Andrea Manciulli
Dal 1949 l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord è il sistema integrato di difesa militare finalizzato a coordinare le forze armate degli stati membri dell’Alleanza.
All’atto della sua fondazione nel quadro del confronto bipolare, il progetto di difesa collettiva, sancito dall’art. V del Trattato, ambiva alla protezione della comunità euro-atlantica nell’eventualità di un attacco dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss). La previsione per cui un attacco armato contro una o più parti dell’Alleanza in Europa o nell’America settentrionale è considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, vige nel rispetto dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite – diritto di legittima difesa, individuale o collettiva.
La logica bipolare e del nemico unico ha legittimato la longevità decennale dell’Alleanza che ha funto a sua volta da meccanismo di deterrenza e rassicurazione nella difesa dell’integrità territoriale dei suoi stati membri, inizialmente 12 e a oggi 28. La fine della Guerra fredda, la caduta del regime sovietico, la carenza del nemico unico, lo scioglimento del Patto di Varsavia e la conseguente assenza di una potenza analoga da fronteggiare hanno aperto un dibattito sul futuro della Alleanza. Una volta adattatasi alle esigenze di preservare la pace nel Ventesimo secolo, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord ha dovuto ripensarsi alla luce delle nuove vicende regionali e internazionali. La Nato si sta dunque impegnando a fronteggiare le minacce del Ventunesimo secolo, vincolata da contingenze politiche, finanziarie e geopolitiche, imparando a riconoscere e prevenire quelle emergenti e ampliando la sua visione di difesa collettiva al fine di affermare la sua rilevanza e rafforzare la sua efficacia.
Nel 1949 per ‘attacco armato’ si volle sostanzialmente intendere un’offensiva sovietica. Già nel vertice di Roma dell’8 novembre 1991 le parti convennero sul fatto che «le sfide alla sicurezza e i rischi che la Nato fronteggia sono di natura diversa da quelle del passato, [...] il rischio di un attacco a sorpresa è stato sostanzialmente ridotto, […] i rischi per la sicurezza sono multi-sfaccettati in natura e multi-direzionali, ciò li rende difficili da prevedere e valutare. I rischi per la sicurezza dell’Alleanza provengono meno probabilmente da un’aggressione calcolata contro il territorio degli Alleati, ma più verosimilmente da conseguenze avverse di instabilità che potrebbero insorgere da serie difficoltà economiche, sociali e politiche, comprese rivalità etniche e dispute territoriali […]. Gli interessi della sicurezza dell’Alleanza possono essere minacciati da altri rischi di più ampia natura».
Nel post Guerra fredda, quindi, divenuto altamente improbabile un attacco da parte di un esercito regolare all’Europa e all’America, e in particolare da parte del nemico russo, l’Alleanza ha dovuto prender coscienza delle crisi moderne, vale a dire fenomeni complessi in cui una combinazione di fattori di natura storica, politica, militare, sociale, culturale ed economica si articola con una molteplicità di attori legittimi e non legittimi che ricorrono a strumenti convenzionali e non convenzionali. Crisi, quelle moderne, la cui risoluzione avrebbe richiesto un approccio sempre più onnicomprensivo e multidimensionale.
Dalla prima metà degli anni Novanta, la Nato ha così iniziato a uscire dal suo perimetro geografico definito dagli articoli V e VI del Trattato, avviando operazioni cosiddette ‘fuori area’ in Bosnia-Erzegovina ed evolvendosi in un più ampio sistema di sicurezza collettiva. Da Dayton (1995) in poi, operando al di fuori del riferimento regionale, le parti si sarebbero impegnate a risolvere controversie e contribuire alla stabilizzazione di quelle aree al di fuori del partenariato e ove gli interessi dei membri Nato risultassero minacciati. Nel Concetto strategico (manifesto programmatico decennale in cui si enunciano i compiti, i principi fondamentali, il contesto di sicurezza in evoluzione e gli obiettivi strategici dell’Alleanza) del 1999, insieme all’originario obiettivo della ‘difesa collettiva’, venne inserito l’impegno Nato alla ‘gestione delle crisi’, inclusa anche la loro prevenzione e la stabilizzazione degli stati che si trovano in una situazione post-conflitto. Nel Concetto strategico di Lisbona 2010 sarebbe stata ufficializzata anche la cosiddetta ‘sicurezza cooperativa’: la politica della porta aperta verso le democrazie europee che vogliono diventare membri dell’Alleanza e rispettano i requisiti per l’ingresso.
Gli eventi dell’11 settembre 2001 avrebbero poi confermato la lungimiranza del Concetto strategico di dieci anni prima e avrebbero funto da spartiacque: attaccata l’America nell’incredulità generale, l’articolo V venne invocato per la prima volta nella storia dell’Alleanza. Con le operazioni che seguirono in Afghanistan, gli alleati europei convenivano più o meno solidariamente ad aiutare gli Americani in un’area la cui territorialità non rientrava negli scopi tradizionali e ancor meno importava dinanzi alla ‘inconvenzionalità’ e ‘trans-nazionalità’ della minaccia. La Nato, nel post 11 settembre, si avviava all’ampliamento della portata delle sfide che avrebbe affrontato.
Alla sicurezza fisica di territori, persone e cose, che si cerca di preservare tramite la non proliferazione delle armi di distruzione di massa (Wmd) e la nuova lotta al terrorismo quale fenomeno proveniente da attori non statali, si è unita la necessità di operare ove gli interessi dei membri sono minacciati, come nel caso della missione di contro-pirateria Ocean Shield – precedentemente Allied Provider – che dal 2008 contribuisce ad aumentare il livello generale di sicurezza nella regione nel Golfo di Aden e al largo del Corno d’Africa, tratto marittimo in cui anche l’Italia traccia le sue rotte commerciali verso l’Asia e il Medio Oriente.
Sebbene i teorici del dopoguerra sostenessero che le armi nucleari avrebbero reso poco effettive le guerre convenzionali e impensabili quelle nucleari, in realtà la paura di un conflitto apocalittico ha portato a sviluppare altri tipi di guerra, compresa quella del nemico invisibile e del suo anonimato via Internet. Dopo le logiche territoriali, del roll-back e della teoria del domino, la nuova sfida risiede nel controllo della rete e si presenta la nuova necessità di garantire la sicurezza dei dati. In un mondo veloce, altamente interconnesso e sempre più dipendente dalla tecnologia, il futuro dell’Alleanza dipenderà dalla sua capacità di adattarsi alle varie, mutevoli e simultanee sfide alla sicurezza su diversi fronti esposti, compreso quello cibernetico. Il fatto che una guerra cibernetica non rimandi immediatamente all’immagine della perdita di vite umane o distruzioni fisiche di territori lascia ancora fraintendere le capacità distruttive del potere cyber. Nonostante ciò, già dal 2010 la Nato si sta impegnando per meglio comprendere come sviluppare le capacità di «prevenzione, individuazione, contrasto e recupero (di infrastrutture e servizi) da attacchi cibernetici, anche ricorrendo al processo di pianificazione Nato per espandere e coordinare le capacità nazionali di difesa cibernetica, ponendo gli organismi della Nato sotto una protezione cibernetica centralizzata e meglio integrando le funzioni di cyber awareness, allerta e risposta della Nato con quelle dei paesi membri» (Concetto strategico 2010). Sebbene non ci sia una definizione comune di ‘cyber weapon’, le armi cibernetiche sono intese come strumenti informatici con valenza potenzialmente letale e l’Alleanza è consapevole che il cyberspazio è candidato ad essere uno dei campi di battaglia più probabile e al contempo meno gestibile. Il target della cyber war è l’infrastruttura critica dei dati, ove per infrastruttura critica la Commissione Europea definisce «un elemento, un sistema o parte di questo ubicato negli stati membri che è essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale dei cittadini e il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in uno stato membro a causa dell’impossibilità di mantenere tali funzioni» (art. 2(a): 2008/114/ Ce); analogamente, secondo la direttiva presidenziale degli Stati Uniti per ‘infrastrutture critiche’ si intendono «sistemi e beni, siano essi fisici o virtuali, così vitali per gli Stati Uniti che l’incapacità o la distruzione di tali sistemi e beni avrebbe un impatto debilitante sulla sicurezza nazionale, la sicurezza economica nazionale, la salute pubblica, o una combinazione di questi elementi» (Ppd-21/2013). Essendo stati individuati 16 settori di infrastrutture critiche (chimica, strutture commerciali, comunicazioni, manifattura critica, dighe, base industriale della difesa, servizi di emergenza, energia, servizi finanziari, alimentazione e agricoltura, strutture di governo, sanità e salute pubblica, tecnologie informatiche, reattori, materiali e rifiuti nucleari, sistemi di trasporto, sistemi idrici), ed essendo questi settori e reti di servizi strettamente interdipendenti, appare chiaro che il target della cyber-war sono proprio i dati trasmessi e la gestione dei sistemi di infrastrutture critiche.
È per questo motivo che la Nato ha posto l’obiettivo della protezione delle comunicazioni e dei sistemi d’informazione (Cis) dell’Alleanza come una priorità nel suo Concetto del 2010. Al vertice del Galles nel settembre 2014, la Nato ha poi adottato una nuova politica rafforzata e approvato un piano d’azione, con cui stabilisce che la difesa cibernetica fa parte della difesa collettiva, conferma che il diritto internazionale si applica al cyberspazio, intensifica la cooperazione con l’industria e incoraggia ulteriori progressi in diverse iniziative di istruzione e cooperazione, comprese quelle con i paesi partner e le organizzazioni internazionali. Attraverso il processo di pianificazione della difesa (Ndpp), l’Alleanza promuove un approccio comune allo sviluppo delle capacità di difesa informatica. Di particolare interesse è poi la promozione della conoscenza del fenomeno, grazie al centro di ricerca e formazione di Tallin, in Estonia, che si occupa di educazione alla difesa informatica e anche alla Nato Communications and Information Systems School (Nciss) di Latina, che offre corsi di formazione relativi al funzionamento e alla manutenzione di alcuni sistemi di comunicazione e di informazione della Nato, riservati al personale dell’Alleanza e dei paesi non-Nato. Essenziale è stato, inoltre, l’avvio del Programma Ncirc (Nato Computer Incident Response Capability) per la copertura della sicurezza di cinquanta siti dell’alleanza in venticinque paesi, al fine di non limitarsi alla sola protezione dei sistemi militari di comunicazione. Ciò è altamente significativo in quanto tutto il network di cui è parte il processo di industrializzazione di questo mondo poggia sull’efficienza dei sistemi di comunicazione e, di conseguenza, il cyberspazio lascia aperta la porta a nuovi conflitti per l’accaparramento del controllo della rete.
In un mondo con risorse scarse, inoltre, sempre più pressantemente si potrebbe profilare l’esigenza di interventi dettati da instabilità legate alla geopolitica dei servizi, ossia attinenti la gestione delle fonti di approvvigionamento energetico e la protezione delle cosiddette ‘infrastrutture energetiche critiche’. Basti pensare che la ‘Polar Rush’, la corsa allo sfruttamento delle risorse dell’Artico, sempre più accessibile a causa dello scioglimento progressivo dei ghiacci, è destinata ad essere la sfida geopoliticamente più calda del pianeta. Infine, sebbene rimanga una possibilità remota, potrebbero giungere rischi di carattere pandemico o legati al cambiamento climatico. Questioni, soprattutto quella energetica e dello spazio cibernetico, che concorrono a costituire il senso di sicurezza di uno stato e che per questo motivo potrebbero implicare un allargamento del concetto di ‘sicurezza’, della sua percezione e dunque dell’‘ambito’ da proteggere. Basti ricordare, a tal proposito, sia l’attacco cibernetico in Estonia nel 2007 sia i tagli alla domanda di gas in Ucraina che hanno lasciato Romania e Bulgaria al freddo l’anno seguente.
Negli ultimi venticinque anni, l’Alleanza è passata dall’occuparsi del soggetto da difendere, la Comunità atlantica, alla stabilità dell’area ad essa contigua e ai suoi interessi; potrà, nel futuro, riguardare ambiti la cui sicurezza potrebbe richiedere capacità non strettamente militari e di difesa, come nel caso delle missioni umanitarie e di governance democratica, come quelle già avviate in Kosovo e in Afghanistan. Lo stesso riposizionamento degli interessi degli alleati americani verso il versante dell’Asia-Pacifico lascia adito a riflessioni di tipo più strettamente economico-commerciale ed energetico che militare. Al contempo, un tale riposizionamento potrebbe portare la Nato a confrontarsi con sfide e pericoli ovunque essi abbiano luogo, prescindendo da coordinate geografiche e orizzonti circoscritti ma non certo dagli interessi dei suoi stati membri.
Vent’anni dopo la fine della Guerra fredda, tuttavia, compito primario dell’Alleanza resta ancora quello di assicurare la difesa dell’integrità territoriale. La pace e la stabilità in Europa sono, di fatto, riminacciate dal revisionismo russo divenuto quanto mai evidente in seguito all’annessione unilaterale della Crimea nel febbraio-marzo 2014. È la seconda volta, considerato il caso della Georgia del 2008, che la Russia interviene entro i confini di uno stato sovrano con forze militari per condizionarne le dinamiche politiche interne.
Oltre alla conquista dell’Artico a nord e alla Russia revisionista a est, altra minaccia origina da disordini e instabilità dei paesi della sponda sud del Mediterraneo conseguenti alle Primavere arabe e dal pericolo che entità come la Libia vengano annoverate tra gli stati falliti. Fino all’estate 2014, nell’opinione comune, le operazioni di contro-terrorismo avevano ridotto il terrorismo a una minaccia persistente ma non esistenziale. Di contro, il fenomeno, trovando terreno fertile nelle politiche poco inclusive di alcuni stati, come l’Iraq dopo la partenza delle truppe americane dalla zona, e nei finanziamenti occulti di alcune potenze regionali, si sarebbe evoluto, silente e solerte, lungo nuove forme di estremismo islamico. L’autoproclamato Califfato islamico, meglio conosciuto come Is, sarebbe un fenomeno estremamente complesso perché da una parte richiama il vecchio impianto e gli strumenti tipici di un’organizzazione terroristica (attentati, brutalità), dall’altro trova alimento in quei mezzi nuovi creati nello stesso Occidente, ovvero lo spazio cibernetico. L’Is (Stato islamico) controlla i territori, compie razzie etniche e religiose, conduce campagne militari e soprattutto recluta sul web non solo combattenti locali, ma si impone nell’opinione pubblica degli occidentali tramite i social network e la stampa, quasi imitando le pratiche di propaganda dell’Occidente. L’avanzata dei terroristi del Califfato islamico, inoltre, potrebbe, nel breve periodo, essere la causa dell’incremento del flusso di migranti siriani lungo i confini turchi. In questo contesto, l’Alleanza dovrebbe interessarsi degli scenari paralleli al fenomeno migratorio, in quanto la gestione dei flussi migratori è spesso posta in essere da organizzazioni legate a forme di terrorismo e criminalità locali che traggono profitto dal traffico di armi, droga e esseri umani. Dinanzi a ciò, la Nato potrebbe esser chiamata a valutare la forma di assistenza da fornire al paese che vada dallo strumento diplomatico a quello tecnologico e militare in termini di intelligence, sorveglianza e ricognizione per monitorare le infiltrazioni di terroristi dalla zona di conflitto e prevenire flussi jihadisti nelle aree limitrofe (Bulgaria e Grecia nel caso specifico). Insieme ai disordini del mondo islamico va ricordato il pericolo della minaccia missilistica che un Iran nucleare porrebbe a livello regionale.
La Nato è quindi chiamata a dover affrontare minacce vecchie e nuove, asimmetriche, convenzionali e non. Per questo motivo è quanto mai importante rafforzare il network tra i membri e assicurarsi le capacità necessarie per far fronte agli obblighi di sicurezza in un settore in rapida evoluzione come quello cibernetico, ancora preoccupante come quello nucleare e sempre più critico come quello energetico.
Al momento, il punto cruciale del futuro dell’alleanza non risiederebbe, quindi, nella classificazione del tipo di minaccia, bensì nella volontà degli stati di mantenere saldo il senso di ‘solidarietà’ insito nel dettame dell’art. V. Ciò vorrà dire trascendere dalla qualificazione ‘armata’ dell’attacco e impegnarsi a rispondere collettivamente ogni volta che uno stato sia attaccato, da un’entità statale e non statale, nella sua integrità territoriale, sicurezza economica e indipendenza politica, così come sancito nell’art. IV.
Il mutamento dell’assetto internazionale, degli equilibri di potere e degli andamenti negativi della ‘finanza barbara’ hanno fatto sì che all’interno dell’Alleanza emergessero divisioni di diversa natura.
Sul versante delle missioni, la motivazione primaria consterebbe nella mancata condivisione delle minacce da intendersi secondo accezione e percezione comuni, nella diversa sensibilità verso il concetto di sicurezza collettiva e, dunque, il diverso impegno nelle missioni. Sul versante operativo, della trasformazione delle strutture e delle capabilities, l’eterogeneità negli sforzi di aggiornamento degli impianti di difesa tra gli stati membri è una non trascurabile fonte di attrito. A questa, va sommata la medesima eterogeneità nell’adattamento anche dei mezzi civili all’approccio complessivo della sicurezza cooperativa, che di fatto spazia dalle azioni propriamente di difesa e di anti-terrorismo a quelle di institution buiding.
Il primo aggiornamento negli scopi e mezzi dell’Alleanza ebbe luogo a partire dal 1993 quando, col coinvolgimento della Nato in Bosnia al fianco prima, e in sostituzione poi, della missione Un, Unprofor-United Nation Protection Force, la Nato si inaugurò come forza di peace enforcing e peacekeeping. Nel giro di un quinquennio, con le operazioni Ifor (Implementation Force) e Sfor (Stabilization Force), e poi intervenendo in Kosovo nel 1999 (Kfor-Kosovo Force), si sarebbe candidata nella veste di state builder.
Quando nel 2001 venne invocato l’art. V, la Nato venne coinvolta nell’Operazione Active Endeavour (Oae) ma paradossalmente non nella guerra dell’amministrazione Bush Jr. contro i talebani e la rete di al-Qaida in Afghanistan, salvo essere interpellata dopo il summit di Praga dell’anno seguente.
La Oae, lanciata nell’ottobre 2001, conduce operazioni marittime nel Mar Mediterraneo al fine di dissuadere, difendere, interrompere e proteggere contro le attività terroristiche. Unica operazione in corso condotta dall’Alleanza ai sensi dell’articolo V, è un vivido esempio della risposta multisfaccettata della Nato alla lotta globale contro il terrorismo e della capacità dell’Alleanza di aggiornarsi e adattarsi alla velocità degli sviluppi tecnologici. La Oae era stata inizialmente concepita, infatti, come un’operazione basata sull’utilizzo di navi, aerei e sottomarini per attività di sorveglianza e ispezione in mare. Attualmente, l’Oae è una operazione network-based, mirante a raccogliere e trattare le informazioni di intelligence per costruire un quadro di tutto il traffico marittimo nel Mar Mediterraneo con una messa a fuoco selettiva su particolari contatti di interesse, grazie soprattutto alla condivisione delle informazioni attraverso il Dialogo mediterraneo (Md) e il Partenariato per la pace (Pfp).
La missione Isaf (International Security Assistance Force), invece, è passata sotto il comando Nato nell’agosto 2003 e fino al dicembre 2014, data prestabilita per il termine dell’operazione, rimane (anche nell’ultimo summit 2014 in Galles) la massima priorità ed è chiamata a essere il banco di prova della credibilità dell’Alleanza nei suoi piani di building capacity. In Afghanistan la Nato sta sperimentando la terza fase di aggiornamento: garantire la sicurezza in termini di monitoraggio aereo in funzione anti-terrorismo, lotta al narcotraffico e insurrezione talebana; coadiuvare la Provincial Reconstruction Teams (Prts) nella ricostruzione politico-istituzionale, nel rispetto dello stato di diritto e la promozione dei diritti umani; assistere l’Afghan National Security Forces nell’attività di intelligence e, attraverso un programma di mentoring, training and equipping, contribuire all’addestramento delle forze di polizia locali. In particolare, quest’ultimo compito registrerà una proroga di dieci anni grazie all’avallo del nuovo presidente afghano, Ashraf Ghani (30 settembre 2014) di far restare le truppe Nato, in gran parte americane, nella base di Bragram, a 60 chilometri da Kabul. Al settembre 2014, 48 nazioni concorrono, secondo contributo variabile, alla ricostruzione dell’Afghanistan nella International Security Assistance Force, per un totale di 41.124 effettivi. Dal 2003 la partecipazione all’operazione ha incontrato degli ostacoli, frapposti da paesi come Germania e Francia che, per esempio, nel 2009 posero il loro diniego all’incremento del numero delle truppe; solo Usa, Canada, Norvegia e Regno Unito, insieme ad Australia, Danimarca e Romania (non membri Nato) si offrirono per dispiegare le proprie truppe nelle aree più pericolose del sud e dell’est del Paese.
Simultaneamente, infatti, l’Alleanza era anche impegnata nella Nato Training Mission-Iraq (Ntm-I), partita nel 2004 e terminata nel dicembre 2011, dal 2001 conduceva la Oae e dall’aprile all’ottobre 2011 avrebbe coadiuvato le operazioni di regime change in Libia (l’operazione Unified Protector ha nel tempo cambiato sul campo i propri connotati, passando da un intervento umanitario per proteggere le popolazioni civili e garantire il rispetto delle risoluzioni Un a un’operazione che ha contribuito sostanzialmente alla caduta del regime di Gheddafi, senza dare seguito ad attività di peacekeeping o state-building). La missione, non di combattimento, in Iraq ha inquadrato l’Alleanza nella dimensione relativamente nuova dello sforzo della comunità internazionale (Risoluzione 1546 del Consiglio di Sicurezza) diretto a rafforzare gli obiettivi di piena affermazione della sovranità del governo e di acquisizione delle capacità necessarie ad aumentarne l’efficacia. Nei progetti di training and mentoring, donazione dell’equipaggiamento e coordinamento tramite il Nato Training and Equipment Co-ordination Group, l’Italia è stata il maggior contribuente della Ntm-I, accollandosi l’onere dell’estensione della missione anche alle forze della polizia nazionale irachena secondo il modello ormai consolidato di ‘formazione dei formatori’, completando il dispiegamento nell’ottobre 2008 del contingente dei Carabinieri incaricato delle attività formative in Iraq.
L’operazione in Afghanistan sarà il banco di prova del nuovo approccio della Nato perché dimostrerà le reali capacità dell’Alleanza di costruire una realtà nazionale e di difesa locale capace. La sfida è evitare che dopo il ritiro delle truppe si verifichi un’ondata di islamismo radicale militante, così come accaduto in Libia con le milizie di Ansar al-Sharia e in Iraq con i jihadisti dell’Is. Un fallimento nel post-Afghanistan inghiottirebbe realtà come il Pakistan, l’Asia centrale e il Caucaso settentrionale. Inoltre, nel post-Afghanistan la Nato dovrà essere in grado di sostenere i livelli avanzati di comando e interoperabilità acquisiti, i quali potrebbero facilmente e rapidamente svanire senza un intenzionale programma di esercizio che includa sia simulazioni che esercitazioni sul campo.
La scarsa convinzione e le ridotte risorse con cui gli alleati europei hanno prestato il proprio contributo negli scenari più prossimi all’Europa che a Washington hanno, nel tempo, alimentato sia lo scontento dell’amministrazione Obama verso l’attitudine dell’alleato europeo, sia un certo senso di disinteresse verso i problemi dell’area. Le sfide che il requisito della solidarietà deve fronteggiare sono, dunque, il cambio di orizzonte americano in seno all’Alleanza e ciò che alimenta tale cambiamento di prospettiva, ovvero la divisione tra gli stati europei circa i temi di politica estera e difesa comune. La minaccia proverrebbe, quindi, dall’interno dell’Alleanza, ossia dall’assenza di una volontà politica condivisa di confrontarsi insieme e sin da oggi con le minacce di domani. Anche le ultime vicende relative ai disordini in Siria e all’avanzata jihadista in Iraq hanno, di fatto, messo in evidenza la diversa attitudine verso le problematiche dell’area tra gli stati membri, compresa la Turchia che funge da partner regionale importantissimo e strategico nel caso specifico.
In secondo luogo per quanto attiene il carattere della solidarietà, alcuni analisti vedrebbero l’Alleanza in preda a una sorta di ‘sindrome della crisi’, per la quale il sopraggiungere di una crisi sarebbe percepito sempre più negativamente e preluderebbe allo scioglimento dell’Alleanza. In realtà, la resistenza della Nato potrebbe essere assicurata da un ripensamento interno dell’Alleanza stessa. Se il passaggio delle funzioni dal concetto di difesa collettiva a quello di sicurezza cooperativa ha implicato un ampliamento prima dell’area d’azione, dei mezzi e poi dell’orizzonte strategico della Nato, ciò – unito al revisionismo russo e ai disordini del post-primavere arabe – avrebbe anche fatto tornare alla ribalta l’importanza della prossimità geografica. Una riflessione geopolitica più accurata dimostrerebbe, infatti, la tendenza verso un concetto di sicurezza ‘geograficamente diversificata’ e la necessità di una ripartizione di responsabilità lungo le zone, secondo cui gli alleati europei dovrebbero interessarsi delle aree del Mediterraneo, mentre gli alleati americani di quelle del Pacifico. Parte di una tale ripartizione geografica degli interventi potrebbe concretizzarsi con l’implementazione dei piani più strettamente attinenti le capacità militari della Nato annunciati durante il summit del 2014.
La peculiarità di un’alleanza sta nella esclusività dei legami al suo interno e nella pianificazione condivisa delle regole del gioco che consentano alle sue parti di agire collettivamente in segretezza, rapidità e flessibilità. Qualità, queste ultime, che vengono richieste per fronteggiare un nemico sempre mutevole e difficilmente classificabile. Ancor di più alla luce del ventaglio sempre più ampio di minacce, alle suddette caratteristiche sottende la necessità di un costante aggiornamento e adattamento delle capacità di difesa e di deterrenza, basato su un adeguato mix di forze di difesa convenzionali, nucleari e missilistiche. È risaputo che la capacità deterrente per esser valida deve essere credibile.
A tal fine, dal punto di vista della struttura di comando, dopo Praga 2002 si è posta in essere una riforma volta a ridurre la forte istituzionalizzazione dell’organizzazione che non permetteva flessibilità ed efficienza delle decisioni. Ora la Nato dispone di un unico comando, l’Allied Command Operations, cui si aggiunge l’Allied Command Transformation. Il primo, ubicato a Mons, in Belgio, è l’unico Comando Alleato responsabile per tutte le operazioni (Aco); il secondo (Act), sito a Norfolk negli Stati Uniti, segue i processi di trasformazione della componente militare dell’Alleanza, in termini di addestramento, sperimentazione e pianificazione a lungo termine. I Comandi operativi sono stati ridotti da cinque a tre e quelli tattici da tredici a sei. Dal punto di vista dell’aggiornamento, è in corso da diversi anni un acceso dibattito sull’impellenza di fermare il declino della spesa destinata alla difesa. A Lisbona, nel 2010, le parti hanno convenuto anche per un Active Engagement, Modern Defence. L’obiettivo, ribadito nel summit del Galles nel settembre 2014, è quello che tutti i membri si impegnino a spendere almeno il 2% del pil per la difesa entro il 2020 e a investire una quota significativa del loro bilancio per la difesa (in media il 20%) in acquisizioni di capacità critiche, di ricerca e tecnologia. In questo, i governi europei hanno una responsabilità particolare: per colmare il gap tecnologico che li distanzia dagli Usa, devono investire in attività ad alta tecnologia, ovvero intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr), droni e munizioni di precisione, così come dotarsi di un ponte aereo tattico e investire nel cosiddetto dual use per far fronte a missioni sia militari che civili, senza i quali la loro multi-dispiegabilità e la capacità di operare al fianco delle forze Usa (interoperabilità), saranno sempre minori.
Per questo motivo, il rilancio dell’Alleanza Atlantica dipenderà dall’adesione più convinta degli europei al progetto di smart defence, principio per cui l’efficienza della spesa militare aumenta se le risorse vengono impiegate per progetti comuni e di specializzazione. In breve, i membri europei dovrebbero dimostrare la volontà di condividere l’onere della loro sicurezza.
Nella negativa eventualità in cui il progetto di comune difesa europea non dovesse trovare terreno fertile per svilupparsi, sarebbe possibile tracciare tre scenari: stasi; enfasi sul mercato; doppia velocità. Nel primo caso, gli Europei continuerebbero a essere un free-rider della superiorità delle capacità operative americane e persisterebbe la speranza secondo cui, all’interno dell’Alleanza, l’Unione Europea agirebbe diplomaticamente e strategicamente ove gli Stati Uniti opererebbero multilateralmente.
Nel secondo caso, grazie alla regolamentazione (Direttive 43/2009; 81/2009) introdotta dalla Commissione europea, è possibile che si ponga maggiore importanza alle iniziative europee di Pooling and Sharing e si ottenga una maggiore cooperazione a livello europeo in fatto di procurement della difesa a favore di capacità militari più efficienti ed in modo più economico. Tuttavia, l’enfasi sull’integrazione del mercato e dell’industria della difesa non implicherebbe necessariamente una condivisione delle missioni da condurre sotto la stessa bandiera blu a dodici stelle.
Nel terzo caso, gli stati willing and able «che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari» (art. 42.6 del trattato sull’Eu modificato dal trattato di Lisbona) potrebbero attivare la procedura di cooperazione strutturata permanente e rafforzare la loro reciproca collaborazione nel settore militare. La partecipazione a un tale piano potrebbe favorire un più alto coinvolgimento dei suoi partecipanti alle missioni Nato al fine di sperimentare i frutti stessi della cooperazione. Nonostante ciò, il rischio dell’esclusività del programma suscita dubbi sulla potenziale creazione di un’Europa a più velocità che andrebbe a sommarsi in una Nato già a più corsie.
Una grande sfida che la Nato è chiamata ad affrontare è, di conseguenza, quella di convincere e provare che l’Alleanza non dipende dalle scelte strategiche delle amministrazioni americane e non funge da strumento della politica estera di Washington ma è dotata di una componente, quella europea, almeno diplomaticamente rafforzata, che concorre all’esistenza dell’ombrello Nato.
Dal punto di vista operativo, di particolare rilevanza è l’adattamento della postura strategica militare dell’Alleanza, ovvero la Nato Response Force (Nrf) e la Readiness Action Plan (Rap). La Forza di risposta della Nato è un composto multinazionale tecnologicamente avanzato di forze di terra, aria e acqua rapidamente dispiegabili in operazioni speciali per fornire una rapida risposta militare ad una crisi emergente, sia a fini di difesa collettiva sia per altre operazioni di risposta alle crisi. Discussa per la prima volta nel vertice di Praga del 2002 e raggiunta la piena capacità operativa nell’ottobre 2006, la Forza di reazione rapida della Nato è aperta ai paesi partner, una volta approvati dal Consiglio del Nord Atlantico, e si basa su un sistema a rotazione, inizialmente di 6 ed ora di 12 mesi, delle forze speciali terrestri, aeree e marittime degli alleati.
Al vertice di Chicago nel 2012, l’Alleanza ha fissato l’obiettivo Nato Forces 2020. Il progetto mira a corroborare la schierabilità e interoperabilità delle forze tra gli alleati oltre che ad alzare il livello di preparazione delle stesse. È stata, dunque, attuata la Forces Initiative Connected (Cfi), essenziale per garantire l’ambizione della Nato entro il 2020 e soprattutto in Afghanistan nel post-2014. A tal fine, nell’ambito dell’Iniziativa forze collegate, opererà la Joint Trident Juncture 2015, pensata con 25.000 effettivi, aerei e navi, da parte di Italia, Portogallo e Spagna in Europa meridionale per cercare di preservare la stabilità nell’era post-Afghanistan. La Trident Juncture 2015 segnerà il finale della Nrf, rappresenterà la sua più grande prova e fornirà la migliore piattaforma possibile per la Cfi. Inoltre, un programma di esercizio più ampio e più esigente sarà istituito dal 2016, con la Nrf come elemento chiave negli esercizi.
Consapevoli dell’incombenza delle nuove minacce, al vertice in Galles del settembre 2014, gli alleati hanno deciso di insistere sul progetto e incrementare la rapidità di risposta attraverso la Nato Readiness Action Plan (Rap). Il Piano d’azione di tempestività della Nato fornirà un pacchetto coerente e complessivo delle misure necessarie per rispondere ai cambiamenti nel contesto di sicurezza sui confini della Nato e in altri paesi che sono fonte di preoccupazione per gli alleati. La Rap risponderà, quindi, alle sfide poste dalla Russia e dal vicinato Mena attraverso un miglioramento del modus operandi della Nrf e soprattutto garantendo lo sviluppo aggiornato di forze che siano in grado di muoversi rapidamente e rispondere a potenziali sfide e minacce.
A tal fine, una Task Force a più alta efficienza, il Readiness Joint Task Force (Vjtf), in grado di dispiegarsi nell’arco di un paio di giorni, soprattutto alla periferia del territorio Nato, fungerà da valore aggiunto e ‘punta di lancia’ del piano. Il Vjtf dovrebbe consistere di una forza congiunta terrena, aerea e marittima altamente specializzata la cui rapidità sarà testata attraverso esercizi a breve termine. Ciò potrà probabilmente richiedere la preparazione di vecchie e nuove infrastrutture, il riposizionamento di attrezzature e forniture, e la designazione di basi specifiche. Novità significativa emersa dal vertice di Newport è stata anche l’approvazione del Nato Nations Framework Concept, mirante e formare gruppi di alleati che, guidati da una nazione quadro, lavorino per lo sviluppo congiunto delle forze e delle capacità richieste dall’Alleanza. Per implementare il concetto, in Galles è stato creato un gruppo, guidato dalla Germania, di dieci alleati firmatari di una lettera congiunta, e un altro gruppo di sette alleati, facilitato dagli Stati Uniti, che stabiliranno la Forza di spedizione congiunta (Jef), ossia una forza rapidamente schierabile in grado di condurre l’intero spettro di operazioni, tra cui quelle ad alta intensità.
Il cosiddetto Pacific Pivot avviato dagli alleati americani confermerebbe la tesi secondo la quale i rapporti interni all’Alleanza, ed in particolare tra Stati Uniti e Unione Europea, si starebbero allentando per una serie di motivazioni, come la prossimità geografica al colosso cinese e soprattutto questioni economiche legate alla condivisione dei costi. In riguardo, appare dunque logico ed imperativo aver intrapreso un consolidamento dei rapporti commerciali e d’investimento (Ttip) tra Stati Uniti e Unione Europea, e tra quest’ultima e il Canada (Ceta). Tali accordi porrebbero la comunità transatlantica in una posizione più forte e favorevole per promuovere un sistema globale basato su regole trasparenti riguardanti il commercio e gli investimenti, sulla diversificazione energetica e sulla capacità di affrontare le sfide di un mercato digitale transatlantico integrato.
Tuttavia, limitare l’Alleanza a una questione di contributi economici vanificherebbe una collaborazione decennale, una condivisione di storia e valori che fa della Nato non solo un’alleanza politico-militare e uno strumento di difesa collettiva, atto a salvaguardare la sicurezza dei suoi membri, ma un collegamento (the transatlantic link) senza precedenti tra due continenti fondato sui principi della liberal-democrazia. All’eterogeneità degli sforzi e dei contributi si associa, infatti, l’omogeneità politico-culturale. È la concezione onnicomprensiva del tema della sicurezza che fa della Nato un’organizzazione completa, garante dell’uguaglianza di genere e promotrice della combinazione di successo tra istituzioni democratiche, economie aperte e stato di diritto. Gli stessi principi democratici dovrebbero essere il motore primo per un impegno dell’Alleanza nella stabilizzazione delle aree di crisi della sponda sud del Mediterraneo e nella protezione dei confini con una Russia assertiva sulla strada del revisionismo. Connessione, quella tra America del Nord ed Europa, che può fungere da centro di un sistema di relazioni con altri stati democratici, da Finlandia e Svezia a Giappone e Australia (il cui contributo militare alla missione Isaf è stato lontano dall’apparire ininfluente), secondo l’ideale dell’ex segretario di stato Usa, Hillary Clinton, di multipartner world. Ancora di più saranno essenziali le forme di partenariato con gli stati non democratici, Russia compresa, e il rafforzamento dei legami tra l’Alleanza e l’Unione Europea al fine di creare maggiore collaborazione a livello di politica estera e di sicurezza. Per farlo, l’Alleanza e l’Unione Europea saranno chiamate a risolvere più efficacemente le difficili relazioni che intercorrono tra Turchia e Cipro, membri rispettivamente della prima e della seconda.
Anche sul versante del vecchio nemico, il revisionismo russo non farebbe presagire un ritorno alla Guerra fredda né riporterebbe l’Est e l’Ovest del mondo in un contesto globale di influenza ideologica. Al contrario, l’Occidente e la Russia condividono interessi su una vasta gamma di questioni, dalla non proliferazione nucleare al terrorismo. Ciò nondimeno, la partnership strategica tra Nato e Russia sarà difficilmente ripristinabile finché la leadership russa si porrà in antitesi ai principi sulla quale l’Alleanza è fondata e finché le sue azioni minacceranno la sicurezza europea. La sfida del futuro su questo versante dipenderà, quindi, dalla capacità della Nato di scoraggiare qualsiasi estensione opportunistica di azioni russe in altri paesi europei e dal suo contino impegno per la difesa collettiva nonostante pressioni economiche contrarie.
La Nato, come gli altri attori internazionali, deve essere in grado di agire politicamente e di impiegare una gamma più ampia di strumenti e risposte alle crisi complesse di oggi. Mentre l’invio di truppe per risolvere le crisi non dovrebbe mai essere escluso, l’alleanza deve trovare altri modi per proiettare stabilità. Questo può avvenire fornendo un sostegno fondamentale alle coalizioni dei partner che conducono operazioni. La stabilità può essere raggiunta anche offrendo misure preventive, come capacità di formazione e sviluppo, come parte di un ampio sforzo della comunità internazionale in congiuntura alle missioni dell’Un (così come ha fatto in Iraq e come sta facendo l’Italia dall’ottobre 2014 nella missione Miadit al fianco delle Nazioni Unite), continuando a esplorare aree di cooperazione reciprocamente vantaggiosa, quali lotta alla pirateria, lotta al terrorismo, ricerca e soccorso in mare e logistica.
Soprattutto in relazione ai paesi candidati alla membership.come Moldavia e Georgia, la sfida del prossimo futuro consisterà nell’evitare di creare la percezione di una vulnerabile ‘zona grigia’ o ‘zona cuscinetto’ di stati tra Nato e Russia. Una volta approvata la candidatura, il compito dell’alleanza consisterà non solo nel permettere la maggior adesione di questi stati alle sue operazioni, ma soprattutto nel tenere maggiormente in conto dei piani di esercitazione negli stessi nuovi entrati al fine di garantire un senso di sicurezza più generale e piena interoperabilità con le forze Nato. Al vertice del Galles, i membri della Nato hanno deciso di avviare tali programmi in Georgia, Giordania e Moldavia. Vi sono possibilità per cui la longevità della nuova Nato dipenderà dalla sua capacità di non rendere il legame transatlantico anacronistico e al contempo costruire e accettare il suo ruolo globale, senza però divenire né il gendarme della globalizzazione né il contraltare dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Ai 12 membri fondatori del 1949 (Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti), nel corso degli anni Grecia e Turchia (1952), Germania (1955), Spagna (1982), Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia (1999), Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia (2004), Albania e Croazia (2009) si sono uniti all’Alleanza, per un totale di 28 stati nel 2014. Il principio dell’allargamento risiede nell’articolo 10 del Trattato, in cui si afferma che l’adesione è aperta a qualsiasi ‘stato europeo in grado di promuovere i principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale’.
Qualsiasi decisione di invitare un paese ad aderire all’Alleanza è presa dal Consiglio Nord Atlantico, principale organo decisionale della Nato, sulla base del consenso tra tutti gli alleati. Attualmente, la Bosnia-Erzegovina, la Georgia, il Montenegro e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia aspirano alla membership.
La sicurezza cooperativa è uno dei tre compiti principali fondamentali della Nato secondo cui la promozione della sicurezza euro-atlantica è meglio garantita attraverso una vasta rete di relazioni e partenariati con paesi e organizzazioni. Da una parte i partner forniscono contributi importanti in termini logistici nel crisis-management, dall’altro la Open Door Policy è il mezzo più efficace per promuovere e difendere i valori democratici oltre i confini transatlantici. Dal vertice di Lisbona, la Nato persegue il dialogo e la cooperazione pratica con 41 paesi partner e si impegna attivamente con altri attori internazionali e organizzazioni su una vasta gamma di questioni politiche e relative alla sicurezza al fine di rendere il dialogo e la cooperazione più inclusivi, flessibili, significativi e di indirizzo strategico. Dalla fine della Guerra fredda le partnership della Nato hanno seguito una logica geografica: a partire dal Consiglio del Partenariato euro-atlantico (1991-2007), che includeva gli stati dell’ex Urss e gli stati europei come partner, l’istituzione del Dialogo mediterraneo (1994, con Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia) riconosceva l’importanza della sicurezza nel Mediterraneo come condizione per la salvaguardia dell’Alleanza. Agli eventi dell’11 Settembre sarebbe seguito l’avvicinamento ai paesi del Golfo attraverso l’iniziativa di collaborazione di Istanbul (2004, con Bahrain, Qatar, Kuwait e Emirati Arabi Uniti), ma anche a paesi lontani dall’area euro-atlantica come Australia, Giappone, Iraq, Repubblica di Corea, Mongolia, Nuova Zelanda, Pakistan, Cina, India, Indonesia, Malesia, Singapore e Colombia.Il quadro del partenariato è arricchito da tre relazioni bilaterali:
Consiglio Nato-Russia (1997): forum di consultazione su questioni di sicurezza e cooperazione, in particolare per la stabilizzazione dell’Afghanistan, contro il terrorismo e la pirateria, iniziative di airspace (Cai) e detection technology (Standex). Tuttavia, le relazioni Nato-Russia soffrono ancora di frizioni per quanto riguarda l’allargamento dell’Alleanza verso est e i difficili rapporti di vicinato che la Russia intrattiene (si ricordi l’invasione militare in Georgia del 2008 e in Ucraina nel 2014), difesa missilistica, armi nucleari e arms control. La violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina ha rappresentato la violazione degli impegni internazionali della Russia, compresi quelli del Memorandum di Budapest (1994), il Trattato sull’amicizia e la cooperazione tra la Russia e l’Ucraina (1997) e il quadro giuridico che disciplina la presenza della Flotta russa del Mar Nero (1997).
Nato-Ucraina (1991): rafforzata attraverso l’istituzione di una Commissione nel 1997 e la ratifica di una Dichiarazione di partnership distintiva, la collaborazione dell’Ucraina alla Nato è andata sensibilmente crescendo. L’Ucraina è l’unico paese partner che ha contribuito a tutte le operazioni guidate dalla Nato ed è il primo paese partner a contribuire alla Nrf e ad avere promesso il suo impegno nel post-Afghanistan. La membership.è stata tardata dall’approccio ‘non-allineato’ del governo del presidente Janukovyč e dalla pressione negativa esercitata da Mosca.
Nato-Georgia (1992): l’invasione russa della Georgia ha portato all’istituzione della Commissione Nato-Georgia nel settembre 2008 che fornisce la cornice per un dialogo politico attivo e una cooperazione pratica al fine di un avvicinamento del paese alla comunità euro-atlantica. Processo che, di fatto, ha registrato sviluppi nel luglio 2014 in seguito alla firma di Georgia, Ucraina e Moldavia dell’Eu Association Agreement.
L’Italia ospita a Napoli un comando operativo regionale (oltre a quelli di Brunssum nei Paesi Bassi e di Lisbona) e un comando marittimo; a Poggio Renatico, in Emilia, un centro per le operazioni aeree (Caoc) statico e uno dispiegabile; a La Spezia il Centro di ricerche sottomarine che dipende dal comando di Norfolk (Usa); a Grazzanise (Ce) il 2° Nato Signal Battalion South, che svolge funzioni di Centro operativo mobile per le telecomunicazioni; a Sigonella (Ct) la base operativa aerea principale (Allied Ground Surveillance Main Operating Base, Ags Mob) che risponde a un duplice scopo di sorveglianza e ricognizione (Jisr); a Solbiate Olona (Va) la Nato Rapid Deployable Corps (Nrdc Italia); a Taranto la High Readness Force Maritime (Comitmarfor) e la Centrale operativa del sud; a Roma il Centro di eccellenza (Coe) di modellazione e simulazione (M&S) e il Nato Defence College, il più importante centro di formazione e aggiornamento professionale destinato agli ufficiali dei paesi membri e partner dell’Alleanza Atlantica.
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Approfondimento
Al contrario di quanto avviene nel resto del mondo, a cominciare da Cina e India, nell’ultimo quinquennio la crescente pressione della crisi economica e finanziaria ha indotto la maggior parte dei governi europei a un più o meno drastico ridimensionamento delle spese militari, con diminuzioni che in buona parte dei casi hanno avuto percentuali a doppia cifra. I relativi dati sono resi disponibili da varie organizzazioni, come ad esempio dall’Agenzia europea della difesa (Eda), dal Sipri e dall’Iiss e la tendenza nel 2013 si è addirittura accentuata, al punto da costringere anche i paesi con una radicata tradizione militare, come Francia e Regno Unito, a un drastico ridimensionamento del proprio livello di ambizione. È vero che al recente vertice della Nato in Galles i capi di stato e di governo si sono impegnati a cercare di portare entro un decennio le spese militari al 2% del rispettivo pil nazionale, ma è anche lecito guardare a questo impegno con grande scetticismo.
Peraltro la dimensione militare di un paese è la risultante, e non la sommatoria, di un’articolata serie di diverse capacità, ciascuna delle quali necessita di particolari sistemi ed equipaggiamenti e del relativo personale adeguatamente addestrato ed allenato e, in alcuni casi, la mancanza anche di uno solo di questi componenti porta all’azzeramento del risultato finale. Ora è avvenuto che il progressivo calo delle risorse nazionali ha costretto molti governi a rinunciare a qualcuna di queste capacità fondamentali, con il risultato che anche a livello collettivo, in ambito Unione Europea, ma anche in quello Nato (se non fosse per le capacità rese disponibili dagli Usa), le potenzialità militari sono state progressivamente compromesse.
La consapevolezza di questa pericolosa tendenza ha indotto le autorità politico-operative di entrambe le organizzazioni ad avviare una serie di iniziative volte a porvi rimedio. Così l’ex segretario generale della Nato, Rasmussen, ha lanciato il progetto denominato Smart Defence (Sd), seguito poi da quello detto Connected Forces Initiative (Cfi), mentre in ambito Unione Europea la European Defence Agency, sotto l’autorità dell’allora Alto rappresentante, Lady Ashton, ha varato il programma Pooling and Sharing.
In entrambi i casi il principio ispiratore è quello di mettere a fattor comune le insufficienti risorse nazionali in modo da poter più facilmente pervenire alla massa critica richiesta per garantire l’efficacia dello strumento militare. Ma occorre tenere presente che qualsiasi forma assumano questi progetti, la loro realizzazione comporterà una più o meno accentuata dipendenza politica da altri paesi e che quindi costituirà una sorta di parziale cessione di sovranità nazionale.
Nel dettaglio la Sd, di cui il Sg della Nato ha cominciato a parlare nel 2011, venne approvata al vertice di Chicago del 20-21 maggio 2012 e si articola in una serie di progetti specifici, caratterizzati dalla messa in comune delle risorse, tecniche e/o finanziarie, per l’acquisizione di capacità militari che i singoli paesi (con l’eccezione degli Usa) non si potrebbero permettere e in tal senso offre una soluzione al problema su cui tante volte Washington ha sollecitato gli alleati per una più equa suddivisione degli oneri per la difesa comune (burden sharing).
Alcuni progetti afferiscono all’area logistica, come quello dell’acquisizione e dello stoccaggio in comune dell’armamento di precisione, la cui limitata disponibilità è apparsa con drammatica evidenza durante la campagna aerea del 2011 in Libia. Altri sono intesi a colmare carenze note da tempo, ma cui non si era provveduto per motivi sia finanziari, sia di tipo tecnologico e industriale, come quello denominato Alliance Ground Surveillance (Ags), per l’acquisizione da parte dell’Alleanza di una capacità di controllo in tempo reale di quanto avviene nella zona di operazioni, al fine di supportare le attività di targeting. Si tratta in realtà di un programma di cui si discute da oltre vent’anni, ma mai finora concretizzato per la riluttanza americana a condividere alcune tecnologie chiave; è apparso ora naturale inserire l’Ags nel più ampio quadro della smart defence, finalizzandolo con l’acquisizione in consorzio da parte di alcuni paesi dell’Alleanza (Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e gli Usa) di un sistema interamente prodotto negli Stati Uniti, il Global Hawk.
Per l’Unione Europea, motore del processo di razionalizzazione e ottimizzazione della spesa militare è l’Eda che ha da tempo avviato una serie di progetti nel quadro dell’iniziativa denominata Pooling and Sharing, con lo slogan pool it or lose it, significando che l’alternativa è tra condividere determinate capacità o rinunciarvi definitivamente. Precursori in questo furono Belgio e Paesi Bassi che, in campo marittimo, hanno da tempo messo in comune la logistica e la catena di comando operativa delle loro fregate, con significativi risparmi di risorse umane e finanziarie. I progetti avviati sono numerosi e vanno dall’addestramento avanzato sugli elicotteri, all’acquisizione in consorzio di flussi di comunicazioni satellitari, alla logistica e all’addestramento navale.
Alcuni risultati significativi sono già stati conseguiti, ad esempio con la costituzione dello European Air Transport Command, in cui gli stati membri mettono a disposizione le loro risorse di trasporto aereo militare, o nel settore medico, dove è in avanzata fase di realizzazione una struttura mobile da campo multinazionale.
Sono altresì da citare le iniziative in tema di certificazione operativa condivisa dei mezzi aerei (oggi ciascun paese ha le proprie strutture e applica procedure nazionali, con moltiplicazioni dei tempi e dei costi) e in quello del rifornimento in volo.
Una considerazione finale riguarda il fatto che per tutte queste iniziative si è attuato un processo di tipo bottom up, con una spinta avviata dai livelli operativi, ma senza un preciso e determinante indirizzo politico dai vertici, indispensabile se si vuole procedere sulla via di una reale integrazione, che da sola permetterà migliori capacità a costi inferiori.
di Vincenzo Camporini
Approfondimento
Nonostante l’Unione Europea (Eu) e la Nato condividano ventidue Stati membri e abbiano più volte riconosciuto l’indissolubilità della sicurezza reciproca, le loro relazioni sono ancora lontane dall’aver raggiunto il livello di un reale partenariato strategico. Se per tutto il periodo della Guerra fredda la difesa dell’Europa è stata affidata alla Nato, negli anni Novanta, con lo scoppio della guerra nei Balcani, si manifesta l’esigenza dell’assunzione di maggiori responsabilità da parte dell’Europa. A tal fine due processi paralleli vengono intentati in ambito Eu e Nato. Mentre in ambito Nato il Regno Unito e altri paesi mirano a rafforzare il pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica attraverso lo sviluppo di una Identità di sicurezza e difesa europea ‘complementare’ alla Nato e dotata di forze separabili, ma non separate, in ambito Eu la Francia si fa paladina di una posizione che intende rafforzare il ruolo dell’Unione dell’Europa Occidentale (Euo) al fine di sviluppare una Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) dotata di capacità ‘indipendenti’. Una dicotomia che trova un punto di sintesi nel vertice franco-britannico di Saint-Malo del 1998 nel quale si conviene sullo sviluppo di capacità per operazioni ‘autonome’ dell’Eu sulla base del principio delle cosiddette ‘3D’ enunciate dall’allora segretario di stato statunitense Madeleine Albright: no decoupling o affievolimento del legame transatlantico; no unnecessary duplication di comandi e strutture; no discrimination dei paesi non Eu ma membri della Nato, come la Turchia. Con l’assorbimento dei compiti umanitari e di soccorso, di mantenimento della pace e di gestione delle crisi all’interno dei compiti della Pesd, nel 1999 la Nato riconosce per la prima volta nel suo Concetto strategico l’Eu come un diretto interlocutore, senza il diaframma dell’Unione dell’Europa Occidentale che privata dei suoi compiti terminerà la propria esistenza nel giugno 2011.
La cooperazione tra la Nato e l’Eu viene formalizzata nel 2003 tramite un ‘pacchetto’ di accordi che prendono il nome di ‘Berlin Plus’ e che prevedono che l’Eu possa condurre operazioni autonome di gestione delle crisi, anche facendo ricorso agli assetti e alle capacità di pianificazione e di comando della Nato, nel caso in cui quest’ultima non intenda intervenire nel suo insieme. L’accordo Berlin Plus costituisce il fondamento della cooperazione pratica tra la Nato e l’Eu ed è in virtù di esso che nel 2003 l’Eu potrà lanciare la sua prima operazione di gestione di crisi nella Repubblica ex Iugoslava di Macedonia (operazione Concordia) e nel 2004 quella più impegnativa in Bosnia-Erzegovina (operazione Eufor Althea). Negli anni successivi, la Nato e l’Eu hanno progressivamente intrapreso il cammino verso una maggiore convergenza di paesi membri, ruoli e aree di azione, sviluppando una più stretta cooperazione sia di carattere istituzionale che sul piano dello sviluppo delle capacità. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, conferendo maggiore efficacia e incisività a quella che è stata ridefinita la Politica di sicurezza e difesa comune (Psdc), costituisce un primo passo verso lo sviluppo di un reale partenariato strategico. In tale prospettiva, tuttavia, permangono ancora diverse sfide da superare, di natura politica, strutturale e operativa. Sotto il profilo politico, emblematico è il caso di Cipro, membro dell’Unione Europea e semplice partner della Nato, oggetto di un contenzioso greco-turco che impedisce lo sviluppo di una piena cooperazione fra le due organizzazioni. Progressi sono stati, invero, compiuti sul piano dello sviluppo delle capacità e del coordinamento dei rispettivi programmi di Smart Defense della Nato e di Pooling and Sharing della Eu.
L’Unione Europea, in particolare, nel Consiglio Europeo del dicembre 2013 ha ribadito come la Politica di sicurezza e di difesa comune continuerà a svilupparsi in piena complementarità con la Nato nel quadro concertato del partenariato strategico. In tale occasione, è stato dato un significativo impulso allo sviluppo coordinato delle capacità nel settore della difesa attraverso una rinnovata azione dell’Agenzia europea per la difesa e facendo ricorso anche ai finanziamenti previsti dal programma Horizon 2020, che potranno essere più agevolmente destinati allo sviluppo di capacità duali. Ciò appare in linea con quanto approvato nel vertice Nato tenutosi in Galles nel settembre 2014, ove i capi di stato e di governo dell’Alleanza atlantica si sono impegnati a destinare per la difesa entro i prossimi dieci anni almeno il 2% del proprio prodotto interno lordo. Una decisione volta ad arrestare il crescente divario tecnologico tra le forze europee e quelle statunitensi che rischia di minacciare non solo l’interoperabilità fra gli alleati ma le fondamenta stesse del Legame transatlantico. A un maggior impegno da parte europea ha corrisposto nel giugno 2014 l’annuncio da parte del presidente degli Stati Uniti di una ‘European Reassurance Inititiative’, del valore di un miliardo di dollari, volta a rinsaldare il vincolo di solidarietà collettiva fra gli alleati con un’accresciuta presenza statunitense in Europa. Infine, il Legame transatlantico potrebbe trovare nella conclusione degli accordi sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) ulteriori straordinarie potenzialità.
In conclusione, l’Eu e la Nato, per quanto simili nella loro composizione, non sono due organizzazioni gemelle. Riflettono Dna, storie e concezioni politiche diverse. Nonostante i risultati raggiunti, le relazioni Nato-Eu appaiono risentire ancora delle logiche competitive e di divisione dei compiti degli anni Novanta che risultano del tutto inadeguate per affrontare le minacce e le sfide del nuovo scenario di sicurezza. Oggi l’Eu e la Nato sono entrambe degli attori globali, spesso impegnati nelle stesse aree di operazioni. Al fine di dare concreta attuazione ai principi di sicurezza cooperativa e realizzare un efficace partenariato strategico tra l’Eu e la Nato, appare fondamentale porne in sinergia le rispettive capacità civili e militari, per rispondere con un approccio globale e coordinato, alle molteplici sfide che caratterizzano le moderne operazioni di stabilizzazione e ricostruzione.
di Fabrizio W. Luciolli
Approfondimento
L’Alleanza Atlantica è un’organizzazione internazionale sui generis. Non ha competenze predefinite, né un vero personale di carriera e prende decisioni per consenso. In generale le alleanze terminano quando si raggiunge l’obiettivo e non hanno carattere permanente. Questo caso è diverso e deriva da una serie di valori aggiunti.
Il primo aspetto è il rapporto fra civili e militari. Sappiamo dalla storia che gli stati maggiori sono stati troppo spesso all’origine di conflitti. Perciò la Nato applica rigorosamente il principio del controllo civile sulle forze armate. Per converso, nessuna decisione operativa del Consiglio Atlantico viene presa senza l’accordo del Comitato militare. Il Consiglio può accettare o respingere un parere, ma non lo può modificare a sua discrezione. Al quartier generale di Mons vi sono migliaia di specialisti in contatto permanente con i propri ministri della difesa. Se si decide un’operazione, anche a lunga distanza, questa struttura conosce le capacità specifiche che possono essere offerte dai paesi, come elicotteri e navi. L’Alleanza è quindi l’unica organizzazione capace di pianificare e gestire un’operazione multinazionale di grandi dimensioni. Le sue forze armate sono inter-operabili, vale a dire che hanno la capacità di operare efficacemente insieme grazie a standard e addestramento comuni. Trattandosi di un’Alleanza, il principio di base è che ogni paese è sovrano rispetto ai propri contributi alle operazioni. Vi sono delle spese comuni per alcuni Quartier Generali ed infrastrutture di particolare interesse, ma niente di più. L’International Staff civile ed il suo bilancio hanno a loro volta dimensioni limitate. Naturalmente il tema più delicato è quello del consenso politico e tradizionalmente si tratta di un processo lento e discreto fra i governi cercando di conciliarne gli interessi.
Lo scenario futuro appare comunque molto diverso. Il mondo è sempre più policentrico, senza potenze egemoni, con valori differenziati. La globalizzazione porta vantaggi e crea contemporaneamente timori. Si assiste quindi a localismi esasperati proprio quando si dovrebbero cercare soluzioni globali a problemi globali, insieme a un ritorno al bilateralismo nei rapporti internazionali. L’Alleanza Atlantica è passata da 12 a 28 paesi e negli anni Novanta si discusse a lungo se tale processo l’avrebbe rafforzata o meno. La conclusione fu che era indispensabile una politica della ‘porta aperta’ per favorire il processo democratico nei paesi ex comunisti. Decisione che ne ha spostato ad est il baricentro con la conseguenza di una particolare sensibilità verso la Russia.
Oggi, l’Alleanza rimane l’unico ‘produttore di sicurezza’ seriamente esistente. Non deve diventare un gendarme mondiale, ma la sua esperienza può aiutare a sviluppare una cultura e creare dei network dove si guarda insieme alle grandi questioni strategiche. I tre compiti fondamentali riconosciuti recentemente sono la difesa reciproca (in caso di aggressione); la gestione delle crisi (abbiamo visto i valori aggiunti); la cooperazione nella sicurezza (cioè lo sviluppo dei partenariati). Da una decina d’anni si ipotizza una Nato mondiale oppure con degli associati mondiali. Ma dove e come essere presenti? Il quadro delle possibili opzioni è oggi molto vasto e ciò comporta una crescente difficoltà a trovare il consenso fra i governi. Si è visto nella campagna aerea sulla Libia che non tutti hanno partecipato, rompendo una lunga tradizione. Si può ipotizzare per il futuro una formula organizzativa per cui il consenso politico rimane necessario, ma nel concreto partecipano alle operazioni solo i paesi che accettano di essere coinvolti.
Quanto alle aree di crisi, un grande interrogativo riguarda la regione dal Nord Africa al Medio Oriente. Si è anche esaminata la possibilità di una presenza sul terreno fra Israele e Palestina per cui sarebbero indispensabili tre condizioni: un accordo di pace fra le parti, l’approvazione esplicita degli interessati e una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Attualmente esistono due partenariati nella regione: il Dialogo mediterraneo con Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania, Egitto, Giordania e Israele; e l’Iniziativa di cooperazione di Istanbul con Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, aperta anche all’adesione di Arabia Saudita e Oman. I principi a cui si ispirano sono innovativi poiché prevedono una collaborazione essenzialmente pratica negli ambiti politico-militare e delle questioni strategiche, nonché la consultazione nelle aree di interesse reciproco. Quindi una ‘strada a due sensi’ in cui i paesi partner devono esprimere la loro preferenze. La particolarità è che i grandi temi politici vengono lasciati fuori. Si può quindi costruire una cooperazione partendo dai progetti. Il rovescio della medaglia è che ci vuole molta buona volontà per ricercare aree di comune interesse facilmente praticabili. L’Alleanza potrebbe avere un ruolo di consulenza e di assistenza se effettivamente a Baghdad verrà formato un governo di unità nazionale. Un obiettivo ragionevole è l’adesione della Libia al Dialogo mediterraneo: l’argomento è all’ordine del giorno ma le convulsioni interne non aiutano a prendere una decisione. Bisogna rendersi conto soprattutto che, essendo la Nato un’alleanza molto politica, molte cose sono possibili se vi è il consenso dei paesi: l’intervento in Afghanistan è stato deciso nel giro di pochi mesi. L’Alleanza ha perfino condotto nel 2005 un’operazione di assistenza umanitaria nel Pakistan dopo un terribile terremoto. Al vertice di Istanbul nessuno avrebbe mai immaginato la partecipazione di paesi arabi alla campagna aerea in Libia. Vi sono possibili scenari in Asia, il Giappone sarebbe perfino disponibile ad aderire. Australia e Nuova Zelanda partecipano attivamente alle operazioni in Afghanistan, cosi come molti altri paesi che non sono membri.
Appare quindi utile mantenere in buona salute un ‘fornitore di sicurezza’ provato. Però è essenziale una guida politica a questo processo, che al momento appare timida. Il titolo del capitolo è stato scritto e bisogna riempirne le pagine.
di Alessandro Minuto Rizzo