L'idea di rivoluzione neolitica e il processo di trasformazione economica e sociale
Nel Vicino Oriente durante il Neolitico si ha per la prima volta quel mutamento socio-economico che porta le comunità di cacciatori-raccoglitori non produttori di cibo verso società maggiormente stabili a economia produttiva, praticanti l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Questo processo di profonda trasformazione avviene dopo la fine dell’ultima glaciazione in un arco di tempo compreso tra il 10000 e l’8000 a.C. Le origini e la diffusione dell’agricoltura restano senza dubbio i temi più stimolanti ma anche i più ardui che la ricerca preistorica abbia affrontato negli ultimi decenni.
Nonostante le indagini condotte per quasi un secolo su questi argomenti vi sono ancora aspetti irrisolti. Quello invece che risulta assolutamente certo è il fatto che questa trasformazione ha segnato in modo irreversibile l’intero corso della nostra storia. Le possibili ragioni del passaggio all’agricoltura sono state l’oggetto di lunghi e animati dibattiti. La lista delle cause della cosiddetta “rivoluzione neolitica” è quasi senza fine, ma alcune principali teorie hanno dominato la discussione.
Il concetto di “rivoluzione neolitica” si deve al paletnologo Vere Gordon Childe, australiano di nascita, ma inglese di adozione. Sebbene con alcuni retaggi ottocenteschi, egli già nella prima metà del secolo scorso aveva fornito un quadro coerente, e in alcuni casi ancora oggi condivisibile, di quello che doveva essere accaduto all’inizio dell’Olocene. Durante la prima metà del secolo scorso l’agricoltura era ritenuta originaria delle pianure aride della Mesopotamia dove nacquero le prime civiltà. I primi villaggi agricoli nel Vicino Oriente e in Egitto erano considerati quelli collocati accanto alle sponde dei fiumi o presso le oasi dominate dalle sorgenti. Childe diede grande rilievo al cambiamento climatico proponendo quella che viene definita “la teoria delle oasi”, secondo la quale quei contesti ecologici, più favoriti, vedono una maggiore concentrazione di popolazione e di risorse naturali. L’uomo in questo caso risulta in stretto legame con l’ambiente e acquisisce maggiori conoscenze relativamente alle tecniche di produzione del cibo in caso di carenze alimentari. È proprio questa la peculiarità della “rivoluzione neolitica”: la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento. Non si tratta di un cambiamento repentino, come la parola “rivoluzione” lascia supporre, ma certamente si è trattato di una trasformazione radicale rispetto al passato.
Durante il Neolitico nascono le prime forme di agricoltura cerealicola, con la selezione di piante disponibili nel territorio in forma selvatica. L’agricoltura ha portato oggi l’uomo a essere dipendente da un numero limitatissimo di piante. Le prime piante selvatiche che furono in seguito domesticate sono il farro (Triticum turgidum dicoccoides), il farricello (Triticum monococcum beoticum), l’orzo (Hordeum vulgare spontaneum), la lenticchia (Lens culinaris orientalis), il pisello (Pisum humile) e il cece (Cicer reticulatum). Tutte queste piante crescevano spontaneamente nel Vicino Oriente, ma in particolare in un’area definita come “mezzaluna fertile”. Il termine, coniato negli anni Venti dall’egittologo e storico americano James Henry Breasted, comprende un arco di territorio che si estende dalla valle del Nilo fino alla costa orientale del Mediterraneo, abbracciando la Mesopotamia settentrionale, le alte valli dell’Eufrate e del Tigri fino alle pendici pedecollinari e i fianchi occidentali dei monti Zagros. Si tratta degli attuali territori dell’Egitto settentrionale, del Libano, della Giordania, di Israele, della Siria settentrionale, della Turchia sud-orientale, dell’Iraq settentrionale e orientale e dell’Iran sud-occidentale. Non include la bassa Mesopotamia, cioè buona parte della regione irachena, teatro in seguito degli sviluppi delle grandi civiltà del Vicino Oriente. Quest’ultimo, infatti, è un territorio a bassa piovosità (inferiore a 200 mm annui) e poco favorevole alla crescita di molte di queste piante spontanee e alla coltivazione dei primi cereali domestici senza sistemi d’irrigazione. Dal punto di vista macroscopico la domesticazione dei cereali ha portato a importanti mutazioni genetiche nella pianta. Tali mutazioni hanno modificato le modalità stesse di riproduzione. Nel cereale domestico il rachide della spiga diventa più robusto, non riesce a segmentarsi da solo e quindi a disperdere il seme per lasciarlo riprodurre spontaneamente. Questo tipo di mutazioni fornisce un maggiore potenziale produttivo qualora l’intero ciclo vitale della pianta venga controllato dall’uomo per ricavarne il cibo.
Gordon Childe aveva messo in evidenza che il passaggio da una economia predatoria di caccia e raccolta a una economia produttiva doveva aver comportato l’introduzione di una serie di innovazioni tecnologiche e culturali. Tra queste possiamo ricordare la selezione di piante locali a ciclo annuale, che ha permesso nel tempo di ricavare vari tipi di orzo e frumento. Altre novità riguardano l’allestimento di strutture per lo stoccaggio del raccolto e per la sua trasformazione, nonché la realizzazione di un insediamento relativamente stabile. È possibile che questo stile di vita abbia favorito la promiscuità dell’uomo con animali gregari o comunque facilmente gestibili in cattività quali pecore e capre, con l’aggiunta in seguito di bovini e suini. Tale condizione deve aver incoraggiato le prime forme di domesticazione degli animali.
Molti autori, dopo Childe, si sono cimentati nel suggerire cause che abbiano favorito la nascita dell’agricoltura. Fattori come la pressione ambientale o demografica, i cambiamenti climatici, la maggiore o minore disponibilità di risorse alimentari e una molteplicità di fattori ideologici avrebbero potuto innescare lo stimolo al cambiamento. Ma in molti casi è difficile accertare se queste presunte cause siano realmente tali o se, al contrario, rappresentino gli effetti del fenomeno.
Una tra le maggiori personalità che si inserì da subito nel dibattito sulle prime forme di società a economia produttiva è senz’altro quella di Robert John Braidwood. Il suo approccio alla ricerca archeologica era del tutto innovativo. L’interdisciplinarità caratterizzava già negli anni Trenta le sue prime spedizioni in Iran, Iraq, Siria, Palestina ed Egitto. Al suo nome sono legati fondamentali progetti di ricerca tra i quali quello della piana dell’Amuq, i cui risultati sono ancora ampiamente attuali, e gli scavi condotti a Jarmo negli anni Cinquanta. Proprio gli scavi di Jarmo, localizzato lungo l’area pedemontana dei monti Zagros, hanno posto le basi per un rinnovato e in seguito mai sopito interesse per le origini dell’agricoltura e del pastoralismo. La documentazione messa in luce nell’antico villaggio agricolo poteva sostenere la sua ipotesi e cioè che la domesticazione doveva svilupparsi in quell’habitat naturale dove piante e animali selvatici vivevano. Solo in queste zone, che Braidwood identifica nelle aree collinari della mezzaluna fertile (nuclear zone), si sarebbe potuto manifestare il primo processo di domesticazione. La pianura mesopotamica non aveva questo tipo di caratteristiche. Braidwood, però, non propone alcuna specifica ragione su come e perché la domesticazione ebbe luogo. Egli mette in rilievo quanto sia la tecnologia che la cultura dell’uomo fossero pronti a questa esperienza già alla fine del Pleistocene e, inoltre, quanto i gruppi umani avessero una lunga familiarità con quelle specie che, di lì a poco, sarebbero state domesticate. Inserita in questo quadro l’agricoltura doveva essere considerata una sorta di invenzione particolarmente apprezzata e ben accettata, poiché avrebbe fornito sicurezza alimentare e uno stile di vita migliore. L’idea di molti archeologi era che una volta che le società avessero riconosciuto i vantaggi della domesticazione, esse si sarebbero immediatamente dedicate a produrre cibo.
Nel 1960 Lewis Binford, ispiratore di quella nuova corrente culturale che influenza fortemente il mondo anglosassone negli anni Sessanta e Settanta conosciuta come new archaeology, contrastò questo modello. Egli sostenne che l’agricoltura era un lavoro logorante, che richiedeva molto tempo e un impegno particolarmente costante. Per questo motivo si dedicò a lungo a studiare società di cacciatori e raccoglitori, i quali destinano in genere solo poche ore al giorno al reperimento del cibo. Il resto del tempo viene impiegato a far visita ad altre persone, passeggiare, giocare e, in generale, rivolto ai piaceri della vita. Questi gruppi furono chiamati le “originali società opulente”. Questa definizione nasce dal principio che le possibili vie verso “l’opulenza”, sono segnate dal modo con cui vengono soddisfatti i bisogni: o producendo molto o chiedendo poco. Questo tipo di ragionamento nasceva dalla consapevolezza che nelle società non di mercato l’economia non si muove secondo le nostre moderne categorie. Binford, infatti, osserva che anche nelle regioni periferiche, come il deserto del Kalahari del sud-Africa, la raccolta del cibo è ancora oggi un adattamento di successo e la popolazione raramente muore di fame. Egli sottolinea che i gruppi umani non sarebbero diventati agricoltori, a meno di non avere altra scelta. Per Binford, dunque, l’agricoltura non è stata una “scoperta” vantaggiosa, ma l’ultima risorsa. Egli inoltre pone il problema delle origini dell’agricoltura in termini di equilibrio tra popolazione e cibo. Tale bilanciamento poteva essere sconvolto da una diminuzione del cibo disponibile o da un aumento della quantità di popolazione. Quindi, se nel Vicino Oriente i cambiamenti climatici e ambientali risultavano non di particolare rilievo, ci doveva essere stato un aumento nel numero delle persone che sconvolse tale equilibrio e che favorì la trasformazione. La pressione demografica viene così introdotta come causa per le origini dell’agricoltura: più gente, più bocche da sfamare, richiesta di più cibo. La migliore soluzione a questo problema sarebbe stata proprio la domesticazione, che avrebbe garantito una più alta produzione di cibo in rapporto al territorio sfruttabile. Contemporaneamente l’intensificazione della produzione agricola avrebbe richiesto maggior lavoro individuale e collettivo.
Un altro autore americano, Kent Flannery, riprende negli anni Settanta l’argomento della pressione demografica di Binford, proponendo che gli effetti di tale pressione sarebbero stati sentiti con più efficacia non nel nucleo della zona di habitat naturale, dove cioè crescono abbondantemente grano e orzo selvatici o dove sono presenti greggi di pecore e capre selvatiche, ma piuttosto ai margini di questa zona, dove il cibo era meno abbondante (marginal zone theory).
Un punto di vista diverso è quello esposto, più recentemente, da Jacques Cauvin oggi ripreso da vari autori come Trevor Watkins e Colin Renfrew, che traggono interessanti spunti di riflessione da altre discipline quali le scienze cognitive o neuroscienze. Una certa forma di cambiamento inizia già a manifestarsi nell’ambito della fase finale del Paleolitico superiore e durante l’Epipaleolitico, per rivelarsi in modo preponderante nel Neolitico. Si tratta della cosiddetta “rivoluzione dei simboli”, che coinvolge l’intera visione del mondo con una trasformazione che avviene nell’ambito della religione, della ideologia, negli aspetti cosmologici e in tutta la sfera “psico-culturale”. Il processo di neolitizzazione trova dunque terreno fertile nell’ambito di una trasformazione già in atto, ma una trasformazione che riguarda la mente dell’uomo e le sue capacità relazionali e di rappresentazione simbolica.
È molto probabile, come sostiene Jared Diamond, che la nascita dell’agricoltura, come l’intero processo che va sotto il nome di “neolitizzazione”, non sia stata una scelta meditata tra i due diversi stili di vita del contadino-allevatore e del cacciatore-raccoglitore. I più antichi agricoltori del Vicino Oriente non avevano alcuna possibilità di confrontarsi con esperienze pregresse, semplicemente perché non esistevano. In realtà la produzione di cibo è stato un processo che si è innescato spesso attraverso scelte inconsce. Inoltre l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento associato a una vita più stabile può non aver comportato necessariamente un miglioramento nello stile o nell’aspettativa di vita. Alcuni agenti patogeni, ad esempio, fanno la loro prima comparsa nelle società agricole a causa della vicinanza spesso promiscua uomoanimale. Gli agricoltori e gli allevatori sono le prime vittime di malattie quali il vaiolo, il morbillo e l’influenza, che si originano da mutazioni di virus provenienti da animali. Un processo, dunque, che ha visto l’uomo protagonista di una trasformazione radicale, la quale, sebbene abbia mostrato anche momenti drammatici, è il risultato, nei luoghi dove si è manifestato per la prima volta, di un percorso inesorabilmente senza ritorno.
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, Il Vicino Oriente Antico, Storia