempre stato piuttosto basso, non essendo mai arrivato, su base annua, al 3%. Solo nel maggio del 2001 e nel periodo tra novembre 2007 e gennaio 2008 l’inflazione è apparsa salire in modo più preoccupante, cioè al di sopra del 3%. È vero che una semplice lettura dei dati sull’inflazione europea potrebbe portare a concludere che la BCE ha fallito il proprio obiettivo di mantenere il tasso d’inflazione vicino ma inferiore al 2%. Questo obiettivo è stato realizzato solo nel 1999. In tutti gli altri anni, l’inflazione è stata vicina ma al di sopra del 2%. I dati, però, possono anche essere letti in modo meno severo, argomentando che l’aver mantenuto il tasso d’inflazione vicino al 2% denota un sostanziale successo della banca centrale, che tuttavia ha peccato di eccessiva ambizione, dandosi un obiettivo inflazionistico troppo basso. Se la BCE avesse fissato il suo obiettivo a un tasso d’inflazione inferiore ma vicino al 2,5%, essa lo avrebbe realizzato in tutti gli anni! L’eccessiva ambizione della BCE può peraltro essere giustificata dalla necessità per una banca centrale, che deve comunque mostrare di essere fermamente antinflazionistica, di acquisire credibilità nei suoi primi anni di vita.
Ma una valutazione più complessiva e generale dell’esperienza dell’UME e della BCE non può fermarsi al solo problema dell’inflazione, per quanto importante esso si possa considerare. Dopo tutto, l’UME è stata creata con finalità di crescita e sviluppo e non semplicemente per combattere l’inflazione. Da questo punto di vista, il bilancio dei primi dieci anni di vita dell’UME risulta assai meno positivo, in termini di produzione e occupazione così come in termini di confronto con altre aree come, per es., gli Stati Uniti. Le pagine successive sono dedicate proprio alla discussione di alcuni di questi temi.
Il ‘mix’ di politica fiscale e monetaria
Come abbiamo visto, le caratteristiche di fondo della BCE appaiono sostanzialmente allineate a quelle delle principali banche centrali, che si ispirano al paradigma di economia monetaria oggi prevalente. Vi è tuttavia un elemento che rende la BCE assolutamente unica nel panorama mondiale: essa è la sola banca centrale che non ha una controparte per così dire ‘omogenea’ dal punto di vista territoriale e istituzionale cui sia demandata la responsabilità e la gestione della politica fiscale. Non esiste infatti un governo europeo che attui, come per es. negli Stati Uniti, una politica fiscale unica a livello federale.
La discussione di questa ‘anomalia’ rende necessario inquadrare il problema del rapporto fra politica monetaria e politica fiscale in seno a un’area valutaria. L’eterogeneità dei Paesi, o delle regioni, appartenenti a un’area valutaria in presenza di scarsa flessibilità e mobilità dei fattori costituisce, come abbiamo visto, un fattore di difficoltà. Quanto più i Paesi sono eterogenei fra loro, tanto più elevata è la probabilità che essi siano soggetti a ‘shock asimmetrici’. Questa difficoltà, tuttavia, non è insormontabile, poiché si può agire in modo tale da neutralizzare o compensare gli effetti di un’unica politica monetaria con adeguati interventi di politica fiscale.
Partendo dal presupposto dell’eterogeneità e dell’esistenza di significative imperfezioni concernenti flessibilità e mobilità dei fattori, i decisori europei hanno scelto la via di lasciare una certa autonomia fiscale ai singoli Stati. Essa dovrebbe garantire la possibilità per ogni singolo Paese membro di rispondere adeguatamente alla sua specifica situazione ciclica, compensando gli effetti derivanti da un’unica politica monetaria. Tale autonomia fiscale, però, da un lato è considerata come una scelta di second best e, dall’altro, è sottoposta a rigidi vincoli. Si parla di scelta meno che ottimale, nel caso di eventuali shock asimmetrici, perché, idealmente, il superamento del problema risiede nella realizzazione della piena mobilità e flessibilità dei prezzi dei fattori in Europa (Commission of the European communities 1990, p. 102). Tuttavia, essendo la realizzazione di tale obiettivo ottimale né facile né rapida, l’autonomia fiscale può costituire un ‘sostituto’, appunto un second best.
Ma l’autonomia fiscale in seno a un’area valutaria non può essere illimitata, anzi deve necessariamente essere vincolata. Se ogni singolo Stato fosse lasciato libero di impiegare lo strumento fiscale a sua completa discrezionalità, la stessa integrazione monetaria sarebbe messa a rischio dall’insorgere di comportamenti ‘opportunistici’. Uno Stato con piena autonomia fiscale in seno a un’area valutaria può comprometterne il funzionamento in vari modi. Se si accetta l’ipotesi che deficit crescenti e fuori controllo conducono a fenomeni inflazionistici, e talvolta iperinflazionistici, è evidente che l’obiettivo della stabilità dei prezzi richiede vincoli fiscali. Inoltre, l’autonomia fiscale pone un classico problema di free-riding: uno Stato potrebbe lasciar crescere il suo deficit e il suo debito in modo incontrollato senza il timore di andare in default, poiché potrebbe contare sul fatto che gli altri Stati dell’area valutaria sarebbero costretti a intervenire in suo aiuto onorandone i debiti. I costi di un comportamento ‘irresponsabile’ sarebbero così opportunisticamente scaricati su altri Stati più ‘virtuosi’. Infine, uno Stato irresponsabile potrebbe indebitarsi liberamente senza il timore che ciò conduca a un innalzamento dei tassi d’interesse; essi, infatti, sarebbero determinati dalla politica monetaria e dalla banca centrale dell’intera area. Queste e altre considerazioni hanno condotto all’adozione nell’UME del cosiddetto Patto di stabilità e crescita, che pone precisi vincoli al deficit e all’indebitamento dei Paesi dell’area dell’euro. I vincoli del Patto derivano dal Trattato di Maastricht, che aveva stabilito i criteri di convergenza per i Paesi che desiderano entrare nell’area dell’euro.
Il Patto di stabilità e crescita è stato oggetto di numerose critiche (Wyplosz 2006, pp. 225-38). Una prima questione nasce a proposito dei vincoli imposti (3% del PIL per il deficit e 60% per il debito). Non esistono giustificazioni teoriche per tali valori, essi sono del tutto arbitrari. Ma, a prescindere dall’arbitrarietà del valore dei vincoli di disavanzo e indebitamento, va anche sottolineato che il vincolo di disavanzo è fissato senza fare alcuna differenziazione tra i tipi di spesa che lo generano. Vi sono invece buone ragioni per sostenere l’opportunità di distinguere tra disavanzi generati da spese ‘produttive’ e quelli generati da spese ‘improduttive’, intendendo per spese produttive quelle che, direttamente o indirettamente, generano effetti positivi sul livello e la crescita della produttività del sistema. Un deficit creato dal finanziamento di spese di questo tipo dovrebbe essere valutato diversamente da quello creato da spese con effetto scarso o nullo sulla produttività. Infatti, il disavanzo generato da spese produttive tenderà a essere riassorbito una volta che si esplicheranno gli effetti positivi di queste sulla produttività e, quindi, sulla produzione e sul suo tasso di crescita.
Altre significative critiche del Patto vertono tutte su un’importante questione analitica, vale a dire il fatto che il disavanzo pubblico non può essere considerato una variabile sotto il pieno controllo delle autorità statali. È così perché una componente rilevante del saldo dei conti pubblici è di natura endogena, cioè determinata da fattori non direttamente e immediatamente controllabili dal governo ma dipendenti dall’andamento dell’economia nel suo complesso. L’esempio più immediato è l’esistenza di spese ed entrate di natura automatica, che aumentano o diminuiscono a seconda della fase ciclica attraversata. Per es., in una fase di recessione o di bassa crescita le entrate fiscali tendono a diminuire perché si riduce la base imponibile, ma allo stesso tempo alcune voci di spesa come i sussidi alla disoccupazione tendono ad aumentare. Di conseguenza, il disavanzo pubblico tende ad avere un andamento ciclico: peggiora nelle fasi basse del ciclo e volge al miglioramento in quelle alte. In questo quadro, l’esistenza di vincoli del tipo di quelli del Patto può produrre effetti perversi. In una fase bassa del ciclo, che richiederebbe interventi espansivi di politica fiscale, il peggioramento del disavanzo impone allo Stato d’intervenire con misure restrittive (minori spese e/o maggiori entrate) per riportarlo in linea con i vincoli. Queste misure avranno un effetto depressivo sul reddito, contribuendo a un ulteriore peggioramento dei conti. A ciò si aggiunga che la necessità di ridurre le uscite può andare a danno di quelle spese che, in un periodo più lungo, contribuirebbero positivamente alla crescita del reddito. Spesso sono proprio queste spese quelle che possono più facilmente essere tagliate o dilazionate nel tempo. L’esempio più evidente riguarda le spese in conto capitale e quelle correnti. Le prime, in generale, sono quelle che più possono contribuire a far crescere efficienza e produttività dell’economia, mentre le spese correnti hanno in molti casi uno scarso impatto strutturale sull’economia. Tuttavia queste ultime sono spesso di natura ‘automatica’ e sono rigidamente vincolate da accordi e contratti (per es., le retribuzioni della pubblica amministrazione), mentre gli investimenti pubblici sono di natura ampiamente discrezionale, cosicché risulta politicamente più agevole ridurli o rinviarli. Ma gli effetti dei vincoli di bilancio sono anche asimmetrici. In fasi recessive e/o di bassa crescita, come abbiamo appena visto, i Paesi sono costretti a fare politiche procicliche (restrittive) per cercare di rispettare il patto. Quando invece l’economia è in una fase espansiva e il deficit tenderebbe a ridursi, il governo non ha nessun obbligo di intervenire, lasciando che il deficit resti al 3%; il risultato di ciò è una politica eccessivamente espansiva in una fase positiva del ciclo.
Il Patto di stabilità tiene in parte conto di quest’ordine di problemi, e infatti prevede la propria sospensione in situazioni di forte recessione. È stato però sostenuto che sarebbe più opportuno sospenderlo non solo in situazioni eccezionali come quelle previste, ma ogni qualvolta l’area dell’euro, o singoli suoi membri, sperimenti una fase prolungata di bassa crescita. Altre proposte di riforma fanno riferimento ai problemi creati dall’endogeneità del saldo dei conti pubblici. Innanzi tutto è stato osservato che la natura endogena del deficit implica che esso non sia un buon indicatore della disciplina fiscale di uno Stato. Le variazioni del deficit in un senso o nell’altro non denotano necessariamente un comportamento ‘disciplinato’ o meno di un governo. Una via d’uscita a questo problema potrebbe essere il riferimento al bilancio pubblico aggiustato, tenendo conto della fase ciclica attraversata da un Paese. In quest’ottica, invece di concentrarsi sul deficit annuale, sarebbe più corretto adottare un orizzonte temporale più lungo e, quindi, fare riferimento al debito e al suo andamento piuttosto che soltanto al deficit.
Queste critiche e la crisi del 2004 (quando diversi Paesi, tra cui la Germania, hanno ‘sfondato’ largamente il vincolo di disavanzo) hanno indotto alcuni cambiamenti del Patto, miranti a renderlo più flessibile. Il tetto del 3% del PIL rimane alla base del Patto, ma ora si tiene conto di un insieme piuttosto ampio di parametri per stabilire se e quando un Paese incorre in una situazione sanzionabile di deficit eccessivo. Questi parametri comprendono la durata della fase di bassa crescita, la natura delle spese che generano disavanzo, il calcolo del bilancio pubblico aggiustato per il ciclo. Malgrado le correzioni appena menzionate, il Patto di stabilità e crescita resta ancora l’elemento di maggiore criticità in seno all’UME. Non pochi osservatori, di origine accademica o politica, argomentano che il Patto è una delle cause della performance relativamente insoddisfacente dell’economia europea, che nel corso del primo decennio del 21° sec. si è dimostrata meno dinamica di quella di altre aree e, in particolare, degli Stati Uniti.
Il paradosso dell’UME
Il Patto di stabilità e crescita su cui si basa l’approccio alla politica fiscale in seno all’UME può essere ed è, come abbiamo visto, criticato per diversi suoi aspetti, ma esso resta fondamentalmente coerente con i principi di fondo che ispirano tanto il paradigma teorico quanto le posizioni politiche oggi largamente prevalenti. In questa prospettiva si tende a limitare quanto più possibile l’ingerenza dello Stato in economia. La banca centrale, seppur necessaria, deve preoccuparsi esclusivamente della stabilità dei prezzi o, più generalmente, della stabilità del sistema monetario e finanziario. Il governo, che esercita l’autorità fiscale, deve limitare al massimo i suoi interventi per evitare di distorcere i comportamenti di mercato e per evitare pressioni inflazionistiche generate da spese incontrollate e dall’indebitamento. Il governo e la classe politica in generale sono considerati agenti intrinsecamente poco propensi a preoccuparsi dell’inflazione, a differenza della banca centrale che, purché rigorosamente indipendente dal governo, la contrasta efficacemente.
Questo approccio fondamentalmente ostile all’ingerenza della politica in economia può però apparire in qualche misura contraddittorio con la concreta esperienza europea che ha condotto all’integrazione monetaria. La creazione di una valuta unica e di un’unica Banca centrale europea non si è determinata esclusivamente in virtù dello spontaneo agire delle forze di mercato. Al contrario, senza l’esplicita volontà dei decisori politici nazionali ed europei e i conseguenti interventi statali e istituzionali, l’integrazione monetaria non si sarebbe realizzata. Ciò è ampiamente riconosciuto (Jabko 1999; Padoa-Schioppa 2004; Howarth, Loedel 20052; Wyplosz 2006), ma viene interpretato come necessario al fine di consentire il pieno sviluppo e la piena affermazione delle logiche di mercato. L’intervento statale è stato, ed è tuttora, necessario per supplire a imperfezioni nel funzionamento dei mercati e per accelerare i processi. Se i mercati funzionassero in modo perfetto, non ci sarebbe alcuna necessità di interventi esogeni per stimolare processi che si attuerebbero in modo spontaneo, sulla base della logica di efficienza e ottimalità dell’economia. In quest’ottica, pertanto, il ruolo dello Stato si esaurisce nel momento in cui esso rende possibile il pieno affermarsi delle regole del mercato. In altre parole, lo Stato non viene interpretato come elemento inerente del processo economico e, in particolare, della creazione e gestione della moneta, ma piuttosto in funzione per così dire ‘vicaria’. In tale prospettiva si può più facilmente comprendere perché i decisori europei si sono essenzialmente preoccupati di limitare l’autonomia fiscale degli Stati nazionali piuttosto che di creare assetti istituzionali che consentissero una più soddisfacente integrazione fra politica monetaria e politica fiscale.
Un’alternativa all’attuale assetto istituzionale dell’UME però esiste, anche se non è mai stata presa seriamente in considerazione dai decisori europei. Essa si fonda su un diverso approccio alla questione del rapporto fra politica monetaria e politica fiscale nell’ambito di un’area valutaria. Si può argomentare che una soddisfacente integrazione monetaria, soprattutto fra Paesi eterogenei fra loro, non può fare a meno di un parallelo processo d’integrazione fiscale. In altre parole, è necessario che accanto a un’unica autorità monetaria esista anche un’unica autorità politica cui è demandato il compito di attuare una politica fiscale che riguardi tutti i Paesi dell’area: una politica fiscale federale. Uno dei primi economisti che si è occupato della teoria delle aree valutarie osservava che politica fiscale e monetaria debbono essere coordinate e avere lo stesso dominio, cioè riguardare la stessa area geoeconomica (P. Kenen, The theory of optimum currency areas: an eclectic view, in Monetary problems in the international economy, ed. R.A. Mundell, A.K. Swoboda, 1969, pp. 41-59).
Gli Stati Uniti rappresentano un’ottima esemplificazione di questo tipo d’integrazione. Essi sono un’area valutaria, e gli Stati della federazione sono caratterizzati da forti differenziazioni, in molti casi anche più accentuate di quelle fra gli Stati europei dell’UME. Negli Stati Uniti gli effetti negativi di un’unica politica monetaria in presenza di tali eterogeneità possono essere, e sono, compensati da interventi fiscali a livello federale, per es. attraverso trasferimenti redistributivi fra Stati. In Europa non esiste nulla del genere. È vero che l’Unione europea ha un proprio bilancio, ma esso è di portata così limitata da rendere impossibile il suo impiego nello stesso modo di quello del governo federale statunitense.
Questo tipo di approccio si caratterizza evidentemente per un ruolo più decisivo affidato allo Stato e alle istituzioni. In questo contesto non è possibile considerare l’integrazione monetaria come un fenomeno separato da un più generale processo d’integrazione economica e politica. Questo tipo d’impostazione, d’altro canto, non è privo di solide ispirazioni teoriche. L’ispirazione fondamentale viene dalla teoria ‘cartalista’, condivisa anche da John M. Keynes. In questa teoria, la moneta non è originata semplicemente dallo spontaneo agire di agenti individuali ottimizzanti, ma è creazione dello Stato ed espressione della sua sovranità insieme al potere fiscale. Sul piano internazionale, ciò si traduce nel fatto che la creazione di una valuta unica comune a più Paesi non può non essere che il risultato di processi sia politici sia economici (Goodhart 1998).
In una moderna prospettiva cartalista, pertanto, non vi è nulla di eccezionale nel fatto che la politica, intesa in senso lato, svolga un ruolo fondamentale in un processo di creazione di una valuta come l’euro. Non esiste nessuna esperienza storica di creazione di un’area valutaria che non si caratterizzi per un decisivo ruolo svolto dai fattori di natura politica. L’esperienza europea non costituisce un’anomalia perché i fattori politici hanno esercitato un ruolo importante nel processo d’integrazione monetaria. L’esperienza europea è semmai anomala perché il nesso fra l’autorità statale con potere fiscale e l’autorità monetaria è stato indebolito fino al punto di avere una banca centrale con un grado d’indipendenza non paragonabile a quello di qualsiasi altra banca centrale, sia sul piano concettuale e normativo sia sul piano del suo concreto operare. La BCE, come altre banche centrali, ha piena indipendenza dalle autorità statali non solo nel decidere gli strumenti per realizzare gli obiettivi, ma anche nella fissazione dei medesimi. Accanto a una banca centrale così potente da far prendere in considerazione la legittimità di considerarla un moderno leviatano (Howarth, Loedel 20052), non esiste alcuna controparte fiscale che possa, laddove sia necessario, controbilanciare o compensare gli effetti di una politica monetaria unica, esclusivamente finalizzata al controllo della stabilità dei prezzi.
La scarsa dinamicità delle economie europee dipende da molti fattori, ma non si può escludere che l’attuale assetto dell’UME e il suo Patto di stabilità e crescita costituiscano un importante fattore depressivo. Da un lato, come abbiamo visto, la BCE è esclusivamente preoccupata dell’inflazione ed esercita la sua funzione di garante della stabilità dei prezzi in modo rigoroso, anche per la necessità di acquisire e mantenere credibilità. Dall’altro lato, gli effetti potenzialmente depressivi di una rigorosa politica antinflazionistica non sono controbilanciati da un’adeguata politica fiscale. Al contrario, l’attuale assetto basato sul Patto di stabilità e crescita fa correre, come abbiamo visto, il concreto rischio di avere effetti peggiorativi piuttosto che compensativi.
Il possibile superamento di queste difficoltà e ‘asimmetrie’ dell’area dell’euro potrebbe essere cercato in un ulteriore ‘balzo in avanti’, cioè nello sviluppo di un’iniziativa politica per avviare un processo di più generale integrazione che preveda la creazione di un governo federale dotato di sovranità fiscale. Questo consentirebbe non soltanto un più adeguato ‘mix’ di politiche monetarie e fiscali, ma anche l’accelerazione degli stessi processi di omogeneizzazione e convergenza dei Paesi membri grazie a leggi e a ordinamenti comuni (Goodhart 1998).
Tuttavia, oggi, gli ostacoli che si frappongono a una tale scelta appaiono formidabili. Non solo è assai forte la resistenza ideologica a un allargamento del peso e del ruolo dello Stato in economia, ma esistono anche significative difficoltà più strettamente politiche. Come mostra l’insuccesso di molte consultazioni referendarie sulla Costituzione europea, le resistenze nazionali a procedere verso una maggiore integrazione appaiono ancora molto forti.
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