L'Europa tardoantica e medievale. I territori entro i confini dell'Impero. L'Italia: Roma
Nel mese di agosto del 410 un doloroso avvenimento segnava la fine della lunga pace che aveva caratterizzato la vita di R. in età imperiale: Alarico capo dei Visigoti, già da otto anni sul territorio italiano, entrava in città dalla Porta Salaria e si dirigeva verso il centro dell’Urbs operando saccheggi e distruzioni nei fori e nei quartieri del Celio, dell’Aventino e del Trastevere. Nel 455 Genserico e i Vandali, e quindi nel 472 gli armati di Ricimero, recarono di nuovo devastazioni e danni ingenti alle strutture pubbliche e private. Ai colpi bellici devono inoltre essere aggiunte le conseguenze devastatrici dei terremoti, a cominciare da quello del 443 che le fonti indicano come particolarmente disastroso.
Anche per R. la presenza archeologica dei popoli germanici venuti per primi in diretto contatto con la città può essere letta, come è stato giustamente scritto e in analogia con gli altri insediamenti interessati, in chiave negativa, cioè attraverso la documentazione dei danni subiti dai monumenti pubblici e dei lavori di ripristino e di restauro integrali o parziali ben presto allestiti, come, ad esempio, per la Basilica Giulia, integralmente restaurata, tanto da garantirne ancora la sopravvivenza, ovvero per la Basilica Emilia che ebbe ripristinata, a quanto sembra, unicamente la fronte prospiciente la Via Sacra. Al contrario le ferite inferte all’edilizia privata, segnatamente nei quartieri del Celio e dell’Aventino, non furono generalmente più sanate, come anche una vasta zona della città, ai limiti settentrionali delle regioni augustee dell’Alta Semita e della via Lata, caratterizzata dai lussuosi horti, dopo i saccheggi, fu lasciata, con ogni probabilità, in abbandono e non si hanno allo stato odierno delle ricerche testimonianze di recupero nei secoli dell’Alto Medioevo.
Senza dubbio la presa di R. incise profondamente sull’impianto urbano, mantenutosi sino a quel momento quasi inalterato. È stato più volte rilevato come il fenomeno che ha segnato il mutare dei tempi sia stato l’abbandono graduale dell’uso primario delle strutture pubbliche, un fenomeno complesso che interessa sia capillarmente che globalmente tutte le città e R. in particolare, ove lo si coglie in tutta la sua eccezionale portata. Molti degli edifici civili, degli edifici di culto, degli edifici per spettacolo, degli edifici termali, delle strutture militari erano nel corso del V secolo ormai venuti meno alla loro funzione originaria, e conseguentemente sottoposti a un processo di destrutturazione variabile nel tempo, nei modi, nei limiti: abbandono e destrutturazione da leggere senza dubbio nella lunga durata, con inizio in momenti differenziati, originati da cause diverse e con esiti che sfuggono a una facile generalizzazione. L’editto imperiale che aveva decretato la chiusura dei templi può essere assunto come momento di inizio per la cessazione dell’uso primario delle strutture consacrate ai molteplici culti della R. tardoimperiale, anche se l’applicazione di un tale ordine non va considerata coercitiva al fine di una sua immediata esecuzione se, ad esempio, durante le guerre greco-gotiche i Romani si riversarono ancora al tempio di Giano, senza dubbio ormai chiuso, ma ancora integro nelle sue strutture, per interrogare il dio sulla sorte delle vicende belliche, come non portò all’obliterazione delle celebrazioni popolari e degli antichi rituali legati ad ataviche credenze se ancora alla fine del V secolo papa Gelasio era costretto a intervenire con la proibizione per i cristiani di partecipare ai Lupercalia e il calendario di Polemio Silvio del resto alla metà circa del medesimo secolo registrava ancora accanto a feste cristiane, ludi circenses e feste tradizionali pagane. Infatti si dovrà attendere i primissimi anni del VII secolo per avere nel Pantheon il primo caso a R. di un tempio, ancora in elevato, tramutato in edificio di culto cristiano.
Nel corso del V secolo inizia a venire meno anche la frequentazione dei grandi complessi termali e nei primi anni del secolo successivo si hanno le ultime attestazioni di utilizzo degli edifici per spettacolo. Almeno due accampamenti militari urbani infine, i Castra Equitum Singularium e i Castra Peregrina, i primi a seguito della sconfitta di Massenzio ai Saxa Rubra, i secondi nei primi anni del V secolo – si è voluta vedere la causa nell’occupazione visigota – avevano cessato la loro funzione e, ceduti all’autorità ecclesiastica, avevano lasciato il posto rispettivamente alla Basilica Lateranense e alla chiesa di S. Stefano Rotondo. In tale oggettiva situazione di crisi la legislazione del V secolo si attiva ancora nel tentativo di salvaguardare il patrimonio pubblico e frenare lo spolium dei monumenti antichi a favore dei privati che appare ormai dilagante, a tal punto che Maiorano nel 458 vi dedica un apposito provvedimento coercitivo. È pur vero però che nell’anno 500, agli occhi ammirati e stupiti di un pellegrino di eccezione, il vescovo Fulgenzio di Ruspe, che vi giunge insieme ai suoi monaci e si mescola alla folla in festa nel Foro, R. appare, nella bellezza dei suoi monumenti, addirittura come la prefigurazione dell’aldilà, e ugualmente dalla contemporanea descrizione di Zaccaria di Mitilene la città sembra mantenere il suo antico splendore. Di fatto la ricerca archeologica più recente consente oggi di confermare la visione tradita dal diacono Ferrando e di cogliere una sostanziale tenuta degli spazi di uso collettivo in particolare proprio nell’area dei fori.
Per l’edilizia privata i dati disponibili sono quanto mai scarsi. La ricerca di questi ultimi anni ha più volte preso in considerazione le domus patrizie per ricercarne segnatamente le tipologie o le eventuali ristrutturazioni della Tarda Antichità, ma senza interessarsi più di tanto alla loro continuità o meno di uso nei secoli successivi al IV, limitandosi il più delle volte a segnalare, sulla base dei materiali recuperati negli strati di reinterro, un generico abbandono nel corso del V secolo. Solo di recente una maggiore attenzione per tutti i dati materiali, senza discriminanti cronologiche, ha aperto la via a un diverso metodo di approccio che senza dubbio in futuro consentirà di articolare, almeno in parte, nel tempo e nello spazio la durata in vita delle strutture residenziali.
Gli anni del regno di Teodorico segnano, come è ben noto, l’ultimo tentativo di ripristinare l’antico decoro della città, a partire almeno dall’anno 500 che vide il sovrano goto giungere a R. e che occurrit beato Petro devotissimus ac si catholicus. Cui papa Symmachus et cunctus senatus vel Populus Romanus cum omni gaudio extra urbem occurrentes (Anon. Vales., 12); le provvidenze a favore dei monumenti e delle strutture pubbliche sono documentate da fonti testuali e testimoniate da dati archeologici e il programma restaurativo del re goto era di fatto rivolto essenzialmente al sistema difensivo, alla sua sede sul Palatino e alle strutture di aggregazione cittadina, nell’intento quindi di riscattare la città dal degrado in cui versava e, in un atteggiamento di ammirazione e di protezione, di ripristinare quel miraculum unico al mondo. Non è senza significato che proprio nella Curia Senatus, o in un edificio annesso, si leggesse il nome di Teodorico accanto a quello dell’imperatore Anastasio nel celebrare gli ultimi restauri ufficiali al complesso prima della trasformazione dell’aula in edificio di culto cristiano, eseguiti dal prefetto urbano Valerius Florianus, restauri che interessarono l’Atrium Libertatis e il Secretarium Senatus. Nella storia di R. è questo l’ultimo tentativo di mantenere in vita l’antico splendore e anche attraverso lo studio dell’attività edilizia non si può che essere d’accordo nel cogliere negli anni del regno teodoriciano gli esiti finali dell’età classica.
Ma il paesaggio della città non apparteneva più a quell’età, poiché a partire dal IV secolo all’abbandono dell’uso primario degli edifici e degli spazi di età classica e al loro eventuale periodo di destrutturazione era seguito in larga parte il processo della loro rioccupazione con mutazione delle destinazioni d’uso. Senza dubbio è documentata una serie di casi che le fonti testuali richiamano e le evidenze archeologiche ci aiutano a materializzare, ma il pericolo insito in tale procedimento è quello di ricostruire l’assetto di una città unicamente attraverso i suoi edifici, lasciando in ombra il suo tessuto connettivo, la cui percezione è possibile per limitatissimi frammenti. Comunque è possibile affermare che un radicale cambiamento dei costumi coinvolge gradatamente il vivere quotidiano e mutano i luoghi di aggregazione.
Nel processo di rioccupazione dello spazio e delle strutture in abbandono il fenomeno più vistoso è senza dubbio quello a carattere religioso. Sin dalla fine del II secolo la comunità cristiana di R. aveva iniziato ad avere propri spazi funerari – papa Zefirino (199-217) infatti costituisce, in praedio suo specifica il Liber Pontificalis, affidandone la cura al diacono Callisto, il primo cimitero comunitario gestito direttamente dalla Chiesa – venendo a occupare segnatamente mediante l’apertura di gallerie e di ambienti ipogei e con sempre maggiore estensione, terreni destinati in precedenza allo sfruttamento agricolo, utilizzando antiche cave di pozzolana, ovvero facendo propri e ampliando sempre nel sottosuolo nuclei cimiteriali privati. Cimiteri ipogei, ma anche aree subdiali popolano il suburbio della città con un apice di maggiore utilizzo documentato nel corso del IV secolo. In città si deve all’evergetismo di Costantino e della sua famiglia la costruzione del complesso episcopale romano, con la cessione dei Castra Equitum Singularium e di res privatae imperiali e la costruzione dei primi santuari monumentali sulle tombe dei principi degli apostoli Pietro e Paolo, nonché di strutture di accoglienza cultuale e funeraria in relazione ai sepolcri di Agnese, di Lorenzo, di Marcellino e Pietro. Le nuove costruzioni costantiniane, le basiliche circiformi con un’esperienza planimetrica non più ripetuta e le aule di culto articolate in tre e cinque navate costituiscono una assoluta novità architettonica pur nel condizionamento della loro funzione di grandi spazi coperti per riunioni comunitarie, una novità che manterrà immutate per secoli le caratteristiche costruttive e le soluzioni tecniche acquisite anche quando assumerà forme ridotte.
Se la prima attività edilizia si attua per evergetismo imperiale è dalla proprietà privata che la Chiesa romana ottiene spazi e strutture per attivare capillarmente l’organizzazione della cura d’anime. Infatti a eccezione dei casi discussi relativi al titulus Lucinae e al titulus Gai gli studi passati e recenti, pur nella disparità di talune conclusioni, hanno dimostrato come le istituzioni titolari si siano costantemente insediate in proprietà private. Nell’anno 499, in piena età teodoriciana, il papa Simmaco congregavit synodum: sottoscrivono, com’è noto, presbiteri appartenenti a ben 29 istituzioni titolari, corrispondenti sul piano giuridico alle moderne parrocchie, che, a partire dalla metà del IV secolo, si dispongono nell’intero spazio urbano, a eccezione del centro politico e dei fora, organizzandosi nelle 7 regioni ecclesiastiche in cui la Chiesa aveva diviso la città, attuando una propria suddivisione amministrativa che veniva inizialmente ad affiancare e forse mai a sostituire del tutto quella civile in 14 regioni. Di fatto si realizzava una presa di possesso dello spazio urbano affidato alla giurisdizione di 7 diaconi regionari.
Ugualmente la critica più recente tende a riconoscere come originari spazi privati i diversificati edifici in cui vennero a collocarsi anche le chiese devozionali, compresi gli ambienti che, mediati o meno dalla presenza della basilica liberiana, all’indomani del Concilio di Efeso, furono coinvolti nel grande progetto attuato da Sisto III (432-440) con la costruzione della basilica mariana sull’Esquilino, S. Maria ad Praesepe, poi S. Maria Maggiore, un progetto di notevole rilevanza sul piano cultuale, ma anche su quello topografico e urbanistico. È facile riconoscere la volontà del pontefice di inserire un grandioso centro cultuale di forte pregnanza in un’area urbana qualificata dalla presenza di etnie germaniche e eterodosse e la basilica sistina oltre che richiamo devozionale per il culto alla Vergine ebbe anche funzione di cura animarum per la presenza di un battistero, funzione eccezionale in urbe per una chiesa non nata a tale scopo e che trova un confronto analogico nella recente scoperta di una eguale struttura nella ecclesia Hierusalem. Sul piano urbanistico, quantunque l’impianto planimetrico sia rimasto quello antico, se si eccettua l’aggiunta del transetto e della nuova abside volute da Pasquale I, e ugualmente l’alzato mantenga all’interno in sostanza i volumi originali, oggi la visione altimetrica del versante settentrionale della collina è profondamente mutata a seguito della colmatura artificiale cinquecentesca della vallis Patritia che ha ridotto il forte dislivello esistente e di conseguenza diminuito l’impatto visivo dell’imponente fabbrica sistina.
È possibile riconoscere nella costruzione del gruppo di edifici a carattere religioso facenti perno su S. Maria Maggiore la messa in atto di un programma ideato dal papato e destinato, se realizzato, a modificare la configurazione urbanistica di R. Il progetto doveva delineare nella zona sud-orientale della città, lontano dal nucleo politico, un quartiere ecclesiastico, incentrato sul complesso lateranense verso cui si erano rivolte le iniziative edilizie dei pontefici del V secolo. Come spia del grado di popolamento di quest’area, che comprendeva parte di tre regioni ecclesiastiche, la II, la III e la IV, può essere assunta la continua manutenzione delle chiese titolari che furono restaurate e, in taluni casi, ricostruite a fundamentis anche nei secoli successivi, quando questo progetto di un quartiere papale, un nuovo centro per R., vedrà venire meno la sua realizzazione. Il quartiere papale sorgerà di fatto dall’altro capo della città, sotto la forte attrazione esercitata dal sepolcro di Pietro e troverà il suo riconoscimento ufficiale quale nucleo urbano con la costituzione della civitas Leoniana alla metà del IX secolo.
Alla vigilia delle guerre greco-gotiche un edificio di culto, dedicato ai ss. Cosma e Damiano, si insedia, per la prima volta, e senza rilevanti interventi struttivi, in uno spazio pubblico, l’aula del Foro della Pace, adattando un ulteriore e discusso piccolo edificio come accesso affacciato sulla Via Sacra, in una posizione topografica che il biografo del pontefice committente Felice IV (526-530) si preoccupa di precisare. Non può sfuggire la valenza politica dell’operazione papale, una valenza di forte ricaduta anche sul piano spaziale e che segna l’inizio di una occupazione estensiva dell’antico centro politico della città da parte della Chiesa e della comunità cristiana di R. Un processo che viene bruscamente interrotto dalle operazioni belliche tra Bizantini e Goti tesi gli uni a raggiungere il pieno possesso territoriale dell’impero giustinianeo, volti i secondi a mantenere le posizioni che erano state del regno teodoriciano. R. si chiude entro le sue mura, in un perimetro rimasto immutato rispetto all’impianto iniziale e verso il quale avevano rivolto la loro attenzione dapprima gli imperatori, quindi lo stesso Teodorico e, a guerra iniziata, il generale Belisario. Ulteriori torri, di un particolare impianto pentagonale, avevano rafforzato il tratto ove gli architetti militari di Aureliano avevano inglobato i Castra Praetoria, un fossato era stato aperto a una certa distanza dalle mura stesse, gli spalti avevano ricevuto merli angolari che garantivano una maggiore salvaguardia per i militi addetti alla difesa e talune porte erano state sbarrate con la costruzione di muri di tamponamento delle aperture. Ma con tutto ciò, come lo stesso Procopio sottolineava, R. era “una città che non è in grado di reggere un assedio per il fatto di essere cinta da mura per un perimetro tanto vasto”. Durante i lunghi diciotto anni i Goti avevano collocato i loro accampamenti in prevalenza nel tratto nord-orientale del suburbio urbano, presidiando nel contempo anche le vie di accesso al mare attraverso le quali R. riceveva parte del suo sostentamento. Un ulteriore punto fortificato, nel disperato tentativo di Totila di mantenere il possesso della città era costituito dal sepolcro di Adriano che era stato trasformato in fortezza a proteggere anche il ponte Elio, che divenne poi di fatto l’unico ponte di accesso alla città dalle vie Aurelia, Cornelia e Trionfale e il raccordo diretto fra la città e il santuario dell’apostolo, attraverso la porticus sancti Petri.
Una conseguenza dell’impossibilità per lunghi periodi di accedere al territorio suburbano è senza dubbio il diffondersi della pratica di seppellire entro le mura, pratica già iniziata nel secolo precedente, forse per le medesime ragioni, ma che certamente ebbe una affermazione in questi anni, per divenire quindi consuetudine corrente. È facile rilevare la ricaduta sul piano urbanistico di tale cambiamento radicale nelle pratiche funerarie rispetto all’età classica. Gli studi di questi ultimi anni hanno consentito una messa a punto della distribuzione topografica delle sepolture, dalle sporadiche alle organizzate in spazi funerari, ne hanno evidenziate le tipologie e in taluni casi le pratiche funerarie a esse connesse, limitate peraltro al dono funebre e simbolico del contenitore da liquidi e a qualche oggetto di corredo personale, mentre è rimasto tuttora in ombra l’aspetto giuridico del fenomeno. Non sappiamo infatti in che misura si possa parlare di continuità nella giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, accertata nei secoli precedenti in relazione alle aree cimiteriali suburbane e testimoniata per taluni spazi funerari anche in area urbana. Né d’altra parte l’uso di seppellire in urbe comportò l’abbandono dei cimiteri suburbani, che continuarono, sebbene in misura assai ridotta, dovuta peraltro anche al calo demografico, a ricevere inumazioni.
Attraverso il racconto di Procopio si ha, nel momento dell’ultima riconquista della città da parte dell’esercito bizantino nel 553, la visione di R. ormai stremata. Per alcuni decenni né le fonti testuali, né i dati archeologici consentono di cogliere interventi di un certo rilievo per sanare le ferite inferte dalla guerra, dalla inevitabile crisi economica e dallo sfaldamento del potere centrale. Si hanno unicamente notizie isolate relative alla costruzione di alcuni edifici di culto, a restauri e donativi segnatamente per i santuari dei martiri. Lo stesso pontificato di Gregorio Magno (590-604), decisivo sul piano di riorganizzazione della Chiesa, ebbe ben poca incidenza sull’assetto urbanistico della città. Al contrario si può cogliere, circa un decennio più tardi, nell’intervento di Bonifacio IV (608-615), con la dedica del Pantheon alla Vergine e ai martiri, una spia delle trasformazioni in atto nel quartiere del Campo Marzio. Un momento di ripresa edilizia si ha col pontificato di Onorio (625-638): il biografo menziona la costruzione di alcune chiese, i restauri ai tetti di quelle già esistenti, alcuni dei quali con copertura mediante le tegole bronzee recuperate, con il permesso dell’imperatore Eraclio, si ritiene dalla basilica di Costantino, la trasformazione dell’aula della Curia in chiesa di S. Adriano, quindi aggiunge et multa alia fecit quas enumerare longum est. Per gli anni successivi del VII, nonché per i primi decenni dell’VIII secolo, pochi sono i cantieri documentati per nuove costruzioni mentre alcuni si limitano ai restauri, ma i due secoli sono caratterizzati dall’organizzazione dell’assistenza da parte della Chiesa. Agli xenodochia già esistenti si aggiungono le istituzioni diaconali, centri di assistenza materiale e spirituale; strutturati con ampi ambienti destinati allo stoccaggio e alla distribuzione delle derrate e provvisti di un’aula di culto essi occupano in prevalenza gli spazi forensi, dal Foro Romano al Foro Boario, anche se poi non mancheranno sul Celio, sull’Esquilino, sul Quirinale e nel Campo Marzio suggerendo con la loro presenza la continuità del popolamento, ovvero del transito nelle prime tre aree e lo sviluppo insediativo ormai iniziato nella quarta.
Nei medesimi due secoli si sviluppa nell’ambito urbano un’ulteriore istituzione religiosa, quella monastica. Legato inizialmente all’iniziativa privata e all’interesse per la vita ascetica degli ambienti aristocratici della città e quindi dedicato già dal V secolo alla cura dei sepolcri venerati, il monachesimo nel medesimo secolo entra nello spazio urbano moltiplicando a partire da Gregorio Magno i suoi insediamenti legati all’evergetismo dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica ed espletando accanto alle funzioni proprie della meditazione e della carità, il servizio alle grandi basiliche, alle chiese titolari, a quelle devozionali e ai centri assistenziali. Dalla documentazione testuale dei secoli VII e VIII è possibile ricostruire perfettamente le esigenze strutturali e organizzative dei monasteri attraverso i lavori compiuti per adattare le domus private alle nuove funzioni: spesso si tratta di case a due piani dotate di celle per i monaci, di spazi comuni – il monastero di S. Andrea in clivo Scauri, fondato dallo stesso Gregorio Magno nella sua casa, aveva un grande triclinium –, di giardini, di orti, di dispense per la conservazione delle derrate alimentari, in taluni casi di spazi funerari e naturalmente di un luogo di culto.
Ancora nei due secoli predetti intensa appare l’attività delle botteghe, dai lapicidi, ai musivari, agli artigiani del metallo impegnati, su committenza papale, nell’esecuzione di decorazioni in mosaico, di pavimentazioni marmoree, di rivestimenti in oro e in argento del mobilio liturgico. Opere a volte di maestranze qualificate come, ad esempio, al tempo di Gregorio III (731-741) l’organizzazione spaziale davanti alla confessione nel santuario di S. Pietro in Vaticano, con la posa in opera di colonne marmoree donate dall’esarca Eutychio, sormontate da trabeazioni lignee, rivestite di lamina d’argento decorata da un lato con le immagini del Salvatore e degli apostoli e dall’altro della Vergine e di alcune sante. Tutto ciò a testimonianza sul piano produttivo ed economico dell’attività volta all’abbellimento degli edifici cultuali, che perdurerà almeno sino al IX secolo, sia pure con interruzioni, e con cambiamenti nella tipologia dei prodotti, come pure l’analisi degli oggetti suntuari, di cui i pontefici con continuità dotavano le istituzioni religiose, oggetti la cui provenienza, anche alla luce delle ultime scoperte archeologiche, in particolare delle attività metallurgiche impiantatesi nell’VIII secolo nell’esedra della Crypta Balbi, deve essere rivista, prevedendo la possibilità di produzioni locali accanto alle più documentate importazioni dall’Oriente bizantino.
All’inizio dell’VIII secolo, sotto il pontificato di Sisinnio (708), curam agens pro habitatores huius civitatis, e del successore Gregorio II (715-731) è registrata l’apertura di calcare per il restauro delle mura. È un primo intervento del papato per lavori di pubblica utilità che proseguirà poi con il successore Gregorio III durante il quale plurima pars murorum huius civitatis romane restaurata est e, precisa il biografo, che il pontefice alimonia artificum et pretium ad emendum calcem de proprio tribuit. Si è ormai aperta la stagione della ripresa edilizia, sempre più ampiamente registrata nell’attività dei pontefici, nel medesimo VIII secolo, a eccezione del breve periodo corrispondente al pontificato di Stefano III (768-772), impegnato nella difesa di R. dall’assalto dei Longobardi e dalla loro fugace entrata in città dalla Porta di S. Pancrazio, e dei primi anni del suo successore Adriano I (772-795) la cui intensa attività edilizia va ben oltre l’attenzione per gli edifici di culto, logica e dovuta da parte del vescovo di R.: essa discende da un piano urbanistico concepito su larga scala, quale mai si era pensato in epoche precedenti (Krautheimer 1981) e che di fatto si attua come un grande cantiere di restauro, una reale renovatio murorum dell’intera città, caratterizzata da una intensa opera di restauri agli edifici esistenti, di nuove costruzioni, di interventi alle strutture pubbliche, dalle mura agli acquedotti (Pani Ermini 1992).
Due interventi incisero anche sul paesaggio urbano. Il primo è costituito dall’incremento delle fabbriche dell’insula episcopalis, in particolare con la costruzione di una torre, come già attuato da papa Zaccaria, che dava al patriarchio un carattere turrito del tutto nuovo nell’edilizia residenziale romana: al pellegrino, al viandante, a colui che entrava in città dalla Porta Asinaria, ovvero proveniva dal Celio o dall’Esquilino, il patriarchio mostrava un carattere turrito ante litteram, un carattere che solamente a partire dal secolo successivo inizierà il suo processo di inserimento nell’immagine urbana di R. come, quali esempi emblematici, documentano la torre all’ingresso del complesso dei Ss. Quattro Coronati coerente con la ricostruzione promossa in età carolingia e le due torri impostate sul transetto di S. Prassede di età pascaliana presenti anche, come sembra, nella chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo. Infine una torre era stata eretta ancora nell’VIII secolo in relazione alla basilica di S. Pietro, per accogliere le campane donate dal pontefice Stefano II (752-757), costituendo il vero prototipo delle successive torri campanarie. Il secondo intervento adrianeo riguarda la ricostruzione della diaconia di S. Maria in Cosmedin, poiché dudum breve in edificiis existens, ma sub ruinis posita. Il nuovo complesso si inserisce nel preciso programma papale di riorganizzazione del sistema assistenziale e, nello stesso tempo, contribuisce alla trasformazione della cosiddetta ripa Graeca e crea una cerniera architettonica tra i templi, il cosiddetto Tempio Rotondo e l’altro noto come Tempio della Fortuna Virile, ma meglio identificato con la Aedes Portuni, rimasti in elevato verso la ripa del Tevere e quanto sopravviveva delle strutture del Circo Massimo, passate già dall’età teodoriciana almeno in parte a proprietà privata.
Dalla fine dell’VIII secolo alla metà del successivo si assiste pertanto a un generale rinnovamento degli edifici di culto, alcuni costruiti ex novo anche se il più delle volte sul luogo dei precedenti. Sul piano progettuale gli architetti continuano la scelta privilegiata degli impianti basilicali, inserendo nell’aula la presenza della cripta sottostante il presbiterio, dando in tal modo alla chiesa anche una funzione martiriale in relazione al trasferimento in urbe, ormai generale e non più procrastinabile, delle reliquie dai santuari suburbani. Accanto alla cripta semianulare che ripete l’organismo attuato nella basilica di S. Pietro, si ritiene sotto il pontificato di Gregorio Magno, compare per la prima volta la cripta a oratorio, divisa in navate, come nella chiesa già menzionata di S. Maria in Cosmedin, realizzata per accogliere a quanto sembra le reliquie di s. Cirillo o di altri martiri. Gli edifici di culto ricevono decorazioni musive, segnatamente absidali, e sono dotati di ricco arredo liturgico marmoreo che ancor oggi, anche se allo stato di materiale archeologico di recupero o musealizzato, costituisce una documentazione storica non solo della fervida attività delle botteghe, bensì anche della fase altomedievale spesso non più leggibile nelle strutture. L’opera portata avanti da Adriano I prosegue con i suoi successori Leone III, Pasquale I, Leone IV, con una puntuale organizzazione dei cantieri che costruiscono con tecniche edilizie, caratterizzate da continuità con l’utilizzo dei paramenti in laterizio e da novità con l’impiego di un’opera pseudoisodoma costituita da blocchi di tufo, sia di recupero, sia di cava.
Sino al IX secolo la rete viaria sembra aver mantenuto sostanzialmente l’impianto venutosi a formare già nell’età repubblicana e nel Tardo Impero. I percorsi delle arterie principali, sia nei loro tratti suburbani che in quelli urbani erano rimasti sostanzialmente inalterati e come tali continueranno nei secoli a garantire l’accesso in città e il collegamento tra i quartieri. Nel suburbio la loro funzione di assi portanti non viene intaccata e di fatto rimane come elemento condizionante lo sviluppo topografico dell’anello territoriale intorno all’Urbs, mediato attraverso l’uso funerario. Proprio queste evidenze archeologiche di carattere prima funerario e poi martiriale portano in taluni casi a conoscere, in altri a ipotizzare una rete di diverticoli e di vie minori che dipartendosi dagli assi principali consentivano non soltanto gli accessi ai singoli nuclei funerari o ai singoli santuari, bensì rispondevano alla funzione di collegamento esterno fra detti assi, come è possibile ricostruire attraverso gli itinerari ad loca sancta che a partire dal VII secolo guidavano fedeli e pellegrini alle tombe venerate (Fiocchi Nicolai 2000). Una viabilità che in taluni casi sfruttava vecchi tracciati di collegamento fra gli insediamenti rurali, ovvero appositamente indotta, spesso codificata dall’agiotoponimo di riferimento, con sopravvivenza sino ai nostri giorni.
In città la mancanza di un quadro generale quotato di tutti i percorsi viari noti e che pertanto tenga conto anche dei ritrovamenti posteriori alla carta di R. Lanciani, cui siamo a tutt’oggi debitori per una informazione estesa a tutto l’impianto urbano, non consente un inquadramento generale che evidenzi in analisi la continuità dei percorsi, ovvero le possibili interruzioni, gli eventuali mutamenti non solo direzionali, ma soprattutto dei livelli. Purtuttavia talune parziali e limitate acquisizioni permettono di segnalare alcuni episodi certi di mantenimento ovvero di mutazione dell’assetto viario a partire già dal IV secolo. Sul piano delle tecniche costruttive dai primi dati editi si individuano nuovi procedimenti di pavimentazione, da un acciottolato segnalato per la strada nell’area dell’ospedale militare del Celio, a una massicciata in terra battuta indicata generalmente per le altre: tipi di pavimentazioni che possiamo immaginare facilmente asportati negli sterri che hanno caratterizzato per secoli gli interventi di scavo. Pertanto con ogni probabilità anche le strade conosciute nel loro basolato classico avranno ricevuto quegli innalzamenti di livello che oggi iniziano a essere documentati nei percorsi di lunga durata. Un quadro generale della percorribilità delle vie di attraversamento della città lo si può cogliere seguendo i diversi itinerari traditi nel codice di Einsiedeln, ascrivibili alla fine dell’VIII secolo.
Una valutazione del quadro generale del paesaggio urbano sino al IX secolo consente di cogliere, nelle trasformazioni subite da alcuni quartieri, situazioni logicamente diversificate, ma anche spesso in rapporto analogico fra loro per quanto attiene i tempi, le destinazioni e le modalità dei processi insediativi. Le zone residenziali con ricche domus del Celio e dell’Aventino, ad esempio, già pesantemente interessate dalle scorrerie visigote e vandale, a partire dal VI secolo sono qualificate unicamente dalla presenza delle istituzioni titolari, una sul Celio, due sull’Aventino, delle chiese devozionali, sul Celio quella di S. Stefano, gravitante forse sul piano urbanistico nella sfera del complesso episcopale, degli insediamenti monastici e, a partire dal IX secolo, di una diaconia. Non si hanno a tutt’oggi notizie circa una presenza, ancorché ridotta, di popolazione residente, anche se il mantenimento in vita delle istituzioni titolari porta a supporla. Le medesime zone si prestano ad alcune considerazioni circa le modalità di mantenimento in vita delle strutture edilizie sia pure nella loro variazione d’uso. Indicativa a questo proposito la sorte di tre ricche domus sul Celio: la Casa dei Valeri trasformata, a quanto sembra, prima in uno xenodochio e poi nel monastero di S. Erasmo, la grande sala absidata di rappresentanza del IV secolo, si ritiene possesso degli Anici, nella quale papa Agapito (535/6) volle collocare la prima biblioteca a carattere cristiano e sul finire del secolo in connessione a quest’ultima la donazione dell’antica dimora anch’essa attribuita agli Anici da parte del pontefice Gregorio Magno – hic domum suam constituit monasterium riferisce il Liber Pontificalis – che consentì l’istituzione del monastero di S. Andrea in clivo Scauri. Sull’Aventino limitati saggi archeologici nel complesso del titulus Sabinae hanno consentito di accertare come, nell’area a occidente della basilica, le murature dell’edificio medievale fortificato si impostino direttamente su quelle degli ambienti altoimperiali, dopo averne tamponato le relative aperture; se ne deduce pertanto che tali ambienti rimasero sostanzialmente inalterati sino alla fase del pieno Medioevo e furono quindi utilizzati dalla comunità cristiana senza ristrutturazioni integrali, non seguirono cioè la stessa sorte di quelli interessati dalla costruzione della basilica che furono resecati all’altezza del nuovo piano di calpestio prescelto.
I casi emblematici del Celio e dell’Aventino non sono isolati bensì trovano riscontri analogici in altri quartieri della città: nel Trastevere è possibile richiamare il titulus Caeciliae ove le recenti indagini hanno prospettato un analogo utilizzo degli ambienti che la nuova istituzione era venuta a occupare, mentre la persistenza nel tempo di residenze sia di un certo prestigio che di uso abitativo “condominiale” trova testimonianza, ad esempio, nella regio romana della via Lata con la domus donata dal pontefice Paolo I (757-767) alla comunità del monastero di S. Silvestro che dalla descrizione del biografo del Liber Pontificalis sembra aver subito lavori di ristrutturazione unicamente al piano terra per l’inserimento dell’edificio di culto, e ai limiti della medesima regio VII verso il Campidoglio con l’insula residua su quattro piani, oggi ai piedi della scalinata della chiesa di S. Maria in Aracoeli, occupata nel Medioevo, forse tra IX e X secolo, dalla chiesa di S. Biagio a pede mercati. Alle estreme propaggini sud-orientali del Celio aveva trovato posto il complesso episcopale. Oggetto di costanti cure da parte dei pontefici sino al VII secolo, dopo un breve periodo di abbandono limitato alla sua funzione di residenza papale, trasferita sul Palatino con Giovanni VII (705-707), fu interamente restaurato da papa Zaccaria (741/2) che in magnam penuriam eundem locum invenerat. L’area del complesso episcopale, dal punto di vista urbanistico, gravitava di fatto verso l’Esquilino che, attraversato alla fine dell’VIII secolo da più itinerari e costantemente oggetto di interventi di manutenzione e di restauro da parte dei pontefici ai numerosi complessi cultuali con funzioni e finalità differenziate, deve aver mantenuto almeno sino al IX secolo anche una presenza insediativa.
In contiguità, chiusa a nord dal grande complesso degli horti Sallustiani, la VI regione civile dell’Alta Semita aveva conservato nel Tardo Impero quel carattere di quartiere signorile più volte testimoniato nelle fonti letterarie ed epigrafiche e dai reperti archeologici. Diocleziano l’aveva dotata del grandioso impianto termale per la cui costruzione fu eliminata l’ultima distinzione orografica fra il Quirinale e il Viminale, mentre Costantino con la costruzione delle nuove terme aveva offerto all’aristocratico quartiere un luogo di piacere particolarmente elegante. Tutto ciò era venuto naturalmente a mancare: la zona settentrionale rimase per tutto il Medioevo caratterizzata da ampie zone di verde, ampliatesi anche nella contigua area settentrionale del Campo Marzio, collis hortulorum era infatti denominato il Pincio, ove nella prima metà del VI secolo era ancora pienamente agibile, come hanno dimostrato le recenti indagini archeologiche, la domus Pinciana scelta come residenza da Belisario. Nei pressi delle Terme di Diocleziano conosciamo già dal tempo di papa Onorio (625-638) la presenza di una domus cum horto suo, e analoghe unità edilizie, tutte poste in questa IV regione ecclesiastica, costituirono la dote assegnata da Sergio I (687-701) al titulus sanctae Susannae. Di particolare interesse la definizione tipologica delle domus, dotate costantemente di uno spazio aperto, che diverrà costante nei secoli successivi, e che di recente ha avuto, come vedremo più avanti, un suo riconoscimento archeologico. Potrebbe inoltre essersi mantenuto quel carattere commerciale che nel periodo classico aveva caratterizzato le propaggini meridionali del colle Viminale, volendo dare valore di testimonianza in tal senso al rinvenimento nell’area della Banca d’Italia sulla via Nazionale, della bottega di un marmoraro, identificabile come un possibile centro di produzione della suppellettile marmorea così largamente utilizzata negli edifici di culto.
Quantunque servita nell’organizzazione ecclesiastica da tre istituzioni titolari, la regione deve aver subito una riduzione sensibile della popolazione residente, dato in verità percettibile solo nei limiti della lettura archeologica delle vicende insediative di una ricca domus, oggi nella moderna piazza dei Cinquecento, che sul finire del V secolo vide ritagliare nel suo spazio una abitazione ridotta, una piccola domus a sua volta abbandonata nel corso del VI secolo, anche se il complesso continuò a essere abitato in alcune sue parti da una popolazione che ancorché rarefatta non abbandonò la zona, secondo quanto l’esistenza nelle vicinanze di una chiesa che si vuole identificare con S. Agata in Esquilino, fa supporre. Come pure sembra ragionevole supporre una continuità insediativa nella popolare Subura, verso la quale volge la sua attenzione il pontefice Gregorio Magno che riconsacra al culto cattolico la chiesa dei Goti dedicandola alla martire siciliana Agata. Le vie che l’attraversano segnano alcuni percorsi ancora pienamente attivi alla fine dell’VIII secolo.
Isolata dall’alto muro del Foro di Augusto, si apriva la vasta zona monumentale della città che nell’arco cronologico dal VII al IX secolo è sistematicamente occupata da strutture a carattere religioso-assistenziale con le quattro diaconie dei Ss. Sergio e Bacco, dei Ss. Cosma e Damiano, di S. Maria Antiqua, di S. Adriano, in stretto parallelo con il carattere acquisito dal Foro Boario, anch’esso sede delle tre istituzioni diaconali di S. Maria in Cosmedin, di S. Teodoro, di S. Giorgio in Velabro. Nell’area dei fori si aggiungono ulteriori istituzioni religiose cioè le chiese dei Ss. Pietro e Paolo, ubicata in via Sacra iuxta templum Romae, di S. Abacuc nel Foro di Cesare e il monastero di S. Basilio nel Foro di Augusto. Un’area che aveva mantenuto la sua centralità servita da assi stradali di assidua percorrenza, se ben quattro itinerari del codice einsiedlense attraversano infatti l’antico spazio politico, assumono come punti di riferimento i suoi monumenti, i suoi archi onorari, le sue statue e si dirigono verso i suoi nuovi edifici pubblici. La transitabilità delle antiche piazze forensi, che poteva essere unicamente supposta sulla base di una logica deduzione dal testo scritto, è stata oggi pienamente confermata dalle indagini archeologiche. Il paesaggio urbano di questa parte della città offre una sequenza insediativa che vede sino all’VIII secolo una continuità nell’assetto topografico degli spazi aperti. Essi mantengono la medesima pavimentazione, segnata unicamente dal tracciato definito di alcuni percorsi, come quello che nel Foro di Nerva riproponeva l’andamento dell’Argiletum repubblicano. Quindi da un momento che si è voluto stabilire all’inizio del IX secolo, si è attuato un programma di ristrutturazione urbanistica che vede la costruzione di case, alcune delle quali, come quelle del Foro di Nerva, appartenenti ai ceti più elevati della popolazione, mentre nel Foro di Cesare sarebbero alloggiate abitazioni più povere. Un quartiere abitativo nuovo, che può trovare piena rispondenza nella documentata attività dei cantieri papali, rivolti in quell’arco di tempo non solamente, come si è detto, alla logica attuazione dell’edilizia religiosa, bensì aperti anche alla manutenzione e rimessa in uso delle strutture pubbliche e risponde a un piano urbanistico, non è chiaro quanto progettato o quanto spontaneo, che vede la città concentrarsi man mano nell’area racchiusa dall’ansa del Tevere, venendo a popolare il quartiere del Campo Marzio. Ai suoi margini, un altro grande cantiere di scavo di questi ultimi anni, quello che ha interessato l’area della Crypta Balbi, ha colto un precoce cambiamento del paesaggio con l’abbandono, già dal V secolo, degli edifici classici e il successivo inserimento in essi di impianti artigianali, l’apertura di nuovi tracciati stradali e l’occupazione degli spazi da parte di strutture a carattere religioso.
Durante il suo pontificato Bonifacio IV (608-615), in anni di estrema difficoltà – famis, pestilentiae et inundationes aquarum gravissime fuerant stigmatizza il Liber Pontificalis – ottiene dall’imperatore Foca la disponibilità del Pantheon e lo dedica alla Vergine e a tutti i martiri. L’intervento riveste una doppia valenza: da un lato esso rappresenta il primo caso a R. di utilizzo delle strutture e dello spazio di un tempio ancora in elevato. L’esempio avrà un seguito nei secoli successivi con le chiese di S. Maria de Secundicerio nel tempio di Portunno e di S. Stefano Rotondo o delle Carrozze nel Tempio Rotondo, ambedue nel Foro Boario, di S. Basilio nel tempio di Marte Ultore al Foro di Augusto, di S. Lorenzo in Miranda nel tempio di Antonino e Faustina, di S. Urbano alla Caffarella nel tempio sulla via Appia. Inoltre è possibile cogliere nella dedica dei primi edifici di culto alla Vergine una volontà da parte dei pontefici committenti di segnare il territorio con poli di forte pregnanza religiosa. Si è già vista la valenza sul piano politico e su quello urbanistico della fondazione sistina di S. Maria ad Praesepe, la si può cogliere nell’istituzione giovannea di S. Maria Antiqua a controllo delle pendici del Palatino e del Foro Romano nel periodo dell’occupazione sistematica dell’area da parte della Chiesa, la si deve attribuire anche alla seconda chiesa in ordine di tempo, questa di S. Maria ad Martyres, con il suo accesso volto verso il nuovo quartiere della R. altomedievale, come alla Vergine sarà dedicata la chiesa del monastero benedettino sul Campidoglio, S. Maria in Capitolio, già esistente durante il pontificato di Gregorio III, chiesa che nei secoli del pieno Medioevo avrà uno stretto collegamento con la sede dell’autorità comunale.
Tornando al Campo Marzio è necessario volgere l’attenzione all’area suburbana, al di là dell’ansa del Tevere, ove i secoli dell’Alto Medioevo segnano una delle trasformazioni del territorio di più forte incidenza sulle vicende urbanistiche della città. Già i lunghi e difficili lavori per la realizzazione del grande santuario costantiniano che portarono non solo all’interramento della ricca necropoli bensì anche allo sbancamento di una parte del colle per consentire la costruzione del nuovo edificio in modo che la proiezione dell’arco absidale corrispondesse con la tomba venerata, impressero un carattere del tutto nuovo a quel territorio ritenuto sin dall’antichità povero e inospitale, un carattere che nella ininterrotta continuità d’uso dell’area sino ai nostri giorni assume senza dubbio un valore emblematico. Nel volgere dei cinque secoli successivi intorno alla basilica e nello spazio a essa prospiciente sino al Tevere, un’intensa attività edilizia aveva dato luogo a un insediamento con fabbriche a predominante carattere religioso, ma nello stesso tempo anche civile per una popolazione residente e con larghi spazi recettivi per accogliere i pellegrini che sempre più numerosi giungevano ad Petri limina. Ben cinque monasteri si collocano immediatamente a ridosso della basilica in uno spazio privilegiato rispetto al santuario nella loro duplice funzione di servizio liturgico e di assistenza e cinque diaconie sono ubicate lungo gli assi stradali. Le quattro scholae peregrinorum facenti capo ai diversi gruppi etnici stranieri e con funzione primaria di accoglienza si dispongono sulla destra e sulla sinistra della basilica nel caso della schola Langobardorum e della schola Francorum e in asse con quest’ultima verso il Tevere si collocano la schola Frisonum e la schola Saxonum. Una schola cantorum era già stata istituita da Gregorio Magno cui è anche attribuita nei pressi la costruzione di un ospizio dedicato a s. Gregorio.
Seguono le chiese devozionali le strutture assistenziali, a cominciare dagli habitacula pauperibus voluti da papa Simmaco, sino agli xenodochia, oltre all’ospizio di S. Gregorio già ricordato e agli hospitales, gli edifici residenziali, le case di abitazione privata in verità individuate in numero assai limitato, ma che dovevano essere ben più numerose sia come comuni alloggi del popolo minuto che viveva delle diverse attività legate al santuario, sia forse già come residenza di ceti più agiati stando alla documentazione successiva, come con ogni probabilità non dovevano mancare spazi verdi a coltivo, sebbene la loro menzione ricorra in epoca più tarda. Si aggiungano infine i balnea e i servizi, nonché la presumibile esistenza di botteghe e attività artigianali al servizio della comunità. Alla fine dell’VIII secolo la basilica petrina appare, sul piano urbanistico, organizzata nei suoi spazi antistanti – cortina, gradinata, quadriportico – aperti e funzionali alla recezione e all’accoglienza, serviti dalla porticus Sancti Petri e nello stesso tempo ormai circondata da edifici a carattere sia religioso che civile, pubblici e privati, inserita dunque in uno spazio che aveva acquisito nei secoli il carattere di un nuovo quartiere urbano. Strutture tutte che venivano a costituire un vero insediamento urbano, un borgo che la costruzione della cinta muraria per volere del pontefice Leone IV fece assurgere a dignità di civitas.
Si protesse quindi quanto l’Urbs, cioè R., non era più in grado di salvaguardare, il sepolcro del primo vicario di Cristo; ma la tradizione romana era ancora viva: una delle epigrafi poste sulle porte delle mura metteva a confronto l’antica città di R. il cui ambito era stato tracciato con l’aratro con la nuova civitas bagnata dal sangue dei martiri. E la civitas di fatto venne, secondo le concezioni del tempo, a identificarsi con le mura acquisendo così il carattere di una vera città medievale anche se per molti secoli mantenne quell’aspetto di borgo della città di R. nel cui suburbio era nata. In occasione dell’assalto dei Saraceni dell’846 una parte delle soldatesche si diresse verso la basilica di S. Paolo sulla via Ostiense, ove fu respinta, ma il ripetersi delle incursioni convinse, un trentennio più tardi rispetto ai lavori per la difesa del borgo di S. Pietro, tra l’880 e l’882, il pontefice Giovanni VIII a intervenire provvedendo all’erezione di un circuito murario intorno al complesso, dando vita alla Giovannipoli, anche se sul piano urbanistico l’appellativo di polis ha valore puramente ideale e non corrisponde alla reale consistenza strutturale del complesso paolino.
Due borghi fortificati, idealmente collegati a protezione di R., come enfaticamente recitava il testo epigrafico affisso a una delle porte della civitas Leoniana: Ianitor ante fores fixit sacraria Petrus / quis neget has arces instar esse poli / parte alia Pauli circumdant atria muros / hos inter Roma est, hic sedet ergo Deus, due borghi con esiti differenziati sul piano urbanistico, per la centralità acquisita dalla civitas Leoniana, contro un isolamento sempre più accentuato della Giovannipoli. Con il pontificato di Leone IV si chiude la stagione dei grandi cantieri edilizi. Il circuito murario che cinge l’Urbs è in buone condizioni e si è ampliato collegando a esso la nuova civitas. In chiave di difesa anche il Tevere è stato dotato di sbarramenti e all’altezza della civitas il suo argine destro è stato rinforzato con un poderoso muraglione costruito con l’impiego di ben 12.000 blocchi di tufo. Gli acquedotti, almeno i quattro inseriti dai biografi nell’opera restauratrice dei papi, continuano a funzionare, come, ad esempio, testimonia la formazione nel X secolo di un nucleo abitato, con un oratorio e un mulino, nei pressi della Porta Maggiore, servito dalla Forma Claudia che garantiva l’approvvigionamento idrico al complesso episcopale del Laterano, come pure la Forma Sabbatina al servizio della Città Leonina e la Forma Virgo che garantiva il flusso idrico nel Campo Marzio. Rimane in dubbio, per mancanza di documentazione, il funzionamento delle formae Marcia, Tepula e Iulia che alimentavano parte dell’Esquilino e il Quirinale, mentre la Forma Traiana nel Trastevere all’inizio dell’XI secolo appare in rovina. Doveva pertanto sopperire al bisogno idrico la presenza di pozzi. Non disponiamo a tutt’oggi di un censimento generale delle riserve d’acqua esistenti nel Medioevo: ne conosciamo, ad esempio, attraverso gli scavi archeologici nell’area del Foro (Colini 1941) ovvero del Teatro Argentina (Mazzucato 1968-69) e attraverso la documentazione testuale con il puteus Probae nei pressi di S. Agata de Subura, ovvero con il pozzo all’interno delle Terme di Diocleziano, o l’altro pertinente a una casa nell’area dell’attuale piazza Navona, tutti definiti putei aquae vivae.
A partire dal IX secolo inizia un processo di forte ricaduta sul piano sociale e su quello del popolamento. È possibile infatti individuare sin da quel momento il formarsi e lo sviluppo di una nuova aristocrazia che inizia a incidere con la sua presenza sull’assetto urbanistico, con una sorta di lottizzazione delle aree, come ampiamente documentano le fonti testuali del pieno Medioevo e, grazie ai più recenti cantieri archeologici, confermano i primi dati materiali. La città, che aveva nel tempo sostituto la suddivisione augustea in 14 regioni con quella ecclesiastica in 7, mostra attraverso la documentazione notarile dei secoli X e XI una ulteriore spartizione in 12 regioni di origine forse più antica, ma di difficile definizione sul piano topografico (Hubert 1990). Il paesaggio romano presenta ormai una chiara alternanza di aree abitate e di spazi disabitati, ma non di interi settori, poiché, se è vero che le zone più popolate risultano essere nell’ansa del Tevere, nella Città Leonina, nel Trastevere, nonché intorno a S. Maria Nova e nei Fori Imperiali, in questi ultimi documentate anche dai ritrovamenti archeologici, almeno un quarto delle proprietà immobiliari private oggetto di compravendita rimangono ancora nella parte alta della città e vicino alla cinta muraria. Inoltre, sui colli del Palatino e dell’Aventino prendono dimora alcune delle più importanti famiglie: sul Palatino, ove tra il IX e il X secolo sono attestati solamente i due monasteri di S. Cesareo e di S. Maria in Pallara, costruiscono la loro dimora fortificata i Frangipane, mentre nella parte meridionale, verso il Circo Massimo, si attestano i de Papa e gli Stefaneschi- Ildebrandi; sull’Aventino, occupato nei secoli dell’Alto Medioevo dai complessi religiosi titolari e monastici, il principe Alberico aveva la sua casa natale che concede per costruire un monastero dedicato alla Vergine.
Sul Quirinale presso i due cavalli marmorei e forse nelle terme costantiniane sono segnalati nel X secolo i Crescenzi, di cui troviamo un ramo proprietario di alcune case impostate nei ruderi delle Terme Alessandrine, mentre sulle pendici del colle si stanziano quei nobiles de via Lata, dove avevano la dimora principale, antenati dei Colonna e presenti a R. forse già dall’VIII secolo. Nel Campo Marzio, segnato sino al IX secolo, sulla base dei documenti e dei dati monumentali ancora visibili, quasi unicamente dalle strutture a carattere religioso, ancora una volta con le istituzioni titolari e le diaconie che peraltro sottintendono la presenza di popolazione residente, si attua uno sviluppo sul piano abitativo che nel X secolo si coglie in parte già attuato. Di particolare interesse risulta essere il processo di rioccupazione di strutture di età classica documentato, ad esempio, nel complesso delle Terme Alessandrine, in una vasta area oggi occupata dalla sede del Senato della Repubblica. Alla fine del X secolo sono oggetto di rivendicazione di possesso, e quindi risalgono a epoca precedente, due chiese, un oratorio e alcune case, sia terrineae che solaratae, quae sunt aedificatae in thermis Alexandrinis. Le case risultano fornite di spazi aperti coltivati a orto o anche incolti, utilizzano ruderi, criptae come stalle, come fienili, come depositi, e alcune di esse, di cui resta una torre inglobata nell’edificio di Palazzo Madama, saranno proprietà dei Crescenzi, che nei secoli vedranno notevolmente ampliati i loro possessi nell’area. Dell’impianto termale sono segnalati, come ancora in elevato, le colonne e gli archi, e in taluni casi ciascuna unità edilizia risulta undique a muro antiquo circumclusa. Nella medesima zona permangono terreni non costruiti e particolare interesse riveste lo spazio interno dello stadio di Domiziano rimasto nei secoli costantemente libero da costruzioni, il campus Agonis, che dette luogo all’odierna piazza Navona. Anche il campus è donato alla fine del X secolo al monastero di Farfa e lo si descrive come chiuso su tre lati da strutture murarie con ambienti di uso – criptae quae vocatur Agones – e sul quarto lato da una via publica. Un ulteriore quadro di rioccupazione sistematica a uso abitativo si riscontra nel Colosseo, con la compravendita anche in quel caso di criptae, oggi documentate anche sul piano materiale dalle recenti indagini archeologiche, o ancora nel complesso di Balbo, già menzionato, con la formazione di un nucleo fortificato, il castrum aureum, anch’esso organizzato con una chiesa collegata a una realtà insediativa.
Lo sviluppo della città “in riva sinistra”, cui non dovette essere estraneo l’influsso della sempre crescente frequentazione del santuario petrino e lo stanziamento multietnico della civitas, trova un ulteriore punto di aggregazione sull’altura menzionata nei documenti a partire dal Duecento come Monte Giordano. Il sito, elevato e pertanto al sicuro dalle esondazioni del Tevere, si configura come avancorpo strategico della città a controllo del ponte e dell’accesso alla civitas Leoniana e pertanto è plausibile pensare a una sua precoce occupazione sul piano insediativo e fortificazione anche in epoca anteriore alla metà del XII secolo, in cui compare nei documenti come fortilizio di un tale Giovanni di Roncione, signore di Riano Flaminio dal quale all’epoca prendeva il nome, per poi passare alla famiglia degli Orsini. Nel Duecento il piccolo recinto conteneva una torre principale e una seconda torre distinta con il nome di faiolum, un palazzo con una loggia, sottostante la torre principale, e due casupole. A differenza di quanto è stato detto per l’edilizia abitativa dei primi secoli dell’Alto Medioevo, almeno a partire dal tardo IX secolo l’esegesi dei documenti testuali consente di ricostruire un quadro sufficientemente esauriente del costruito (Hubert 1990).
L’unità immobiliare privata è indicata costantemente nei documenti con il termine domus. Le domus sono distinte in terrineae, a un solo piano, ovvero solaratae, cioè a due, e procedendo nei secoli, anche a più piani, senza che si possa per il primo periodo unicamente da tali aggettivi desumere il grado sociale dei possessori. In relazione alla domus poteva essere una curtis, uno spazio aperto anche cum puteo, a volte di proprietà comune tra abitazioni vicine, ovvero l’edificio poteva essere arricchito da un portico prospiciente la strada, come la domus rinvenuta recentemente a ridosso del Foro Transitorio. Sul retro della casa poteva trovarsi l’hortus, con alberi fruttiferi. Alla fine dell’XI secolo l’abitazione dell’aristocrazia romana assume spesso la definizione di domus maior ovvero di curtis, attribuendo a quest’ultimo termine un ulteriore significato, quello di grande spazio aperto, funzionale ad accogliere anche assemblee di giudici e di nobili.
Se, sulla base della documentazione esistente, è possibile cogliere dal tardo IX all’XI secolo una certa attività edilizia nel campo residenziale privato, confermata oggi dalle indagini archeologiche segnatamente nei Fori Imperiali, assai limitate, rispetto ai secoli precedenti, sono le costruzioni nel campo dell’edilizia religiosa (Coates-Stephens 1997). In verità le maestranze non dovettero mancare e dovettero essere anche in grado di affrontare la costruzione di chiese di rilevante importanza come la Basilica Lateranense, ricostruita sotto il pontificato di Sergio III (904-911) a seguito del crollo verificatosi negli ultimi anni del IX secolo, ovvero di realizzare un gruppo di monasteri e di chiese monastiche, nonché di erigere la chiesa di S. Adalberto (attuale Ss. Bartolomeo e Adalberto) sull’isola Tiberina sorta per committenza dell’imperatore Ottone III (983-1002), fornita di cripta a oratorio, di una tipologia nella quale si sono voluti riconoscere influssi d’Oltralpe (Guidobaldi et al. 1999) e nello stesso tempo adattare alcuni superstiti templi classici a edifici di culto.
L’XI secolo, come è stato più volte rilevato, segna per R. un momento di passaggio da una egemonia della classe aristocratica e da una costante ingerenza imperiale che avevano caratterizzato il X secolo e i primi decenni del successivo, a un nuovo riconoscimento del ruolo del papato con Alessandro II (1061-1073) e soprattutto con Gregorio VII (1073-1085) e l’abrogazione dell’investitura imperiale dei papi a seguito della vittoria nella contesa con Enrico IV, ma segna purtroppo anche un episodio luttuoso e con conseguenze ancora non sufficientemente valutate. Nel 1084 infatti si abbatteva sulla città il saccheggio di Roberto I il Guiscardo. Le indagini archeologiche recenti nel centro politico dell’età classica hanno evidenziato fenomeni di collasso delle strutture di servizio, come le fognature, attribuibili a questo periodo, come pure una fase di abbandono nell’edilizia residenziale di età carolingia e comunque dovettero venire meno i cantieri di restauro e manutenzione se molti edifici cultuali furono interessati dal grandioso programma di nuove costruzioni portato avanti da Pasquale II (1099-1118) e da Callisto II (1119-1124).
Il XII secolo che vede la città rinnovarsi sul piano architettonico è però ancora caratterizzato dalle forti tensioni fra papato e impero, con la conseguente contrapposizione fra papi e antipapi e l’alternarsi dello schieramento a favore degli uni e degli altri delle famiglie nobili romane. In contrasto con il papato si pose anche il comune, fondato nel 1143 dai cittadini romani proprio in contrapposizione a Innocenzo II (1130-1143). Accanto ai muratori e ai carpentieri ferve l’attività dei marmorari rivolta alle opere scultoree e alla decorazione policroma segnatamente degli edifici di culto. È noto che il primo marmoraro romano di cui si conosca il nome sia il magister Christianus, attestato nella seconda metà del X secolo, ma è con questo secolo che alcune famiglie si trasmettono il mestiere per via ereditaria; se ne conoscono tra il XII e il XIII secolo almeno cinque o sei oltre a quelle discendenti dal magister Cosmas (da cui i Cosmati) e dal Vassalletto. Dal 1227 sono attestati i magistri edificiorum Urbis, cui compete la vigilanza su quanto attiene l’edilizia privata, la viabilità, l’igiene, l’uso e l’abuso del suolo pubblico, e alla fine del secolo sono noti anche i submagistri, nei quali spesso vengono riconosciuti muratori carpentieri e marmorari (Lori Sanfilippo 2001).
Sul piano architettonico le nuove costruzioni rappresentano una renovatio tipicamente romana, lontana dai nuovi dettami linguistici del romanico, una renovatio che recupera gli impianti basilicali scanditi da colonne dell’età tardoantica con l’inserzione di alcuni elementi funzionali come i pilastri che segnano, ad esempio, l’attacco del presbiterio, monoabsidato e leggermente rialzato dal piano dell’aula e la schola cantorum che, funzionale alla celebrazione dell’officio quotidiano, diviene obbligatoria in base alle nuove norme liturgiche. Elemento nuovo e pressoché costante è la torre campanaria che avrà un tale sviluppo da incidere profondamente del paesaggio romano, se la pianta di Antonio Tempesta del 1593 ne rappresenta un centinaio. Quasi in parallelo le dimore della nobiltà romana si arricchiscono di torri: ubi tanta seges turrium, tot aedificia palatiorum, quod nulli hominum contigit enumerare, questa era la visione di R. quale appare al magister Gregorius (Mirabilibus Urbis Romae, 1), che intorno al 1200 ammira la città dall’alto di Monte Mario.
E. Hubert si è interrogato sulla funzione e sul valore da attribuire agli edifici denominati nelle fonti testuali come turres, se cioè abbiano avuto in origine una funzione unicamente militare, ovvero duplice cioè abitativa e di difesa, ovvero siano da considerare edifici che rappresentino simbolicamente lo stato di potere del proprietario. L’analisi dei documenti consente di riconoscere di volta in volta forse più di un valore, anche se, lette in relazione alla posizione topografica e alle vicende nelle quali furono coinvolte, le dimore turrite appaiono nella maggioranza dei casi svolgere una funzione di controllo territoriale. Elemento unificante sembrerebbe all’origine essere la loro fondazione al di sopra di strutture antiche come tra le molte altre indicano, ad esempio, la torre dei Cerrotani costruita nel 1076 sopra una cripta antiqua vicino alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, ovvero la torre degli Adelmari eretta nel medesimo periodo sfruttando un arcus antiquus non lontano dal monastero di S. Ciriaco in via Lata. Sul Campidoglio dal 1144 è documentata l’esistenza del Palazzo Senatorio in stretta connessione funzionale con la chiesa benedettina di S. Maria in Capitolio, ove il 20 maggio di ogni anno si celebrava la messa in ricordo dell’istituzione del comune avvenuta, come già ricordato, nel 1143.
Al Laterano e al Vaticano erano le due residenze papali: la prima quale sede ufficiale del pontefice fece parte del complesso episcopale fin dalle origini all’indomani della pace religiosa e subì nei secoli grandiosi restauri e ristrutturazioni, pur rimanendo sempre nel medesimo sito a nord della basilica; la seconda, se si escludono gli episcopia voluti da Simmaco (498-514) con carattere, si crede, prevalentemente assistenziale, fu istituita per la prima volta da Leone III (795-816) e localizzata sul lato meridionale della basilica di S. Pietro. Una nuova residenza, questa volta ubicata sul lato settentrionale del santuario, fu commissionata da Eugenio III (1145-1153); nel 1151 il nuovo palatium doveva essere completato e nel medesimo anno era aggiunta al Palazzo Senatorio una nuova sala delle assemblee. È stata giustamente notata la contemporaneità dei due cantieri che rappresentarono in quel momento l’attuazione dei due maggiori progetti di architettura civile, funzionali alle due maggiori istituzioni a R., il papato e il comune (Gigliozzi 2003). Più tardi si devono a Innocenzo III (1198- 1216) lavori di ristrutturazione e di ampliamento descritti nei suoi Gesta: ut summus pontifex apud Sanctum Petrum palatium dignum haberet; il testo attribuisce al pontefice la costruzione di molteplici edifici fra cui la cappellania, la camera e la cappella, la panetteria, la bottiglieria, la cucina e la marescalcia, le case del cancelliere, del camerario, dell’elemosiniere e del medico, il tutto entro un recinto fortificato. Le due residenze papali furono in seguito oggetto di numerosi interventi che trasformarono, in taluni casi radicalmente, i progetti attuati nel Medioevo. Con Innocenzo III si entra nel XIII secolo che vede la città arricchirsi di nuovi palazzi e di nuove chiese, anche se sul piano più strettamente urbanistico non si colgono trasformazioni di rilievo. Per i cantieri legati alla diretta committenza papale degne di menzione sono la costruzione dell’ospedale di Santo Spirito nel sito dell’antica schola Saxonum e la torre dei Conti, un omaggio del pontefice alla propria famiglia, collocata al centro delle proprietà che si estendevano sulle pendici sud-occidentali del Quirinale fino a Magnanapoli, ove l’altura era controllata dalla torre delle Milizie, che nel corso del Duecento fu rinforzata con l’aggiunta di due piani. L’ospedale era in diretto rapporto con l’area vaticana e testimonia la volontà di Innocenzo III di favorire il complesso petrino a scapito della sede del Laterano (Righetti Tosti-Croce 1996).
A partire dal XIII secolo palazzi e dimore signorili qualificano ormai la città e divengono punti di riferimento topografico. Infatti mentre ancora negli anni Quaranta del XII secolo l’Ordo Romanus di Benedetto Canonico codificava gli itinerari delle processioni papali che attraversavano la città, prendendo come punti di riferimento, come era stato per l’Itinerarium di Einsiedeln, monumenti classici, pochi decenni più tardi il percorso delle medesime processioni viene segnato da Cencio Camerario soprattutto con le nuove costruzioni, ovvero con terreni destinati all’edilizia, i casalini, e con la menzione dei relativi proprietari o con l’aggettivo qualificante l’edificio, come la domus quae est marmorata che il pontefice incontra poco dopo aver oltrepassato il Tevere. La forma Urbis del Medioevo è ormai delineata e questo sarà il paesaggio urbano che i pellegrini vedranno giungendo a R. nel 1300 in occasione del primo anno giubilare voluto da Bonifacio VIII. Un poema in endecasillabi, un itinerarium composto tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento ne traccia una suggestiva immagine: “Avevano camminato per giorni e settimane. L’ultima fatica era stata una leggera salita, poi un leggero falsopiano, e dall’alto di Monte Mario avevano visto infine Roma. Case fitte e basse, tetti spioventi di coppi, una selva di torri e campanili, macchie di verde, un’enorme cupola bassa, in lontananza colonne rovinate e cumuli di marmi e travertini, altre colline, un fiume largo e terragno al colore che raccoglieva nella sua ansa la zona più abitata: qualche raro ponte e quello più vicino, dall’alto, sembrava uscire da un enorme insolito castello, rotondo, sopra quadrato, e sopra ancora era una torre coronata dalla statua di un angelo. Ancora più lontani ampi spazi di verde e tutt’intorno le mura” (Miglio 1998).
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