L'Europa tardoantica e medievale. L'Europa del Nord e i territori non romanizzati. L'area scandinava
Assumendo l’ottica delle fonti classiche e tardoantiche, l’area racchiude per definizione tutte le terre collocate agli estremi margini settentrionali del mondo conosciuto, laddove una linea invisibile segna la demarcazione con la Germania, sulla riva sinistra dell’Elba, e con le terre nelle quali si apre la foce della Vistola, e racchiude tutte le regioni nelle quali il Sole non tramonta per lunghi periodi dell’anno.
Tacito limita le proprie conoscenze alla popolazione dei Suiones, corrispondenti forse agli Svedesi, e li dice riuniti in civitates, genericamente collocate in mezzo all’oceano, ai limiti delle acque immobili del mare artico (mare, pigrum ac prope immotum, paragonabile al “mare coagulato” descritto da Pytheas nel IV sec. a.C.), che costituisce una barriera invalicabile e rende questo settore del mondo, perennemente illuminato dal Sole, libero dal pericolo di aggressioni nemiche. L’abilità nelle pratiche guerriere, la facilità con cui scoppiano risse e tumulti, obbligando a far mettere le armi sotto custodia in tempo di pace, e la conoscenza della navigazione, praticata con navi dalla doppia prua, un solo ordine di remi e prive di vele, sono le caratteristiche salienti di queste tribù, accomunate ai Germani (Tac., Germ., XLIV, 2-3; XLV, 1). Dal II sec. d.C., in cui Claudio Tolemeo riproduce all’altezza del 19° parallelo un gruppo di quattro isole chiamate Scandia, a est del Chersoneso Cimbrico (odierna Danimarca), e abitate da Levoni, Daucioni, Chedini o Cedini, Diuthe, Favoni e Firesi (Geogr., II, 10), al VI secolo, nel quale secondo il modello letterario greco-romano viene ricostruita la genesi di alcuni dei principali gruppi etnici stanziati entro le province dell’ormai decaduto Impero d’Occidente, cresce l’interesse per queste terre, ritenute ad esempio la sede ideale ove porre l’origine dei Goti. Iordanes ne parla (Get., IV), ricavando probabilmente il dato dalle saghe tribali, che integrano la memoria dello stanziamento goto nella Pomerania e nella bassa valle della Vistola (cultura di Wielbark), nel I e II sec. d.C., con il mito di una loro provenienza, peraltro ora smentita dalla ricerca archeologica, dalla Scanzia insula, chiamata a loro ricordo anche Gothi-Scandza (isola svedese di Gotland). Nel medesimo concetto geografico di Scanzia o Scandia rientra pure, per semplice sovrapposizione d’identità, tutta la Svezia centro-meridionale. La particolare forma a “foglia di cedro”, un grande lago nell’entroterra (il bacino di Vänern o Vätter), con emissario nel fiume Vagi, la barriera dei ghiacci, che racchiude in una morsa le inospitali regioni settentrionali, e l’alternarsi della luce solare al buio notturno, in periodi della durata di quaranta giorni costituiscono i segni distintivi di questa grande “isola”.
Nei settori abitati si riconoscono le gentes degli Adogit, all’estremo Nord, i Crefenni, insediati nelle paludi e dediti solo alla caccia, i Suethans, provetti cavalieri che intrattengono relazioni commerciali con i Romani vendendo le pelli di martora, i Thesti, i Vagoth, i Bergio, gli Hallin e i Liothida, distribuiti nelle pianure, gli Athelnil, i Finnaithi, i Fervir e i Gautigoth, noti per la loro bellicosità, gli Evageri e gli Othingi, abitanti nelle caverne poste in luoghi ben difesi da erti pendii o stretti passaggi rocciosi, gli Ostrogothi, i Raumarici e i Raugnarici, e ancora i Finni, i Vinoviloth e i Suethidi, rinomati per la loro mitezza, i Cogeni, affini ai Dani e riconoscibili per la particolare altezza degli individui, per arrivare infine ai Granni, agli Aganzi, agli Unixi, agli Ethelrugi e agli Arochiranni (Iord., Get., III). I nomi probabilmente non vanno riferiti a etnie diverse, salvo distinguere i Finni, di provenienza uralica, ma a raggruppamenti tribali, distribuiti negli ampi territori della Penisola Scandinava. Procopio di Cesarea completa il quadro, parlando di Thule e dei costumi degli Scritifini – forse identificabili con i Crefenni ricordati da Iordanes e con gli Scritobini di Paolo Diacono (Hist. Lang., I, 5) –, abitanti delle foreste, dove praticano la caccia, e tenacemente legati al culto di Ares (lo scandinavo Tyr) e degli elementi fisici divinizzati (in particolare il cielo, l’aria, la terra e il mare), per i quali celebrano sacrifici cruenti, immolando anche i prigionieri catturati in battaglia o nelle scorrerie (Procop., Bell. Goth., II, 15). Thule è la seconda denominazione nota, sin dal IV sec. a.C., per indicare le terre oceaniche a est delle Isole Britanniche, con particolare riferimento alla Norvegia e alle Shetland, dove il navigatore greco Pytheas di Marsiglia ode per la prima volta pronunciarla dalla popolazione isolana, in riferimento al porto in cui era approdato.
Nonostante la grande distanza e la difficoltà di mantenere per lunghi periodi collegamenti rapidi e sicuri fra le coste scandinave, le isole baltiche, da un lato, e i Paesi mediterranei, dall’altro, nel III e soprattutto a partire dal IV sec. d.C., le regioni della Scandia e di Thule escono dall’isolamento nel quale erano relegate rispetto alle province dell’Impero romano. Nel mutevole mosaico dei gruppi etnici germanici e mongoli, in continuo movimento attraverso la Germania e la Boemia verso le valli del Reno e del Danubio, il bacino del Baltico si configura come un’area relativamente stabile, dove i rigori del clima, le condizioni del mare, talora difficili da affrontare, e la disponibilità di risorse naturali in ampi territori, appartati ma accessibili (ad es., le isole danesi, fra cui quelle maggiori di Zealand, Fionia, Lolland e Møn, e le svedesi Öland e Gotland), consentono, sia alle popolazioni locali sia ai nuclei evacuati dalle zone d’origine sul continente, nuove possibilità di stanziamento e l’occasione per ricostituirsi una sede. In questo quadro viene coinvolta anche la penisola dello Jutland (Danimarca), culturalmente da ritenersi parte integrante dell’area scandinava.
Il movimento non avviene quindi da nord verso sud, come sinora affermato, ma in direzione opposta e per tutto il IV e V secolo segue quello delle merci di pregio importate dalle province romane, in cambio di pellicce, legname e ambra, oppure ivi razziate e poi, tramite diversi passaggi, rivendute negli approdi scandinavi, a cominciare dai fiordi norvegesi di Trondheim (il punto più settentrionale dove sia stata rinvenuta ceramica acroma di produzione romana), di Vang (Slidrefjord, dove è stato trovato un vaso di bronzo con la dedica di Aprus et Libertinus a un tempio), di Stavanger (Boknafjord) e di Oslo (vasellame e corni potori di vetro, coppe scanalate di bronzo), così come da Fycklinge (Svezia centrale; vaso di bronzo ageminato d’argento e rame, dono di Grannus Ammillus Constans ad Apollo), dalla regione di Stoccolma (vasellame di bronzo) e dall’isola di Gotland (sigillata D), con gli oggetti di maggiore pregio collocati nelle tombe dei capi. I canali sono i medesimi di quelli seguiti dalla diffusione dei denari e degli aurei romani (gruzzoli dalle fattorie danesi di Dalshøij e di Sorte Muld), la cui presenza sino in Polonia (25 tesoretti, per oltre 10.000 monete) e in Russia (ca. 70 tesoretti, per più di 11.000 pezzi) si deve forse in larga parte al versamento annuale, previsto da Roma e poi da Bisanzio, di somme di denaro alle tribù germaniche federate per garantirne la fedeltà all’Impero, impiegarle nella difesa della frontiera o nell’occupazione delle zone limitanee scarsamente popolate, oppure semplicemente dissuaderle dall’attuare incursioni.
In questo stesso periodo, per influenza degli alfabeti greco ed etrusco, mutuati dalla cultura retica su tutto l’arco alpino nord-orientale, sino al confine danubiano con le terre germaniche, si diffonde in quest’ampia area geografica l’alfabeto runico, limitato nell’uso alle iscrizioni celebrative e funerarie. La sua conoscenza, posseduta da una percentuale ristretta della popolazione (scalpellini, sacerdoti, talvolta poeti e prosatori), e l’insieme delle occasioni nelle quali essa viene richiesta tendono a qualificare la capacità di scrivere come un gesto sacrale, rappresentato dal richiamo delle rune da parte di Wodan al momento della sua morte rituale, appeso alla quercia sacra di Yggdrasill, e spesso erroneamente confuso e interpretato come l’ultimo gradino di un processo iniziatico riservato a pochi eletti, dove ogni runa viene caricata di un valore occulto, mistico e magico in realtà mai posseduto, al di là del peso che nella società può far acquisire alle pochissime persone, fra tanti, in grado, letteralmente, di disegnare i suoni e di riportarli alla vita. Pertanto, rispetto alla relativa semplicità con cui, ancora nella Tarda Antichità, nel mondo greco-romano si considera la capacità di leggere e scrivere nell’ambito della vita quotidiana, acquisisce, per uno scandinavo (norvegese Norseman, “uomo del Nord”), grande importanza anche la sola apposizione graffita del proprio nome, scegliendo, fra le occasioni, la preparazione della stele a segnacolo della propria sepoltura e, dal X e XI secolo, la visita in pellegrinaggio di un santuario cristiano (esempi nelle catacombe di S. Sebastiano a Roma e nella grotta di S. Michele Arcangelo sul Monte Gargano).
La scarsa alfabetizzazione è un riflesso dell’organizzazione della società dei Norsemen, che fra il V e il IX secolo appare impostata su una figura di vertice, sia essa un comandante militare (tanto di soldati quanto di una o più navi) o un re, in una forma analoga a quella indicata dalle fonti latine per i capi dei gruppi germanici, chiamandoli rispettivamente duces e reges e aventi i referenti divini in Wodan o Odhinn (Odino), assimilato a Mercurio (da cui il dies Mercurii, mercoledì, divenuto in ingl. Wednesday) e affiancato a Donar o Thor, dio della tempesta affine a Giove (con il dies Iovis, giovedì, reso con l’ingl. Thursday), e in Tiwaz o Tyr, simbolo dell’ordine supremo e della legge. Le loro tombe si compongono di un tumulo di terra e pietre, analogo o corrispondente a quelli eretti nelle zone pianeggianti delle regioni settentrionali per riuscire a scorgere in anticipo il sorgere del Sole, alla fine del periodo del buio diurno. Il tumulo è sovrapposto a una camera sepolcrale, costituita da un vano di legno (Jutland) o dallo scafo di un’imbarcazione, con analogie, anche nei ricchi corredi, che agli inizi del VII secolo permettono di accostare il sepolcro anglosassone di Sutton Hoo alle tombe svedesi di Vendel, di Valsgärde e della regione dell’Uppland, lasciando ipotizzare frequenti contatti commerciali e culturali fra le due terre. In una fascia intermedia si collocano soldati, mercanti e contadini, alcuni dei quali benestanti al punto da potersi permettere una tomba analoga a quella dei loro capi (sepolcreti di Lougsgård, nell’isola danese di Bornholm, di Kyndby e di Bildsø, nello Zealand occidentale), e al livello inferiore i servi.
Le abitazioni si articolano in uno o più vani affiancati a pianta rettangolare, le cui dimensioni variano a seconda della necessità di ospitare all’interno il bestiame (pecore e maiali, ma anche capre e bovini) o di immagazzinare le derrate (isola di Bornholm). Un’intelaiatura di travi di legno, prevalentemente di quercia, con le estremità scolpite a foggia di animali o di mostri nelle dimore più ricche, costituisce il sostegno per il tetto a doppio spiovente, allo scopo di favorire lo scivolamento a terra della neve, e per le pareti, costituite da un nucleo in argilla steso su graticci e rivestito da rami e assi di legno, accostati l’uno all’altro o sovrapposti. Se le fattorie appaiono distribuite nelle campagne, collocandosi su un pendio riparato dal vento e a poca distanza da un corso d’acqua, da un lago o da un bosco, una serie di piccoli fortilizi, nei quali ritirarsi all’occorrenza di un’incursione, vengono costituiti, soprattutto nel VI secolo, nei punti elevati. La protezione è assicurata direttamente dalla presenza di balze rocciose e da terrapieni che racchiudono la sommità dell’altura, comprendendo all’occasione una sorgente e lo spazio necessario per consentire l’accoglienza di uomini e animali (Gamleborg, nell’isola di Bornholm). Per trovare le tracce di sistemi di fortificazione più complessi bisogna attendere la seconda metà del VII secolo, con la costituzione del Danevirke, un sistema di terrapieni, valli e fossati, realizzato per la lunghezza di 15 km a sbarramento del punto più stretto dello Jutland, tra il porto baltico di Haithabu e quello di Hollingstedt, sul Mare del Nord (Schleswig-Holstein, Germania). Concepito per la difesa contro gli attacchi dei Sassoni, viene ulteriormente rafforzato, nel 737 e nella metà del X secolo, con l’aggiunta di postazioni di legno e l’innalzamento delle barriere di terra, a contrasto delle spedizioni di conquista promosse nel 968 dall’imperatore Ottone I, e infine all’epoca del re danese Valdemar I (1157-1182), con la costruzione di settori di mura in laterizio.
La seconda metà dell’VIII secolo coincide con le prime notizie certe, riportate dalle fonti, dalle iscrizioni runiche sulle stele tombali e dalle saghe, su movimenti di navi e di equipaggi armati di Norsemen (i Northmen o Northmanni, nella forma latina), dalla Norvegia, di Dani o Danesi (i “pagani neri” delle cronache irlandesi, distinti dai “pagani bianchi”, ossia i Norvegesi), dallo Jutland e dalle isole maggiori del Baltico, e in generale di Vichinghi, diretti all’esplorazione e alla conquista dei gruppi insulari delle Shetland, delle Orcadi e delle Ebridi, sulla rotta già seguita da Pytheas, e con la contemporanea aggressione delle coste franche e britanniche (saccheggio del Dorset nel 780). Distinguendosi per la grande abilità nella navigazione, per la ferocia in battaglia e per la particolare versatilità nell’apprendere e trasformare i costumi e le abitudini delle genti sottomesse, le popolazioni dell’area scandinava si mettono in movimento alla volta delle terre dell’Europa occidentale e meridionale, percorrendole, devastandole e conquistandole nell’arco di quasi tre secoli. L’avvio della cristianizzazione delle regioni danesi e della Svezia centro-meridionale promosso dalle diocesi germaniche (missione di Ansgar, vescovo di Amburgo, a Birka, sul lago di Mälaren, presso Stoccolma, nell’829 e nell’852, e nel porto di Haithabu, nell’850) e l’integrazione, a partire dallo sbarco nel 795, delle colonie di monaci irlandesi in Islanda non riescono a frenare il traumatico impatto della potenza vichinga in piena affermazione. La nave diventa il cuore e l’elemento fondante della società di questo lungo periodo, dove, anche a detta degli emissari arabi (relazione di Ahmad ibn Fadlan, del 921/2), inviati a intensificare con queste popolazioni i contatti stretti a livello commerciale sin dalla fine del VII secolo, le qualità guerriere sembrano prevalere su tutto, assieme a uno spiccato senso per il commercio (penetrazione dei Variaghi lungo il Volga e sino a Costantinopoli), secondo un binomio già noto e sperimentato nel mondo classico mediterraneo.
Per affrontare al meglio le insidie della navigazione atlantica d’alto mare viene messo a punto un tipo di nave (il drakkar) diversa da tutte quelle conosciute al momento. Costruita in legno di quercia, con l’utilizzo di chiodi e cavicchi dello stesso materiale, salvo che nelle rifiniture, dove sono in metallo, ha la chiglia larga e lunga con una doppia prua, in grado di muoversi nei fondali bassi e sabbiosi delle coste del Mare del Nord e di opporre resistenza alle onde lunghe dell’oceano. Una sola fila di banchi per i rematori, protetta sulle murate da scudi rotondi di legno e cuoio rinforzati con metallo, corre lungo le fiancate, disponendosi con cadenza regolare. Un solo albero, al centro, sostiene la vela, quadrata, e all’occorrenza può essere rimosso, agevolando le manovre, eseguite quasi esclusivamente a forza di remi. Nelle saghe, come quella di Olaf Tryggvason (XI sec.), si parla di un grande drakkar costruito a Ladehammer (presso Trondheim) per volontà di re Olaf e dotato di 34 banchi per fiancata, tanto da meritare il nome di Lungo Serpente (Olaf Tryggvason, 95). Gli scavi degli ahu (“tumuli”) di Tune, Gokstad (Sandefjord, presso Oslo) e Oseberg offrono esempi di navi un po’ più piccole, con un numero di remi variabile da 17 a 21, su uno scafo di 23 m di lunghezza, fra i 5 e i 6 m di larghezza e circa 2 m di profondità. L’allestimento di grandi flotte comporta il problema della loro protezione a terra, nei periodi invernali. La soluzione si ottiene con la delimitazione di ampie aree con alti terrapieni, combinando il riparo offerto da questo genere di barriera a elementi naturali (l’istmo di una penisola o di un promontorio, corsi d’acqua, rupi e scogliere) e ricavando superfici in grado di ospitare sino a 300 navi e 6000 guerrieri (campo di Harald Dente Azzurro nell’isola di Wollin). Tali installazioni costituiscono in certi casi il presupposto per stanziamenti stabili, affiancati a quelli già formatisi attorno alle residenze dei capi e a ridosso dei punti di approdo maggiormente favorevoli delle coste scandinave, partendo da nuclei di piccoli villaggi e di fattorie. In contemporanea, a livello politico si pongono, fra il X e l’XI secolo, le basi per l’unificazione dei molteplici gruppi distribuiti nel territorio, costituiti dall’insieme di equipaggi riuniti sotto la guida di un comandante, e la creazione dei regni di Danimarca, Svezia e Norvegia, unificatisi in un’unica entità politico-territoriale nel 1397, con il trattato di Kalmar.
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