Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella prima metà del Novecento si elabora nella cosiddetta teoria sintetica dell’evoluzione l’integrazione del darwinismo naturalistico con il mendelismo sperimentale di laboratorio. Nella seconda metà del secolo, le conoscenze sui meccanismi genetico-molecolari hanno permesso enormi progressi nell’analisi della microevoluzione, mentre nuove interpretazioni dalla paleontologia e soprattutto nuovi dati dalla genetica dello sviluppo degli anni Novanta stanno spingendo l’evoluzionismo a ripensare i nessi tra micro e macroevoluzione. L’evoluzionismo continua a cambiare e sembra probabile che nel XXI secolo il suo rinnovamento sarà affidato a una nuova, più ampia teoria postsintetica dell’evoluzione.
Se nelle scienze della vita l’Ottocento può essere visto a ragione come il secolo dell’evoluzionismo, solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento l’evoluzionismo di derivazione darwiniana si affermerà come teoria unitaria della biologia, in molti casi divenendo un paradigma esplicativo utile anche in altri campi del sapere: dalla psicologia all’economia, dalla sociologia alla medicina, dall’antropologia all’epistemologia. Nel Novecento si adotterà l’approccio evoluzionistico per spiegare, con un principio causale maggiore, molti fenomeni comuni sia ai viventi sia a quei sistemi culturali che dei viventi sono un prodotto dinamico. Il principio causale evocato è quello di selezione naturale, la riproduzione differenziale di genotipi: un meccanismo anonimo capace di spiegare fenomeni che altrimenti richiederebbero un atto di fede nel soprannaturale, il ricorso a ipotesi finalistiche. La forza dell’evoluzionismo, come di qualunque solida teoria scientifica, sta nella sua capacità di misurarsi con i dati empirici offrendo riscontri verificabili delle spiegazioni proposte. Consapevoli dell’enorme complessità dei sistemi viventi, gli evoluzionisti, da Darwin sino ai contemporanei, non hanno mai avanzato pretese di perfezione teorica; al contrario il senso di provvisorietà e di relativa incompletezza hanno sempre caratterizzato la teoria darwiniana e quella sintetica dell’evoluzione. Questa relatività della teoria, tuttavia, e tutte le regolazioni importanti e gli aggiustamenti che si sono succeduti per includervi le conseguenze di scoperte completamente nuove, come quelle collegate agli sviluppi della biologia molecolare, non ne hanno mai intaccato il cuore. Nel processo di evoluzione dell’evoluzionismo rimangono perfettamente riconoscibili l’idea darwiniana di discendenza con modificazione e l’identità della teoria della selezione naturale elaborata da Charles Darwin e da Alfred Russel Wallace, che sono ancora oggi il cuore e il baricentro della teoria dell’evoluzione. Il principio di selezione continua ad avere lo stesso potere esplicativo che aveva per Darwin: selezione naturale è in effetti il nome del meccanismo che in presenza di variazione (genetica e ambientale) produce l’ordine biologico e giustificandolo ne fonda il significato. Tuttavia va osservato che l’evoluzionismo attuale, in quanto modello di spiegazione di dati empirici del mondo vivente, non si riduce a a selezionismo giacché la moderna teoria dell’evoluzione (in perfetta coerenza con quanto sostenuto da Darwin) affianca alla selezione sia altri fattori responsabili dell’evoluzione (mutazione, deriva genetica, migrazione-flusso genico ecc.), sia nuove nozioni successive a Darwin e ai neodarwiniani. Questo per dire che l’attuale evoluzionismo non è identico a quello di Darwin e dei suoi seguaci ottocenteschi, ma è il frutto di quasi mezzo secolo di ricerca sfociata nella teoria sintetica dell’evoluzione.
Contrapposto al fissismo ancora vivo nel Settecento, sostenitore dell’immutabilità e della costanza delle specie fin dalla loro creazione, l’evoluzionismo concepisce, la modificabilità delle specie e la comparsa di specie nuove. La sua origine moderna è nell’Ottocento e Jean-Baptiste Lamarck, il primo naturalista capace di dimostrare scientificamente l’esistenza dell’evoluzione delle specie, ne viene riconosciuto come l’autore. Sono però Darwin e Wallace a individuare nel principio di selezione il meccanismo esplicativo dell’evoluzione, dato che Lamarck dell’evoluzione adattativa delle specie aveva fornito una spiegazione errata, basata sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Darwin in particolare elabora una teoria complessa e rifinita dell’evoluzione biologica. Dai tempi di Darwin le scienze della vita sono progredite enormemente e la teoria dell’evoluzione è cambiata molto e in molti modi diversi, sicché si sono succeduti o hanno convissuto l’uno accanto all’altro numerosi e differenti evoluzionismi. Un primo gruppo di teorie evoluzionistiche è quello delle teorie autogenetiche accomunate dall’idea di una tendenza intrinseca nei viventi al progresso, al loro perfezionamento.
L’idea di progresso, già presente in Lamarck, si ritrova in molti biologi dell’Ottocento e del primo Novecento. Per esempio, verso la fine dell’Ottocento a seguito della scoperta delle cosiddette “serie filetiche” di fossili prese piede in America una teoria autogenetica conosciuta come ortogenesi ; era questo il nome del principio di perfezionamento che fu adottato e diffuso nel tardo Ottocento da Theodor Eimer, uno zoologo di Tubinga. Tale principio si basa sull’idea di un’evoluzione lineare delle specie (esemplificata dall’evoluzione sequenziale dell’arto negli antenati del cavallo moderno) sostenuta da una forza non fisica, ma da una causa interna, che guida il mondo vivente verso una sempre maggiore perfezione. La visione di un’evoluzione orientata deriva dal lamarckismo, giacché la linearità viene interpretata come il risultato operato sui caratteri da modificazioni ambientali, le quali, una volta acquisite vengono poi trasmesse alla progenie. Negli stessi anni di nascita dell’ortogenesi, due studiosi americani, il paleontologo Henry Fairfield Osborn e lo psicologo James Mark Baldwin, e lo zoologo e psicologo inglese Conwy Lloyd Morgan, elaborano indipendentemente uno dall’altro la teoria della selezione organica. Nell’“effetto Baldwin” (la selezione organica è anche conosciuta con questo nome) gli individui messi di fronte a un problema ambientale scelgono la risposta più idonea, compatibilmente con le loro capacità reattive. Una volta acquisita, la nuova abitudine (il ruolo del comportamento è centrale nell’effetto Baldwin) modifica il soma. Questo meccanismo non prevede l’ereditarietà dei caratteri acquisiti (sebbene Osborn fosse incline a vedere nella selezione organica un meccanismo ponte tra la spiegazione lamarckiana e quella darwiniana dell’evoluzione); anzi la teoria affida all’eventuale insorgenza di mutazioni e all’azione selettiva la possibilità di rendere ereditabili caratteri adattativi. Nell’effetto Baldwin, tuttalpiù, c’è l’idea che l’adattabilità eco-etologica all’ambiente possa stimolare una futura azione della selezione naturale in presenza di variazione genetica ereditabile, quando questa sarà disponibile.
Paleontologi come Osborn e il francese Pierre Teilhard de Chardin hanno elaborato varianti di evoluzionismo ortogenetico rispettivamente noti come “aristogenesi” e “principio omega”. La teoria del gesuita francese rientra nel suo tentativo di accordare la teoria scientifica dell’evoluzione biologica con la dottrina cristiano-cattolica; la scienza con la fede. L’evoluzionismo ortogenetico delinea l’immagine di una discendenza con modificazione (il cosiddetto “albero della vita”) dall’aspetto assai poco arborescente, al contrario dell’evoluzionismo darwiniano, ove la struttura ad albero dell’evoluzione dei grandi gruppi di organismi manifesta continue ramificazioni (dovute alla nascita di nuove specie) come esito di cambiamenti evolutivi imprevedibili e in qualche modo collegati ai mutamenti dell’ambiente. Coeva e opposta all’ortogenesi è l’“ologenesi”, un’altra teoria autogenetica, quindi anche essa non darwiniana, nata in Italia e accolta favorevolmente in Francia. Il suo autore, lo zoologo piemontese Daniele Rosa (1857-1944), assume che ogni specie si sviluppi nella sua interezza. Per Rosa e gli ologenisti la forma dell’albero della vita è rigidamente dicotomica e il suo andamento ordinato è dovuto agli effetti delle continue scissioni evolutive attraverso cui una linea filetica evolve, originando un “ramo precoce” e un “ramo tardivo”. Analogamente a quanto avviene alla cellula che si divide continuamente in due fino ad avere esaurito le sue potenzialità, la variante ologenista dell’evoluzionismo ritiene vi sia all’interno della specie una causa materiale che ineluttabilmente la obbliga a evolvere: un’evoluzione che termina con l’esaurirsi della vitalità della specie. Tutto ciò indipendentemente dal contesto ambientale. Né Rosa né gli altri sostenitori di teorie evoluzionistiche per cause interne, riescono tuttavia a dimostrare l’esistenza di meccanismi evolutivi autogenetici.
All’inizio del Novecento l’evoluzionismo darwiniano muove già in cattive acque e quando vengono riscoperte le leggi di Mendel le sue condizioni di salute peggiorano. I genetisti sperimentali del primo Novecento, infatti, sostengono l’idea che il nucleo della teoria evolutiva debba essere rappresentato dalla variazione genetica e non dalla selezione naturale; inoltre siccome la variazione dei caratteri studiati si manifesta attraverso discontinuità ne deducono che, analogamente, l’evoluzione stessa non possa che essere nel complesso discontinua. La mutazione diventava perciò il meccanismo dell’evoluzione: ed ecco il mutazionismo. Negando il ruolo della selezione naturale e la dinamica gradualista dell’evoluzione, mendelismo e mutazionismo sono teorie evoluzionistiche antidarwiniane. Gran parte dei biologi sperimentali degli anni Venti e Trenta spiegherà la produzione di nuove specie e l’adattamento ricorrendo alle mutazioni del patrimonio ereditario. Inoltre, visto che un punto qualificante dell’evoluzionismo lamarckiano considera le mutazioni di per sé adattative, non stupisce che la maggioranza dei genetisti fosse lamarckiana: l’adattamento procede senza bisogno della selezione. Sono antiselezionisti sia genetisti mendeliani e antigradualisti come William Bateson sia saltazionisti puri come Hugo de Vries: è loro convinzione che le variazioni di tipo continuo siano troppo piccole per produrre pressioni selettive significative e che quindi la sorgente di variazione per l’evoluzione debbano essere solo le macromutazioni. Al contrario, Thomas Morgan, dopo avere sostenuto per oltre un ventennio posizioni antigradualiste e antiselezioniste, si converte al gradualismo una volta che constata su Drosophila molti esempi degli effetti evolutivi collegati a mutazioni di piccola entità.
Con la riscoperta delle leggi di Mendel, i genetisti del primo Novecento con una concezione particellare, mendeliania, dell’eredità si concentrano nell’analisi della variazione genetica che presto indicano come principale causa del cambiamento evolutivo. A questa posizione subito si oppongono i biologi non genetisti di formazione naturalistica o statistica, non a caso legati a una concezione continuista e adattazionista della variazione e dell’evoluzione. In effetti, mentre i mendeliani possono facilmente osservare nei loro laboratori la produzione di singole cospicue mutazioni, ai naturalisti molto raramente capita altrettanto sul campo. Dunque, mentre i mendeliani danno grande rilievo alla variazione e in particolar modo a quella discontinua assai vistosa, i biometrici giudicano del tutto ininfluente il mendelismo per la teoria dell’evoluzione. I mendeliani sostengono che l’evoluzione sia eminentemente discontinua e sostanziata dalla mutazione; i biometrici, pur sostenendo correttamente l’importanza del gradualismo nell’evoluzione, ancora credono, erroneamente, che l’eredità avvenga per mescolanza. Il contrasto appare inconciliabile e specialmente in Gran Bretagna è molto acceso quando, negli anni Venti, in Inghilterra e negli Stati Uniti matura a opera di Ronald A. Fisher , di John B.S. Haldane e di Sewall Wright un approccio teorico all’evoluzione nato dal dibattito sulla continuità dell’evoluzione (gradualismo) e sull’efficacia della selezione naturale (selezionismo). I lavori di Fisher sulla dominanza, il polimorfismo bilanciato e sul rapporto tra varianza genetica ed evoluzione; quelli di Wright sugli effetti dell’incrocio, sull’importanza della deriva genetica nelle piccole popolazioni, sul coefficiente di parentela e sull’interazione tra loci genici; i modelli di Haldane sulla selezione a carico di geni autosomici: tutti questi studi furono alla base della genetica matematica di popolazione, ovviamente insieme al principio di Hardy-Weinberg risalente al 1908. In tre anni consecutivi Fisher (1930), Wright (1931) e Haldane (1932) pubblicano i loro scritti più importanti fondando la genetica teorica di popolazione. Il loro lavoro riesce a superare i contrasti tra mendeliani e biometrici dimostrando l’assenza di conflitto tra eredità discreta (posizione mendeliana) e variazione continua (gradualismo) e l’efficacia della selezione naturale su piccole mutazioni (darwinismo). Ognuno di questi tre autori produce un proprio modello matematico che coglie e teorizza solo alcuni aspetti del processo evolutivo; in qualche caso i modelli proposti possono confliggere e tuttavia la sintesi tra mendelismo e darwinismo viene realizzata a livello teorico dalla genetica. Tuttavia, perché maturi la possibilità di una sintesi tra teoria e prassi e affinché essa sia più ampia e transdisciplinare, è necessario, come vedremo fra poco, che le previsioni dei singoli modelli di genetica di popolazione vengano provate sperimentalmente e che le acquisizioni della genetica siano articolate con quelle della sistematica e della paleontologia, discipline che a due diverse scale di indagine si occupano dei risultati dei cambiamenti evolutivi.
La formula “teoria sintetica dell’evoluzione” è coniata dallo zoologo inglese Julian Huxley e compare nella seconda edizione del libro (1963) che egli dedica proprio alla sintesi moderna dell’evoluzione, Evolution, the modern synthesis (la prima edizione è del 1942). Come è risaputo, gli artefici principali della teoria sintetica sono: Theodosius Dobzhansky, Ernst Mayr, Julian Huxley, George Gaylord Simpson, Bernhard Rensch, George Ledyard Stebbins. Lungo un arco di anni che va dal 1937 al 1946, con un’appendice che lo prolungherà fino al 1950, riescono ad articolare una serie di acquisizioni disciplinari locali, di genetica, biosistematica e paleontologia, in un corpo teorico globale: una teoria unitaria dell’evoluzione biologica finalmente capace di spiegare un’enorme ed eterogenea quantità di osservazioni e dati sperimentali fino a quel momento teoricamente scorniciati. Tra i caratteri principali di questa teoria integrata troviamo il gradualismo sia nell’adattamento che nella speciazione; l’idea che la variazione è organizzata in un fondo o pool genetico di proprietà della popolazione; il riconoscimento che soggetto dell’evoluzione è la popolazione; la convinzione dimostrata dai fatti che la selezione è uno dei principali fattori di evoluzione nonché l’unica causa dell’adattamento. L’elaborazione della teoria sintetica inizia nel 1937 con la pubblicazione di Genetics and origin of the species, un libro dello zoologo e genetista russo-americano Dobzhansky dedicato al rapporto tra genetica e origine delle specie, nel quale l’autore discute sul metodo più idoneo per riunire in un unico quadro teorico dati informazioni e conoscenze sull’evoluzione. Dobzhansky stesso è un esempio perfetto di sintesi ben riuscita tra la visione naturalistica e popolazionale della scuola russa e il metodo di ricerca sperimentale della citogenetica americana di Morgan di cui, una volta emigrato in America, era il 1927, è stato allievo. Nel suo studio, Dobzhansky riconosce come fatto di primaria importanza l’esistenza di discontinuità tra le specie e la necessità di studiarne la genetica della variazione e dei meccanismi di isolamento. Il problema della specie nel suo complesso, con la dimostrazione che le specie sono entità biologiche concrete e non enti nominali; l’introduzione del pensiero popolazionale in biosistematica, lo studio della variazione geografica discontinua e di quella continua, l’importanza della distribuzione geografica allopatrica e di quella simpatrica e finalmente l’individuazione dei meccanismi di speciazione geografica, rappresentano i contributi di Mayr e di Huxley. Il contributo dello zoologo tedesco-americano Mayr, in particolare, riguarda soprattutto il problema della specie: statuto ontologico, definizione, origine. Elaborando in Systematics and the origin of the species (1942) il concetto biologico di specie, Mayr dimostra che la specie è biologicamente reale, politipica e pluridimensionale, composta di popolazioni (al limite una sola) e che l’appartenenza di una popolazione (l’entità biologica evolvibile) a una o a un’altra specie è stabilita da una relazione di natura riproduttiva. La grande novità è che tale appartenenza non costituisce più una proprietà essenziale, immutabile, inerente l’ontologia della popolazione, ma diventa, invece, una proprietà relazionale e modificabile nel tempo. La probabilità di successo riproduttivo varia al passare delle generazioni ed è circolarmente connessa al grado di parentela genetica (opportunamente definita) tra le popolazioni. Oltre ad essere stato uno dei grandi protagonisti della teoria sintetica, Mayr si dedicherà anche all’aggiornamento e alla sistematizzazione storico-critica delle conoscenze sull’evoluzione accumulatesi nei decenni successivi. All’epoca della Sintesi, i paleontologi sono contrari al darwinismo; tra loro figurano studiosi evoluzionisti, neolamarckiani e antilamarckiani, saltazionisti e ortogenisti, ma nessuno di essi accetta il gradualismo selezionista dei biologi. Un’interpretazione diretta della macroevoluzione in termini di analisi genetica è a quest’epoca impossibile, e anche il paleontologo americano Simpson giudica opportuno mantenere distinte la teoria della microevoluzione da quella macroevolutiva. Tuttavia, visto che gli interessa dimostrare la consistenza dell’evoluzione paleontologica con le inferenze della genetica, tenta un’analisi causale della macroevoluzione, non gli basta raccontarla. Nel suo Tempo and mode in evolution (1944), opera veramente innovativa, Simpson modellizza dati e informazioni sui fossili ispirandosi alla demografia e alla genetica di popolazione, elabora la nozione di zona adattativa e ipotizza l’esistenza di un’evoluzione quantica, a salti. Nel 1949 compare Factors of evolution: the theory of stabilizing selection, l’importante contributo dello zoologo ucraino Ivan I. Schmalhausen (1884-1963) e nel 1950 il botanico americano Stebbins con Variation and evolution in plants estende la teoria sintetica alla botanica chiarendo il peso della poliploidia (ossia della presenza di un numero di cromosomi superiore è diploide, cioè comprende due cromosomi per ogni tipo, con la stessa forma e dimensione) e della ibridogenesi nella speciazione delle piante. Il libro dello zoologo tedesco Rensch sull’evoluzione transpecifica giunge per ultimo, nel 1954; sarà tradotto in inglese come Evolution above the species level, nel centenario dell’Origine della specie. Con il passare del tempo la teoria sintetica viene modificata, ma intanto ne cresce la diffusione. Un effetto non voluto ma facilitato da una certa formulazione schematica e rigida con cui la teoria circola fuori dal mondo della ricerca, una semplificazione che però ne ha favorito la grande diffusione è costituito dal concetto di adattamentismo, secondo cui ogni carattere costituisce un adattamento. L’adattamentismo è una forma distorta e ipersemplificata della teoria dell’adattamento in cui la selezione naturale viene acriticamente assunta come causa di qualunque fenomeno anche solo apparentemente adattativo. Va ricordato che prima della nascita della teoria sintetica non esisteva ancora una disciplina unitaria dell’evoluzione. Qua e là spuntavano spiegazioni per lo più di stampo ottocentesco, darwiniane o neodarwiniane, specialmente quando vi entrava in gioco l’adattamento, ma senza rilevanti conseguenze teoriche generali. Con la fine degli anni Cinquanta l’evoluzionismo si arricchisce di una disciplina nuova dedicata allo studio dell’evoluzione biologica: è la biologia evoluzionistica, un settore di studi che emerge come il prodotto più significativo e duraturo della teoria sintetica dell’evoluzione.
Nell’arco di tempo che grosso modo va dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Cinquanta si succedono una serie di contributi teorici ed empirici di grande interesse per la storia dell’evoluzionismo. Queste ricerche sono spesso collegate tra loro e possono essere viste oggi quasi come un tentativo precoce e intempestivo di elaborare una teoria evoluzionistica a partire dalla morfologia, dalla biologia dello sviluppo, quindi una teoria incentrata sulla macroevoluzione dei fenotipi individuali piuttosto che sulla microevoluzione delle popolazioni. Tali ricerche davano anche grande spazio allo studio sperimentale dell’adattamento, soprattutto però a quello postgenetico, fisiologico e regolativo, espresso come plasticità individuale sia a livello dell’adulto che dell’embrione in sviluppo. Per molte ragioni tra cui le insufficienti conoscenze dei meccanismi genetici e molecolari dello sviluppo (l’embriologia era ancora nella sua fase descrittiva e la genetica molecolare neanche era nata), gli autori di queste ricerche non giungono a una propria teoria evoluzionistica, e sebbene sia loro chiarissimo che la produzione del materiale fenotipico necessario alla selezione è dovuto ai geni e alla loro capacità di regolare lo sviluppo, l’embriologia praticamente non parteciperà all’elaborazione della teoria sintetica dell’evoluzione. Gli interrogativi posti da quegli autori erano (e sono ancora) di grande interesse scientifico; a essi la biologia ha cominciato a rispondere solo nell’ultimo ventennio del Novecento. Nelle ricerche sulle modificazioni dei genotipi e dei fenotipi durante l’evoluzione si potrebbero distinguere due fasi successive al decennio in cui fu riscoperto Mendel e nacque la genetica, quando il genetista danese Wilhelm Ludvig Johannsen elabora le nozioni di genotipo e di fenotipo e lo zoologo tedesco Richard Woltereck il concetto di norma di reazione: quello che viene ereditato è la predisposizione a reagire, durante lo sviluppo, in modo specifico a un insieme di situazioni ambientali. Molti biologi degli anni Venti e Trenta dubitavano fortemente che l’origine delle novità morfologiche che rendono differenti le varie classi di animali e di piante potesse essere spiegata attraverso gli effetti cumulativi di mutazione e selezione. Proprio questa è la posizione del genetista tedesco-americano Richard Goldschmidt autore di una teoria esplicativa della macroevoluzione che si colloca al di fuori della teoria sintetica, e del morfologo ed embriologo Schmalhausen il cui lavoro verrà invece accolto nell’ultima fase della teoria sintetica. Questo studioso è un po’ una figura ponte tra la grande tradizione di ricerca popolazionale che condurrà alla teoria sintetica dell’evoluzione (a cui contribuirà, anche se tardi e indirettamente) e quella di embriologi, anatomisti, morfologi, ma anche di genetisti come Goldschmidt che non vi partecipano. Il contributo di Schmalhausen è estremamente ricco e diversificato: distingue tra fattori interni e fattori esterni del cambiamento evolutivo ed è convinto che entrambe le categorie contino nel vincolare e canalizzare l’evoluzione dei fenotipi; pur dedicando un’approfondita analisi all’evoluzione darwiniana delle popolazioni in rapporto alla variazione ambientale, fonda le sue ricerche su di un approccio organismico; percependo la natura gerarchica dei sistemi viventi, cerca di illustrare i rapporti tra le proprietà organismiche, quelle del genoma e quelle della popolazione. Inoltre si dedica allo studio del rapporto tra genotipo e ambiente e sviluppa il concetto di norma di reazione di Woltereck avanzando l’idea di una selezione stabilizzante sulla norma di reazione; illustra i possibili meccanismi sottostanti la plasticità fenotipica, e infine individua nel rapporto tra selezione e processi di sviluppo uno dei grandi temi futuri della teoria dell’evoluzione. Il suo libro più importante, Factors of evolution. The theory of stabilizing selection, sarà pubblicato in inglese nel 1949. In una fase successiva, ma in parte anche sovrapposta alla precedente, spiccano l’embriologo e genetista inglese Conrad Hal Waddington e i tre botanici Jens Christen Clausen (1891-1969), David D. Keck e William M. Hiesey che per un ventennio (tra il 1940 e il 1960) lavorano in California sulla plasticità fenotipica delle piante (i loro studi su Potentilla proseguono le analoghe ricerche dello svedese Gunnar Turesson (1922) sugli ecotipi delle piante). Waddington dopo avere condotto molte ricerche di embriologia sperimentale sulla natura chimica dell’organizzatore e sul fenomeno dell’induzione, si interessa nel dopoguerra al ruolo dei geni nello sviluppo e riconosce l’importanza dei meccanismi epigenetici (il termine epigenetica è suo) nel ridurre il numero di geni necessari alla produzione di strutture morfologiche anche molto complesse. Similmente e quasi contemporaneamente a Schmalhausen, Waddington propone un meccanismo che chiama assimilazione genetica, attraverso cui la plasticità fenotipica potrebbe funzionare come tappa intermedia durante il processo di “evoluzione fenotipica”. In pratica modificazioni fenotipiche acquisite in certe condizioni ambientali verrebbero progressivamente trasformate in ereditarie, non lamarckianamente ma piuttosto attraverso la selezione di alleli (ossia delle forme alternative di gene responsabili della particolare modalità con cui si manifesta un carattere ereditario) con effetti fenotipici simili a quelli osservabili durante i processi di sviluppo. Anche altri ricercatori tentano verifiche sperimentali di certe idee avanzate da Schmalhausen nel suo programma di ricerca, e, come abbiamo visto, già congetturate a fine Ottocento da Baldwin e altri studiosi: e cioè che la plasticità del fenotipo, la reattività individuale a condizioni ambientali mutevoli, l’adattamento individuale raggiunto negli animali anche grazie al comportamento appreso, possono surrogare efficacemente l’adattamento ottenuto per via selettiva con l’evoluzione genetica della popolazione. I programmi di ricerca di Schmalhausen e di Waddington sottolineano anche l’importanza decisiva dell’adattamento ecologico e il peso, se non proprio la centralità, dell’individuo nei processi evolutivi.
L’attuale evoluzionismo non solo non è identico a quello di Darwin, ma ha iniziato anche un processo di trasformazione interno alla teoria sintetica. La relativa fluidità dell’odierna teoria evoluzionistica è dovuta alle scoperte dell’ultimo quarto di secolo che richiedono una riconfigurazione della teoria sintetica. Tra queste novità in via di integrazione in una teoria allargata (la teoria di un evoluzionismo di terza generazione, dopo quello di Darwin e quello della Sintesi), possiamo trovare le risposte ad alcuni degli interrogativi e dei problemi sollevati da Darwin nell’Origine delle specie (1859) e nell’Origine dell’uomo (1871). Di alcune di queste scoperte diamo qui un resoconto sommario.
Nel 1972 due paleontologi americani, Niels Eldredge e Stephen Jay Gould (1942-2002) hanno proposto la teoria degli equilibri punteggiati, o intermittenti, secondo la quale, contrariamente alle attese darwiniane e della teoria sintetica, le specie fossili non mostrano variazioni apprezzabili nel tempo e i cambiamenti morfologici al loro interno sono piccoli e non orientati. L’idea è che una specie si mantenga stabile per milioni e milioni di anni per essere poi bruscamente sostituita negli strati fossili da una nuova specie, generata in occasione di intensi momenti di speciazione (stasi evolutiva punteggiata da impulsi di speciazione). La teoria degli equilibri punteggiati è stata confermata dallo studio dei molluschi fossili del Cenozoico del lago Turkana, in Kenia, in cui la morfologia della conchiglia rivela un periodo di stabilità di circa 3-5 milioni di anni, intervallati da periodi assai brevi (circa 50 mila anni) di trasformazioni e fenomeni di rapida speciazione. In effetti i neontologi hanno dimostrato che ci sono circostanze in cui la speciazione può essere molto rapida anche per certe specie attuali. Il punto più importante e innovativo della teoria degli equilibri punteggiati, è quello secondo cui la macroevoluzione sarebbe un fenomeno distinto dalla microevoluzione. La diversificazione di organismi a livello di generi, di famiglie, ordini e classi sarebbe cioè ottenuta in un modo improvviso e imprevedibile, grazie al successo di particolari mutanti, a imponenti trasformazioni nella regolazione genetica a livello di singoli individui piuttosto che al graduale rimaneggiamento del patrimonio ereditario della popolazione.
Un’altra acquisizione mette in evidenza il meccanismo dell’estinzione di massa, la subitanea scomparsa di molte specie di habitat anche molto diversi in tempi geologicamente molto brevi, è un fenomeno descritto da molto tempo che presenta caratteristiche differenti da quelle con cui si presenta la normale estinzione di fondo. I paleontologi riconoscono oggi cinque principali estinzioni di massa (fine Ordoviciano, tardo Devoniano, fine Permiano, fine Triassico, fine Cretaceo-Terziario) più una ventina di episodi minori. L’aspetto innovativo sta nella valutazione del loro ruolo nell’evoluzione. In sostanza si è riconosciuto che sebbene l’evoluzione sia in gran parte un fenomeno graduale, cambiamenti improvvisi rispetto ai quali l’adattamento genetico è impossibile costituiscono delle decisive occasioni di rinnovamento del biota terrestre; proprio come è accaduto dopo le cinque grandi estinzioni a partire dalle quali i superstiti hanno condizionato la successiva storia della biodiversità sul nostro pianeta. Qui il punto di divergenza riguarda il ruolo svolto dal caso nell’evoluzione delle specie, come dimostra il fatto, indiscutibile, che le imponenti estinzioni di massa sono state causate da una serie di catastrofi (glaciazioni, eruzioni vulcaniche, mutamenti nel livello degli oceani, impatti di meteoriti ecc.) assolutamente imprevedibili.
Altro concetto centrale: altruismo e socialità. Dato che l’altruismo non favorisce l’aumento della probabilità di sopravvivenza di chi lo produce (ma aumenta la probabilità di sopravvivenza – o l’idoneità riproduttiva – del beneficiario a scapito dell’altruista) non può quindi essere spiegato con la teoria della selezione individuale formulata da Darwin e Wallace e integrata nella teoria sintetica. Negli anni Sessanta, solo dopo un secolo di ricerche, tra le diverse ipotesi che mostrano l’esistenza dei numerosi tipi di atti altruistici descritti in letteratura (l’emissione di segnali di allarme da parte di animali sentinella che li espongono maggiormente all’attacco da parte dei predatori, l’offerta di cibo nelle colonie di insetti sociali, la sterilità di casta negli imenotteri ecc.) si impone quella dell’inglese William Rowan Hamilton collegata alla selezione attraverso i consanguinei (o selezione di parentela, kin selection). L’idea sottostante la teoria di Hamilton è che quanti più geni in comune un beneficiario ha con un donatore-altruista, tanto più il donatore otterrà un beneficio nell’essere altruista: un altruista (posto che sia capace di riconoscere la parentela) tende ad aiutare i parenti stretti più di quanto non faccia con quelli lontani. Hamilton dimostra in modo inconfutabile come si sia potuta affermare nel corso dell’evoluzione la socialità di imenotteri come le api dove le operaie formano una casta di femmine tutte sterili.
Le indagini dei biologi cellulari e molecolari sull’origine della cellula eucariotica a partire da quella procariotica hanno fatto ipotizzare un antichissimo episodio di endosimbiosi. Questo evento, accaduto tra i 2 e gli 1,5 miliardi di anni fa, fu decisivo per il futuro destino della vita sulla Terra. Furono le nuove straordinarie proprietà associate all’evoluzione della cellula eucariotica (tra tutte, la capacità di mitosi, di meiosi e la sessualità), di cui è fatto il corpo di tutti i protisti e di qualsiasi organismo pluricellulare della biosfera, a permettere infatti l’immenso incremento della diversità di geni, organismi ed ecosistemi. La teoria endosimbiotica dell’origine della cellula eucariotica si basa principalmente sull’ipotesi (oramai quasi una certezza) di un incontro fatale tra una grande cellula batterica e i mitocondri o i cloroplasti – all’epoca anch’essi semplici batteri liberi – che furono incorporati per sempre nella cellula ospite. Ma le cose, come quasi sempre avviene in biologia, forse furono più complicate di così dato che, sulla base della diversa natura dei geni nucleari e citoplasmatici delle moderne cellule eucariotiche, molti sospettano che la primitiva cellula procariotica fosse essa stessa il risultato di una pregressa più antica fusione: quella di un eubatterio fornitore del citoplasma con un archeobatterio che funzionò forse come donatore dell’apparato genetico. Sicché la cellula eucariotica sarebbe il risultato di almeno due incontri fatali: il primo tra un eu- e un archeobatterio e quello successivo tra questo batterio-chimera e un altro batterio libero di tipo aerobico (mitocondrio) o di tipo cianobatterio (cloroplasto). Lynn Margulis (1938-2011), la prima autrice della teoria endosimbiotica dell’origine degli eucarioti, ritiene che una volta entrate nella cellula ospite, mitocondri e cloroplasti continuano a funzionare e a replicarsi; con la scissione della cellula ospite, i corpuscoli al suo interno si distribuiscono all’interno delle cellule neoformate. Il possesso di una doppia membrana di rivestimento, di un DNA circolare, la divisione per scissione binaria e la sensibilità di mitocondri e cloroplasti agli antibatterici confermano l’ipotesi endosimbiotica. Ci sono tuttavia altre caratteristiche eucariotiche che non sono spiegabili con quest’ipotesi: l’esistenza di organelli citoplasmatici con una sola membrana di rivestimento, il reticolo endoplasmatico, l’origine del nucleo.
Una delle scoperte più travolgenti per l’assetto della teoria sintetica dell’evoluzione è stata quella dei cosiddetti geni omeotici (geni HOX). Questa è una famiglia di geni regolatori preposti all’accensione controllata di batterie di altri geni. Specificamente, i geni HOX codificano per fattori di trascrizione (proteine del nucleo legate al DNA) che hanno un ruolo molto importante nell’organizzazione spaziale dell’embrione. Una loro caratteristica speciale è di essere colineari con i segmenti corporei. In Drosophila per esempio, il complesso genico chiamato bithorax (BX-C) è contiguo al complesso chiamato Antennapedia (ANT-C) e insieme occupano una ristretta regione di DNA. Mutazioni a carico di BX-C (il complesso è composto da tre geni) comportano trasformazioni a carico del metatorace (T3) che diventa omologo al mesotorace (T2) per cui si ottiene un moscerino mutante con quattro ali e quindi con due toraci (il torace degli Insetti è di tre segmenti: il protorace T1 non porta ali, T2 porta il 1° paio, T3 porta il 2° paio; in Drosophila e negli altri Ditteri T3 non porta mai ali bensì strutture a clava dette bilancieri). La colinearità implica che l’allineamento di questi geni BX-C lungo il cromosoma non sia casuale: quelli più anteriori controllano la costruzione delle regioni più anteriori del corpo di Drosophila, quelli più posteriori controllano le regioni più posteriori. Abbastanza analogamente si comportano i cinque geni del complesso ANT-C coinvolti nel controllo dello sviluppo della testa e del protorace. Esiste una gerarchia genica: alcuni geni sono più importanti di altri, e i ricercatori concordano sul fatto che i geni omeotici occupano una posizione elevata in questa gerarchia; inoltre proprio studiando la struttura molecolare delle proteine codificate dagli otto geni di BX-C e ANT-C, hanno scoperto che tali proteine presentano una regione identica (chiamata omeodominio): il tratto di DNA che codifica per questo elemento strutturale conservato è noto come omeobox e viene identificato per la prima volta a Basilea da Walter Gehring nel 1984.
La caccia agli omeogeni (geni con l’omeobox) è iniziata da vent’anni. In poco tempo omeogeni sono stati scoperti anche in moltissimi altri tipi di organismi, dal lievito alle piante verdi, dagli artropodi ai vertebrati. Studiando gli omeogeni del topo e dell’uomo (una quarantina in tutto) si è constatato non solo una reciproca somiglianza ma anche un analogo compattamento nella stessa regione di DNA; essi inoltre specificano l’identità delle varie regioni del corpo situate lungo l’asse antero-posteriore dell’organismo in sviluppo. Proprio come avveniva per Drosophila. Ma la vera sorpresa si deve al confronto fra gli omeogeni del moscerino dell’aceto e quelli dell’uomo dal quale risulta che alcuni di loro erano geni omologhi. Da un punto di vista evoluzionistico questo significa che almeno quattro-cinque degli omeogeni comuni al moscerino e all’uomo sono gli stessi posseduti dall’antenato comune vissuto prima della divergenza evolutiva tra Insetti e Vertebrati. Una magnifica testimonianza di parentela che risale a molte centinaia di milioni di anni. In sostanza la famiglia dei geni HOX è antichissima e sembra essere anche altamente conservata; questo vuol dire che i modelli di sviluppo che dipendono dal loro controllo sono soggetti a vincoli e quindi non possono più evolvere. Un secondo aspetto assai promettente per l’evoluzionismo è la neonata biologia evoluzionistica dello sviluppo (evolutionary developmental biology), nota come evo-devo che si spera possa diventare la cornice teorica ed empirica in cui integrare i modelli microevolutivi popolazionali con le conoscenze sullo sviluppo genetico ed epigenetico in vista del loro impiego nella comprensione della macroevoluzione. I primi risultati delle indagini di evo-devo, stanno rivelando una novità: la centralità dell’ontogenesi nei processi evolutivi, che si manifesta da una parte come vincoli di sviluppo che non solo limitano la produzione di variazione e dunque la possibilità di selezione, ma che in alcuni casi possono bastare da soli per spiegare alcuni pattern morfologici (per esempio il numero dei segmenti corporei di un verme metamerico) senza bisogno di ricorrere a una spiegazione selezionistica ad hoc che chiami in causa automaticamente l’adattamento e la selezione naturale. Va detto che la costruzione di una evo-devo capace di integrare micro e macroevoluzione non sarà un’impresa facile; vi si oppongono alcune dicotomie all’apparenza insuperabili che per questo rappresentano al momento altrettanti punti fermi teorici: la distinzione tra genotipo e fenotipo; l’idea weismanniana, confermata nel dogma centrale della biologia, della separazione tra linea somatica e linea germinale; la distinzione tra cause prossime (meccaniciste e funzionali) e cause ultime (storico-evenemenziali); le diverse implicazioni del pensiero popolazionale rispetto a quello organismico tipologico e strutturalistico della biologia dello sviluppo.
A partire dagli anni postsintesi modelli teorici e studi sperimentali oltre a confermare l’idea (risalente a Joannsen, Bateson, Woltereck, Schmalhausen e altri) che la funzione di mappa genotipo-fenotipo non è lineare (visto che esistono interazioni gene-gene e interazioni genotipo-ambiente), hanno anche sottolineato l’importanza della plasticità del fenotipo nell’evoluzione. Questo in quanto la plasticità (che rappresenta una misura della norma di reazione di un organismo) determina il possibile insieme di habitat per un genotipo. Data la loro sedentarietà le piante sono in media molto più capaci di plasticità degli animali (tra gli animali le specie sessili, tipo spugne e coralli, lo sono rispetto a quelle dotate di locomozione) e dunque la maggior parte degli studi riguarda proprio le specie vegetali. Anthony D. Bradshaw, professore di botanica all’Università di Liverpool, nel 1965 sistema il campo delle ricerche sulla plasticità fenotipica conferendogli l’aspetto attuale. Le due idee centrali sono che la plasticità del fenotipo abbia una base genetica e dunque possa evolvere come qualunque altro carattere, e che lo stesso genotipo sia più o meno plastico a seconda dell’ambiente in cui si trova e dei caratteri (biochimici, fisiologici, anatomici, morfologici) considerati. Anni dopo, nel 1974, Richard Lewontin (1929-) chiarisce il rapporto tra analisi statistica della varianza impiegata dagli sperimentatori e norma di reazione suggerendo che il grado di ereditarietà di un carattere può cambiare con l’ambiente. Negli anni Novanta altri autori come Carl D. Schlichting e Massimo Pigliucci negli Stati Uniti e Paul Martin Brakefield in Europa intraprendono studi sperimentali rispettivamente su piante e su farfalle per chiarire il funzionamento dei meccanismi genetico-molecolari che presiedono alla plasticità fenotipica.
Con la teoria sintetica venivano definitivamente abbandonati i tentativi di una interpretazione lamarckiana dell’evoluzione. Tuttavia in anni recenti, grazie alla rinascita dell’interesse per i fenomeni dello sviluppo, all’interno della biologia evoluzionistica si assiste a una nuova attenzione per un punto di vista che potremmo continuare a chiamare lamarckiano che si manifesta negli studi sull’eredità epigenetica. Essa è costituita dall’insieme dei processi che modulano l’espressione dei geni degli eucarioti multicellulari innanzitutto durante lo sviluppo attraverso l’interazione tra i geni e l’interazione tra i geni e i loro prodotti. L’epigenetica comprende l’insieme delle modificazioni canalizzate durante lo sviluppo (assimilazione genetica di Waddington) nel passaggio da genotipo a fenotipo adulto. Waddington, che coniò il termine epigenetica, e altri genetisti dopo di lui hanno osservato che non tutta l’informazione per la produzione di fenotipi è conservata nel DNA: per esempio la differenza tra api operaie e ape regina non è genetica (i loro genomi sono identici) ma epigenetica (dipende solo dalla dieta larvale). Praticamente tutta la variazione fenotipica non correlata a una sottostante variazione genotipica diventa un prodotto dell’eredità epigenetica. Esempi di fenomeni epigenetici sono l’inattivazione del cromosoma X nelle femmine dei mammiferi, l’imprinting genomico (per cui l’espressione di un gene dipende dalla provenienza ereditaria, paterna o materna), imprinting da metilazione del DNA (il cui grado di metilazione varia durante l’ontogenesi individuale). Se è piuttosto chiaro che i cambiamenti nell’attività genica indotti dall’esterno sul DNA (e internamente mediati dalla cromatina) vengono diffusi nell’organismo grazie alla replicazione del DNA durante la normale moltiplicazione cellulare, ci sono ancora molti punti da chiarire nei meccanismi molecolari che durante la meiosi sembrano permettere il trasferimento da una generazione alla successiva dell’informazione fenotipica presente nelle cellule.
Nel Novecento l’evoluzionismo diventa materia di conflitto con il creazionismo, specialmente negli Stati Uniti. Il contrasto tra creazionismo ed evoluzionismo non è però una novità; già Darwin e i paladini della teoria dell’evoluzione avevano dovuto lottare contro gli attacchi del clero e dei benpensanti. D’altronde, anche se negli ultimi anni del Novecento la Chiesa ha ammesso l’evidente esistenza dell’evoluzione dei viventi, uomo compreso, tuttavia essa continua a non accettarne la spiegazione scientifica naturalistica. La recrudescenza del creazionismo e la sua recente penetrazione e diffusione in Europa, Italia compresa, è forse un fenomeno sociologicamente interessante, ma non lo è sotto il profilo scientifico delle teorie biologiche. Il creazionismo infatti non è, né puo essere una teoria scientifica, nonostante vestendo i panni del cosiddetto Intelligent Design si stia rendendo popolare e forse anche accettabile presso i non addetti ai lavori. Data la sua natura fideistica, il creazionismo non può pretendere di spiegare su base empirica e razionale i fenomeni della natura e infatti per i suoi scopi si serve di un’accorta mescolanza di dati scientifici e di superstizione. Sempre in tema di conflitto mediatico tra evoluzionismo e creazionismo, è particolarmente istruttivo osservare come i creazionisti abbiano riportato il grande dibattito pubblico tra scienziati sulle modalità dell’evoluzione, conosciuto come: “puntuazionisti contro gradualisti”, “critica all’adattamentismo”, “critica al riduzionismo panselezionista”, ecc. dibattito che ha avuto tra i suoi più accesi protagonisti anche ricercatori di grande prestigio come i già citati Richard Lewontin, Stephen Jay Gould, Niels Eldredge e ancora Elisabeth Vrba, professoressa di geologia e Geofisica alla Yale University, Richard Dawkins , il famoso teorico dell’evoluzione del gene egoista, e John Maynard Smith, George Christopher Williams, Edward Osborne Wilson.
Nata negli anni Ottanta in ambienti accademici americani e inglesi e subito sconfinata sulla stampa e sui mass media, questa discussione a più voci tra sostenitori di un evoluzionismo darwiniano elastico e sostenitori di un evoluzionismo darwiniano rigido si è subito caratterizzata per la crescita esponenziale del disaccordo tra i partecipanti. A tal punto che l’accentuazione mediatica degli elementi di contrasto, l’enfasi spesso caricaturale di dati e di interpretazioni, hanno ostacolato nell’osservatore estraneo al problema la vista del comune fondamento teorico di partenza: l’evoluzionismo darwiniano, rimasto sempre condiviso dalle parti in causa. Ebbene, nelle loro argomentazioni i sostenitori del creazionismo hanno mistificato il dibattito tra puntuazionisti e gradualisti presentandolo come prova dell’esistenza di una insanabile frattura originaria, intrinseca all’evoluzionismo. L’accanimento con cui la spiegazione darwiniana dell’evoluzione viene attaccata da ambienti ostili alla razionalità laica della scienza appare invece come ulteriore segno della sua vitalità di paradigma culturale. Quanto l’approccio evoluzionistico sia importante non solo nella conoscenza accademica, ma per la vita quotidiana di tutti noi è indiscutibilmente dimostrato dal fatto che ai suoi principi, a partire dalla nozione di selezione naturale, sempre più si ricorre in sede applicativa, dalle biotecnologie alla progettazione di farmaci, dall’identificazione dei patogeni alla conservazione della natura. Per non dire dell’informatica e dell’IA, campi dove da anni si sviluppa software avanzato ricorrendo, come nel caso degli algoritmi genetici, a principi evoluzionistici di programmazione.