L'Europa tardoantica e medievale. La nascita degli Stati fuori dei confini dell'impero. La Serbia
Secondo l’opinione prevalente, Serbi (srbi) è etnonimo derivato da una radice iranica (o addirittura indo-iranica). Viene quindi considerata la possibilità che esso designasse inizialmente un’élite di origine non slava che avrebbe successivamente imposto la sua egemonia su un numero crescente di tribù slave. In quale contesto geografico e in quale epoca si debbano collocare queste più antiche fasi dell’etnogenesi serba (le ipotesi spaziano dalla regione nord-caucasica alla Polonia e alla Germania orientale) sono interrogativi cui è difficile dare una risposta. I più antichi riferimenti storici datano al X secolo; la fonte è il De administrando imperio di Costantino VII Porfirogenito, secondo il quale i Serbi – originari di una regione settentrionale (Bojka, di localizzazione incerta) – sarebbero stati insediati da Eraclio (610-641) nella regione di Tessalonica, da dove si sarebbero successivamente trasferiti verso nord. Ma anche questi dati appaiono piuttosto controversi da un punto di vista sia cronologico sia geografico.
L’insediamento dei Serbi nei Balcani – o il progressivo amalgama, sotto la supremazia serba, di una parte delle genti slave precedentemente insediatesi nella regione – non è facilmente rintracciabile nelle testimonianze archeologiche, siano esse insediamenti o monumenti funerari. In particolare, è forse da accogliere con cautela la proposta di attribuire ai Serbi un tipo di tumulo funerario (gromila) di pietre o terra con funzione di cenotafio – ma attestato in diverse varianti formali – ricavando dalla sua distribuzione in territorio balcanico una mappatura dell’espansione di questo popolo. Individuate in gruppi di diverse decine in un territorio piuttosto vasto, tra il Danubio e la Dalmazia, le gromile non offrono elementi obiettivi che autorizzino una relazione univoca con il popolo serbo. I pochi oggetti databili ritrovati nei modesti corredi funerari consentono, anzi, di attribuire i più antichi di questi tumuli al IV-V secolo, dunque a ben prima dell’avvento degli Slavi nella regione. Non si può escludere che una parte, anche cospicua, di queste testimonianze funerarie appartenga ai Serbi, è tuttavia difficile circoscriverla.
La presenza dei Serbi nei Balcani acquista maggiore concretezza storica con la formazione di un primo, embrionale potentato, capeggiato da Vlastimir e documentato dalle fonti bizantine nel secondo quarto del IX secolo. Il suo centro era la Raška, ossia la regione in cui sorgeva la fortezza di Ras (non lontano dall’odierna Novi Pazar). Il termine Raška continuò a designare il regno serbo anche dopo l’allargamento dei suoi originari confini ed è testimoniato anche in fonti occidentali (nelle forme Rassa o Rassia, e Rassiani, in riferimento ai suoi abitanti). Intorno all’870, la Serbia entrò sotto la sovranità di Bisanzio, sebbene di fatto fosse una dipendenza del regno bulgaro, dal quale fu annessa nel 927. La conversione dei principi serbi al cristianesimo coincide con l’entrata della regione nell’orbita politica di Bisanzio, ma la diffusione della fede cristiana fece sostanziali progressi negli anni dell’influenza della Bulgaria. Da questa la Serbia ricevette l’alfabeto cirillico e i testi religiosi in lingua slava ecclesiastica. A Ras fu fondato il primo vescovado serbo. L’egemonia bulgara e quella bizantina si alternarono nella regione nei due secoli seguenti, nel corso dei quali vi furono parentesi di relativa indipendenza e non mancarono i tentativi, da parte dei governanti serbi della Zeta (Montenegro), di spostare nella propria regione, affacciata sull’Adriatico, il centro del potentato. In questo periodo si consolidarono i contorni territoriali del regno serbo e si definì la sua natura di Stato a cavallo tra Bisanzio (la cui impronta restò tuttavia preponderante) e l’Occidente, che tramite i porti del basso Adriatico – soprattutto Ragusa (Dubrovnik) e Cattaro (Kotor), importanti teste di ponte della Chiesa latina nei Balcani – intratteneva relazioni diplomatiche e commerciali con i principi serbi.
Con Stefan Nemanja (1166-1196) la potenza e l’estensione territoriale della Serbia si accrebbero in maniera considerevole: Nemanja assoggettò le regioni costiere, da Kotor al Lago di Scutari, e, nell’entroterra, l’area compresa tra la Neretva e la Morava meridionale (incluso l’attuale Kosovo). Figura carismatica della storia serba, Nemanja abdicò a favore del suo secondo figlio – Stefan Nemanjić (1196-1227), noto anche come Prvovenčani (“primo re incoronato” dal papa Onorio III) – e prese i voti (assumendo il nome di Simeone) nel monastero di Studenica, da lui edificato, per poi raggiungere il figlio minore, Rastko (il monaco Sava) nel monastero del monte Athos. Qui padre e figlio fecero edificare il monastero serbo di Hilandar. La posizione della Chiesa ortodossa in Serbia fu considerevolmente rafforzata dall’istituzione di un arcivescovado separato, ottenuta da Sava al concilio di Nicea (1219). L’impatto sulla cultura e sulle arti del Paese fu enorme. La fondazione di nuovi monasteri e sedi vescovili servì da impulso all’architettura, alle arti figurative e alla traduzione di testi bizantini (innanzitutto il Nomokanon, codice di norme ecclesiastiche, fatto tradurre dallo stesso Sava). Nella Chiesa autocefala serba sia Stefan Nemanja sia suo figlio Rastko sarebbero stati venerati come santi (rispettivamente s. Simeone e s. Sava).
I successori di Stefan Nemanjić consolidarono le strutture economiche del regno e ne ampliarono i domini. Stefan Uroš I (1243-1276) incrementò lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese e i commerci, i suoi figli Milutin e Dragutin annetterono rispettivamente la Macedonia settentrionale e centrale e, verso nord, la Mačva e l’area di Belgrado. Il regno di Stefan Dušan (1331-1355) segnò l’apogeo della Serbia medievale, che in quegli anni raggiunse la massima estensione territoriale dominando una vasta porzione della Penisola Balcanica, dalla Sava e dal basso Adriatico alla Grecia settentrionale e centrale, fino al Golfo di Corinto. Proclamatosi “Re dei Serbi e dei Greci”, Stefan Dušan elevò l’arcivescovado serbo allo status di patriarcato (la cui sede fu stabilita a Peć, nel Kosovo), uniformò l’organizzazione della corte (uffici, ranghi e titoli) ai modelli bizantini e rafforzò l’unità e l’autorità del governo con un corpus di 200 articoli – il Codice di Dušan – che conciliava la tradizione legislativa bizantina con il diritto consuetudinario serbo.
Il regno entrò in crisi all’indomani della morte di Dušan. L’indebolimento dell’autorità centrale causò ben presto la perdita delle regioni che erano state sottomesse per ultime e il potentato si avviò verso la disgregazione in diversi principati rivali. A capo del più potente tra questi fu Lazar Hrebeljanović (1362-1389), cui toccò confrontarsi, il 15 giugno 1389, con le armate ottomane nella cruenta battaglia del Kosovo Polje, evento che nella tradizione storica successiva sarebbe stato investito di un enorme valore simbolico e considerato la fatale sconfitta del regno dei Serbi. Tuttavia l’annessione definitiva dei territori serbi da parte dei Turchi non avvenne che nel 1459. Fino ad allora, seppure in una condizione di vassallaggio nei confronti dell’autorità ottomana, il potentato serbo conobbe un’ultima fase di prosperità con Stefan Lazarević (1389-1427) e Djuradj Branković (1427-1456). Il baricentro del potere si era spostato verso nord: il primo dei due sovrani stabilì la capitale a Belgrado, il secondo la trasferì a Smederevo che, ultimo bastione serbo di fronte all’avanzata turca, cadde nel giugno del 1459.
Nell’epoca della sua massima espansione territoriale, la Serbia comprendeva regioni caratterizzate da diversi gradi di urbanizzazione. Le città portuali del litorale montenegrino e della bassa Dalmazia (Kotor, Budva, Bar, Ulcinj) erano parte del retaggio d’età romana e non avevano conosciuto soluzione di continuità. Fondazioni romane dell’entroterra balcanico – Singidunum (Belgrado), Naissus (Niš), Viminacium (Braničevo), Ulpiana (Lipljan) – riemersero dall’oblio dell’epoca tardoantica, mentre la conquista della Macedonia guadagnò alla Serbia importanti centri commerciali appartenuti a Bisanzio e alla Bulgaria (Skopje, Bitola, Ocrida). Nel cuore della Serbia e in Bosnia, regioni in precedenza assai debolmente urbanizzate, la nascita delle città fu essenzialmente legata allo sfruttamento delle risorse minerarie – argento, piombo, rame, ferro – e alle attività a esso correlate. La fondazione di centri urbani in prossimità delle miniere ebbe inizio nel XIII secolo e si intensificò durante il secolo successivo (Rudnik, Trepča, Novo Brdo, Željeznik; in Bosnia, Ostružnica, Srebrenica, Olovo e altre); insediamenti minori preesistenti beneficiarono dell’apertura di nuove miniere nelle loro vicinanze (ad es., Priština in Serbia, Zvornik in Bosnia). Il commercio dei metalli favorì inoltre lo sviluppo urbano di modeste tappe carovaniere (ad es., Foča e Goražde, nell’attuale Erzegovina) situate nelle valli fluviali che collegavano l’entroterra ai porti adriatici.
Le testimonianze monumentali superstiti della più antica fase del potentato serbo (IX-X sec.) sono poco numerose. La più notevole è la chiesa di S. Pietro presso Novi Pazar, nell’antica Raška, edificio a pianta centrale con tetraconco inscritto e cupola centrale, decorato da affreschi ispirati al ciclo delle feste liturgiche. Alla stessa epoca datano i resti di chiese di tipo bizantino a tre navate, obliterati da fondazioni più tarde, a Prizren (Theotokos Ljeviška) e a Prokuplje (S. Procopio). È durante il regno di Stefan Nemanja che si definisce la fisionomia di una scuola architettonica serba, nella quale i canoni bizantini si fondono con la tradizione romanica già attecchita nella regione montenegrina, ora inglobata nel regno serbo, e manifesta negli affreschi della chiesa di S. Michele a Ston (ca. 1080) e nella decorazione scultorea della chiesa di S. Tommaso a Kuti, vicino a Herceg Novi (inizi XII sec.). La chiesa della Vergine nel monastero di Studenica (ca. 1190), fondazione di Nemanja e probabilmente realizzata da maestranze dell’Italia meridionale, inaugurò la cosiddetta “scuola di Raška”, riunendo i tratti peculiari dell’architettura serba medievale. Lo schema di Studenica servirà da modello per gran parte delle chiese edificate dai successori di Nemanja: Žiča (1208-1215), Mileševa (1219), Morača (1251/2), Ss. Apostoli nel patriarcato di Peć (ca. 1250), Sopoćani (ca. 1260), S. Achilleo ad Arilje (ca. 1290), Banjska (1312-1318), Dečani (1327-1335), Ss. Arcangeli di Prizren (1343-1352). Tutte queste chiese sono accomunate da un impianto a una sola navata con cupola unica; naòs ed endonartece sono affiancati da due parekklesia; in alcuni casi (Studenica, Mileševa e Sopoćani) alla costruzione originaria fu aggiunto un esonartece.
Quel che contraddistingue la scuola serba dalle altre tradizioni architettoniche di derivazione bizantina è l’aspetto esteriore delle chiese, che è invece di matrice dichiaratamente romanica. Gli edifici sono rivestiti di lastre di marmo e una ricca ornamentazione scultorea a rilievo interessa sia il portale sia le finestre (bifore e trifore); gli esempi più pregevoli di tale decorazione si trovano proprio a Studenica (soprattutto la Vergine col Bambino nella lunetta del portale) ed evidenziano gli stretti rapporti con il romanico maturo delle chiese benedettine dell’Italia meridionale. Altrettanto ricche sono le decorazioni delle più tarde chiese di Banjska, Dečani e Ss. Arcangeli, che di Studenica, tuttavia, non eguagliano la qualità artistica. Monumento emblematico dell’apogeo del regno serbo – e del marcato influsso bizantino che interessò l’architettura serba nel XIV secolo – è la chiesa del monastero di Gračanica (1315-1320), presso Priština. Fondazione del re Milutin, Gračanica rispecchia l’impianto greco a croce inscritta; la copertura a cinque cupole esalta la graduale spinta verticale delle sue masse architettoniche rivestite di pietra e filari di mattoni.
I principi dell’architettura tradizionale saranno accolti anche nella cosiddetta “scuola della Morava”, fiorita nelle regioni settentrionali della Serbia, sotto gli auspici delle casate dei Lazarević e dei Branković, nei decenni che precedettero la conquista ottomana (tra il 1371 e il 1459). Non poche, tuttavia, furono le innovazioni apportate all’impianto delle chiese; tra queste, l’aggiunta di due absidi a nord e a sud del naòs (caratteristica delle chiese del monte Athos) e di un nartece coperto da una cupola (ad es., nella chiesa del monastero di Ljubostinja); frequente è la copertura a cinque cupole (già adottata a Graãanica e in altre chiese a questa coeve). Le facciate sono animate dall’alternanza di ricorsi di pietra grigia e fasce a mattoni rossi, da rosoni di pietra e da elementi ornamentali di ceramica; non mancano tuttavia chiese rivestite di sole lastre di pietra (ad es., Manasija, primo quarto del XV sec.).
Lo sviluppo della pittura serba, sin dagli albori legata alla tradizione bizantina, ricevette un potente slancio dall’esodo di artisti da Costantinopoli, a seguito della conquista della città da parte dei crociati (1204). Numerosi pittori immigrarono in Serbia ed è in questa regione che si trovano le migliori realizzazioni dell’arte bizantina del XIII secolo. Tra queste gli splendidi affreschi della chiesa della Vergine di Studenica, verosimilmente opera di pittori della corte costantinopolitana, o quelli di Mileševa, fatti eseguire, per volontà di Sava, a imitazione dei mosaici tardoantichi (fondo dorato, colori luminosi, figure stilizzate e iscrizioni all’interno di pannelli verticali); qui compare, per la prima volta, la rappresentazione dell’albero genealogico dei Nemanjić, che nel secolo successivo si incontrerà in diverse altre chiese. Nuove tendenze trovano espressione nella chiesa della Trinità di Sopoâani, dove il maggior numero delle figure e la loro libertà di movimento nello spazio, in composizioni meno soggette alla consueta simmetria (ad es., Dormizione della Vergine), denotano il recupero della tradizione tardoantica. Di alto livello artistico, ma di ispirazione più severa e tradizionalista, sono anche gli affreschi della chiesa dei Ss. Apostoli a Peć e della chiesa della Morača. In quest’ultima si fa strada anche un gusto per la narrazione, illustrata in maniera quasi miniaturistica, che si ritroverà anche nella chiesa di S. Achilleo ad Arilje.
La “rinascenza paleologa” degli inizi del XIV secolo investì in pieno anche l’arte serba. Testimoniata negli affreschi di Staro Nagoričino, Dečani, Peć e Gračanica, questa corrente pittorica affiancò ai temi tradizionali nuovi soggetti ispirati a testi sia canonici sia apocrifi, minuziosamente descritti in composizioni affollate di personaggi che assistono all’evento. La moltiplicazione delle scene ridusse notevolmente lo spazio disponibile per ogni singola composizione; le figure, assai rimpicciolite, acquistarono peraltro grande vivacità nel movimento, nei gesti e nell’espressione. Nella pittura di icone l’arte serba raggiunse livelli non inferiori a quelli dei dipinti murali. Dei pochi esemplari superstiti del XIII secolo ricordiamo le due icone conservate nel monastero di Hilandar (monte Athos), raffiguranti la Vergine col Bambino e il Cristo Pantokrator, e un’icona conservata nel Tesoro di S. Pietro a Roma, raffigurante i ss. Pietro e Paolo insieme con i committenti (Elena d’Angiò e i sovrani suoi figli Dragutin e Milutin). Di qualità superiore ai dipinti che decorano la chiesa stessa sono le cinque icone conservatesi nell’iconostasi di Dečani (ca. 1340); altri esemplari datati allo stesso secolo provengono da Prizren. Degna di nota è infine la produzione di codici miniati; i più antichi manoscritti superstiti sono riconducibili a influssi romanici (Vangelo di Miroslav, fine XII sec.; Vangelo di Prizren, XIII sec.) e bizantini (Vangelo di Vukan, XIII sec.); di alto livello artistico sono anche le decorazioni miniate di alcuni codici del XIV secolo (dei monasteri di Kumanica e di Hilandar), con la raffigurazione dei Quattro Evangelisti.
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