L'Europa tardoantica e medievale. I popoli fuori dei confini dell'impero. Gli Slavi orientali e meridionali
Definizione con la quale si designa l’insieme dei popoli dell’Europa orientale accomunati dall’uso di lingue appartenenti a un medesimo gruppo linguistico, quello slavo, che è una delle ramificazioni della famiglia linguistica indoeuropea. La tradizionale ripartizione in Slavi orientali (Russi, Ucraini e Bielorussi), occidentali (Polacchi, Cechi e Slovacchi) e meridionali (Serbi, Croati, Sloveni e Macedoni) ricalca una suddivisione di tipo linguistico e, al contempo, nazionale; al gruppo linguistico slavo meridionale appartiene anche il bulgaro, ossia la forma di antico slavo adottata dai Bulgari all’epoca del loro insediamento nei Balcani.
Il termine Slavi compare nelle fonti scritte, nella forma Sklavenoi (o Sclavenes), non prima della metà del VI sec. d.C. A quegli anni datano le testimonianze di Procopio di Cesarea (De bello Gothico) e Iordanes (Getica). Nei due autori, così come in altre fonti bizantine del VI e del VII secolo, gli Sclaveni sono costantemente associati agli Anti (o Antes) perché a questi del tutto affini per lingua e aspetto; la sostanziale differenza tra queste due gentes è nel tipo di relazione con l’Impero: gli Anti compaiono in genere come alleati di Bisanzio, gli Sclaveni come nemici e, a partire dal 545, come autori di razzie in territorio balcanico. A questi due popoli nel testo di Iordanes se ne affianca un altro, appartenente al medesimo ceppo, i Venethi, che l’autore situa nel bacino della Vistola; gli Sclaveni sono invece localizzati nel territorio tra la Vistola e il Danubio e gli Anti più a est, tra il Dnestr e il Don. Al terzo quarto del VI secolo datano le testimonianze di Agazia di Mirina (tra i primi a fare uso della forma abbreviata Sklavoi) e di Menandro Protettore, nel cui resoconto gli Slavi compaiono solo in relazione agli Avari. Negli anni a cavallo tra VI e VII secolo, Sclaveni e Anti sono oggetto di trattazione più ampia e dettagliata da parte del redattore dello Strategikon, che si diffonde nella descrizione degli insediamenti, dei costumi militari e di diverse altre usanze di queste etnie. Se nel corso del VI secolo gli Slavi sono ancora stanziati a nord del Danubio, da dove compiono scorrerie in territorio bizantino, nelle fonti della prima metà del VII secolo (tra le più accreditate, Teofilatto Simocatta) sono protagonisti di attività militari meglio coordinate, al fianco degli Avari, come negli attacchi a Tessalonica e nell’assedio di Costantinopoli, durante il regno di Eraclio (610-640).
L’interpretazione dei dati storiografici sugli antichi Slavi pone problemi complessi, derivanti soprattutto dal variabile indice di affidabilità delle fonti. In pochi casi gli autori menzionati furono testimoni oculari delle vicende di cui rendono conto o poterono usufruire di notizie di prima mano; non di rado, invece, utilizzarono informazioni tratte da fonti più antiche adattandole, con effetti anacronistici, allo scenario storico contemporaneo. Questo difetto è stato di recente imputato al testo di Iordanes, tradizionalmente considerato chiave di volta della storia degli Slavi altomedievali. Una revisione critica di questa fonte sembrerebbe infatti suggerire che i suoi Venethi altro non siano che i Venedi degli autori romani (soprattutto Tacito), dunque un’etnia attestata in epoca più antica nell’area della Vistola e “importata” da Iordanes nel contesto storico-geografico a lui contemporaneo (Curta 2001).
Questa correzione non è di poco conto, se consideriamo che proprio la presenza dei Venethi nell’esposizione di Iordanes è uno degli elementi che ha incoraggiato gli archeologi dell’Europa orientale a spingere la ricerca delle origini slave in età ben più antica rispetto a quella della loro apparizione nella storiografia bizantina (i Venethi di Iordanes erano “Slavi”, dunque lo erano anche i Venedi degli autori romani). L’ascendente degli studi linguistici sulla ricerca archeologica (l’appartenenza del gruppo linguistico slavo alla famiglia indoeuropea implicherebbe l’esistenza di una “tribù” slava preistorica), l’attaccamento alla teoria migrazionista (nel corso della storia gli Slavi si sarebbero spostati in massa da una presunta terra d’origine) e l’equazione lingua-ethnos-cultura hanno fatto sì che diversi studiosi abbiano creduto di poter seguire a ritroso le tracce degli antichi Slavi in una catena di culture archeologiche geneticamente correlate che, con singolare continuità, ha termine nell’età della Pietra (ad es., Gimbutas 1971; Sedov 1994; Dolukhanov 1996). Ad alimentare questo orientamento della ricerca, spesso manchevole in rigore metodologico, hanno contribuito l’aspirazione a dare solide radici alle identità nazionali e, soprattutto nell’archeologia sovietica, tenaci assunti ideologici.
Le testimonianze materiali in cui gli archeologi hanno trovato riscontro per i primi riferimenti letterari a Sclaveni e Anti si identificano tradizionalmente con le due culture che, nel VI-VII secolo, si dividono il territorio compreso tra il Danubio e il Dnepr: la cultura di Praga-Korčak e la cultura di Praga-Pen´kovka. La prima è diffusa nei bacini dei fiumi Pripjat´, Teterev, sull’alto corso del Bug, del Dnestr e del Prut´, la seconda nelle regioni attraversate dal Dnepr e dal Bug meridionale e nell’area tra il Dnestr e il Prut´. Queste due culture (risultanti dalla suddivisione di un’originaria “cultura di Praga” postulata negli anni Quaranta del Novecento dal ceco I. Borkovský) hanno il loro tratto maggiormente caratterizzante nella ceramica, in entrambi i casi lavorata a mano. Sono tipici del complesso Praga-Korčak alti contenitori con corpo troncoconico (con diametro massimo a tre quarti dell’altezza), collo leggermente rastremato e ampia apertura, privi di ornamentazione oppure, benché di rado, decorati da file di incisioni oblique lungo l’orlo. I vasi del tipo di Praga-Pen´kovka hanno corpo ovoidale o sferoide, con massima ampiezza nella parte centrale, oppure di forma biconica con carenatura più o meno pronunciata, collo rastremato e apertura dal diametro uguale a quello della base. La decorazione, raramente presente, si limita a linee incise lungo l’orlo o a elementi applicati.
Gli insediamenti appartenenti alle due suddette varianti della cultura di Praga, situati solitamente in prossimità di corsi d’acqua e in terreni adatti allo sfruttamento agricolo, riflettono sostanzialmente il medesimo impianto. Le abitazioni erano disposte in gruppi, ciascuno posto a una distanza di 10-15 m dall’altro; anche i villaggi (ciascuno dei quali comprendeva da 5 a 25 gruppi di case) erano dislocati in gruppi, distanti non oltre 10 km l’uno dall’altro. In alcuni insediamenti della cultura di Praga-Pen´kovka le abitazioni erano allineate lungo l’argine di un fiume. Le abitazioni, che hanno in genere una superficie di 15-20 m2, sono costruite con strutture di pali con copertura lignea a spioventi e caratterizzate dalla presenza di un forno costruito con pietre allettate a secco o, meno di frequente, d’argilla. La poluzemljanka, ossia l’abitazione con il pavimento ribassato (da 20-30 cm a 1 m di profondità), quindi meglio protetta dai rigori invernali, ma per il resto del tutto simile al tipo sopra descritto, ebbe particolare diffusione nei siti della cultura di Praga-Pen´kovka.
Le pratiche funerarie sono state assai meglio indagate nell’areale di Praga-Korčak. Secondo il rituale tipico delle culture archeologiche attribuite agli antichi Slavi, i defunti erano incinerati. I resti della cremazione erano collocati in tombe a fossa di pianta circolare (diametro 20-80 cm; profondità 20-60 cm) all’interno di un’urna oppure coperti da un vaso rovesciato. Nei bacini del Pripjat´, del Teterev e del Bug sono state indagate necropoli a tumulo (kurgan); i resti dell’incinerazione erano deposti in urne collocate alla base del tumulo o all’interno di buche rinvenute a diverse altezze nella massa del tumulo, dato che testimonia un utilizzo prolungato del tumulo da parte di un gruppo o nucleo familiare. È questo, a grandi linee, il quadro archeologico attribuito agli Slavi nell’epoca della loro comparsa nell’orizzonte della storiografia bizantina. Dalle culture di Praga-Korčak e Praga- Pen´kovka, che forse con eccessiva semplificazione sono rispettivamente assegnate agli Sclaveni e agli Anti dei cronisti imperiali, prenderebbe avvio la diffusione della cultura slava, veicolata da migrazioni di massa, verso nord, verso est e verso ovest/sud-ovest, cioè in direzione dei Balcani.
Il recente riesame delle testimonianze letterarie e archeologiche, soprattutto quelle concernenti il VI e il VII secolo, ha portato a una reinterpretazione delle dinamiche sociali, politiche e culturali che determinarono la formazione dell’etnia slava e a una radicale revisione delle teorie tradizionali (Curta 2001). È in questione, innanzitutto, la cronologia assegnata alle due varianti della cultura di Praga; in particolare non sembra vi siano elementi archeologici oggettivi che giustifichino datazioni anteriori al terzo quarto del VI secolo. Viene inoltre messo in discussione un altro dei capisaldi dell’esegesi della più antica storia degli Slavi, l’opinione, cioè, che li fa protagonisti, a partire dal VI secolo, di vere e proprie migrazioni di massa, dalle quali sarebbe risultata la “slavizzazione” di gran parte dell’Europa orientale e dei Balcani. L’ipotesi non trova in realtà conferma nei materiali archeologici. Una chiave di interpretazione alternativa viene suggerita proprio dalla classe di manufatti che, in questo ambito di studi, ha assunto valore emblematico: le fibule ad arco “slave”, considerate, a partire dalla classificazione formulata da J. Werner, tracce tra le più eloquenti delle migrazioni slave.
Un’attenta riconsiderazione delle modalità della loro distribuzione regionale e delle loro trasformazioni tipologiche porta invece a concludere che tutti i tipi di fibule ad arco slave erano di moda intorno al 600 d.C. in quasi tutto l’areale della loro diffusione e che non v’è un solo tipo che possa considerarsi peculiare di una data regione. Tipi di fibule e moduli decorativi correlati tra loro sono attestati in aree molto distanti, mentre non di rado mancano affinità significative tra le fibule provenienti da due zone adiacenti. Inoltre la “migrazione” dei tipi di fibule e dei motivi decorativi non è unidirezionale: in alcuni casi il trasferimento segue, ad esempio, un asse nord-sud, in altri la direzione inversa. In altre parole, questa categoria di reperti non offre supporto alla tesi di una migrazione etnica, allude, al contrario, all’emergere di gruppi che in questi accessori del vestiario (ma anche in altri oggetti di toreutica bizantina e che, con le fibule, troviamo riuniti nei numerosi “tesori” venuti alla luce nell’areale della cultura di Praga-Pen´kovka) sembra trovassero uno dei più eloquenti simboli di stato e di identità etnica. Piuttosto che trasferimenti di genti o attività di artigiani itineranti, la disseminazione delle “fibule slave” fa pensare a rapporti tra comunità dislocate anche a notevole distanza e, verosimilmente, coltivati tramite doni e alleanze matrimoniali.
La particolare concentrazione di questi reperti nell’area a nord del Danubio e a est dei Carpazi e la loro rapida e omogenea diffusione nei decenni a cavallo tra il VI e il VII secolo testimoniano di trasformazioni cruciali che, all’interno di diverse comunità tribali, portarono all’emergere di individui capaci di assumerne la leadership e alla nascita di una più forte identità di gruppo fondata sui piani politico-militare, etnico e simbolico. Non è forse un caso che proprio a questi anni risalgano i primi espliciti riferimenti a singole tribù (i Drugubites, Sagudates, Belegezites e altri, nel libro II dei Miracoli di San Demetrio) e ai “re” degli Sclaveni (nello Strategikon). Elemento catalizzatore di questo processo, e vero punto di svolta nella genesi del mondo slavo, sarebbe stato – secondo F. Curta – l’irrigidimento del limes danubiano tramite il potenziamento del sistema difensivo attuato da Giustiniano e in gran parte ultimato nel 554. Questa imponente opera di ristrutturazione, che era riuscita ad arrestare per qualche decennio le scorrerie degli Sclaveni, ne aveva per contro stimolato l’organizzazione politica e militare. Inoltre, rivelatosi fardello insostenibile per l’amministrazione imperiale, il limes balcanico ebbe efficacia relativamente breve e già dopo il 620 non era più presidiato.
È pertanto ragionevole datare l’inizio della penetrazione degli Slavi nei Balcani non prima del VII secolo. Alla medesima conclusione porta il riesame di alcuni materiali archeologici tradizionalmente invocati a supporto di una consistente presenza slava nei Balcani già nel VI secolo, come, ad esempio, i complessi ceramici di Garvan, in Bulgaria (da datare invece al tardo VII-VIII sec.), o quelli di Argos, in Grecia (VIII-IX sec.); al contrario, alcuni ricchi corredi funerari del VII secolo rinvenuti in Albania e in Grecia (Corinto, Filippi, Edessa, ecc.) non mostrano elementi che giustifichino la loro tradizionale attribuzione agli Slavi. L’entrata degli Slavi nei Balcani non va intesa come un’invasione o un’avanzata marcata da conquiste territoriali, quanto come una lenta e graduale infiltrazione di piccole comunità per le quali appare più ragionevole immaginare una distribuzione a macchia di leopardo. Le vie di penetrazione furono diverse e la ricostruzione dei loro itinerari è stata proposta sulla base di evidenze linguistiche (Birnbaum 1989), mentre è difficile, relativamente a questa fase precoce della presenza slava nei Balcani, rintracciare elementi archeologici oggettivamente attribuibili ai diversi gruppi che si sarebbero fatti artefici dei potentati balcanici medievali (in particolare, Serbi e Croati).
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