L'evoluzione dell'assegno divorzile
Le discussioni sull’assegno divorzile sono sempre state vivaci, sia per l’ambiguità del testo normativo sia per una certa porosità dell’istituto che ne ha favorito interpretazioni funzionalistiche di vario genere anche di stampo dirigistico e, all’opposto, ispirate a una concezione civilistica del concetto di assistenza del coniuge debole, tendenza quest’ultima coerente con il processo di progressivo assorbimento del diritto di famiglia nel diritto civile. In questa direzione va anche la recente giurisprudenza di legittimità, che valorizza il principio di autoresponsabilità dei coniugi nella fase postconiugale, in conseguenza della intrinseca dissolubilità del matrimonio.
==La ricognizione==
Secondo il testo originario dell’art. 5, co. 6, l. 1.12.1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi». La formulazione della norma («il tribunale dispone, tenuto conto…») – che si inseriva in un ordinamento ispirato ad una radicata tradizione antidivorzista – favoriva un’interpretazione nel senso di un sostanziale automatismo nell’attribuzione dell’assegno, al fine di favorire il coniuge più debole e di temperare gli effetti del radicale cambiamento di prospettiva determinato dall’introduzione del divorzio.
A questa esigenza era strumentale la tesi che attribuiva all’assegno divorzile una triplicità di funzioni: assistenziale, in favore del coniuge bisognoso la cui situazione si fosse deteriorata per effetto del divorzio; compensativa, in favore del coniuge che avesse effettuato rinunce e dedicato alla famiglia impegno personale ed economico; risarcitoria, a fronte di eventuali responsabilità per la rottura del rapporto (le funzioni compensativa e risarcitoria consentono di elevare al rango di obbligazioni giuridiche quelli che potrebbero essere doveri contributivi morali, nascenti dalla dissoluzione di un rapporto intriso di connotazioni personali)1. Si spiega così perché i vari criteri indicati dalla norma (condizioni economiche dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno) fossero interpretati come «necessariamente coesistenti ed egualmente rilevanti ai fini sia dell’attribuzione che della commisurazione dell’assegno»2 e si ritenesse sufficiente che il giudice comparasse la situazione economica dei due coniugi per accertare se ad uno di essi fosse derivato un deterioramento apprezzabilmente rilevante3. Caratteristica del sistema era la notevole discrezionalità affidata al giudice nella quantificazione dell’assegno che, di regola, era riconosciuto alla moglie per compensarla delle rinunce (che si presumeva) effettuate e delle energie investite in un rapporto che si considerava come una «sistemazione definitiva», in ragione della sua indissolubilità. Nel 1987, a quasi vent’anni dall’entrata in vigore della legge sul divorzio, il legislatore (l. 6.3.1987, n. 74) intervenne con il chiaro intento di modificare il sistema precedente, fondato su una visione assicurativa del matrimonio che si voleva in parte superare, pur nella consapevolezza che i rapporti matrimoniali in corso erano sorti prevalentemente in regime di indissolubilità.È segno evidente del cambiamento di prospettiva la previsione (contenuta nel nuovo co. 6 dell’art. 5) della «inadeguatezza dei mezzi o della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive», come presupposto essenziale dell’attribuzione dell’assegno; solo nel caso in cui il relativo giudizio sull’an debeatur fosse stato positivo, sarebbe stato possibile, ai fini della concreta quantificazione, ricorrere ai criteri ivi previsti, sostanzialmente analoghi a quelli già dettati dalla disposizione originaria, con l’aggiunta del riferimento alla durata del matrimonio (e solo in questa seconda fase del giudizio si sarebbe dovuto indagare sui redditi del coniuge potenzialmente obbligato). La ratio della legge del 1987 fu così interpretata da una sentenza della Cassazione del 1990, così massimata: «A seguito della riforma introdotta dalla legge 6 marzo 1987 n. 74, all’assegno di divorzio è stata riconosciuta dal legislatore (art. 10 legge cit., che ha modificato l’art. 5 legge 1 dicembre 1970 n. 898) natura eminentemente assistenziale, per cui ai fini della sua attribuzione assume ora valore decisivo l’autonomia economica del richiedente, nel senso che l’altro coniuge è tenuto ad ‘aiutarlo’ solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio, in applicazione del principio di solidarietà ‘postconiugale’, che costituisce il fondamento etico e giuridico dell’attribuzione dell’assegno divorzile. Pertanto, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici del richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale»4. Quest’orientamento però non decollò. Tra le ragioni, la non completa metabolizzazione del matrimonio come atto e rapporto intrinsecamente dissolubile, ma anche l’esigenza di restringere la discrezionalità del giudice nel giudizio sull’an debeatur, ancorandola a parametri certi (qual è la mera comparazione reddituale tra gli ex coniugi), in un’epoca in cui il metodo della legislazione per principi o per clausole generali o elastiche (com’è quella della indipendenza economica) non aveva ancora sufficientemente attecchito nella cultura giuridica. Infatti, a partire dalle note sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 1990, si è affermato il principio, divenuto diritto vivente (sino al maggio 2017), secondo cui «l’assegno di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di ‘bisogno’, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio»5. Il punto di partenza del complesso ragionamento delle Sezioni Unite è il corretto riconoscimento che unica è la funzione dell’assegno divorzile, quella assistenziale, mentre le altre funzioni (compensativa e risarcitoria) sono estranee alla ratio legis di una norma che chiaramente indicava come presupposto dell’attribuzione dell’assegno la inadeguatezza dei mezzi di uno dei coniugi o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. E tuttavia, cosa si doveva intendere per funzione «assistenziale» dell’assegno, visto che anche la precedente sentenza n. 1652 del 1990 richiamava unicamente questa funzione a fondamento dell’istituto? L’operazione ermeneutica compiuta dalle Sezioni Unite è stata, in sostanza, di avere ripristinato quelle altre funzioni, compensativa e risarcitoria, occultandole o inglobandole in quella assistenziale, pur avendone affermato l’estraneità alla ratio dell’istituto, con l’effetto pratico di avere sostanzialmente restaurato il precedente orientamento interpretativo formatosi sul testo originario della disposizione in esame. Il creativo riferimento ad un criterio sufficientemente duttile e unificante come il «tenore di vita» è servito a questo scopo, in quanto particolarmente idoneo a favorire la lettura della norma in senso unitario, obliterando di fatto ogni distinzione (pur predicata in astratto) tra il giudizio sull’an (cui appartiene la verifica dell’adeguatezza dei mezzi) e il giudizio sul quantum debeatur (cui appartengono gli altri criteri indicati nella norma). Ciò ha consentito di realizzare il risultato avuto di mira, di giustificare le pretese rivendicative nei confronti del coniuge ritenuto più abbiente, al quale implicitamente si imputava l’impoverimento dell’altro coniuge per la perdita di quel tenore di vita matrimoniale alla cui realizzazione, peraltro, il primo aveva prevalentemente contribuito. Secondo le Sezioni Unite e la giurisprudenza successiva, infatti, all’assegno divorzile ha diritto il coniuge bisognoso di assistenza nel peculiare senso di essere privo di mezzi (cioè redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità) adeguati a fargli conservare il «tenore di vita» avuto in costanza di matrimonio o che poteva ragionevolmente configurarsi sulla base delle aspettative maturate nel corso del rapporto. L’assegno quale strumento per eliminare o ridurre lo scarto tra il tenore di vita che il coniuge istante poteva garantire a sé stesso con i propri mezzi dopo il divorzio e quello precedentemente goduto in costanza di matrimonio. Così impostata la questione si riduce la discrezionalità del giudice, essendo sufficiente la valutazione delle condizioni economiche degli ex coniugi e risolvendosi il giudizio sull’assegno in un mero confronto tra le condizioni economiche e le potenzialità reddituali degli ex-coniugi6 (è la nozione di adeguatezza a postulare un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con quella della famiglia all’epoca della cessazione della convivenza, tenendo altresì conto dei miglioramenti della condizione finanziaria dell’onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza, quali sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio7). Non era necessario che il coniuge si trovasse in condizioni di bisogno o che non avesse mezzi adeguati a vivere una vita autonoma e dignitosa, né bastava a far cessare l’obbligo di pagamento a carico dell’altro coniuge che egli vedesse nel tempo migliorate le proprie condizioni economiche, quando questo miglioramento non fosse idoneo a fargli raggiungere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Si affermava in giurisprudenza che ad una prima fase del giudizio – nella quale il giudice doveva verificare l’esistenza del diritto (corrispondente ad una somma determinata nel massimo o) in astratto, in misura idonea a ripristinare un tenore di vita analogo a quello matrimoniale – seguiva una seconda fase, volta alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, sulla base della ponderata valutazione dei menzionati criteri (condizioni personali ed economiche dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché durata del matrimonio, con riguardo al momento della pronuncia di divorzio) i quali agivano come fattori di moderazione e diminuzione della somma determinata in astratto8. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 11/20159 , ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze che aveva imputato al diritto vivente un contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, poiché l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe per garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato al coniuge ritenuto economicamente più debole; con l’art. 2 Cost., sotto il profilo del dovere di solidarietà, poiché la tutela del coniuge debole non dovrebbe comportare l’obbligo di consentire, ben oltre il contesto matrimoniale, il mantenimento delle medesime condizioni economiche godute durante il rapporto matrimoniale; con l’art. 29 Cost., poiché risulterebbe anacronistico ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza considerare l’attuale portata del divorzio, della famiglia e del ruolo dei coniugi. La Corte ha giudicato legittimo il diritto vivente se e in quanto un diritto alla conservazione del tenore di vita matrimoniale potesse essere escluso in concreto, come in effetti ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, in virtù del concorso dei fattori correttivi operanti in sede di quantificazione dell’assegno (nella seconda fase del giudizio sull’assegno), alla luce dei criteri sopra indicati.
==La focalizzazione==
E tuttavia, se è vero che i suddetti criteri «agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto» e «possono valere anche ad azzerarla»10, ciò non toglie che il diritto all’assegno da astratto può facilmente diventare concreto per il solo fatto che non ricorrano particolari ragioni ostative che l’altro coniuge, virtualmente obbligato al pagamento sol perché privilegiato sul piano economico, è tenuto ad allegare e dimostrare in giudizio (v. infra). Pertanto, se l’ex coniuge goda di redditi e mezzi superiori all’altro, ciò si ritiene (o si riteneva) sufficiente per imporgli di attribuirne una parte all’altro coniuge, al fine di riequilibrare le loro condizioni economiche, anche quando di questa contribuzione il beneficiario non avesse realmente bisogno per vivere autonomamente e dignitosamente, in quanto titolare di proprie e autonome disponibilità (talora ottenute anche grazie alla vita matrimoniale).
===Il tenore di vita matrimoniale===
Il criterio del tenore di vita matrimoniale ha costituito un punto di riferimento essenziale e condizionante per l’attribuzione dell’assegno divorzile, del quale si è predicata la funzione assistenziale nel peculiare senso che il coniuge (non necessariamente debole in assoluto ma) economicamente più debole dell’altro dovrebbe essere “assistito” a tempo indeterminato, mediante un’operazione di sostanziale livellamento dei redditi e patrimoni. Si tratterebbe di una forma patrimoniale di ultrattività del vincolo matrimoniale, ormai cessato sotto il profilo personale, che si suole giustificare per tutelare chi ha investito energie nella famiglia e potrebbe subire un depauperamento a seguito del divorzio, anche tenuto conto delle difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro. Attraverso il riferimento al criterio del «tenore di vita» la giurisprudenza tradizionale valutava la mancanza di mezzi adeguati o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive da parte del richiedente, considerato come ex-coniuge, piuttosto che come persona avente diritto ad una vita dignitosa e libera dal bisogno. E ciò, sebbene nessun riferimento al «tenore di vita» fosse contenuto nell’art. 5, co. 6, l. n. 898/1970, sostituito dall’art. 10 l. n. 74/1987, il quale stabilisce che il tribunale «dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive» e, ai fini della quantificazione, che si deve «[tenere] conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio». Solo nel co. 9, che riguarda la documentazione relativa ai redditi che i coniugi sono tenuti a presentare, v’è un cenno al tenore di vita ma come elemento di fatto rilevante per l’accertamento delle loro condizioni reddituali e patrimoniali («il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria»). Si era obiettato che la norma, con il riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali dei coniugi, non alludesse neppure implicitamente al criterio del tenore di vita matrimoniale quale parametro rilevante per l’attribuzione dell’assegno. Infatti, mentre l’accertamento delle condizioni economiche del coniuge richiedente serve per verificare l’inadeguatezza dei suoi mezzi, ai fini della legittimazione a chiedere l’assegno, dalla norma non si desume la necessità di comparare tali mezzi con quelli dell’altro coniuge, al fine di accertare eventuali sproporzioni da colmare mediante l’attribuzione di un assegno. Si creerebbe, altrimenti, una impropria commistione tra le due fasi del giudizio che devono essere tenute distinte: la prima fase è volta all’accertamento del diritto all’attribuzione dell’assegno, che presuppone esclusivamente che il coniuge richiedente dimostri di non avere mezzi adeguati o di non poterseli procurare per ragioni oggettive; la seconda fase, alla quale si può dare ingresso solo qualora sia stata accertata la mancanza di redditi adeguati da parte del coniuge richiedente, è volta alla concreta quantificazione dell’assegno sulla base di un corretto bilanciamento dei diversi criteri previsti nella norma. Ed ancora, si imputava alla giurisprudenza tradizionale di interpretare erroneamente il concetto di inadeguatezza dei mezzi, prescindendo, in sostanza, dalla reale impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (la norma riconosce l’assegno al coniuge che «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive»). L’effetto era di addossare al coniuge destinatario della richiesta di assegno l’onere di dare la difficile prova dell’adeguatezza dei mezzi altrui ovvero dell’effettiva e concreta possibilità dell’altro coniuge di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini11, senza considerare che, a causa dello scioglimento del matrimonio, entrambi i coniugi si impoveriscono e risulta difficile anche per il coniuge possidente conservare il tenore di vita precedente. In realtà, i mezzi possono essere inadeguati (e giustificare l’attribuzione dell’assegno) solo se e quando sia impossibile procurarseli, altrimenti quei mezzi non possono ritenersi inadeguati in senso stretto, sicché il coniuge non può dirsi in una condizione di bisogno cui sopperire mediante un contributo patrimoniale imposto all’altro coniuge.
===Cass. n. 11504/2017===
Con la sentenza n. 11504/2017 la Corte ha enunciato due innovativi principi di diritto. Con il primo ha chiarito che il riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio dipende da una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’«an debeatur», informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali «persone singole» ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto all’eventuale riconoscimento del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il «quantum debeatur», improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (art. 2 Cost.), che riguarda soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso. A questa conclusione la Corte è pervenuta sulla base del seguente percorso argomentativo. «Il parametro del “tenore di vita” – se applicato anche nella fase dell’an debeatur – collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti, come già osservato, con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale – a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 c.c. –, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo – sia pure limitatamente alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto – in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale … La scelta di detto parametro implica l’omessa considerazione che il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debeatur, esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di “autoresponsabilità” economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio. La “necessaria considerazione”, da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale … è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l’eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell’assegno (quantum debeatur), vale a dire – come già sottolineato – soltanto dopo l’esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all’assegno. Il parametro del “tenore di vita” induce inevitabilmente ma inammissibilmente … una indebita commistione tra le predette due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti …» (infatti, si è aggiunto, «non di rado è dato rilevare nei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l’assegno di divorzio una indebita commistione tra le due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti che, essendo invece pertinenti esclusivamente all’una o all’altra fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l’ordine progressivo normativamente stabilito»). La Corte ha rilevato anche che «le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio “inteso come ‘sistemazione definitiva’, perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale” (così la sentenza n. 11490 del 1990) con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla “attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma”, con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che “meno traumaticamente rompe[sse] con la passata tradizione” (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che – oggi – è possibile “sciogliere”, previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile, a norma dell’art. 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 10 novembre 2014, n. 162). Ed è coerente con questo approdo sociale e legislativo l’orientamento … secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016). In proposito, un’interpretazione della norma sull’assegno divorzile che faccia procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla CEDU (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile … non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile»12.
Superato il criterio del tenore di vita, la Corte ha dovuto individuare un parametro diverso, coerente con le premesse, che è stato necessariamente quello della «indipendenza economica», già previsto in materia di mantenimento dei figli maggiorenni (art. 337 septies, co. 1, c.c.) ed equivalente a quello della «autosufficienza economica». Ha quindi enunciato il seguente principio di diritto: «Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della l. n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur, … se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’“indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della stabile disponibilità di una casa di abitazione, delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo) che formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del quantum debeatur, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“condizioni dei coniugi”, “ragioni della decisione”, “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”, “reddito di entrambi”) e valutare “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova»13. Si è ribadito che non è il mero divario delle condizioni economiche degli ex coniugi che può giustificare l’assegno divorzile14. Al principio di autoresponsabilità15 degli ex coniugi si ispirano anche le legislazioni degli altri paesi europei, che ammettono solo limitate (anche nel tempo) eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà, e che generalmente non conoscono la fase della separazione personale nella quale da noi la conservazione del tenore di vita è garantita (v. infra, § 2.5). Infatti, il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che, inerendo alla dimensione della libertà della persona, implicano l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche. Né vale invocare, in senso contrario, l’esigenza di tutelare l’affidamento del coniuge per la cessazione degli effetti patrimoniali di un atto che è giuridicamente e intrinsecamente dissolubile, qual è il matrimonio.
La Corte è successivamente intervenuta sulla delicata questione degli effetti dei nuovi principi nei rapporti in corso e, in particolare, nei giudizi pendenti di revisione dell’assegno, a norma dell’art. 9 l. n. 898/1970, enunciando il seguente principio: «Il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, desunta [dai menzionati] “indici” …»16.
Si è anche chiarito che «la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà postconiugale, presupposto dell’assegno di divorzio»17.
Se l’assegno divorzile, per come lo abbiamo conosciuto per decenni, è stato rappresentato come una espressione autentica o una diretta derivazione del principio di solidarietà (postconiugale), il cambiamento di prospettiva sollecitato dalla recente giurisprudenza di legittimità dovrebbe, allora, indurci a dire che quello stesso principio sia stato adesso abbandonato o sconfessato? A questa domanda deve darsi senz’altro risposta negativa. Il principio di solidarietà sociale, radicato nella Costituzione (artt. 2 e 3), impone alle parti di compiere tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte «nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico»18, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo nell’interesse proprio del soggetto. La solidarietà, oltre che criterio di interpretazione degli atti giuridici, è regola di comportamento e può costituire anche fonte di obbligazioni, come il pagamento di un assegno divorzile all’ex coniuge, ma nei limiti in cui sia realmente necessario per tutelare gli interessi giuridicamente qualificati e rilevanti dell’altro coniuge, qual è quello al raggiungimento della indipendenza economica. Le stesse Sezioni Unite nel 1990 esclusero la possibilità di riconoscere l’assegno se richiesto per compensare l’ex coniuge in ragione del «contributo personale ed economico dato … al patrimonio dell’altro». L’interpretazione dell’assegno divorzile in senso polifunzionale rischia di giustificare “imposizioni patrimoniali” indebite e di risolversi in un’elusione dell’art. 23 Cost., la cui importanza è segnalata anche dalla recente sentenza delle Sezioni Unite in tema di danni punitivi19. E non varrebbe opporre il principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29, co. 2, Cost.) che, in costanza di matrimonio, è a fondamento di altri istituti di diritto patrimoniale (come, ad es., la comunione e la successiva divisione dei beni in parti uguali) e, quando il matrimonio non c’è più, coincide con il principio di uguaglianza nei rapporti tra persone singole, a norma dell’art. 3 Cost. In conclusione, può ritenersi ancora attuale l’orientamento secondo cui l’impossibilità del richiedente di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa va apprezzata «alla stregua delle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccato alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi interprete, rapportando, senza fughe, ad essa le proprie scelte valutative, in un ambito necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile»20.
1 Per uno spunto v. Cass., 20.1.1989, n. 285.
2 Cass., S.U., 10.10.1974, n. 3308.
3 Cass., S.U., 9.7.1974, n. 2008.
4 Cass., 2.3.1990, n. 1652.
5 Cass., S.U., 29.11.1990, nn. 11490 e 11492.
6 Cass., 18.11.2016, n. 23574; Cass., 28.4.2006, n. 9876.
7 Cass., 4.10.2010, n. 20582.
8 Cass., 9.6.2015, n. 11870; Cass., 19.3.2003, n. 4040.
9 C. cost., 11.2.2015, n. 11.
10 Cass., 25.2.2014, n. 2546.
11 Cass., 23.10.2015, n. 21670.
12 Cass., 10.5.2017, n. 11504.
13 Cass. n. 11504/2017, cit.
14 Cass., 9.10.2017, n. 23602.
15 Cass., 20.8.2014, n. 18076, sul principio di autoresponsabilità in tema di mantenimento dei figli maggiorenni.
16 Cass., 22.6.2017, n. 15481.
17 Cass., 16.5.2017, n. 12196. La stessa C. cost., 19.7.1989, n. 472, nell’escludere la completa equiparabilità del trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato, affermò che «per il divorziato l’assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale».
18 Cass., 4.5.2009, n. 10182, in tema di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto.
19 Cass., S.U., 5.7.2017, n. 16601.
20 Cass. n. 1652/1990, cit.