Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Ottocento la letteratura culinaria acquista una sempre maggiore importanza: in Francia nasce e si diffonde la stampa gastronomica e il mercato del cibo interessa sempre più anche la classe borghese. Per la storia della cucina, al pari della storia delle idee e dei mercati, è il colonialismo franco-britannico a condizionare le scelte e i gusti delle nazioni.
Nei primi anni dell’Ottocento, la letteratura culinaria registra una crescita di volume e d’importanza. Prima di tale data, infatti, esistono ricettari, menù e testimonianze frammentarie sui cuochi e sui mercati: tali scritti hanno una finalità prevalentemente didattica o celebrativa. È a partire dall’età napoleonica che in Francia nascono una saggistica e una stampa gastronomica, vengono diffuse guide turistiche per la ristorazione e i prodotti si fanno conoscere grazie alla réclame. Il grande mercato del cibo è sempre debitore delle case aristocratiche e delle ambasciate, ma viene regolato in misura crescente dai ristoratori e dalla borghesia urbana che impongono i prezzi, gli indici dei consumi e definiscono la qualità. A dettare legge è il gastronomo, ecco il suo ritratto: agiato, scapolo, pingue, seduto su di una poltrona mentre sfoglia la Fisiologia del gusto (1826) di Brillat-Savarin, la bibbia dei buongustai. Questa figura di borghese gentiluomo che si esprime nella lingua conviviale, il francese, viene studiata e copiata dai ceti abbienti di tutta Europa sino al 1914.
Parigi, centro della moda e della ristorazione, fissa i criteri del gusto. Il neologismo “gastronomia” viene coniato proprio nell’anno 1800 da un poeta, Joseph de Berchoux, e il primo periodico specializzato è l’“Almanach des gourmands”. Esso è pubblicato a cadenza annuale e dal 1803 al 1812 viene interamente redatto da Grimod de la Reynière, rampollo di una famiglia ricchissima rovinata dalla Rivoluzione francese, letterato, giornalista e commerciante a tempo perso. Nel 1815 esce Le guide des dîneurs de Paris, in cui sono presenti e commentati i menù dei 21 migliori ristoranti. L’informazione diviene appetibile e sempre più richiesta, dato che i rituali nutritivi sono gli stessi ovunque.
L’orario dei pasti è rigido: colazione al mattino, pranzo entro mezzogiorno e cena alle 18; il consumo delle bevande alcoliche copre invece tutto l’arco della giornata con aperitivi, cordiali e liquori prima e dopo il pasto. Il menù, scandito in sei servizi (antipasto, minestre, entrées, arrosti, tramessi e dessert), segue una progressione ascendente fino agli arrosti e discendente verso il dessert. La tavola del banchetto, all’inizio del secolo, viene coperta con tutte le portate di ogni singolo servizio, mentre dalla seconda metà dell’Ottocento tale dispositivo spettacolare viene sostituito dal servizio alla russa, cioè al piatto di ogni singolo commensale. I valori nutritivi egemoni, la carne e il vino, si ritrovano nella ristorazione alta con un crescendo che va dai pasticci agli stufati, agli arrosti.
Rispetto al passato, nei ceti borghesi europei trionfa la carne bovina, un manzo preparato all’inglese (roast beef) e alla francese, cioè lesso, per tutti i giorni, brasato o al forno nelle feste; mentre la salsa – grassi di recupero per i poveri e dosaggio sapiente di sapori, in basi di burro o di brodo, per i ricchi – funge da attributo per carni, pesci e ortaggi.
L’Europa continentale ricca – cui si aggregano le corti italiane (da quella sabauda, la più francesizzata, a quella napoletana, con antiche tradizioni) – adotta un medesimo stile a tavola e i migliori cuochi di Parigi vengono attirati nelle capitali: a Berlino, nella seconda metà del secolo, al servizio del re di Prussia operano Urbain Dubois e Émile Bernard, virtuosi dello zucchero lavorato e della scultura a freddo, impareggiabili scenografi del piatto di portata.
Senza la ricerca e l’industria alimentare la cucina rimane stagionale, esposta alle variazioni climatiche e alla penuria; ma alcune scoperte scientifiche trasformano la dieta ottocentesca, assicurandone la varietà e la qualità. La messa a punto delle conserve con il procedimento Appert, a partire dal 1810, garantisce non solo una disponibilità crescente di carne in scatola, ma una preservazione degli ortaggi, dei piselli e degli asparagi che, fuori stagione, figurano in ogni menù. I barattoli sottovuoto possono essere preparati su grande o piccola scala e sono alla portata di tutti. Il brevetto della “margarina” di Mège-Mouriès (1872) apre invece la via allo studio dei grassi animali e vegetali succedanei del burro, accordando le esigenze della qualità a quelle dell’economia. Fra le importanti innovazioni del secolo vi sono anche le ricerche sul freddo artificiale, perfezionate da Charles Tellier nel 1876 con la prima traversata atlantica (Le Havre-Buenos Aires) di un bastimento carico di carne congelata.
Cresce così il commercio del ghiaccio naturale e artificiale, sale la domanda di pesce fresco e si abbassa la temperatura di molte bevande. Parimenti anche le fonti di calore conoscono grandi progressi; il forno, che il grande pasticcere Carême descrive bisognoso di lunghe preparazioni e di una conoscenza personale, rivestito di ghisa, si rivela più maneggevole e preciso nelle sue prestazioni. Se ne avvantaggia l’arte della sfoglia e del soufflé e anche l’igiene.
Verso la fine dell’Ottocento, nelle città il carbone viene soppiantato dal gas, pulito e facilmente regolabile.
Le conserve, i succedanei e soprattutto le vie ferrate modificano i tempi di consumo, gli abbinamenti di sapori e il concetto stesso di rarità; i prodotti, infatti, circolano facilmente e il mercato delle innovazioni acquista una dimensione internazionale. Le esposizioni universali, a Parigi e a Londra, rappresentano per i visitatori l’occasione del primo contatto gustativo con il progresso: tra torri metalliche e padiglioni di ferrovetro, i ristoranti esotici e quelli economici, le macchine domestiche – caffettiere a vapore e cucine igieniche – fanno breccia nella tradizionale prudenza dei cittadini. Il progresso significa organizzazione e velocità. È la ferrovia, nella seconda metà del secolo, a conferire alla tavola un carattere cosmopolita, consentendo in qualsiasi luogo la compresenza dei valori più alti e delicati del gusto, di cibi quali la sogliola, l’ostrica, il tartufo nero, il caviale e i frutti esotici.
I centri della gastronomia coincidono con i nodi ferroviari e i porti marittimi. Durante la Belle Époque, Londra offre i migliori alberghi d’Europa, quali il Savoy e il Carlton, mentre le stazioni termali, come Baden-Baden, e le riviere lacustri, come Lucerna, sono le tappe obbligate di un viaggio che termina sulla Costa Azzurra, dove il Grand-Hôtel di Montecarlo accoglie nell’alta stagione le élite del mondo intero. Ogni Palace vanta uno chef di prestigio e il personale delle cucine è organizzato militarmente in “brigate”, ognuna delle quali si occupa di una partita, dalle salse ai dolci, lavorando a ciclo continuo dalla prima colazione alla cena dopo-teatro. Gli chef devono nutrire una clientela esigente, personalizzando i piatti, inventando nuovi sapori e soprattutto nuove decorazioni. Il cuoco più famoso è Auguste Escoffier (1846-1935), attivo prima a Montecarlo e poi – per trent’anni – a Londra; lo stile della sua tavola è cromatico più che plastico, i suoi piatti belli da vedere, sempre nuovi, con nomi che sono rimasti impressi nel gusto, come la famosa pesca adagiata su una coltre di gelato alla vaniglia, fra le ali di un cigno scolpito nel ghiaccio, dedicata alla cantante d’opera Nellie Melba.
Il menù del ristorante d’albergo segna la fine del servizio alla francese. Ai piatti di portata con storioni in bella vista e fagiani ricomposti nelle loro piume, subentrano così le porzioni individuali, cotte con grande attenzione e servite alla giusta temperatura. La ricerca si sposta dall’effetto monumentale e dalle decorazioni complesse alle forme fragili e ai colori delicati nella cornice del singolo piatto.
Auguste Escoffier fa apprezzare i suoi fiori “naturali”, cesellati negli ortaggi e modellati nello zucchero.
La ristorazione alberghiera intrattiene rapporti difficili con la cucina casalinga e con quella regionale e vi figurano pochi piatti della tradizione familiare, anche se i gusti di molti consumatori risultano fortemente marcati dalle loro origini. Il parigino non si nutre come il suo connazionale marsigliese e il possidente terriero ignora alcune delle preparazioni più care al cittadino. In Italia, in casa si mangia secondo la stagione e il talento della serva, in trattoria si consuma un menù regionale e in albergo si cena in stile cosmopolita. È nel 1891, con la sua Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, che Pellegrino Artusi propone agli italiani centro-settentrionali uno strumento “unitario” per superare tali contraddizioni. La nutrizione ottocentesca infatti, univoca nell’indicare un modello, appare profondamente segmentata nella realtà; alti consumi di vino e alcolici nelle classi popolari e nessun uso di frutta e ortaggi freschi, una dieta carnea per i borghesi con forte assunzione di grassi e un’iperalimentazione nelle classi più abbienti, inclini all’abuso di burro, di salse e di farcie. Da un punto di vista gastronomico e geografico, l’Europa continentale – con le sue importanti riserve zootecniche – prevale su quella mediterranea dell’aglio e dell’olivo, la cui scoperta avviene solo nel XX secolo. La storia della cucina non è in questo diversa da quella dei mercati e delle idee: il colonialismo franco-britannico condiziona le scelte gustative in qualsiasi clima e tiene lontani da piatti, sapori e aromi autoctoni.
Il risveglio delle cucine nazionali e il lento declino della gastronomia francese si fa sensibile, per ragioni politiche e ideologiche, solo dopo la prima guerra mondiale.