L’illusione di sapere
È compito tradizionale della filosofia della conoscenza e dell’epistemologia cercare di rispondere alla do-manda: com’è possibile conoscere? Molteplici le risposte nel corso dei secoli, dall’età antica ai più recenti sviluppi della filosofia e delle scienze. Negli ultimi decenni, la logica induttiva e la teoria delle probabilità hanno ristretto ulteriormente il campo a teorie formali di componenti specifiche, con risultati tanto solidi e importanti quanto limitati (i nomi che qui si impongono sono, tra tanti, quelli di Richard Jeffrey, Saul Kripke, David Lewis, Daniel Osherson, Clark Glymour e Kevin Kelly). Negli anni a venire è prevedibile che solo l’integrazione dell’epistemologia classica con le scienze cognitive, la neurobiologia, la psicologia del ragionamento, la psicologia animale e la psicologia della conferma potrà portare a nuovi risultati. Approfondiremo in questa sede soprattutto due settori di ricerca: quello che si occupa dell’illusione di sapere quando non si sa e quello che invece considera il caso in cui si crede di non sapere quando si sa, ossia le cosiddette domande alla Fermi.
Credere di sapere quando non si sa
Il vastissimo campo di indagine sul giudizio e la presa di decisione (JDM, Judgment and Decision-Making) e il particolare approccio delle euristiche e biases («paraocchi, pregiudizi»), fondato alla metà degli anni Settanta del 20° sec. soprattutto da Amos Tversky e Daniel Kahneman, sono ormai ben noti, anche grazie a esposizioni divulgative (Piattelli Palmarini 2005 e 2008; Critica della ragione economica. Tre saggi, 2005). Ci soffermeremo qui su alcuni aspetti recenti, degni di interesse e destinati a svilupparsi negli anni a venire.
La sostituzione di attributi
Un semplice esperimento ci introdurrà direttamente alla nozione di sostituzione di attributi. Si è domandato a studenti universitari statunitensi quanto giudicano, soggettivamente, di essere felici, in una scala da uno a dieci. Si è anche chiesto loro quanti appuntamenti galanti (dates) avevano avuto nel mese precedente. L’ordine con il quale queste due domande sono state poste ha alterato moltissimo le risposte: ponendo prima il quesito sulla felicità la correlazione statistica tra le due risposte è risultata trascurabile, mentre ponendo prima quello sul numero degli appuntamenti la correlazione con la risposta sulla felicità è diventata considerevole. In sostanza, è difficile valutare quanto si è felici, ma facilissimo rispondere alla domanda sugli appuntamenti. Se questa viene posta prima, inconsapevolmente si sostituisce un attributo facile (numero di appuntamenti galanti) a un attributo difficile (grado di felicità) e si crede di rispondere alla domanda difficile, offrendo in realtà una risposta sulla base della domanda facile.
Il fenomeno di sostituzione di attributi è molto frequente e lo si riscontra in una grande varietà di risposte a semplici problemi. Tipico è non solo rispondere inconsapevolmente a una domanda, credendo di rispondere a un’altra domanda, come appena visto, ma anche prendere un singolo episodio memorabile per giudicare un intero periodo, rappresentarsi mentalmente un’istantanea per valutare un’intera classe di situazioni, soffermarsi su un caso tipico per giudicare un intero insieme e fissarsi su un valore di riferimento, anche se del tutto arbitrario. L’effetto di ancoraggio mentale a un valore di riferimento arbitrario, ma ben visibile sul momento, conferma l’ipotesi che risulti prepotente, a nostra insaputa, una componente del giudizio e delle scelte basata sulla percezione visiva. Si constata, per es., che facendo girare di fronte agli occhi di un soggetto una ruota della fortuna e chiedendo subito dopo quanti Stati africani sono membri delle Nazioni Unite, la risposta numerica è strettamente correlata al numero appena uscito sulla ruota della fortuna. Dan Ariely, George Loewenstein e Drazen Prelec (2003) hanno verificato che soggetti diversi, ai quali si chiedeva di dichiarare la cifra massima che sarebbero stati disposti a offrire per acquistare vari oggetti dal prezzo a loro non ben noto (vini di media o alta qualità, particolari cioccolatini, congegni elettronici insoliti ecc.), offrivano cifre diverse da soggetto a soggetto, tutte, però, strettamente correlate alle ultime due cifre del loro numero di iscrizione alla sicurezza sociale, lasciato ben visibile su un pannello. Di particolare interesse è il fatto che tali stime, manifestamente arbitrarie, poi restavano coerenti in offerte successive di tali oggetti durante tutta la seduta sperimentale e determinavano la graduatoria della desiderabilità di tali oggetti, soggettivamente ordinati dal più al meno gradito.
Purtroppo questo effetto di sostituzione presenta anche inquietanti risvolti etici. Soggetti ai quali si chiedeva di suggerire in astratto il numero di anni di reclusione che avrebbero costituito secondo loro un deterrente efficace per i perpetratori di vari tipi di crimine risultavano avere idee molto vaghe, ma quando si forniva loro un numero e si chiedeva quanti anni in più avrebbero costituito un deterrente efficace o inefficace, i giudizi diventavano subito netti, decisi e offerti con molta sicurezza. Un altro esempio è il seguente: se si chiede a due distinti gruppi di soggetti quanto sarebbero pronti a contribuire individualmente a un programma che salverebbe un gran numero di uccelli dalla morte per invischiamento in chiazze di nafta, i soggetti del gruppo al quale si mostra una foto di un uccello agonizzante coperto di nafta propongono cifre in media superiori rispetto a quelli del gruppo al quale si forniscono dati statistici generali sul fenomeno. Con lo stesso metodo dei gruppi separati, assai diffuso per questo tipo di esperimenti, si chiede ai soggetti di immaginare di essere membri di una giuria popolare che deve decidere quanto concedere come risarcimento a una vittima innocente, ferita nel corso di una rapina a mano armata in un supermercato. Ai soggetti di un gruppo viene detto che la vittima si era recata come di consueto nel supermercato all’angolo e si specificano città e indirizzo del supermercato. A quelli dell’altro gruppo si dice che la vittima, trovato chiuso il supermercato consueto, si era recata a caso in un supermercato di un diverso quartiere, con città e indirizzo non specificati. La descrizione dell’incidente e la natura delle ferite sono identiche nei due casi. Sistematicamente, in media, le cifre concesse dal secondo gruppo sono superiori a quelle concesse dal primo. Chiaramente, credendo di rispondere a una richiesta di indennizzo equo per una vittima anonima, i soggetti mentalmente rispondono a una richiesta del tipo «quanto vorrei ricevere io come indennizzo se questo capitasse a me». Un supermercato scelto a caso rende il caso ipotetico personale in qualche modo più probabile che non un preciso supermercato dove si immagina di non recarsi mai.
Il processo di sostituzione di attributi, per quanto esteso ed eterogeneo nelle sue manifestazioni, possiede caratteristiche generali interessanti (Kahneman, Frederick 2002 e 2007). L’attributo sostituente è diverso dall’attributo sostituito (attributo detto bersaglio, quello di cui effettivamente si dovrebbe trattare), in quanto: a) è più facilmente percepibile, memorizzabile o rappresentabile; b) ha una scala di valori (in qualche caso numeri) più facilmente misurabile; c) è semanticamente e/o pragmaticamente correlato; d) la sostituzione è sufficientemente plausibile per non destare ripensamenti; e) da solo, sembra riassumere in sé una varietà di altri complessi attributi.
Questo fenomeno offre un’unica spiegazione soddisfacente di una serie di errori cognitivi inconsapevoli già messi in evidenza in anni passati. In particolare: rappresentatività, ancoraggio, disattenzione alle frequenze di base, fallacia della congiunzione e della disgiunzione (Piattelli Palmarini 1993; Critica della ragione economica. Tre saggi, 2005).
In anni recenti, Daniel Kahneman e Shane Fred-erick (2002) hanno spiegato molti di questi fenomeni di illusione di sapere con la presenza di due sistemi di ragionamento: il Sistema 1, è rapido, istintivo, evolutivamente assai antico e probabilmente derivato dalla percezione sensoriale; il Sistema 2, invece, è evolutivamente più recente e richiede sforzo mentale, capacità di analisi e di comparazione. Lo schema da loro proposto è quello indicato nella tabella.
Il Sistema 1 è più antico, basato sulla percezione diretta (come mostrano i casi di ancoraggio a riferimenti arbitrari, ma ben visibili), in un certo senso più ‘primitivo’, ma non per questo sempre meno capace o affidabile. Spesso operazioni mentali inizialmente difficili e lente ‘migrano’ dal Sistema 2 al Sistema 1 (per es., nei giocatori di scacchi e in genere con l’acquisizione progressiva di un’expertise). Il Sistema 1 si prende carico dei problemi così come essi vengono presentati e tenta subito una soluzione. Il Sistema 2 convalida, corregge o cestina queste soluzioni, spesso riformula il problema in varianti logicamente equivalenti, ma più facili da risolvere. Tutto questo, il Sistema 2 lo fa, ma solo se viene chiamato a farlo. Quando non viene mobilitato, si usa la soluzione offerta dal Sistema 1. In particolare, si ha la sostituzione di attributi quando il Sistema 1 subentra, a nostra insaputa, e non attende una convalida dal Sistema 2. Un caso paradigmatico e recente dell’interazione tra questi due sistemi ci viene offerto dal fenomeno della riflessione cognitiva.
Il test di riflessione cognitiva
Una racchetta e una pallina da ping-pong costano, insieme, un euro e dieci centesimi. La racchetta costa un euro più della pallina. Quanto costa la pallina? Prepotente insorge la risposta: dieci centesimi. La maggioranza degli interrogati risponde proprio così, ma la risposta è errata ed è facilissimo verificarlo: infatti, se la pallina costasse dieci centesimi, la racchetta costerebbe 1 euro e dieci centesimi e quindi non potrebbero insieme costare un euro e dieci centesimi. La risposta esatta è: cinque centesimi. Quello che ci suggerisce il Sistema 1 ci pare così persuasivo che non facciamo intervenire il Sistema 2. Solo una minoranza dei molti studenti universitari statunitensi interrogati da Frederick ha risposto correttamente e tutti hanno confessato che la risposta sbagliata era subito e per prima affiorata alla loro mente. Negli scarabocchi scritti frettolosamente a mano, si vede evidente la prima risposta, poi cancellata. Solo se ci attraversa la mente il sospetto che la risposta intuitiva e impulsiva possa essere errata, facciamo intervenire il Sistema 2.
Frederick ha potuto verificare che solo, in media generale, una minoranza (circa il 17% di tutti i soggetti) si accorge che è errata, ci ripensa e offre la risposta corretta. Nessuno, proprio nessuno di coloro che danno la risposta esatta la formula direttamente, e nessuno, proprio nessuno, formula mentalmente prima la risposta esatta, ma poi la scarta e dà la risposta errata. Quando, poi, si chiede ai soggetti di stimare approssimativamente quante persone su cento, secondo loro, risponderanno correttamente a quella domanda, coloro che avevano risposto sbagliando stimano (in media) il 90% o più, invece coloro che hanno dato la risposta giusta stimano (sempre in media) il 60 % o leggermente meno (una stima ancora largamente ottimistica, ma assai inferiore a quella data da chi con sicurezza ha sbagliato).
Frederick (2005) ha escogitato altre domande della stessa natura, che producono la stessa identica fenomenologia di errori impulsivi. Queste domande prese insieme costituiscono un test interessante, chiamato CRT (Cognitive Reflection Test). Un’altra è la seguente: ci sono cinque macchine che producono cinque congegni in cinque minuti. Quanto tempo occorrerà a cento di quelle macchine per produrre cento di quei congegni? Risposta impulsiva errata: cento minuti. Risposta esatta: cinque minuti. Un’altra ancora: in un lago vi sono ninfee che raddoppiano la loro superficie ogni giorno. Le ninfee impiegheranno 48 giorni a coprire tutto il lago. Quanti giorni impiegheranno a coprire metà del lago? Risposta impulsiva errata: 24 giorni. Risposta esatta: 47 giorni.
Il segreto, se così possiamo dire, delle domande del CRT alla Frederick e in genere dei problemi e delle situazioni che generano questo tipo di errori, questi fenomeni di illusione di sapere, è quello di suggerire implicitamente una risposta facile, a prima vista plausibile e potentemente intuitiva. La formulazione stessa della domanda suggerisce una segmentazione irresistibile. Il prezzo di un euro e dieci centesimi, con la racchetta che costa un euro in più, suggerisce potentemente la ripartizione tra un euro e dieci centesimi. Nella seconda domanda, la sequela cinque, cinque e cinque suggerisce potentemente la sequela cento, cento e cento. Per la terza, l’intera superficie coperta in 48 giorni suggerisce potentemente, per la metà della superficie, la metà di 48.
Tali processi mentali sono, infatti, chiamati impulsivi da Frederick. La difficoltà obiettiva e la minimizzazione dello sforzo di calcolo mentale non sono una spiegazione. Infatti pochissimi sbagliano la risposta alla seguente domanda di controllo, obiettivamente più difficile: una banana e un biscotto costano, insieme, 37 centesimi. La banana costa 13 centesimi più del biscotto. Quanto costa il biscotto? Qui la maggioranza risponde giusto, dopo qualche secondo. Il Sistema 2 viene subito mobilitato, con successo. Quindi è la segmentazione irresistibile, non la facilità di computo mentale, che spiega questo tipo di errori.
Coloro che rispondono correttamente a questi test (come abbiamo detto, una minoranza, al di sotto del 20 % nelle migliori università; solo gli studenti di economia del Massachusetts institute of technology toccano il 48%) sono assai più disposti, nei test di scelte economiche, a scegliere di aspettare una ricompensa più grande, invece di una minore ricompensa subito, e in genere hanno un curriculum di riuscita accademica superiore alla media. Inoltre, coloro che non fanno intervenire la riflessione cognitiva, quando messi appositamente in situazioni sperimentali nelle quali è facile imbrogliare (guardando di sottecchi le risposte ai test), approfittano della situazione più frequentemente di coloro che danno le risposte corrette.
Si noti che i soggetti non riflessivi di Frederick (studenti universitari di ben venti grandi università statunitensi) giudicavano molto facile la risposta ai quesiti, e si aspettavano che la stragrande maggioranza delle persone avrebbe dato la stessa facile risposta che loro avevano dato.
La diversa natura dei due sistemi si offre piuttosto naturalmente a una verifica mediante tecniche di imaging (risonanza magnetica funzionale, trattografia e simili). La realtà psicologica assai forte dell’intervento quasi immediato del Sistema 1, solo successivamente seguito dal controllo del Sistema 2, potrà essere verificata a livello delle differenti attivazioni cerebrali in tempo reale, almeno in linea di principio (gli esperimenti sono in corso).
Un altro interessante esempio, che ancora non è stato studiato sistematicamente, è dovuto al noto scrittore statunitense di viaggi e di soggetti nautici Tom Snyder (The unbearable brightness of boating, «Points East», July 2008, pp. 12-14). Si parte dal porto A e si vuole arrivare al porto B, distante cento miglia nautiche. Per motivi di marea, si deve coprire questo tratto a una velocità media di dieci nodi (un nodo è un miglio nautico all’ora). Quando siamo a metà strada, ci si accorge che la velocità media tenuta è di soli 5 nodi. Quale velocità media dovremo tenere nella seconda metà del percorso per rispettare il progetto iniziale? I dati aneddotici di Snyder dicono che la maggioranza degli interrogati risponde 15 o 20 nodi. La risposta giusta, che quasi nessuno fornisce, è che è impossibile: occorrerebbe una velocità infinita. Infatti, a metà strada, dopo aver coperto 50 miglia, se si è mantenuta la velocità di 5 nodi, avremo già utilizzato tutte le 10 ore disponibili e solo una velocità infinita ci consentirebbe di arrivare al porto B in 10 ore. Snyder ha escogitato, a sua insaputa, un problema in perfetto stile CRT. Come per la racchetta e la pallina, per i congegni e lo stagno, una suddivisione si presenta naturale alla nostra intuizione, cioè al Sistema 1: metà della strada a metà della velocità desiderata, quindi la seconda metà al doppio della velocità.
Un interessante parallelo alla sostituzione di attributi e alla riflessione cognitiva si presenta anche in un campo del tutto diverso, finora piuttosto insospettato, e ora oggetto di nuove analisi: il linguaggio.
La sostituzione di frasi
Il linguista peruviano Mario M. Montalbetti (1984) ha utilizzato la seguente frase: «More people have been to Russia than I have». Una traduzione italiana che conserva il fenomeno è: «Coloro che sono stati in Russia sono più di me». Il fenomeno in questione è il seguente: di primo acchito queste frasi ci sembrano ben formate, grammaticalmente corrette e dotate di significato. Solo di primo acchito, certo, ma questo è quello che conta. Un’analisi dei profili elettroencefalografici delle attivazioni cerebrali in tempo reale, quando i soggetti leggono o sentono queste frasi (dette Montalbetti sentences), è tuttora in pieno svolgimento presso la University of Maryland, ma i primi risultati confermano che ci sono tempi successivi di attivazioni distinte. Nei primi millisecondi si attivano le aree canoniche dell’elaborazione sintattica, poi appare il profilo caratteristico delle onde cerebrali associate a una sorpresa, quindi le onde di attivazione delle aree prefrontali dette esecutive (associate alla presa di decisione e alla risoluzione di problemi). Varie spiegazioni provvisorie sono state proposte, ma riteniamo che sia netto il parallelo con il fenomeno della sostituzione di attributi. Perfettamente ben formate, perfettamente grammaticali e pienamente dotate di significato sono frasi simili, ma leggermente più complesse (si noti, leggermente più complesse), come in inglese: «More people than elephants have been to Russia»; «More people have been to Russia than just me»; «More people have been to Russia than to Ossetia». Curiosamente, la frase iniziale sembra meglio formata se la si precisa: «More people have been to Russia this summer than I have». In italiano: «Coloro che sono stati in Russia quest’estate sono più di me». Sempre problematica, ma di primo acchito addirittura migliore di quella iniziale. Perfette sono, invece, frasi italiane come: «Coloro che sono stati in Russia sono più colti (intelligenti, avventurosi, contenti) di me»; «Coloro che sono stati in Russia sono più di me, te e Gianni».
In che cosa consiste la ‘trappola’ delle frasi alla Montalbetti? Detto sommariamente, nell’ingannevole forma logica della frase. C’è un comparativo «sono più di…» che ha prima e dopo due sintagmi nominali: «coloro che…», seguito da «me». L’apparato sintattico ‘scatta’ e si ritiene per un attimo soddisfatto. Poi interviene un giudizio ponderato e ci si accorge che la comparazione è vuota di senso, perché non c’è né una comparazione di numero (come in «me, te e Gianni»), né di attributo («più colti»). «Sono più di me» non è una comparazione sensata, senza un attributo. Quando interviene una specificazione ulteriore, come «quest’estate», esitiamo un po’ di più. Ci sfiora il dubbio che la comparazione ci sia. Ebbene, l’ipotesi è che noi mentalmente, per un attimo, sostituiamo alla frase problematica in questione una diversa, ma simile frase, fino a quando, attimi dopo, una rapida rilettura ci riporta alla frase bersaglio. Una convalida indiretta, ma significativa, di questa ipotesi viene dalle reazioni iniziali spontanee che i parlanti di una lingua hanno quando i linguisti propongono loro di giudicare frasi non ben formate. Questa prima reazione consiste non nel giudicare la grammaticalità della frase presentata, bensì nell’offrire spontaneamente una diversa frase, molto simile, ma ben formata. A differenza dei casi di sostituzione di attributo, nei quali la sostituzione può non venire mai sconfessata dal Sistema 2 e produrre, quindi, un’intuizione, un giudizio o una scelta definitivi, la frase bersaglio resta sotto lo sguardo e subentra l’eccellente sistema linguistico di operazioni sintattiche e di interpretazione, decidendo in seconda battuta, correttamente, che la frase bersaglio non va bene. Esperimenti in corso sono volti a verificare se, alcuni minuti dopo, il soggetto probabilmente si illuderà di ricordare la frase sostitutiva, che in realtà non ha mai visto. Qui occorre una precisazione.
‘Cognitivamente illusi, ma non stupidi’
Molti esperimenti progettati per rivelare le nostre illusioni cognitive – sulle illusioni probabilistiche, gli ancoraggi mentali e così via – devono essere fatti su gruppi di soggetti separati, in stanze separate, per evitare che un gruppo sia influenzato dall’altro. Nessun soggetto al quale venissero presentati insieme i due casi delle due rapine nei due rispettivi supermercati deciderebbe, per es., di accordare cifre diverse alle due vittime. Questi esperimenti si chiamano intersoggetti. Avendo creato i due gruppi in modo perfettamente casuale (mediante sorteggi o a seconda della prima lettera del cognome, o simili) non si ha alcun motivo di supporre che i soggetti di uno dei due gruppi siano più propensi di quelli dell’altro a esprimere giudizi di un certo tipo. I dati raccolti con esperimenti sugli stessi soggetti, ai quali vengono poste due o più varianti di quello che la logica ci dice essere uno stesso problema (esperimenti infrasoggetti), sono più solidi, ma molto spesso impossibili da ottenere. Il test di riflessione cognitiva alla Frederick è un esempio significativo di successo di esperimenti infrasoggetti. Si rivela, infatti, la persistenza, nella maggioranza dei soggetti, del processo del Sistema 1, senza intervento successivo del Sistema 2. Una stessa persona può fare o non fare intervenire una fase più riflessiva e analitica, a seconda di variabili sottili, come la difficoltà del problema, la familiarità con il tipo di problema, il tempo accordato per rispondere e così via. Questi esperimenti, come ogni esperimento scientifico ben disegnato e ben eseguito, richiedono ingegnosità, pazienza e costante revisione critica. In una frase, noi esseri umani siamo suscettibili di cadere vittime delle nostre illusioni cognitive, ma non siamo stupidi. Veniamo adesso a un caso assai diverso, quasi l’immagine ribaltata delle illusioni cognitive.
Le domande alla Fermi: credere di non sapere quando si sa
Il grande fisico italiano, premio Nobel, padre della fissione nucleare e della pila atomica, Enrico Fermi, fuggito dall’Italia fascista e rifugiatosi a Chicago, era solito fare ai suoi studenti la seguente domanda a bruciapelo: «Quanti accordatori di piano ci sono a Chicago?» Immancabile, la meravigliata risposta era: «Non ne ho la minima idea!». Fermi, sorridendo, controbatteva: «Non è vero, lo sai. Non ti rendi conto di saperlo. Ora te lo dimostro». Seguiva un dialogo fatto di domande e risposte nel quale Fermi non forniva mai alcuna informazione, si limitava solo a porre domande e lasciava lo studente rispondere, approssimativamente, sulla base delle sue (in genere corrette) conoscenze generali. Quante famiglie ci sono a Chicago? Quante avranno un pianoforte? Quanti altri enti (circoli, sale da concerto, locali notturni ecc.) avranno un pianoforte? Con quale frequenza occorre accordare un pianoforte? Una volta ogni anno, circa. Quante accordature può fare un accordatore al giorno? Quanti giorni lavorativi ci sono in un anno? Quante accordature occorrono in un anno? E quindi: quanti accordatori ci sono, allora, a Chicago? E si arrivava infine a una stima approssimata di circa venti. Sulle pagine gialle la conferma precisa era 25.
Le Fermi questions sono in seguito diventate oggetto di studio e sono spesso utilizzate nelle interviste di candidati a importanti ruoli di direzione industriale e commerciale. La peggiore risposta è quella che viene di getto, come agli studenti di Fermi: «Non ne ho la minima idea». Invece si devono e si possono fare delle stime ‘a braccio’, ma approssimativamente corrette, in situazioni molto diverse. Qual è il meccanismo cognitivo qui rivelato? A differenza dei casi nei quali si ha illusione di sapere, il Sistema 1, il primo a essere evocato, non ha alcuna risposta da dare alle domande alla Fermi. Niente si affaccia alla mente di uno studente di fisica in tema di accordatori di piano, e niente alla mente, poniamo, di un dirigente nel settore automobilistico in materia di spazzolini da denti. Né vengono in mente attributi sostitutivi. Non ci sono intuizioni numeriche cui aggrapparsi, nemmeno in prima approssimazione. Si pensa che non vi siano regole e deduzioni da far intervenire, quindi che mobilitare il Sistema 2 non serva a niente, in quanto occorre un dato, non un ragionamento. Ma, come Fermi dimostrava, questo non è vero. Vi sono alcune cifre che, approssimativamente, ci sono note. E vi sono altre cifre molto pertinenti che è facile calcolare a braccio, partendo da quelle. Basta saper ragionare. Il ragionamento da applicare, qui, è una serie di domande sempre più focalizzate, con risposte basate su dati che abbiamo a disposizione, e che calcoliamo da noi stessi, domanda dopo domanda, almeno approssimativamente. Si ha, quindi, un’interessante illusione di non sapere, quando invece si sa. Termineremo con un caso molto frequente di illusione di sapere, quello che chi scrive ha chiamato, in italiano, smaccature (la derivazione da smaccato è del tutto intenzionale).
Le smaccature
Il fenomeno
Molti di noi ricorderanno di avere visto, qualche anno fa, una serie di grandi cartelloni dell’Alitalia che dicevano «The time has flown»; un madornale errore, in quanto in inglese si deve dire «Time has flown». A Milano, vicino a Porta Garibaldi, c’era un bar che si chiamava La petite Paris; altro errore madornale, in quanto in francese Paris è maschile, e dunque è corretto dire Le petit Paris.
La definizione
Perché un errore possa essere classificato come una smaccatura deve essere:
a) forte e chiaro (smaccato, appunto, non marginale, opinabile, incerto, approssimativo);
b) ripetuto e/o di circolazione pubblica (non si ha una smaccatura se l’errore resta privato e poi mai ripetuto, detto una sola volta, in famiglia, o in una lettera a un amico); la diffusione a mezzo stampa, o su insegne, o cartelloni, o in radio o televisione è il caso più tipico, ma contano anche conferenze, interviste, lezioni in classe, riunioni di lavoro;
c) non richiesto, né forzato dalla situazione (non è una smaccatura commettere uno svarione, anche grossolano, in un’altra lingua, in un ristorante, un albergo, una farmacia, una stazione ferroviaria, un casello autostradale, cioè quando si è obbligati a dire qualcosa, quella cosa, sul momento, ma non si sa bene come esprimersi e non c’è modo di verificare);
d) facilmente correggibile (consultando una qualunque enciclopedia, facendo una ricerca in Internet, chiedendo a un qualsiasi parlante di quella lingua, a un qualunque esperto della materia ecc.);
e) insospettato da chi lo commette (una smaccatura non viene mai preceduta da un «forse», «mi sembra che», «non so bene», «posso sbagliare»);
f) non aperto alla rettifica (chi lo commette non accetta di essere corretto).
Quando un errore soddisfa tutti questi sei criteri è un caso chiaro di smaccatura, ma esistono, ovviamente, molti casi intermedi, nei quali solo alcuni di questi criteri sono soddisfatti e nei quali si può avere una smaccatura solo parziale. Vediamo di spiegare quali processi mentali spiegano una chiara, tipica smaccatura.
La spiegazione
Una smaccatura risulta da una fortissima illusione: l’illusione incrollabile di sapere. Se anche il minimo dubbio attraversasse la testa dello ‘smaccatore’ non ci sarebbero smaccature; è la totale assenza del pur minimo dubbio che spiega il fenomeno. Le smaccature di natura linguistica hanno una spiegazione più specifica, una fonte ben precisa di questa illusione di sapere, sulla quale torneremo tra un momento, ma soffermiamoci sul fenomeno dell’illusione incrollabile a un livello più generale. Nei casi collettivi questa illusione di sapere è ripetuta nella testa di molti, esattamente come era accaduto nella testa del primo ‘inventore’ della smaccatura. Tutti, uno dopo l’altro, e/o tutti insieme, sono vittime della stessa illusione di sapere. «Il tempo è volato» è corretto in italiano, quindi «the time has flown» deve essere corretto in inglese. Il dubbio che possa non esserlo non sfiora nemmeno. «La piccola Parigi» va bene in italiano, quindi «La petite Paris» deve essere corretto in francese. Inoltre, nel caso, appunto, di una scritta, un’iscrizione, di un qualcosa destinato a uso pubblico, si è certi che tutti concorderanno. Chiediamoci, allora, cosa può generare l’incrollabile illusione, quale processo mentale può causare l’illusione del vero in qualcosa che, invece, è obiettivamente e smaccatamente falso. Alcuni meccanismi cognitivi emergono con chiarezza. Vediamoli in ordine di semplicità, dal più ovvio al più recondito.
Sedimentazione e ripetizione. Se uno è stato convinto di qualcosa per molti, molti anni, questo qualcosa sedimenta nella personale rete di credenze e diventa inaccessibile al dubbio e alla revisione. Inoltre, spesso e facilmente (anche se non necessariamente e sempre) la lunga durata si traduce in, e si rafforza con, un’alta frequenza di ripetizione. Una ‘verità’ detta e ridetta, specie se da noi stessi, diventa rocciosa, protetta, immutabile.
Autorità e gregarietà. Se il capufficio, l’alto dirigente, il maestro o una figura guida, seppure in campi ovviamente del tutto estranei alle sue competenze, commette una smaccatura, allievi e subalterni sono destinati ad assimilarla come certa e indiscutibile, molto spesso senza nemmeno accorgersene. Lo stesso avviene per smaccature che circolano entro gruppi, comitati, intere ditte, comitive di soci e amici. Si noti, non parliamo qui di errori, magari anche grossolani, ma strettamente professionali, cioè facenti parte delle competenze specifiche di colui che li commette. Parliamo di smaccature commesse in campi nei quali la competenza della persona è ovviamente, pubblicamente inesistente, per es., grossolani errori di inglese commessi da chi notoriamente non lo parla bene, o non lo parla affatto.
Plausibilità. Qui il Sistema 2 viene a supporto del Sistema 1, ma lo fa con spiegazioni solo superficialmente plausibili, in realtà sbagliate. Si ha la predominanza di una qualche spiegazione superficiale errata, ma semplice e intuitivamente credibile e quindi possente. Un esempio paradigmatico è quello delle maree: quasi tutti pensano che le maree siano il risultato dell’attrazione gravitazionale esercitata dalla Luna sulle masse d’acqua. In termini più brutali, pensano che l’attrazione gravitazionale della Luna ‘succhi’ (per così dire) l’acqua del mare verso di sé. La spiegazione è talmente verosimile e immediata e irresistibile che non si immagina nemmeno di volerla verificare o confutare con un minimo di dati. Se fosse come si suppone che sia, quando si ha alta marea in un punto del pianeta si dovrebbe avere bassa marea agli antipodi, invece si hanno quasi sempre alte (o basse) maree contemporaneamente agli antipodi. L’attrazione gravitazionale della Luna è solo un fattore, e agisce in modo assai diverso dal ‘succhiare’ l’acqua del mare verso di sé. L’attrazione gravitazionale del Sole contribuisce per circa il 20% e l’effetto risultante dipende, quindi, dalle posizioni relative del Sole e della Luna, ma importantissimi sono anche i ritmi e le ampiezze delle risonanze e delle pulsazioni delle masse d’acqua. Un’altra frequentissima, quasi universale smaccatura di questo genere è ritenere che l’Immacolata Concezione si riferisca alla concezione di Gesù da parte della Madonna, mentre invece si riferisce alla concezione di Maria senza peccato originale. La prima interpretazione risulta così plausibile che non ci si cura di verificarla.
Congelamento di parametri mentali. Il caso forse più interessante è quello delle smaccature linguistiche. Radio, televisione, cartelli pubblicitari e manifesti di convegni ce ne regalano senza posa. Il caso dell’inglese parlato da italiani ci riguarda in modo particolare. Prendiamo due soli esempi: l’uso abnorme dell’articolo determinativo inglese the, come mostrato nell’esempio già citato della frase errata nella pubblicità dell’Alitalia, e l’uso sbagliato degli accenti tonici. Lo spostamento dell’accento tonico nelle parole inglesi, del tutto sistematico e prevedibile, effettuato dai parlanti italiani, crea qualcosa di diverso dalla pronuncia dei parlanti inglesi, ma anche spesso diverso da come un italiano pronuncerebbe quella parola, se fosse una parola italiana. Prendiamo la parola inglese inventory (inventario). L’accento giusto è costituito (come spesso è il caso in inglese per le parole polisillabiche) da due accenti: uno principale sulla o e uno secondario sulla i iniziale. Gli italiani, anche coloro che parlano bene l’inglese, mettono l’accento sulla e. Se adottassero anche per la parola inglese la stessa pronuncia della parola italiana «inventario» sarebbero molto più vicini al giusto, ma non lo fanno.
Perché non esiste apprendimento? Avere sentito quella parola decine, centinaia o, in qualche caso, migliaia di volte pronunciata correttamente da parlanti di madre lingua inglese non ci ha fatto cambiare la nostra pronuncia. L’apprendimento non esiste perché la sillabazione per la nostra lingua madre si congela nella nostra mente molto precocemente, quando siamo ancora infanti e resta così congelata irrimediabilmente. Ogni lingua ha una sua panoplia di valori parametrici caratteristici e riposizionare mentalmente uno di questi parametri su un valore diverso è molto arduo, a meno che non si sia perfettamente bilingui. Più precoce è stato il posizionamento di uno di tali parametri nella nostra infanzia, più difficile è riposizionarlo quando si impara una lingua straniera. Anche i valori parametrici dei sintagmi determinativi vengono bloccati molto precocemente.
Sistema 1 e Sistema 2: cooperazioni e interferenze
Una ricapitolazione schematica delle interferenze tra i due sistemi individuati da Kahneman e Fred-erick può, quindi, essere la seguente:
a) quando il Sistema 1 interagisce con il Sistema 2, che conferma, modifica, respinge i suggerimenti del pri-mo, si ottengono come risultato buoni esisti cognitivi;
b) quando all’attivazione del Sistema 1 non segue quella del Sistema 2 si ottengono invece illusioni cognitive, risposte CRT, smaccature;
c) quando all’attivazione del Sistema 1 segue quella solamente parziale del Sistema 2 gli esiti cognitivi vengono confermati in maniera ingannevole, e si ottengono così delle smaccature;
d) entrambi i sistemi non si attivano di fronte alle cosiddette Fermi questions;
e) il Sistema 1 non si attiva e il Sistema 2 elabora in proprio di fronte alla ricerca di una soluzione di problemi particolarmente ardui.
È possibile, almeno in linea di principio, sottoporre queste ipotesi a verifiche e smentite mediante tecniche di visualizzazione delle attivazioni cerebrali. Operazioni cognitive distinte trovano in genere, nei limiti di risoluzione delle tecnologie impiegate, correlati neurali distinti. Zone cerebrali specifiche, o circuiti specifici, vengono attivati in modo selettivo. Attualmente sussiste un certo squilibrio tra la buona precisione della localizzazione anatomica (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging; PET, Positron Emission Tomography) e la rivelazione in tempo reale della rapidità dei processi (EEG, ElettroEncefaloGrafia a molti elettrodi; MEG, MagnetoEncefaloGrafia). Verificare quali centri cerebrali si attivano prima e quali dopo, specie quando si tratta di regioni cerebrali profonde, costituisce un notevole problema. Già esiste una ricca messe di lavori sui correlati neurali della presa di decisione, certamente destinati a espandersi e ad affinarsi (per sintesi recenti si vedano Camerer, Loewenstein, Prelec 2005; Fehr, Camerer 2007; Sanfey 2007). In alcuni casi, si sono rivelati molto istruttivi anche gli studi sui correlati neurali delle preferenze e delle scelte in animali, soprattutto nei primati superiori (Kim, Hwang, Lee 2008), ma risulta arduo immaginare simili confronti per i fenomeni qui descritti.
Conclusioni
Tra sapere veramente, seppur in modo approssimativo e provvisorio, e credere di sapere esiste, come abbiamo visto, uno iato notevole. Questo si estende anche al rapporto tra non sapere e credere di non sapere. Due conclusioni sembrano piuttosto importanti. Bisogna essere sempre cauti nell’attribuire ad altri, con il senno di poi, l’intenzione di ingannare. Purtroppo anch’essa esiste e gli apparati di propagan-da ne usano e abusano, ma esistono anche le smaccature, le falsità generate e diffuse in buona fede, grazie ai meccanismi visti sopra. Sono, se possibile, ancora più sottili e più pericolose dell’inganno, perché i loro autori e propagatori non sospettano nemmeno la possibilità dell’errore. Infatti le smaccature politiche e ideologiche, ma anche quelle accademiche e scientifiche, nascono e crescono nel nostro proprio giardino, germinano nelle ideologie e nei sistemi di credenze cui noi stessi aderiamo, e perfino, talvolta, nei settori nei quali ci riteniamo più sicuri.
Il contributo che le scienze cognitive possono apportare in quest’ambito consiste nel suggerire alcune verifiche necessarie, anche se, purtroppo, non sufficienti. Verifichiamo riflessivamente intuizioni, valutazioni, opinioni e credenze, specialmente quando l’origine è intuitiva e naturale. Ricostruiamo sempre le origini primarie di un’opinione, una credenza, una tesi, un assunto i cui effetti sono importanti. Diffidiamo in particolare delle fonti le cui uniche credenziali sono il potere e l’ascendente personale, invece della competenza, e di una circolazione e una ripetizione circoscritta tra coloro che non hanno credenziali adeguate in quel settore. Eseguiamo la prova dei fatti (per es., chiediamo agli esperti, quelli veri, rileggiamo le cronache originali, oppure consultiamo le buone enciclopedie), vediamo se è possibile reinterpretare questi fatti indipendentemente e se ce ne sono altri di cui non ci siamo curati. Infine, diffidiamo sempre, innanzitutto in noi stessi, del demone interno che bisbiglia «non c’è nessun bisogno di controllare, deve essere così e non altrimenti». Se poi questo demone non bisbiglia nemmeno, oramai annuisce soltanto in silenzio, e magari non gli prestiamo più attenzione, la strada delle illusioni di sapere è aperta, lastricata di ripetizioni e di vasti consensi.
Bibliografia
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