di Giancarlo Aragona
Come ampiamente previsto, in Gran Bretagna il dibattito sul futuro dei rapporti con l’Unione Europea nell’ultimo anno ha assunto toni di sempre più marcato disincanto verso l’EU. La congiuntura economica negativa che affligge larghissima parte dei partners non favorisce la popolarità dell’Unione. La consolidata ambiguità, che stinge facilmente nell’ostilità, dei sentimenti dell’opinione pubblica britannica verso il progetto di integrazione europea, con il suo carattere evolutivo verso la condivisione sempre più ampia di sovranità, si estende anche ai settori più acculturati e cosmopoliti del paese. Questo terreno culturale e sociale è predisposto ad accogliere la campagna, tinta sovente di xenofobia, condotta da organi di stampa popolare a grande tiratura nei confronti di un progetto agevolmente denunciato come un esproprio progressivo della sovranità nazionale e dei poteri della madre di tutti i parlamenti, Westminster. Il martellamento incessante di questa campagna , che ormai coinvolge, se pur con toni più sofisticati, anche testate autorevoli quali il «Times » o il «Daily Telegraph», è riuscito ad allargare lo spazio dell’euroscetticismo. Ha favorito così l’ascesa di partiti dichiaratamente nazionalisti come l’UKIP, abile nello sfruttare, ed alimentare, il coacervo di storiche sensibilità insulari di una popolazione allarmata dalla seria crisi economica degli ultimi anni.
Ed è la crescente, temuta popolarità dell’UKIP che si sta rivelando un elemento di profonda alterazione del dibattito sull’Europa in Gran Bretagna, con significativi condizionamenti non solo, come inevitabile, dell’atteggiamento del Partito conservatore, ma anche di quello dei Laburisti ed, in certa misura, degli stessi liberal democratici. Se è vero che i leader politici britannici anche più filo europei (a parte Edward Heath e qualche più recente eccezione come Lord Patten), sono stati sempre attenti a non sovraesporsi con campagne pro EU (Blair docet) l’attuale governo dominato dai conservatori si distingue per un atteggiamento permeato da freddezza verso Bruxelles. Cameron, Osborne, solo per citare gli esponenti più in vista del Gabinetto, non sono euroscettici nell’accezione letterale del termine, ma nutrono verso le strutture europee comuni malcelata insofferenza. È quindi naturale per loro essere sensibili alle voci degli ampi settori dell’elettorato conservatore che reclamano arretramenti, e men che mai approfondimenti, nei rapporti di Londra con Bruxelles.
La minaccia di questi settori Tory di spostarsi sull’UKIP, ove il partito non desse ascolto alle loro istanze, incontra quindi risposte di corto respiro e di sapore prevalentemente tattico. Questi leader, inoltre, non possono trascurare la vicina scadenza del voto europeo allorché è tradizionale che l’elettorato britannico maltratti i partiti storici, particolarmente quello o quelli al governo, per dare sfogo a frustrazioni e velleitarismi.
Nemmeno la promessa di Cameron di indire un referendum sull’Unione Europea nel 2017, non a caso dopo il rinnovo di questo Parlamento, ha rasserenato l’atmosfera, visto anche lo scoperto sapore elettoralistico della mossa. Lo spettro del referendum complica anche i calcoli dei Laburisti, attualmente da soli all’opposizione. Di fronte agli attuali segnali positivi di svolta della congiuntura economica del paese, di cui il governo rivendica il merito, Miliband ed i suoi colleghi alla testa dei laburisti debbono essere attenti a non indebolire ulteriormente le loro prospettive elettorali. Non sorprende dunque che siano restii a cavalcare una linea esplicitamente pro EU, che del resto non è nel loro patrimonio ideologico, nel timore di porsi controcorrente con gli umori prevalenti nell’opinione pubblica e presenti anche in seno all’elettorato labour. Di questo quadro fanno inevitabilmente le spese anche i Liberal-Democratici, l’unica formazione schierata storicamente a sostegno del progetto europeo. Schiacciati all’interno di una coalizione di governo dominata dai conservatori, stanno perdendo inesorabilmente consensi. Nello stato attuale del paese, non potrà certo essere il filo europeismo a far risalire loro una china impervia.
Per i partner europei del Regno Unito si prospetta una sfida non da poco. Con le loro sensibilità ed i loro interessi non sempre collimanti, dovranno affrontare un complesso negoziato con il governo Cameron che intende ridiscutere alcune, cruciali, modalità di appartenenza della Gran Bretagna all’EU quale asserito prezzo per arrestare la deriva antieuropea del paese e scongiurare la vittoria del fronte del no al referendum del 2017.
In principio, l’obiettivo del Regno Unito e dei partner dell’Unione dovrebbe essere convergente. È interesse di Londra rimanere parte a pieno titolo dell’EU. Si è detto e scritto in abbondanza sul perché. Gli stessi americani hanno ammonito Londra a non indebolire il suo legame europeo. È parimenti interesse degli altri paesi europei continuare ad avere nella Gran Bretagna, con il suo corredo di dinamismo economico-finanziario e la sua visione globale, un partner solido e costruttivo nell’Unione. Questa comunanza di interessi dovrebbe far sperare che il pur complicato rapporto dei britannici con l’EU sia suscettibile di assestarsi su un equilibrio meno turbolento che nel presente. Perché questa speranza sia realistica, bisognerà assortirla da due caveat. Il primo, che vi sono limiti a quello che si potrà fare dall’esterno per orientare i sentimenti dell’opinione pubblica britannica e che Londra, a prescindere dalle dinamiche dei suoi equilibri interni, ha raggiunto, o già superato, il livello più alto di integrazione possibile nelle strutture comunitarie. Il secondo, che venire incontro ad alcune rivendicazioni del governo conservatore al fine di svelenire il clima del dibattito nel paese
sull’Europa e permettere di affrontare con maggiore tranquillità l’eventuale referendum (se questo dovesse effettivamente tenersi), non deve però scardinare quel che rimane della coerenza dell’Unione nella sua interezza o concedere al Regno Unito vantaggi cui non corrispondano oneri conseguenti.