L’eurodisastro: chi ci guadagna
L’instabilità finanziaria della UE arricchisce banche di investimento e fondi speculativi. Due alternative possibili: una vera unione politica o l’uscita dall’euro dei paesi in difficoltà, a cominciare dalla Grecia.
Nel 2010 lo spread tra i tassi di interesse dei titoli di Stato dei paesi dell’eurozona è aumentato in maniera allarmante, alimentando il timore dei mercati finanziari sulla capacità di alcuni paesi, quali Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, di onorare i debiti accumulati. Negli anni precedenti l’introduzione dell’euro tutto sembrava funzionare bene: diversi Stati si erano impegnati in imponenti sforzi al fine di soddisfare i criteri di ammissione all’Unione monetaria europea e la differenza tra i tassi di interesse era andata gradualmente scomparendo. In effetti, dal 1998 al 2008, i paesi dell’eurozona hanno goduto dei benefici degli eurobond, senza che tali titoli esistessero.
In un mio intervento (The euro and the future of the European Union, American Council on Germany, Occasional Paper, 5, 1998) prevedevo, sulla base della teoria delle ‘aree valutarie ottimali’ di Robert Mundell (premio Nobel in Scienze economiche nel 1999), che imporre una valuta unica a economie nazionali molto diverse tra loro avrebbe portato degli squilibri a livello regionale, con alcuni paesi che avrebbero goduto di un ciclo economico virtuoso e altri che, di conseguenza, sarebbero andati in depressione.
Ciò è puntualmente accaduto: in Grecia il debito pubblico è aumentato, sostenendo salari e consumi; in Spagna, e in misura minore in Portogallo, un’esplosione massiccia del debito privato ha dato vita a un dissennato boom immobiliare, mentre in Irlanda ha generato una forte crescita degli investimenti e del settore bancario. I salari sono quindi cresciuti, in particolar modo nei paesi del Sud dell’Europa, fino al 50% e oltre, mentre in Germania e negli altri paesi sono rimasti stabili.
I mercati finanziari hanno iniziato a comprendere gli errori compiuti nella costruzione dell’eurozona e a capire che l’introduzione dell’euro aveva fortemente danneggiato la competitività dei paesi meridionali, provocando uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti in Europa.
Il declino della competitività è reale ed è la causa principale della crisi.
Ad aggravare il problema iniziale è poi intervenuta la speculazione dei mercati finanziari. Lo spread tra i titoli di Stato – in via di principio un fatto normale – risulta di fatto ingiustificato.
Non c’è ragione per cui in Italia, con un deficit pubblico al 4,5% del PIL nel 2011, il tasso d’interesse dei BTP decennali abbia raggiunto il 6%, mentre negli Stati Uniti, con un deficit al 10,8%, non abbia superato l’1,5%. Inoltre, i tassi di interesse dei Bund tedeschi sono diminuiti costantemente, passando dal 4% del 2008 all’1,5% del 2012.
Tra i protagonisti del mercato finanziario che possono trarre profitto dall’instabilità finanziaria vi sono le banche di investimento, che offrono consulenze agli Stati (per i quali il bisogno di assistenza è maggiore in situazioni di minore stabilità), guidano le privatizzazioni o propongono valute alternative e i fondi speculativi che operano sulle valute o sui titoli di Stato.
Altra fonte di problemi, al di là dell’avidità, è la paura. Sia che cessino semplicemente di acquistare i titoli di un determinato Stato, sia che speculino contro lo Stato stesso per mezzo di derivati, i mercati finanziari abbandonano alcuni titoli per il timore che si inneschi un ciclo di fallimenti, secondo il meccanismo delle previsioni che poi si autoavverano. In questo modo la finanza pone in essere esattamente ciò che gli stessi attori finanziari vorrebbero evitare.
Il fondo salva-Stati (European Stability Mechanism, ESM) e la volontà dichiarata dalla Banca centrale europea di acquistare quantità illimitate di titoli degli Stati sottoposti a pressione speculativa possono conseguire risultati positivi, contrastando sia la speculazione sia la paura.
In altre parole, possono dare respiro agli Stati dell’Europa meridionale, concedendo loro una pausa per riorganizzarsi. Tuttavia, né il fondo salva-Stati né gli interventi della BCE sono in grado di risolvere la causa della crisi, e cioè la notevole differenza di competitività tra i paesi del Nord e quelli del Sud Europa. Affinché ciò accada, salari e retribuzioni dovranno scendere in questi ultimi, in alcuni casi in misura sostanziale, oppure dovranno aumentare nei paesi del Nord Europa. Inoltre, si dovrà agire anche sulle strutture e sulle infrastrutture amministrative, per esempio in Grecia, migliorandole. Allo stato attuale, la Grecia è a tutti gli effetti in default. Persino l’‘unione fiscale’ (Fiscal compact), così spesso evocata, sarà insufficiente a creare uguali ‘sistemi operativi’ in tutti gli Stati dell’eurozona. In ultima analisi, si pongono dunque due alternative: o il ritorno all’idea dei padri fondatori dell’Unione Europea e ai Trattati di Roma con la creazione di un’Unione Europea dotata di legittimazione democratica, di un governo proprio e di un Parlamento depositario di pieni poteri, oppure l’uscita dall’eurozona di alcuni Stati (i più probabili sono la Grecia,
il Portogallo e la Spagna).
Gli effetti immediati del piano Draghi
Il passaggio dal vecchio piano di acquisti dei titoli di Stato dei paesi dell’eurozona, il Securities Market Programme attuato dalla BCE sotto la presidenza di Jean-Claude Trichet, al nuovo piano di acquisti illimitati (il cosiddetto Outright Monetary Transactions, ‘Transazioni monetarie dirette’) varato il 6 settembre dal consiglio direttivo dell’Eurotower, ha subito avuto riscontri positivi. Si è infatti registrata, nei giorni immediatamente seguenti il voto, una riduzione degli spread tra i titoli di Stato decennali italiani e spagnoli rispetto al Bund tedesco, che si è intensificata dopo l’altra attesa decisione di settembre, e cioè il via libera della Corte tedesca di Karlsruhe all’ESM, il fondo salva-Stati che dovrà rimpiazzare l’EFSF. Ma, nella seconda parte del mese, il riaffacciarsi delle preoccupazioni sulla situazione economica e politica dei paesi più in difficoltà (Spagna, Grecia e Portogallo) ha riacceso la corsa degli spread, che sono tornati a salire, forse a conferma del fatto che i problemi di fondo sono di carattere strutturale.