Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Crocevia di migrazioni, culture, religioni, imperi, il Mediterraneo ha avuto una parte decisiva in quella storia che ha fatto per secoli dell’Europa il centro dello sviluppo mondiale. E anche dopo le sue lacerazioni, causate dapprima dal trionfo dei movimenti fascisti, e poi dallo scontro tra nazismo e democrazia, la zona meridionale dell’Europa è stata oggetto degli interessi di entrambi i blocchi ideologici formatisi dopo la seconda guerra mondiale, dando anche vita a interessanti esperimenti di superamento della contrapposizione tra Occidente e Oriente. Grazie a queste capacità di adattamento, l’Europa mediterranea ha anche saputo affrontare la complessa questione dell’immigrazione di popolazioni meridionali più sfortunate, caricandosi il peso di nuove linee di conflitto e impegnandosi nella ricerca di nuovi livelli di integrazione interrazziale.
Pur costretto tra quattro sponde, come ogni mare chiuso, il Mediterraneo è ben più che un’espressione geografica e assurge quasi alle dimensioni di luogo dello spirito per l’importanza straordinaria degli eventi che vi si sono succeduti nei secoli. Ma quello del Mediterraneo non è soltanto un fascino antico perché nella sua più recente ripresentazione esso è diventato la cerniera tra due mondi, o una sua linea di faglia (come drammatizzando dicono alcuni), dopo essere stato il crocevia di una molteplicità di culture che grazie alle sue acque si sono incontrate, mescolate, combattute ma poi infine anche aiutate. Basti pensare a quanto importante sia la pagina della guerra in Africa settentrionale durante la seconda guerra mondiale per capire quanto stretti siano i legami tra questi due mondi.
Nella sua dimensione nord-sud il Mediterraneo passa da confine a ponte quando il colonialismo finalmente declina e inizia il cammino dell’emancipazione (tra gli altri) dei popoli africani e tra questi di quelli compresi nel Maghreb, con i quali l’Europa mediterranea, e quindi in primis Italia, Spagna e Francia (quest’ultima specie per i suoi vecchi collegamenti coloniali) si troveranno, nell’ultimo quarto del XX secolo, ad affrontare uno dei grandi problemi comuni del mondo d’oggi, ovvero le emigrazioni o, per dirlo più chiaramente, il tentativo di fuga dalla povertà verso i miraggi delle società ricche e consumistiche dell’Europa. I risultati ne sono finora limitati se non addirittura, secondo alcuni, negativi, sol che si pensi alle difficoltà dell’integrazione culturale e poi alle tensioni interreligiose che si sono sviluppate tutt’insieme al progressivo aumento degli insediamenti degli immigrati islamici, i quali logicamente intendono trasferire i loro culti sul continente europeo come li praticavano su quello africano.
Ma, a ben guardare, anche l’andamento est-ovest lascia tracce indelebili nell’Europa mediterranea e, a ripensare a ritroso la sua vicenda nel XX secolo, dovremmo ritornare alla pagina terribile delle guerre nella ex Jugoslavia e in particolare al conflitto in Bosnia, durante il quale il mare Adriatico (una porzione del Mediterraneo, dunque) ha nuovamente assistito al sorvolo di aerei da guerra, quelli che la NATO utilizza nella fase della guerra del Kosovo (disseminando i suoi fondali di centinaia di ordigni inesplosi). Quella stessa sponda del Mediterraneo era stata già rigidamente separata dal resto dell’Europa da un vallo metaforico profondissimo, quello rappresentato dalla “cortina di ferro” che, nelle roboanti parole di Winston Churchill (nel discorso tenuto a Fulton il 6 marzo 1946), si estendeva da Stettino, sul Baltico, a Trieste. Si trattava di una delle maggiori conseguenze della seconda guerra mondiale che, nella sua parte europea, vide l’alleanza di guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica infrangersi, dopo la vittoria, sullo scoglio che portò alla formazione di due blocchi militari, la NATO dapprima e da parte occidentale, il Patto di Varsavia qualche anno dopo e da parte sovietica. Uno dei possibili teatri di scontro eventuale era individuato infatti nel “confine orientale” sul quale si attestava la penisola italiana, maliziosamente considerata in gran parte della letteratura strategica del tempo come il “ventre molle” del Patto Atlantico, passibile di non saper resistere a un eventuale attacco di sorpresa da parte sovietica. La ragione profonda di ciò non stava poi tanto in razionali scenari strategici quanto piuttosto nella presenza in Italia del più forte Partito Comunista di tutta l’Europa occidentale, giudicato quale “quinta colonna” dell’espansionismo comunista (tanto più, o tanto peggio, perché confinante con un altro Paese comunista, ancorché eterodosso e mediterraneo come la Jugoslavia).
Al di là dello specifico caso italiano – ma senza scordare che lo stesso leader storico del PCI, Palmiro Togliatti, escluse più e più volte l’esistenza di velleità rivoluzionarie e insurrezionali del suo partito d’intesa o no con quello dell’Unione Sovietica –, la “questione comunista” accomuna diversi decenni della storia dell’Europa meridionale, cioè mediterranea, nella seconda metà del XX secolo. Dopo l’Italia i Paesi che avevano i più forti partiti comunisti erano la Francia dapprima e poi – non appena, caduto il franchismo, si poterono ricostituire i partiti politici – la Spagna, tanto che alla fine degli anni Settanta i loro dirigenti – i rispettivi leader, Enrico Berlinguer per l’Italia, George Marchais (1920-1997) per la Francia e Santiago Carrillo (1915-2012) per la Spagna acquistarono per questo vasta notorietà, anche al di fuori dei circoli politici – lanciarono il programma del cosiddetto “eurocomunismo”, una vera e propria variante del comunismo internazionale contraddistinta dall’essere i suoi ideatori dei mediterranei, fondato a partire da un’ipotesi che allora parve troppo avveniristica, ma che in realtà, qualche anno dopo, si sarebbe inverata, seppure per vie diverse. Infatti l’eurocomunismo, muovendo dall’analisi delle condizioni strategiche del gioco sull’orlo dell’abisso nucleare condotto nel mondo bipolare, ipotizzava proprio che quel timore avesse ormai finito per esaurire il suo potenziale dissuasivo: non esistevano più, in altri termini, le condizioni per uno scontro finale di quel tipo in un sistema internazionale nel quale la competizione tra i due blocchi aveva progressivamente attenuato la tensione ritualmente regolata da minacce a cui più nessuno poteva credere. In tutto questo i partiti eurocomunisti avevano un peso grazie alle dichiarazioni pacifiche che essi più volte ribadirono. In una famosa intervista del 1976, che allora fece il giro del mondo, Enrico Berlinguer giungeva addirittura a dichiararsi favorevole alla sopravvivenza del Patto Atlantico, non più visto come il braccio armato dell’imperialismo yankee, ma come puro e semplice fattore di stabilità internazionale.
Se ammettiamo che in quell’impostazione l’eurocomunismo prefigurasse in qualche misura il superamento dei blocchi, ecco che la stessa conclusione di tutta quella storia (il crollo dell’Unione Sovietica, la dissoluzione del Patto di Varsavia, la caduta del muro di Berlino) cessa di apparire un fulmine a ciel sereno o la pura e semplice conseguenza oggettiva del logorio del tempo nei confronti di una struttura fragile, per far trasparire anche il ben più significativo prodotto di una lungimiranza politica che aveva saputo individuare le linee lungo le quali la divisione dell’Europa in due campi era ormai superata. Ma sempre euro-mediterranea era un’altra significativa circostanza: due di quei tre Paesi avevano infatti avuto una lunga vicenda fascista alle spalle, e il terzo (la Francia) vi si era comunque fortemente compromessa durante l’occupazione, tanto che non pochi politologi avanzarono l’ipotesi che il successo dei comunisti nel dopoguerra non fosse altro che una reazione a quello dei fascisti nell’anteguerra e che si potesse codificare una variante comunista costruita proprio sulla sua collocazione geografica mediterranea. Non è questo altro che un modo per ricordare, innanzi tutto, che durante la seconda guerra mondiale per quanto riguarda Francia e Italia (e più l’Italia che la Francia), e durante la guerra civile per quanto riguarda la Spagna, i rispettivi partiti comunisti si trovarono sempre (o quasi: il partito comunista spagnolo fu pesantemente assoggettato alle più ampie prospettive politico-internazionali di Stalin) alla testa della lotta antifascista e antinazista. Il fatto poi che i partiti comunisti si fossero tanto radicati nei Paesi mediterranei e non nella Germania postnazista veniva così assunto a dimostrazione a contrario della tipicità mediterranea dei movimenti comunisti occidentali. Anche la Grecia, nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra in Europa, aveva avuto un sussulto rivoluzionario sedato nel sangue nel settembre 1945 dalle truppe di occupazione inglesi senza che Stalin muovesse un dito, onorando quel patto segreto che egli stesso aveva stretto con Churchill il 9 ottobre 1944 relativamente alle sfere d’influenza dei due blocchi, che prevedeva appunto che la Grecia restasse nell’orbita occidentale. Non ci ricorda tutto ciò, insieme con la memoria della pagina straordinaria della civilizzazione greca mediterranea, quanto ormai l’età dei grandi imperi europei (e tra questi ci furono, forse, i più grandi, da quello greco a quello romano, dall’islam conquistatore all’impero carolino), sorti proprio nel Mediterraneo sia retaggio di tempi irrimediabilmente tramontati, e a cui ne sono succeduti altri fondati, invece che sulle divisioni, sull’istanza della condivisione e della riunificazione?
L’intreccio delle vicende nazionali dei Paesi dell’Europa mediterranea richiama l’attenzione sulla questione metodologica che la storiografia sovente si pone sulla possibilità di redigere delle storie nazionali, cioè incentrate sulla soggettività e l’unicità di vicende e tradizioni locali piuttosto che storiografie di ampio respiro e attente all’insieme più che al dettaglio: l’Europa, e in Europa, quella mediterranea, è una somma (di esperienze varie e differenziate) o un prodotto (di una civiltà comune, di un’unica storia e di tradizioni affini)?
Se noi volessimo dare risposta a questo quesito richiamando la centralità storica di questa regione nei millenni, la risposta parrebbe inevitabilmente inclinare a favore della seconda ipotesi, ma nello stesso tempo porterebbe acqua anche al mulino della prima: se guardiamo infatti all’esempio storico più significativo e ampio, quello dell’impero romano, troviamo infatti che soggettività (Roma) e oggettività (Europa e Africa del Nord) finirono per aggiungersi l’una all’altra nel realizzare un grandioso e precoce disegno unitario. La via delle tradizioni locali mediterranee non andrà per questo svalutata o cancellata: ce lo insegna la cultura antropologica, oltre che quella socio-politica, che il territorio e le origini, la geografia e la storia in altri termini, si fondono e confondono in un disegno complessivo che è l’unico che può consegnarci la comprensione complessiva di aree del mondo tanto ricche di vicende e avventure, quale l’Europa meridionale. Chi potrebbe mai dimenticare, del resto, che proprio su queste note si costruì una delle opere storiografiche che, nell’intrecciare così splendidamente i diversi piani problematici dell’osservazione scientifica, ha scelto proprio il Mediterraneo come oggetto di studio? Seppure limitato a un periodo storico da noi tanto lontano, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (diciamo per i distratti che qui si tratta della seconda metà del XVI secolo), di Fernand Braudel, resta il modello insuperato per accostarsi a una storia globale come quella che si realizza nei grandi spazi del pianeta.