L'Europa tardoantica e medievale. La formazione dell'impero bizantino
Il processo di trasformazione dell’Impero romano nell’Impero romano orientale, detto “bizantino”, è caratterizzato dalla prevalenza degli interessi militari e della nuova aristocrazia legata all’esercito contro i ceti dirigenti tradizionali (senatori e curiali) legati alla grande e media proprietà fondiaria, prevalenza consolidatasi politicamente in una monarchia militare a carattere sacrale; dalla rivoluzione culturale costituita dalla obliterazione dei culti degli dei urbici a opera delle religioni universali, rivoluzione culminata nella egemonia del cristianesimo sulle altre forme religiose; dalla rottura della unità politica ed economica del Mediterraneo a seguito della conquista araba; dalla sopravvivenza della cultura antica nelle lingue di alta cultura del momento (latino, greco, armeno, siriaco) attraverso il cristianesimo e l’alta formazione retorica “bizantina”. La divaricazione civile fra le due parti del mondo romano, orientale e occidentale, e la perdita di conoscenza delle lingue “orientali” in Occidente, fu un processo temporaneo, culminato fra l’VIII e l’XI secolo, che sarebbe stato riequilibrato a favore dell’Occidente latino, con il movimento della colonizzazione delle città marinare italiane nel Levante e con le crociate: questa divaricazione ebbe minor influenza in Italia, in cui alcune regioni meridionali, specialmente Puglia, Calabria e Sicilia, furono profondamente ellenizzate nel ceto dirigente dal VII fino al XV secolo, con riflessi fondamentali per la storia dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano.
L’Impero romano, dalla sua formazione tradizionale all’avvento di Costantino come Augusto (25 luglio 306), era stata una entità politica di durata superiore alla maggior parte degli Stati contemporanei e sarebbe stato destinato a continuare come entità politica fino alla conquista ottomana di Costantinopoli -Nuova Roma nel 1453. Il sentimento e la convinzione di una tale continuità è costante nella storia dell’Impero romano d’Oriente. Michele Psello, l’uomo di cultura più noto della prima metà dell’XI secolo a Costantinopoli, nella sua Storia breve presenta la storia dell’Impero romeo come una continuità ininterrotta da Romolo, fondatore e primo re di Roma, a Basilio II (976-1025), in una serie successiva di 106 basileis, termine greco che può valere sia per il nostro concetto di re, sia per quello di imperatore. Per Psello la storia del suo “impero” era storia romana, cioè, in greco, romea, secondo il criterio adottato dalla curia papale già nel 1439 all’atto del concilio di Firenze, per distinguere l’imperator Romanorum (l’imperatore del Sacro Romano Impero) dall’imperatore “greco”, che tale termine rifiutava come riduttivo e pretendeva invece il titolo a lui proprio di imperator Romeorum. La tradizione pubblicistica e storiografica occidentale fin dall’VIII secolo ha adottato il termine “bizantino”, carico di pregiudizi culturali, politici ed ecclesiastico-religiosi. Si preferì denominare l’Impero orientale dall’antico nome della città imperiale, che si chiamava in realtà Costantinopoli Nuova Roma, riesumando il nome che i coloni megaresi avevano dato alla loro fondazione sulla via delle rotte commerciali del Mar Nero, per sottrarre all’Impero orientale la sua qualità “romana” cioè universale e per sancirne la condizione di regno locale. Con il termine Romània veniva invece indicato fin dal IV secolo l’Impero romano nella sua territorialità e nella sua identità politica e culturale. La cultura romea riteneva l’Impero romano fondazione voluta da Dio per unificare i popoli della terra in vista della incarnazione di Cristo, che aveva fatto dell’Impero romano l’impero cristiano, una sorta di immagine terrestre del regno celeste destinata a unificare e salvare tutti gli uomini. Gli storici moderni sono consapevoli della continuità e del mutamento che legano le varie fasi dell’Impero romano e della specificità dell’impero romeo specialmente dopo il VII secolo.
La suggestione esotica del termine Bisanzio deriva dalla centralità della imprendibile fortezza medievale che fu la città imperiale, con la sua cinta muraria dei tempi di Teodosio II e con il vallo fatto costruire da Anastasio I a 60 km di distanza, a prima difesa della penisola verso le pianure della Tracia: il nome fu dato alla città, sorta in un fiordo (il Bosforo) che sbocca sugli stretti fra Mar Nero ed Egeo, all’atto della fondazione verso il 660 a.C., da parte dei coloni di Megara. Venne assunto un toponimo di origine tracia per la città sul passaggio più agevole dall’Europa all’Anatolia. La città venne rifondata da Costantino nel 330 con il nome che spettava alle fondazioni imperiali, Costantinopoli, cioè il nome dell’imperatore in carica, ma come reduplicazione mistico-magica di Roma, perciò il suo nome completo, ancora usato come titolo del patriarca ortodosso là residente, fu Costantinopoli Nuova Roma (nome magico Anthousa, così come il nome magico di Roma era Flora). La città assunse progressivamente il ruolo di unico centro urbano di rilievo in quel che restava dell’Impero romano, poiché a partire dal VII secolo i maggiori centri demografici e culturali del Mediterraneo romano, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, Berito (Beyrut), Antiochia di Siria e, nel secolo VIII, anche Roma, sarebbero usciti dall’Impero orientale. La città prese pertanto a monopolizzare la vita politica, culturale e religiosa dell’Impero divenendone il centro unico in grado di tramandare ancora lo stile urbano delle città tardoantiche, fra il 628 e il 1453, quando la morte in battaglia sulle mura di Costantinopoli dell’ultimo imperatore romeo Costantino Paleologo conferì alla città e all’imperatore caduto una dimensione di mito fondante della identità nazionale neoellenica, culminata nel movimento politico della Megali Idea che portò alla disastrosa guerra greco-turca del 1922.
A cento anni dalla cesura del mondo mediterraneo a opera della conquista araba (632-640), l’evento epocale che secondo lo storico belga H. Pirenne (1922) aveva segnato la rottura fra Oriente e Occidente e la fine della storia antica – a preferenza delle invasioni barbariche che invece, secondo una vetusta tradizione storiografica, nel 476 avevano determinato la caduta dell’Impero romano d’Occidente –, una sostanziale continuità culturale unisce i popoli del Mediterraneo. Essi, differenti per lingue e tradizioni culturali, erano caratterizzati da modelli di vita sociale, di sfruttamento del suolo e del mare non dissimili fra loro. Al tempo stesso erano in conflitto, quanto a confessioni religiose, anche prima della conquista araba e della diffusione dell’islamismo: culti pagani di divinità locali, dei universali come Mitra, il Sole, Iside o Yahweh, il dio cristiano e il dio islamico, avevano segnato fasi successive della vita spirituale dei popoli del Mediterraneo, dominati peraltro dal mito politico della divinità del potere gestito da un dio in terra o da un suo rappresentante. Il cristianesimo stesso si era mostrato fonte di divisioni teologiche e dottrinali fin dai primi anni seguiti all’editto di Milano. La transizione dall’antichità al Medioevo, cioè il Tardo Antico, che con A.H.M. Jones (1971-83) collocheremo nel periodo 284-602, è un tema che da duecento anni appassiona la storiografia occidentale oscillante dal paradigma della “decadenza e caduta” dell’Impero romano del razionalista settecentesco E. Gibbon, alla “continuità e cambiamento” di A. Cameron (1995) dell’Inghilterra postcoloniale e postimperiale. La teoria della fine e del tracollo costituisce una sorta di vulgata storiografica, che si ripresenta in questi anni sotto la veste sociologica della teoria del collasso dei sistemi complessi. Ma negli ultimi decenni, sotto l’impulso dello sviluppo della ricerca archeologica e dell’analisi del territorio, si tende a sottolineare la continuità della cultura mediterranea nei suoi fattori antropologici e ambientali al di là dei cambiamenti politici; cultura materiale e modelli di insediamento non mutarono prima della rivoluzione economica dell’XI secolo.
Mutarono invece i ceti dirigenti e la suddivisione delle risorse prelevate per il funzionamento dell’esercito e della macchina burocratica. L’Impero aveva conservato una forma di unitarietà fino all’età dioclezianea (284-305), anche se la Tetrarchia aveva evidenziato quattro linee significative di separazione amministrativa, la principale delle quali correva fra l’Oriente e l’Occidente dell’Impero. Si evidenziavano anche sotto il profilo amministrativo nuclei geopolitici demograficamente ed economicamente individuati, di cui Anatolia e Crescente Fertile (Siria, Palestina, Egitto, Mesopotamia) costituivano la regione più densamente popolata, con più ampia e consolidata rete di centri urbani e larga superiorità produttiva, regione egemonizzata dalla cultura ellenica ma ricca di culture e tradizioni locali armene, aramaiche, siriache, ebraiche e copte, sui cui bordi fra Sinai ed Eufrate si affacciava sempre più decisamente la presenza araba: da questa regione sorgono in effetti le tre grandi religioni abramiche, che si spartiscono il mondo attuale. In tale regione si era celebrato l’incontro prima fra ebraismo e poi fra cristianesimo e cultura ellenica: quest’ultimo incontro, drammaticamente descritto nel racconto biblico sui Maccabei, peraltro composto, significativamente, dall’ebreo ellenizzato di Cirene Giasone, fu la sintesi determinante per la concezione trinitaria e la cristologia, nonché il culto della Madre di Dio, nella storia dei cristianesimi d’Oriente e d’Occidente. Tale regione era almeno dal III secolo obiettivo strategico della potenza persiana, con cui l’Impero romano ebbe ripetutamente a scontrarsi fino al crollo dell’impero sasanide nel 628. Nel settore occidentale, l’Africa settentrionale rappresentava nel IV secolo una regione prospera e ricca di produzione granaria, sede di patrimoni imperiali, aristocratici ed ecclesiastici: non a caso alcuni dei maggiori retori e intellettuali del periodo provenivano da quel sistema urbano, Lattanzio, Agostino, Flavio Cresconio Corippo fra gli altri.
La visione territoriale della storiografia ottocentesca portò a considerare l’Impero romano sotto il profilo della grande unità geografica in senso territoriale che esso rappresentava. Si tenne poco conto del significato storico, economico e politico del mare, della variabilità e intermittenza del sistema viario, della molteplicità delle culture locali, dei diversi livelli di sviluppo regionale. Il latino, come lingua dell’amministrazione, dell’esercito e della Chiesa (cattolica, ma non della Chiesa ortodossa); l’unica moneta corrente per tutto il Mediterraneo (l’aureo romano); l’esercito con il suo reclutamento interregionale e anche barbarico; la rete delle città, i cui monumenti affascinavano e affascinano archeologi e uomini di cultura dal Rinascimento a oggi; la diffusione delle grandi religioni monoteistiche (fra cui ebraismo e cristianesimo ancor oggi vigenti): tutti questi elementi davano alla storiografia del XIX secolo, dell’Europa alla conquista coloniale del mondo, l’impressione di una grande unitarietà, conseguita al prezzo di un confronto serrato fra la tradizione latina e la tradizione giudaico- cristiana, unità sopravvissuta alla invasione araba del VII secolo. Militarizzazione e monarchia assoluta a carattere divino furono le caratteristiche salienti del processo di consolidamento e difesa dell’Impero romano dal I al IV secolo. La conquista romana aveva unito regioni a diverso livello di sviluppo: le province orientali (Anatolia, Siria, Palestina e soprattutto Mesopotamia ed Egitto), presentavano una vita urbana capillarmente sviluppata, una demografia in espansione e un sistema produttivo che aveva da un millennio almeno fissato i modelli della civiltà mediterranea, che si sarebbero evoluti solo a partire dal secolo XI (Randsborg 1991).
Accanto al latino come lingua dell’amministrazione e dell’esercito imperiale e accanto al diritto romano ogni regione manteneva i suoi usi, il suo diritto, la sua lingua e una grande varietà di culti, che assieme al culto statuale dell’imperatore non sempre coesistevano con piena tolleranza ma soprattutto non implicavano le coscienze di tutti. Va detto peraltro che tali religioni e culti si ispiravano a principi similari: si trattava per lo più di dei locali, legati all’identità storica di una città, senza pretesa di universalità. L’esigenza di universalità si fece strada anche nel paganesimo solo nel corso del III e IV secolo, con una forma di sincretismo enoteistico che riconosceva alle varie divinità locali l’essenza di qualità manifeste dell’unica divinità. Gli storici a questo proposito si sono chiesti se la formazione degli imperi universali abbia favorito il processo monoteistico o se il monoteismo abbia favorito le concentrazioni politiche sovranazionali (Fowden 1993). I ceti dirigenti romani e provinciali si assestarono nell’unità politica mediterranea e nella comune forma di cultura materiale assumendo come orizzonte simbolico la tradizione urbana delle città greco-romane, con il relativo sistema monumentale, in cui entravano anche elementi della cultura egiziana e siriana. Un mondo sicuro della sua durata ma che si sentiva minacciato dalla grande potenza dell’impero persiano a est e che subiva danni non indifferenti dal processo di migrazione delle tribù esterne all’Impero: Germani sul confine danubiano e renano, Arabi sul confine siriano, Garamanti e Mauri sul confine africano, Scoti e Pitti sul confine britannico, segnato dal Vallo di Adriano.
Economia e società furono assai diversificate nell’Impero romano. Spostamenti di persone e gruppi avvennero da una regione all’altra in cerca di avanzamento sociale e nella creazione di una rete di traffici in cui eccelsero le colonie commerciali ebraiche. Un certo disordine sociale aprì la strada verso l’ascesa a persone di sicuro talento e ambizione, mentre motivi clientelari inducevano gli imperatori a favorire le province di provenienza familiare. La rapida successione di imperatori, che si compravano il favore delle truppe con le promesse di donativi, induceva a continui mutamenti nell’assetto dell’alta gerarchia, con grande rincrescimento del ceto senatorio che si dilettava di diffamare i singoli imperatori, già defunti, con storie a fosche tinte – e con ingredienti tipici del nostro romanzo di appendice (crudeltà, sperpero, lussurie varie) – confluite nella raccolta nota come Historia Augusta. Nel periodo compreso fra il 192 e il 337, dall’avvento di Pertinace alla morte di Costantino, 44 imperatori si avvicendano sul trono, con una media di durata di governo talmente ristretta che non c’è tempo per il coagulo stabile di un ceto dirigente, un’alta gerarchia: viene piuttosto favorita l’ascesa verticale di avventurieri senza troppo respiro. La Tetrarchia e l’ascesa della famiglia di Costantino consolidarono il ceto dirigente e fornirono all’alta gerarchia dell’Impero – anche se invisa ai ceti urbani, di cui Libanio è esponente, e all’ordine senatorio – una stabilità che portò a consolidare la prassi di successioni dinastiche e di convergenze matrimoniali fra gruppi dinastici diversi, spostando la rivalità fra i gruppi di potere militare a mero intrigo di camarille cortigiane, irrilevanti per la società e la economia.
Diocleziano (284-305) e Costantino (unico imperatore 324-337) posero fine all’anarchia militare e rifondarono l’amministrazione imperiale. Fondamentalmente preoccupati dei problemi di carattere militare, riorganizzarono l’esercito creando una forza di intervento mobile; voltarono le spalle alla capitale storica e morale dell’Impero e, pur essendo Latini della Penisola Balcanica, guardarono alle regioni più prospere dell’Anatolia grecofona come base di azione del potere. Erano entrambi convinti della necessità di una unità religiosa nella fede e nel culto, che Diocleziano individuava nel ritorno al mos maiorum, mentre Costantino tendeva più modernamente a risolvere in chiave enoteistica. Malgrado il peso crescente della militarizzazione, che entrava in conflitto con il ceto senatorio e il ceto curiale, sottoposti a un regime fiscale considerato causa di rovina e destrutturazione, Diocleziano e Costantino riuscirono a mantenere in sostanza la divisione fra potere militare e potere civile che invece nel corso del VII secolo, sotto la pressione della conquista araba, verrà abolita a favore di un sistema di governo militare, il cosiddetto “sistema tematico”, i cui primi esempi furono l’esarcato di Africa e quello di Italia. I tentativi di riforma economica e monetaria di Diocleziano produssero a detta di Lattanzio un peggioramento economico: caritas multo deterius exarsit, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur (“si acuì una carestia molto peggiore, finché la legge – cioè l’Edictum de pretiis – dopo la rovina fisica di molti si ridusse a niente per la necessità stessa della situazione”).
L’incremento delle spese militari provocò una inflazione di grandi proporzioni fra il 193 (avvento di Settimio Severo) e il 337, processo che indusse a profondi cambiamenti nel sistema monetario e nel sistema degli scambi, per cui solo una porzione ridotta della produzione passava effettivamente attraverso il mercato e lo scambio monetario (si calcola che lo scambio tramite la moneta giungesse nei periodi di massimo splendore economico dell’impero bizantino ad appena un terzo della produzione). Diocleziano aveva tentato di controllare salari e prezzi fissando la moneta sulla coniazione di un aureus, cioè una moneta d’oro al tasso di 60 per libbra; Costantino riuscì a fissare lo standard bizantino a un tasso di 72 monete d’oro, “soldi” cioè aurei solidi, per libbra, un sistema che comunque Eraclio (610-641) non poté mantenere nel corso della invasione persiana e della invasione araba, limitandosi a coniare solo una moneta di argento pesante, l’esagramma, che valeva fra la quattordicesima e la dodicesima parte di una moneta d’oro, la cui coniazione poté in seguito riprendere mantenendosi inalterata (4,54 gr di oro puro al 900/1000, cioè circa 6 gr del nostro oro al 750/1000) fino all’XI secolo, il secolo della conquista turca della Anatolia.
La politica di Costantino, con la sua monarchia assoluta, l’alleanza con la gerarchia cristiana, la fondazione della città che sarebbe divenuta con il tempo il centro più grande dell’Occidente mediterraneo, venne assunta a simbolo del passaggio dal tardo Impero romano all’impero bizantino anche se in realtà fu la perdita del Crescente Fertile (Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto) ai tempi della conquista araba a dare la forma medievale all’Impero romano di Oriente. L’unità amministrativa dell’Impero andò definitivamente infranta nel 395, quando Teodosio I spartì l’Impero fra Arcadio, cui toccò l’Oriente, e Onorio, cui toccò l’Occidente, coprendo sotto la concezione patrimoniale e familiare dello Stato, ormai caratteristica della dittatura militare fin dai tempi di Diocleziano, la diversità del destino cui le risorse delle due partes votavano l’Oriente e l’Occidente dell’Impero. La continuità dinastica assicurava ai gruppi dominanti la sicurezza del proprio ruolo, che un avvicendamento elettivo, come quello proposto dal Dialogo della scienza politica, testo anonimo già attribuito all’ambasciatore giustinianeo Pietro Patrizio, avrebbe reso problematica.
La riconquista dell’Occidente a opera di Giustiniano a partire dal 530 (Africa) al 540-554 (Ravenna e Italia) segnò la ripresa di controllo da parte del ceto dirigente orientale della intera rete commerciale mediterranea e in particolare delle rotte verticali della “via delle isole”, cioè del Tirreno, e della rotta Alessandria-Aquileia, di cui l’Impero romano orientale avrebbe tenuto il controllo fino all’XI secolo: la separazione amministrativa dall’Italia della Sicilia, direttamente dipendente da Costantinopoli, e di Corsica e Sardegna, ducati dell’esarcato d’Africa, dette inizio al processo di smembramento dell’Italia che l’invasione longobarda nel 569 portò a compimento e che la caduta dell’Esarcato avrebbe favorito con la istituzione di un Patrimonium beati Petri, vero erede territoriale dell’Esarcato. Fra il 284 e il 602 l’Oriente riuscì a contenere la pressione persiana e la pressione germanica; i Germani riuscirono invece a insediarsi nella Romània occidentale, i Vandali in Africa, i Visigoti in Spagna, i Franchi in Gallia, gli Eruli e gli Ostrogoti in Italia. L’epoca dal 284 al 602 segna una sostanziale tenuta dello statalismo romano, nella continuità della comune cultura mediterranea; segna altresì un processo di mutamento di equilibri fra centro e periferia, con l’emergenza di un assetto politico policentrico, egemonizzato dalla superiorità economica e civile dell’Impero romano orientale.
Le invasioni barbariche, cioè la migrazione dei Germani in Occidente, non costituirono la causa del processo di mutamento né apportarono alle strutture sociali ed economiche dell’Europa una trasformazione sostanziale, paragonabile alla rivoluzione dell’XI secolo, con i progressi economici e culturali che avrebbero portato all’essor de l’Europe. La difesa dell’Impero romano orientale non consentiva di intervenire in Italia e in Africa, da cui Genserico minacciava con la sua flotta sia l’Italia sia le coste greche. Nel 468 Genserico riuscì anzi a incendiare la flotta romano-orientale: ne seguì il consolidamento del regno vandalico anche sotto il suo successore Trasamondo. L’Impero romano orientale assunse pertanto quell’aspetto ellenico che gli sarà proprio anche se nel 438 Teodosio II e Valentiniano III promulgarono il Codice Teodosiano, che più tardi confluirà nel Codice Giustinianeo. La fondazione dell’università imperiale, dotata di una trentina di cattedre, sita nel Campidoglio di Costantinopoli, fu volta a salvaguardare l’alta cultura greca e latina, che aveva caratterizzato l’antica società.
E. Gibbon, Decline and Fall of Roman Empire, London 1776-88.
H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Brussels 1922.
A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), Milano 1971-83 (trad. it.).
M.I. Rostovtzeff, Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1980.
R. Hodges - D. Whitehouse, Mohammed, Charlemagne and the Origins of Europe. Archaeology and the Pirenne Thesis, London 1983.
K. Randsborg, The First Millennium AD in Europe and the Mediterranean. An Archaeological Essay, Cambridge 1991.
G. Fowden, Empire to Commonwealth. Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1993.
A. Cameron, Il tardo impero romano, Bologna 1995 (trad. it.).
A. Carile, Immagine e realtà nel mondo bizantino, I. La Romània, Bologna 2000, pp. 9-92.