L'immagine del corpo nei nuovi media
Fra il 19° e il 20° secolo, l'avvento e la diffusione di nuove forme di comunicazione, soprattutto visiva, quali la fotografia, il cinema, il video, e, da ultimo, la realtà virtuale, nonché la scoperta e l'adozione generalizzata dei nuovi strumenti di indagine diagnostica per immagini, hanno determinato una progressiva espansione, in termini sia quantitativi sia qualitativi, della 'visibilità' del corpo umano. Nel campo scientifico e medico questo incremento di visibilità ha permesso una grande varietà di indagini, che parte dagli studi sul corpo in movimento fatti con i metodi cronofotografici di Eadweard Muybridge ed Étienne-Jules Marey (che sono tra l'altro da annoverare tra gli antecedenti del cinema) per arrivare alle moderne tecniche di ricerca ecografica ed endoscopica. Il metodo indiziario basato sullo studio dei sintomi e sull'indagine indiretta cede il passo all'osservazione diretta dei processi fisiologici, normali o patologici (v. i capitoli La diagnostica per immagini e Le immagini endoscopiche). Ma quella scientifica non è che una delle applicazioni della rivoluzione nella tecnica della riproducibilità. Estendendo e dilatando la visibilità del corpo, i media hanno esteso e dilatato le possibilità di osservazione e interpretazione, esposizione e ostensione del complesso sistema di segni che è rappresentato dal corpo, tanto nella sua dimensione biologica (fisiologia del corpo e sue dinamiche interattive), quanto in quella sociale (funzione simbolica del corpo e delle sue estensioni: ornamenti, abiti, strumenti). Se dunque la rappresentazione del corpo umano attraverso i nuovi media ha avuto e continua ad avere una grande varietà di funzioni (scientifica, medica, sportiva, didattica, ludico-spettacolare, erotica), altrettanto vari sono stati gli effetti di questa accresciuta visibilità: progressivo allargamento della conoscenza scientifica dei meccanismi di funzionamento del corpo; conseguente affinamento delle tecniche di adattamento e addestramento in relazione alle possibili prestazioni (lavorative, atletiche ecc.); modificazione dei comportamenti privati e pubblici legati a una maggiore padronanza dei modi di gestione del corpo (igiene, diete, ginnastica ecc.); fenomeni di investimento narcisistico, sempre più spiccati e diffusi, indotti dai mezzi di comunicazione di massa, sopratutto dal cinema, dalla televisione e dalla pubblicità.
La fotografia costituisce un campo di applicazione assai vasto per le tecniche di rappresentazione del corpo umano. Attraverso la riproduzione tecnica del reale la fotografia ha lavorato sul corpo secondo idee, modelli, e intenzioni che hanno permesso una grande varietà di indagini; il corpo umano, infatti, può essere immortalato nella sua completezza di soggetto o ricoprire nuovi e inattesi significati: corpi trasfigurati in chiave simbolica, corpi avvicinati al dato inorganico e rappresentati come macchine, corpi che diventano un sistema di segni o che, al contrario, sono colpiti e 'marchiati' da elementi estranei. Le forme di rappresentazione che nella storia della fotografia si sono avvicendate come generi specifici sono molte. Se ne possono ripercorrere le tappe fondamentali proprio a partire dagli aspetti privilegiati nella rappresentazione del corpo umano. Un corpo intero, nudo, sociale, occultato, inorganico, o invece un corpo disunito, in cui le singole parti sono dotate di significato autonomo e diventano l'oggetto discreto della rappresentazione umana.
Pensiamo al ritratto. 'Ritratto', come altri termini relativi alle arti visive, designa tanto un genere di rappresentazione, codificato nelle varie pratiche espressive e radicato in una tradizione, quanto l'oggetto della rappresentazione stessa. Questa considerazione, che appare del tutto ovvia per le arti figurative tradizionali, diventa però essenziale per la fotografia. Prima di tutto, il ritratto fotografico, in particolare nella fase iniziale della sua storia (quella del 'dagherrotipo', dal nome dell'inventore Louis-Jacques-Mandé Daguerre, divulgato nel 1839), ma, sia pure con valenze diverse, anche nelle fasi successive, intrattiene una serie di relazioni con il 'genere ritratto' quale si è andato codificando nella tradizione pittorica. Nello stesso tempo, il ritratto fotografico si differenzia per significati, usi e funzioni da altri generi contigui: le foto di moda, di attualità o di documentazione scientifica sono altra cosa dal ritratto, hanno cioè diversi oggetti di rappresentazione. Inoltre, la concezione del ritratto si modifica con l'evoluzione dell'idea stessa di corpo, individuo, soggetto, quale viene a essere determinata dai nuovi paradigmi del sapere delle scienze naturali e umane e, spesso, accelerata dagli effetti dei nuovi media riproduttivi.
Per ogni forma di riproducibilità tecnica del visibile (e quindi anche per la fotografia e per la televisione) può valere quanto W. Benjamin (1936) osservava per il cinema: questi media funzionano nei riguardi dell''inconscio ottico' nello stesso modo in cui la psicoanalisi funziona nei riguardi dell'inconscio istintuale (v. oltre: Il cinema). Al pari di altre scoperte scientifiche e tecnologiche, la fotografia intrattiene relazioni profonde con i saperi prodotti da un'intera cultura, dei quali è al tempo stesso uno dei risultati e uno dei fattori di modificazione. Storici dell'arte e della fotografia hanno da tempo evidenziato gli antecedenti pittorici dell'idea stessa di fotografia intesa come copia diretta della natura. H. Schwarz (1987), per es., ha evidenziato come siano emersi in Europa, nei decenni precedenti l'invenzione della fotografia, stili pittorici che anticipavano, nei riguardi della realtà fenomenica, un atteggiamento che sarà poi caratteristico del nuovo mezzo e la cui origine è individuata nella rivoluzione figurativa del Rinascimento (da Leon Battista Alberti a Leonardo). Un'interpretazione differente, ma complementare, è quella che vede nella pittura 'prima della fotografia' i sintomi della crisi dei modelli tradizionali di rappresentazione e l'emergenza di nuovi paradigmi legati all'esperienza visiva quotidiana che nell'invenzione della fotografia trovano il loro compimento (Galassi 1981).
Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa richiesti dal pionieristico procedimento di Daguerre furono rapidamente superate e il ritratto divenne presto il genere più diffuso, anche se non furono trascurate le vedute panoramiche, architettoniche e i fatti di cronaca. Se nel 1849, a dieci anni dalla divulgazione della scoperta di Daguerre, furono eseguiti in Francia, secondo stime d'epoca, centomila ritratti in dagherrotipo, si calcola che, di lì a poco, nel 1862, nella sola Gran Bretagna siano state fatti 105 milioni di fotografie: queste cifre danno immediatamente l'idea delle dimensioni industriali assunte nel giro di pochi decenni dalla nuova tecnica (Scharf 1974).
Di fronte al dilagare della fotografia non mancarono diffidenze e riserve. Nadar, geniale pioniere e grande ritrattista, riferisce con accenti ironici che Honoré de Balzac si diceva convinto che ogni posa davanti al nuovo apparecchio comportasse il distacco di uno di quegli strati infinitesimali ('spettri') che egli riteneva fossero la 'essenza costitutiva' del corpo visibile. Di qui il 'terrore' dello scrittore nei confronti del dagherrotipo, cosa che non gli impedì però di posare, dal momento che lo stesso Nadar, che peraltro avanza dubbi sull'autenticità di tale smodata paura, possedeva un dagherrotipo dell'autore della Comédie humaine (Nadar 1900).
Di altra natura era l'avversione di Charles Baudelaire, il quale attribuiva a una sorta di Dio vendicatore, di cui Daguerre era stato il profeta, la colpa di aver esaudito i desideri di una massa disposta a scambiare per arte assoluta la riproduzione esatta della natura. "Da allora, la società immonda si riversò come un solo Narciso a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra" (Baudelaire 1859, trad. it., p. 220). Quest'invettiva contro un pubblico che scambia i fori dello stereoscopio per un 'lucernario dell'infinito' trova le sue ragioni in un ideale di arte romantica che costituisce uno dei tanti modelli messi in crisi dall'avvento del nuovo mezzo e invita a riflettere sul rapporto che si instaura tra lo sviluppo della tecnica e i modelli di riferimento di una cultura e di una società.
La fede nel valore conoscitivo del dato fotografico trova una sua conferma nell'ambito di un paradigma ampiamente attestato in numerose manifestazioni della cultura ottocentesca, secondo il quale esiste una stretta corrispondenza tra l'aspetto esteriore di una persona e le sue attitudini psicologiche e morali, paradigma cui si attiene tanto uno scrittore come Balzac quanto uno scienziato come Jean-Martin Charcot, studioso delle malattie nervose. Balzac, al di là dei suoi pregiudizi riferiti da Nadar, si vantava di avere previsto l'avvento della fotografia con le sue descrizioni basate sulla piena fiducia dell'esatta corrispondenza tra l'esteriorità e l'interiorità del personaggio (Krauss 1990). E Charcot fece ampio uso della fotografia per documentare l'isteria, nella ferma convinzione che le immagini fotografiche fornissero la più precisa documentazione dello stato mentale delle sue pazienti.
Indubbiamente la fotografia è il primo di una serie di mezzi che ha modificato il grado di visibilità del corpo. E uno degli aspetti di questa modificazione sta probabilmente nella diversa maniera di concepire il rapporto tra stati fisici e stati mentali, tra soma e psiche. Tutto ciò trova riscontro anche nelle modificazioni che la fotografia introduce e conferma nel rapporto tra il volto e il resto del corpo. Infatti, quando si parla di ritratto, è al volto che si pensa. Lo attesta tutta una tradizione della ritrattistica pittorica, come se l'arte del ritratto consistesse principalmente nel cogliere attraverso e al di là dell'apparenza fisica l'interiorità del personaggio, cioè l'elemento capace di dare unità e senso a tale apparenza (nel verbo 'ritrarre' è presente anche il significato del 'tirare fuori', cioè del fare emergere da elementi esteriori l'interiorità della persona). E.H. Gombrich (1982) attribuisce appunto alla fotografia (e al mezzo televisivo) il mutamento del nostro atteggiamento nei confronti dell'immagine delle persone. Invece, il corpo umano raffigurato nella sua interezza sollecita un altro genere di riflessioni. Pensiamo al corpo umano nudo. La storia della fotografia si è esercitata su questo soggetto in numerose occasioni. Il corpo nudo, paradossalmente, non è mai un corpo 'svestito'. Gli artisti della fotografia ricompongono un senso e dotano il corpo umano di una serie di segni, determinati dall'illuminazione, dall'atteggiamento, dai particolari, dalla postura, con un lavoro fortemente simbolico e metaforico. Il nudo è, in molti casi, un sistema di segni, un'astrazione, un allontanamento dalla realtà riprodotta: ciò appare evidente nelle fotografie di Edward Weston, che considera il corpo come un paesaggio.
D'altra parte, la figura del corpo disegnato, segnato o marchiato, trasfigura e 'derealizza' la sua funzione organica. Man Ray fotografa senza soluzione di continuità i corpi e i manichini, come quelli creati e fotografati per l'esposizione del surrealismo di Parigi nel 1938. La schiena di una donna si trasforma in un violino, la superficie della pelle si confonde con l'universo degli oggetti. È proprio il mondo delle avanguardie novecentesche, del resto, che fa riferimento a un'estetica antinaturalista, con suggestioni di scomposizione e ricomposizione di un corpo umano divenuto campo di battaglia per il rinnovamento radicale dell'arte. Il dettaglio affianca la figura intera, il soggetto perde la sua centralità, con conseguenze per tutta la storia della fotografia.
Esiste, però, in fotografia anche quello che potrebbe essere definito 'corpo etnico'. A seconda della lezione dei singoli artisti, il corpo umano può essere indagato nei suoi aspetti esotici, e costituire in tal senso un luogo estetico privilegiato attraverso la rappresentazione delle peculiarità fisionomiche di popoli lontani; in questo modo si rinuncia alla personalizzazione del soggetto, che retrocede alla funzione di exemplum, e si lavora sulle caratteristiche esteriori in funzione espressiva. Più recentemente, è stata indagata dalla fotografia la dimensione del mostruoso e del deforme, con inevitabile strascico di polemiche, secondo un'estetica che rinuncia all'idealizzazione del corpo ma non alle tecniche di valorizzazione dell'immagine. I lavori di Joel Peter Witkin, specializzato in fotografie di persone deformi o handicappate e di parti di cadaveri, annunciano un'attenzione sempre più spasmodica verso il corpo umano in ogni sua espressione e stato, compresi quelli della malattia e della morte. Lo spettatore, di fronte al mostruoso o all'inatteso, reagisce contraddittoriamente. Secondo R. Barthes (1980), chi guarda una fotografia può partire da un dato generale, chiamato studium, o soffermarsi su un particolare sconvolgente, aberrante, calamitante, chiamato punctum; l'analisi di Barthes prende spunto dalla foto Istituzione mentale di Lewis H. Hine.
Ecco dunque che, nel Novecento, vengono affrontati e superati dalla fotografia due tabù: la morte e il sesso. Nel primo caso non ci riferiamo solamente ai lavori di Witkin e alle opere di Andrès Serrano riguardo alla rappresentazione artistica dei cadaveri, ma anche alle foto di guerra. La Grande guerra porta per la prima volta agli occhi del mondo milioni di fotografie che documentano la morte e le vittime, spesso anche a uso propagandistico, dell'evento bellico, ma rimangono senza autore. Con Robert Capa, invece, anche i corpi dei cadaveri ottengono dignità artistica. Il corpo 'sociale', invece, appartiene ai soggetti della fotografia sociologica. Già nel 1851 Richard Beard esegue i dagherrotipi necessari a illustrare l'inchiesta di Henry Mayhew London labour and London poor; e John Thomson nel 1877 dedica un reportage alla vita di Londra (Street life in London). Ma il reportage più noto rimane il viaggio nella desolazione degli emarginati di New York condotto da Jacob Riis (How the other half lives) tra 1887 e 1892. Da qui in poi la fotografia sociale, grazie anche ai contributi di tanti precursori come August Sander o Dorothea Lange (per segnalare esempi lontani ma decisivi), diventa una disciplina riconosciuta, intesa a rappresentare nel corpo umano il soggetto della società studiata.
Il corpo diventa l'emblema di una situazione o di un frangente, di un momento storico (gli ebrei nei campi di concentramento) o di una condizione sociale (i senzatetto e i poveri dei quartieri popolari). Infine, il sesso. Via via affiancata ed esaurita dalla pubblicistica erotica e pornografica delle riviste di settore, la fotografia d'arte ha cercato di affrontare la sessualità e la componente erotica della vita secondo linee di ricerca più tangenziali e tortuose. Legata inevitabilmente alla visibilità concessa di volta in volta al corpo umano dalla tolleranza di un'epoca, la fotografia si è soprattutto interessata al ribaltamento delle convenzioni: al nudo femminile, idealizzato, stilizzato o, come abbiamo visto, trasfigurato, si contrappone il nudo maschile, spesso oltraggioso e arrogante. Robert Mapplethorpe, per es., tematizza erotismo e omosessualità proprio attraverso una proposta statica e fredda degli organi genitali, mentre l'atto sessuale, più che riproposto, viene anch'esso sottoposto a un processo di astrazione, sperimentazione, straniamento.
Come dimostra in particolare la ritrattistica femminile, c'è fin dalle prime manifestazioni dell'arte fotografica la tendenza a ricondurre il realismo, implicito nel mezzo e nella cultura dell'epoca, a modelli iconografici ben radicati nell'immaginario collettivo. Nella fotografia si possono trovare le stesse tipologie di immagini femminili individuate nella pittura: la madonna, la seduttrice, la musa. Alla tipologia della seduttrice appartengono, per es., le oltre quattrocento foto che la contessa Castiglione si fa eseguire nei periodi 1856-65 e 1895-98, nelle quali appare in pose e atteggiamenti da cortigiana, 'oggetto di consumo sessuale', spesso colta in ambienti ricchi di specchi, cornici, superfici riflettenti (Higonnet 1991).
A differenza del cinema che può lavorare sulla durata, cioè sulla resa della dimensione del tempo, la fotografia deve dare spessore e profondità fissando un attimo. Di qui l'importanza che nel ritratto fotografico ha il sistema di relazioni che si stabilisce tra un corpo, un volto e il suo contesto. E questo vale, indipendentemente dalle opzioni ideologiche e stilistiche del fotografo, tanto per la fotografia di documentazione sociale quanto per quella di avanguardia, tanto per il ritratto basato su un sottile gioco di messa in scena (da Man Ray a Cecil Beaton a Arturo Ghergo) quanto per quello più attento al dato fenomenico e agli aspetti sociali (da Tina Modotti a W. Eugene Smith).
Per quanto la fotografia sia diventata ben presto un efficace strumento per dare una nuova visibilità alla donna, al suo corpo, alla sua identità, ai suoi ruoli sociali, va rilevato che queste potenzialità sono state utilizzate precocemente ai fini di sfruttamento dell'attrazione sessuale da un sistema di produzione (e di consumo) delle immagini orientato verso (e da) un pubblico maschile. Ciò nonostante, la fotografia ha costituito per le donne uno strumento di autorappresentazione, di definizione di un proprio sguardo sulla realtà. Le opere eseguite da Julia Margaret Cameron (tra il 1863 e il 1878) costituiscono il capitolo iniziale di una storia dello sguardo 'al femminile' che andrà arricchendosi di nuovi contributi: ricordiamo tra i più significativi, oltre ai lavori delle già menzionate Dorothea Lange e Tina Modotti, quello di Diane Arbus, che ha usato la fotografia come strumento di rappresentazione della diversità (nani, giganti, travestiti, coppie gemellari e di altro tipo) di cui ha colto, più che gli aspetti 'mostruosi' o spettacolari, la chiusura in un'autosufficienza impenetrabile e inquietante.
L'assolutizzazione del sistema di relazioni sociali e interpersonali che trovano espressione nel corpo e nei segni sociali che lo rivestono ha fatto sì che nella fotografia si realizzi una sorta di sparizione del soggetto, che viene sostituito da un sistema di funzioni equivalenti e intercambiabili: è quanto emerge con paradigmatica evidenza nelle fotografie di Helmut Newton in cui l'assolutizzazione dei dettagli (sguardi, gesti, postura, particolari anatomici, ornamenti) finisce per rendere l'identità del soggetto del tutto accessoria, come del resto accade nella fotografia di moda (da cui la ritrattistica di Newton deriva).
Proprio il rapporto tra fotografia e altri mezzi di comunicazione ha moltiplicato il numero dei soggetti, anche sociali, rappresentati. Pubblicità e moda hanno mutuato ed esaurito molti degli aspetti legati alla fotografia del corpo umano, filtrandoli attraverso un sistema espressivo più leggibile e rassicurante. Tornando alla fotografia di moda, va ricordato che essa gioca sempre ambiguamente su valenze metaforiche o simboliche, passando senza soluzione di continuità dal vestito al soggetto che lo indossa, secondo rapporti di varia natura. Lo stile di queste fotografie, secondo Barthes, può essere obiettivo, romantico o parodico, senza che i tre aspetti si annullino vicendevolmente. Sempre Barthes ricorda che "in questo scenario significante (della fotografia), una donna sembra vivere: l'indossatrice; sempre più, alla presentazione inerte del significante il giornale sostituisce un indumento in atto: il soggetto è dotato di una certa virtù transitiva" (Barthes 1967; trad. it., p. 307).
La pubblicità, a sua volta, assorbe i modelli espressivi più scabrosi della storia della fotografia (il nudo, il mostruoso, l'iperbolico) e li trasferisce, almeno in anni recenti, nel messaggio promozionale. Quello che prima era un corpo quotidiano e domestico, ora diventa un corpo estraneo, esotico, o, ancora più frequentemente, un corpo deprivato del suo aspetto organico, avvicinato alla macchina, contenitore di segni sociali e comunitari riconoscibili. Del resto, gli artisti più noti e acclamati della fotografia, non solo contemporanea, passano senza soluzione di continuità dalla committenza alle opere più personali, creando così un continuo sistema di scambio. Per es., il più macroscopico apporto della fotografia pubblicitaria alla fotografia artistica è la creazione di un repertorio di soggetti anagrafici separati. Le età dello sviluppo, della crescita, dell'adolescenza o della vecchiaia diventano campi privilegiati per la fotografia moderna e contemporanea, che ne rappresenta i corpi avendo presente la lezione pubblicitaria, quasi sempre eufemistica, e quindi cercando di ribaltarla, superarla, sconfessarla.
Il cinema è un medium capace di produrre effetti di realtà superiori a quelli delle immagini statiche (pittura, fotografia), e allo stesso tempo di restituire la dimensione temporale dei fenomeni, sia nel campo dei processi fisiologici sia in quello dei comportamenti (reali o simulati). Esso ha costituito un vasto campo di sperimentazione per gli sviluppi dei media successivi (video, realtà virtuale) e, soprattutto, ha imposto nuovi modelli ai quali l'apparato delle rappresentazioni visive e delle comunicazioni di massa continua a riferirsi. Anche in quest'ambito, la funzione del cinema deve essere situata attualmente nel contesto di relazioni intermediali e intertestuali che lo legano alla pubblicità, alla televisione e alla stampa periodica. Non c'è quindi aspetto della rappresentazione del corpo (scientifica, estetica, antropologica, sociologica) che non abbia coinvolto il cinema e che dal cinema non sia stato condizionato. Allo stesso modo non c'è aspetto della storia e della teoria del cinema che non abbia avuto e non abbia rapporti, diretti o indiretti, con la rappresentazione del corpo.
Le immagini animate (vues animées, moving pictures) dei primordi del cinema furono anzitutto immagini del corpo umano il cui movimento, non più raggelato nella ripetizione seriale della cronofotografia, stava alla base di quella 'impressione di realtà' che costituiva l'apporto fondamentale del nuovo mezzo. In effetti le immagini in movimento del corpo umano furono la principale attrazione del cinema delle origini. Gli spettatori che posavano lo sguardo sul kinetoscopio di Thomas Alva Edison ‒ dispositivo di visione individuale di immagini fotografiche in movimento messo a punto nel 1893, con due anni di anticipo sulle proiezioni del cinematografo dei fratelli Lumière ‒ potevano ammirare tra l'altro l'esibizione di corpi atletici di pugili o i movimenti, velati e allusivi, del corpo di una ballerina in una 'danza serpentina'. Di lì a poco, fece scandalo l'immagine di una coppia nell'atto di scambiarsi un bacio, offerto nella dimensione del primo piano e per di più trasportata dalla visione miniaturizzata e individuale del kinetoscopio a quella, ingigantita e collettiva, della proiezione su grande schermo (The Mary Irwin-John C. Rice Kiss, 1895).
Corpi di atleti nudi apparivano già nelle istantanee in successione delle tavole cronofotografiche realizzate da Muybridge, fotografo inglese emigrato negli USA, per documentare le varie fasi del movimento animale e umano. Muybridge privilegiò nelle sue ricerche, iniziate nel 1872, l'aspetto analitico, come dimostrano le opere conclusive Animals in motion (1899) e The human figure in motion (1901). Tuttavia, egli fu interessato anche alla sintesi del movimento, sia come prova dell'esattezza del metodo di ripresa usato, sia come attrazione spettacolare: realizzò le sue prime 'proiezioni' con lo zooprassiscopio, apparecchio da lui ideato per la visione dei corpi in azione. Nelle cronofotografie l'attitudine analitica e scientifica convive con il gusto della fascinazione spettacolare ed estetica, che finisce a volte per prevalere. Muybridge sembra essere maggiormente interessato alla manifestazione esteriore del movimento, alla resa della bellezza, della plasticità, della sensualità del corpo umano in movimento, prolungando e dilatando attraverso la serialità delle immagini la durata della fascinazione. In quest'attenzione al valore della durata si manifesta un'attitudine assai prossima al cinema.
Decisamente più analitico è l'atteggiamento di Marey, fisiologo francese che arrivò a interessarsi di fotografia e cronofotografia attraverso le ricerche sui metodi grafici di registrazione e misurazione di processi fisiologici. Questo scienziato, che fu professore di Storia naturale dei corpi al Collège de France, condusse nella seconda metà dell'Ottocento ricerche di fisiologia comparata e di analisi del movimento. Il suo lavoro si estese dai primi studi che lo portarono alla messa a punto dello sfigmografo, apparecchio per la registrazione su carta dei battiti del polso, alla lunga stagione dedicata alla cronofotografia, metodo che gli permise la fissazione su lastra fotografica delle varie fasi del movimento animale e umano. Sull'importanza delle ricerche di Marey per l'invenzione del cinema hanno rilasciato testimonianze e riconoscimenti sia Edison che i fratelli Lumière. E tuttavia il suo atteggiamento di fondo lo spingeva in una direzione per molti aspetti opposta a quella del cinema. L'obiettivo di Marey fu la messa a punto di metodi sempre più precisi di traduzione in termini grafici (schemi, diagrammi) e, quindi, in valori analizzabili e misurabili, del movimento, cioè di una caratteristica essenziale del corpo vivente, immediatamente rilevabile dallo sguardo. La cronofotografia, nelle intenzioni dello scienziato, doveva servire a sottrarre alle imprecisioni e alle limitazioni dell'occhio umano la mutevolezza degli organismi viventi per restituirli al nostro sguardo nella forma certa, 'pietrificata' della geometria. Marey non fu quindi interessato al cinematografo, vale a dire alla resa illusionistica del movimento, alla riproduzione naturalistica del corpo nello spazio in cui si muove, anche se non gli furono estranee le problematiche relative al movimento umano nella rappresentazione artistica (Marey 1894). Le proiezioni delle immagini in movimento gli interessavano esclusivamente per le possibilità di visioni rallentate, cioè ancora per le esigenze analitiche che il nuovo mezzo poteva soddisfare.
Pertanto, mentre l'avvento e lo sviluppo del cinema favoriranno la ricostituzione dei canoni naturalistici, rivitalizzando e riproponendo la concezione e i modelli della pittura e della letteratura ottocentesche, la riproduzione del corpo umano (e animale) in movimento operata con gli strumenti cronofotografici rappresentò uno 'strappo' rispetto alla rappresentazione naturalistica dell'Ottocento. L'attitudine analitica delle tavole di Muybridge e delle riprese di Marey (in particolare le cronofotografie a lastra fissa che realizzavano le prime fotografie stroboscopiche, cioè analisi del movimento visualizzato sincronicamente sulla superficie di una sola immagine) può essere assunta come ideale punto di riferimento di quella vocazione antinaturalistica che permea le avanguardie novecentesche. L'arte sperimentale ha tratto spesso suggestioni dalla medesima attitudine analitica nei riguardi dello spazio, del tempo e del corpo che si esprimeva nella stesse tecniche della ripresa e del découpage cinematografico, quando non si è essa stessa cimentata con tali tecniche, come nel caso di artisti quali Fernand Léger, Marcel Duchamp, Hans Richter. Esiste, insomma, un legame esplicito e dichiarato tra le pratiche della cronofotografia e il Nudo che scende una scala (1911-12) di Duchamp, come esistono molteplici legami, spesso impliciti e sotterranei, ma non meno significativi, tra le pratiche cinematografiche e svariati momenti delle avanguardie artistiche novecentesche.
Il perfezionamento dei mezzi tecnici di ripresa e dei trucchi favorì lo sviluppo di un linguaggio delle immagini in movimento, basato su una dialettica tra scomposizione e ricomposizione della continuità percettiva. Inizialmente, la possibilità di restituire all'immagine fotografica il movimento, cioè di dotare le immagini della proprietà fondamentale del corpo vivente, portò i primi commentatori dell'invenzione dei fratelli Lumière a vedere nel cinématographe una sorta di vittoria sulla morte, uno strumento per 'eternare' la vita. N. Burch (1990), chiosando queste interpretazioni piuttosto diffuse nei primi anni del cinema e successivamente affinate, ha parlato di 'sindrome di Frankenstein', vedendo in essa la manifestazione di un atteggiamento filosofico ed estetico di tipo idealistico, al quale egli contrappone un'analisi materialistica dei modi di rappresentazione.
Dal tipo di rappresentazione 'primitivo' del cinema delle origini a quello 'istituzionale' del cinema hollywoodiano si attua un processo di idealizzazione del corpo, attraverso un procedimento di selezione e combinazione che tende a ottenere un'identificazione completa dello spettatore con l'universo della rappresentazione, con il corpo idealizzato della star. In una direzione opposta si era mosso il lavoro di Georges Méliès. Attraverso una combinazione di trucchi teatrali e cinematografici, questo pioniere del cinema aveva operato nei suoi film una vera e propria disarticolazione del corpo umano, scomponendolo in membra disgiunte e autonome (Nouvelles luttes extravagantes, 1900), alterandone le proporzioni (L'homme à la tête en caoutchouc, 1902) o riducendolo a una silhouette inanimata (Le Raid Paris-Montecarlo en deux heures, 1905). Questa riduzione del corpo umano a dimensione dell'inorganico, cioè a sostanza manipolabile a piacimento, produce per contrasto un effetto comico. Ed è comunque l'effetto comico che Méliès privilegia rispetto a quello orrorifico: il suo cinema costituisce una sorta di modello cui direttamente o indirettamente si rifà tutta la grande stagione del burlesque cinematografico. Il corpo 'risibile' del burlesque è quanto viene rimosso nella forma idealizzata del corpo della star (Schefer 1980).
Il linguaggio cinematografico, fermo con Méliès alle potenzialità dell'inquadratura fissa e frontale che riproduceva sostanzialmente lo spazio teatrale, si evolve rapidamente sfruttando le possibilità di articolazione dei piani la cui denominazione prende come parametro il corpo umano, per cui si definisce campo medio una porzione di spazio inquadrata in modo da dare risalto alla figura umana senza però isolarla dall'ambiente, piano americano la porzione dalle ginocchia in su, primo piano la porzione da metà busto in su, primissimo piano solo il volto, particolare o dettaglio la sezione del volto o del corpo (occhi, bocca, mani, piede ecc.). È curioso seguire l'evoluzione delle definizioni lessicali e delle valutazioni estetiche indotte da queste nuove possibilità tecniche. Inizialmente si registra una condanna del primo piano come forma di ingigantimento più o meno 'mostruoso' dei volti e come disarmonica alterazione dei canoni di proporzionalità ('testoni', 'teste mozzate': così troviamo definiti in cronache d'epoca i primi piani). Ma ben presto si passa al riconoscimento e all'esaltazione dei valori fotogenici della microfisionomia rivelata dal primo e primissimo piano, oggetto di riflessione e discussione presso i primi teorici (Delluc 1920; Balász 1924 e 1949).
Il cinema interviene, a vari livelli, sulla percezione e sulla rappresentazione del corpo umano. A livello profilmico (termine con il quale si definisce tutto quanto viene predisposto al fine di essere ripreso cinematograficamente), i mezzi di intervento vanno dal make-up all'illuminazione. A livello propriamente filmico, si va dalla scala e dal tipo delle inquadrature (in base alla distanza e all'angolazione della cinepresa) ai vari effetti speciali cinematografici (flou, ralenti ecc.). Non è possibile, tuttavia, mantenere una netta separazione tra i due piani di intervento, in quanto il risultato finale dipende dalla combinazione e dall'integrazione degli effetti ottenibili ai due livelli. Nel cinema espressionista tedesco, attraverso una serie di interventi molto marcati sul piano del profilmico, come per es. nel Das Kabinett des Dr. Caligari (1920; Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene, si arrivò a dare tale importanza al trucco, all'illuminazione e alla stilizzazione del gesto, da trasformare il corpo umano in una sorta di geroglifico sovraccarico di significati simbolici, quasi una pittura vivente. All'opposto, in un film come La passion de Jeanne d'Arc (1928; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Theodor Dreyer, tutto il significato del dramma è affidato alla nuda espressione del volto della protagonista (Renée Falconetti), volto che, senza ombra di trucco, viene indagato da una luce implacabile nella dimensione del primo e primissimo piano. Il mezzo cinematografico, attraverso la selezione del dettaglio più perfetto, o comunque valorizzato, e la combinazione di singoli elementi, ha favorito lo sviluppo di una 'fotogenia' ideale che ha finito per non avere più referenti se non quelli filmici. Questa idealizzazione, spesso enunciata sul piano teorico (negli anni Venti il regista dell'avanguardia sovietica Dziga Vertov aveva teorizzato la possibilità di costruire una geografia ideale e dei corpi ideali) ha trovato il suo compimento nello 'star system' hollywoodiano.
Ciò che colpì gli scrittori che per primi hanno riflettuto sul nuovo mezzo fu soprattutto il potere della macchina da presa sul corpo, in particolare quello di isolarne l'immagine esteriore, e pertanto di provocare la frattura dell'unità di corpo e spirito, materia e intelletto. In quello che è uno dei primi interventi di un intellettuale sul nuovo mezzo, il filosofo ungherese G. Lukács metteva in evidenza come nel cinema ci fosse una riduzione dell'unità vivente dell'attore a un simulacro puramente visivo, a una replica meccanica, in quanto "le figure sullo schermo si muovono ma non hanno anima" (1913, trad. it., p. 83). Pur riconoscendone l'importanza estetica, nella direzione sia dell'effetto comico sia di quello fantastico, Lukács sottolineava i limiti del cinema in questa scissione costitutiva dell'unità vivente dell'attore in cui si incontrano 'accadimento' e 'destino', parola e azione. E tuttavia, è proprio questa separazione del corpo dall'anima, del simulacro dalla 'realtà viva', che determina l'assolutizzazione del gesto, dell'azione. Lukács, pur denunciando la fine dell'idea stessa di unità e totalità del soggetto della tradizione metafisica occidentale, ammetteva che, avendo la pura e semplice manifestazione esteriore degli eventi acquistato la massima pregnanza, "l'uomo ha perduto la sua anima ma ha riacquistato il suo corpo" (1913, trad. it., p. 84).
Poco dopo, Luigi Pirandello, nel romanzo Si gira (1915; ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore), sviluppò l'idea di una derealizzazione del corpo dell'attore sullo schermo: a suo giudizio, la macchina da presa trasforma l'unità vivente del corpo in una pura immagine, 'parvenza evanescente, momentanea', 'gioco d'illusione meccanica'. Pirandello radicalizza, sia pure nella dimensione metaforica di un testo letterario, gli esiti di questa degradazione a simulacro dell'unità vivente. Nel romanzo egli delinea una specie di percorso regressivo che si conclude in una riduzione del soggetto al silenzio e all'inerzia di una 'cosa', capovolgendo in una visione del tutto negativa l'esaltazione futurista dell'universo delle macchine. In una delle pagine più significative dell'opera, il laboratorio di sviluppo e stampa delle pellicole (paragonate a 'vermi solitari' che ingoiano la vita) viene definito una sorta di "ventre, nel quale si sta sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica" (1925, p. 69).
Nelle riflessioni estetiche e filosofiche sul nuovo mezzo, accanto alla denuncia di una frattura, di una scissione di portata apocalittica, si sviluppano tentativi di ridefinire i termini di una nuova unità a partire dall'apporto determinante di nuove tecniche e nuovi saperi. In questo ambito, il pensiero di B. Balász (1924) rappresenta uno sviluppo in positivo della formula lukacsiana della riconquista del corpo. Balász interpreta il cinema come un recupero della 'visività' occultata e repressa in secoli di predominio, diventato assoluto dall'invenzione della stampa in poi, della linearità e dell'astrazione della pagina scritta. Ne consegue non la perdita dell'anima, ma piuttosto la ricomposizione dell'unità, un tempo infranta, tra corpo e spirito. Questa riconquista del corpo attraverso il cinema si configura come un 'ritorno del rimosso'. Secondo Balász nel volto e nei gesti dell''uomo della cultura visiva' si esprime, senza più alcuna mediazione verbale e concettuale, il 'suo io immediato e irrazionale'. La meccanicità della riproduzione ci garantisce l'esperienza del corpo e del gesto senza che intervenga la volontà formatrice, l'intenzionalità del soggetto. È così che il cinema acquista, secondo Balász, una funzione rivelatrice.
Ancora più radicale è W. Benjamin quando sostiene che il cinema funziona nei riguardi del cosiddetto 'inconscio ottico' (cioè di tutto quell'insieme di aspetti comportamentali che attiene alla sfera del visivo, del 'gesto visibile' secondo la terminologia di Balász) esattamente come la psicoanalisi funziona nei riguardi dell'inconscio istintuale. Secondo Benjamin i mezzi analitici del cinema (ingrandimento, effetti di rallentamento, alterazione della rapidità del movimento) non migliorano semplicemente la visibilità di eventi che l'occhio nudo percepisce indistintamente, ma "porta[no] alla luce formazioni strutturali della materia completamente nuove" (1936, trad. it., p. 41). Ne consegue che le manifestazioni del visibile attinenti alla natura e al corpo avvengono, secondo il filosofo tedesco, in uno spazio 'elaborato inconsciamente', vale a dire condizionato dal carattere meccanico della riproduzione cinematografica. Attraverso il duplice 'test', quello della macchina da presa e quello della percezione della folla (percezione che è a un tempo 'collettiva' e 'distratta'), si attua una selezione delle prestazioni verificabili e adottabili nei diversi contesti sociali. Da questa selezione, secondo Benjamin, escono vincitori, nell'epoca della riproducibilità tecnica, il 'divo' e il 'dittatore'.
Il dispositivo cinematografico, in virtù dei processi di identificazione che induce, mette a frutto i poteri che gli derivano dall'articolazione dei piani di presa (figura intera, primo piano, dettagli) e dalla contestualizzazione del corpo nello spazio della rappresentazione. Esso è in grado di amplificare la risonanza e gli effetti di quella teatralizzazione e drammatizzazione del corpo che caratterizzano i quotidiani rapporti interpersonali. Selezionati, assolutizzati ed enfatizzati dai procedimenti di messa in scena, tali effetti hanno contribuito all'affermazione di una vasta tipologia di rappresentazioni del corpo. Ripercorrendola sia pure in modo schematico, è possibile fissare alcuni aspetti fondamentali dei generi più diffusi e, allo stesso tempo, alcuni momenti essenziali della storia del cinema. Si può asserire che non c'è fenomeno delle pratiche sociali relative al corpo che non trovi importanti riflessi nel cinema, come si cercherà di mettere in evidenza attraverso la tipologia di seguito proposta, precisando che essa non ha certo l'ambizione di essere esaustiva, ma semplicemente di rilevare alcuni dei momenti in cui più marcato risulta essere il ruolo del cinema nell'affermazione di una determinata idea del corpo nell'immaginario collettivo.
a) Il corpo atletico. - Sembra opportuno prendere le mosse dal corpo atletico, in omaggio alla sua precoce presenza nel cinema delle origini (kinetoscopio Edison) e, ancor prima, nelle cronofotografie di Muybridge e di Marey, nonché alla costante fortuna che il corpo atletico ha avuto nel genere avventuroso e nella cinematografia sportiva. Approdata alla fotografia e al cinema primitivo dagli spettacoli popolari, dal circo e dall'illustrazione, l'iconografia del 'forzuto' conosce una larga diffusione nel cinema italiano degli anni Dieci e Venti. Bartolomeo Pagano, scaricatore del porto di Genova, assurge ai fasti della celebrità interpretando il ruolo di Maciste in Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone. Da qui il personaggio di Maciste dilaga in una serie di film atletico-acrobatici e, sull'onda del suo successo, trascina con sé una schiera di eroi dai nomi esotici quali Ajax (Carlo Aldini), Sansone (Luciano Albertini), Saetta (Domenico Mario Gambino). L'esibizione delle forme possenti, della forza e dell'agonismo costituisce una versione alquanto ibrida di spinte superomistiche: nel genere atletico-acrobatico italiano ascendenze vagamente dannunziane e futuriste si mescolano con un prosastico perbenismo piccolo borghese, che si andrà accentuando con l'affermazione del fascismo. Dopo un periodo di latenza, i bonari e nazionalpopolari 'forzuti' riemergeranno incarnati dai nuovi divi del culturismo nei film storico-mitologici degli anni Sessanta.
All'insegna del culturismo si era sviluppato anche il personaggio di Tarzan. Creato dal romanziere Edgar Rice Burroughs nel 1912, Tarzan fu trasferito ben presto sullo schermo, dove, a partire dal 1918, è impersonato da vari attori. Il più famoso fu il nuotatore Johnny Weissmüller che, dall'esordio in Tarzan l'uomo scimmia (1932), interpretò ben undici volte, con il suo corpo atletico dalle forme scultoree, il personaggio che incarna il mito del ritorno alla natura. Tra gli interpreti di Tarzan che imposero il modello culturista, va ricordato Gordon Scott, anello di congiunzione tra il mito americano di Tarzan e quello mediterraneo di Maciste, da lui impersonato più volte dopo Maciste alla corte del Gran Kahn (1961) di Riccardo Freda. Una citazione a parte spetta alla celebrazione del corpo atletico, o meglio della bellezza di un corpo educato armonicamente allo sport, nel film in due parti Olympia (1938; Id.) di Leni Riefenstahl, documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936. In questo kolossal, per il quale la cinematografia della Germania nazista mobilitò il meglio delle sue capacità tecniche e organizzative, tutti i mezzi del linguaggio filmico (riprese multiple, montaggio, effetti speciali) sono messi al servizio della celebrazione di un'idea di potenza e di bellezza. Oltre che un trionfo dello sport, tale film fu però anche un trionfo del Kitsch e della retorica nazista, come risulta evidente a partire dalla sequenza iniziale, in cui si assiste a una 'animazione' del Discobolo di Mirone che si trasforma in un atleta in carne e ossa.
b) Il corpo della diva. - Tra i generi classici del cinema hollywoodiano è certamente il musical quello che si è spinto più avanti nell'ostentazione del corpo, anche se gli intermezzi di danza, introdotti con vari pretesti, sono un ingrediente di vari generi, da quello storico-biblico-mitologico al gangster movie. Tuttavia nel musical l'esibizione del corpo (che dunque non è peculiare di questo genere) convive con la sua idealizzazione. In questo senso, come è stato osservato (Masson 1981), le più tipiche creature dello star system sono figlie del musical: Marilyn Monroe ne è l'esempio più celebre. Il musical non si limita alla stilizzazione che è propria della danza e dei luoghi in cui essa si manifesta (il teatro, principalmente; ma si tratta di un genere che teatralizza ogni possibile spazio). Esso opera la rimozione della malattia, della vecchiaia, della morte. Le eccezioni non mancano, ma si trovano in film come All that jazz (1979; Id.) di Bob Fosse, che si colloca in una fase di dissoluzione e di superamento del musical hollywoodiano classico. Inoltre, pur essendo il desiderio amoroso il tema centrale del musical, c'è una sistematica rimozione della carnalità del desiderio, che viene sublimato in una dimensione quasi astratta, con esclusione di riferimenti espliciti a una sessualità vissuta (Masson 1981, p. 65).
Il corpo idealizzato della diva è il risultato di un complesso lavoro in tutte le fasi del processo di produzione del film, come mostra un classico del musical, Singin' in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia) di Stanley Donen e Gene Kelly. In questa vicenda, ambientata nel mondo del cinema all'epoca della transizione dal muto al sonoro, un'ingegnosa applicazione del trucco del 'doppiaggio' permette di dare a una capricciosa diva una voce diversa dalla sua (che è sgradevolissima) e quindi di perpetuare quell'idea di perfezione che il pubblico si era fatto di lei. Nell'evoluzione ‒ anche se sarebbe più esatto parlare di 'decadenza' ‒ del modello divistico nella direzione del più esplicito sex appeal, la funzione seduttiva del corpo finisce per essere ridotta all'ipertrofia delle parti (seno e fianchi per il corpo femminile, muscoli per quello maschile): il corpo erotizzato si configura come corpo ipertrofico. Il modello femminile delle maggiorate fisiche, in auge negli anni Quaranta e Cinquanta, è una delle tante emergenze, che di volta in volta può assumere diverse configurazioni, del corpo pervaso dalla funzione segnica, cioè dal segno 'sociale' della funzione seduttiva (Gill 1978). Non a caso esso scade gradualmente nella caricatura e si sposta sempre più nella zona del 'corpo grottesco', quale è per es. rappresentato dalle avventure più o meno boccaccesche delle ipertrofiche bellezze che popolano i film dell'americano Russ Meyer negli anni Sessanta, cioè in un'epoca di declino del modello divistico che aveva dominato il decennio precedente. Una menzione a parte merita l'opera di Federico Fellini nei cui film l'ossessione del corpo femminile assume memorabili configurazioni. Si pensi ai sogni del dottor Antonio (Le tentazioni del dottor Antonio, episodio del collettivo Boccaccio '70, 1962) invasi dai seni giganteschi di Anita Ekberg, una sorta di citazione diretta dalla Dolce vita (1960), il precedente film di Fellini che aveva turbato i sonni dei censori; oppure allo straripante corpo della tabaccaia di Amarcord (1973), che schiaccia con il suo peso (reale e metaforico) il fragile corpo del protagonista ancora adolescente.
c) Il corpo grottesco. - Al corpo idealizzato della star si contrappone il corpo grottesco del cinema comico, che precede cronologicamente l'affermazione del modello divistico hollywoodiano rispetto al quale si configura come una sorta di istanza rimossa: corpo osceno, corpo risibile (Schefer 1980). Il corpo grottesco si distacca dai canoni tradizionali della bellezza e del decoro (troppo grasso o troppo magro, disarmonico ed eccessivo nei movimenti, chiuso in abiti troppo stretti o perduto in abiti troppo larghi). Esso costituisce un continuo impaccio, ostacolo all'ordinato svolgimento degli eventi, alla conclusione di qualsivoglia azione, al perseguimento di un fine. Il corpo grottesco della slapstick comedy (in cinematografia si indica con questa espressione un genere di comicità basato esclusivamente sulla gesticolazione esagerata, sulla mimica, su situazioni inverosimili e sorprendenti) è il risultato di una dissimmetria tra l'intenzionalità del personaggio e il principio di realtà; nasce dalla scissione tra il gesto-comunicazione (quello che sottostà al codice comunicativo e comportamentale di un determinato ambiente) e il gesto-espressione, in cui si svela senza vincoli di sorta la soggettività del personaggio (Mukarovsky 1966). Il corpo grottesco si costituisce su una dissimmetria tra la percezione di sé del personaggio (e della situazione in cui è immesso) e la percezione che ne hanno gli altri e che viene per così dire oggettivata dalla cinepresa. È quindi una sorta di residuo, di precipitato di un'impossibile integrazione in un processo comunicativo e 'produttivo': significante sprovvisto di significato condiviso, pura potenzialità che non diventa gesto sociale riconosciuto e accettato, delirio motorio che appare fine a sé stesso.
Il destino del corpo grottesco è quello di essere travolto da un ordine di eventi che lo sovrasta, ridotto a subire movimenti meccanici incontrollabili o a diventare esso stesso motore e fonte di eventi catastrofici (André Deed, alias Cretinetti, nel cinema italiano; Buster Keaton in quello americano). In Modern times (1936; Tempi moderni) il corpo di Charlot è l'elemento che non si integra nella catena di montaggio, che eccede attraverso l'assunzione di ritmi ossessivamente ripetitivi i limiti di funzionamento della macchina (nella sequenza della imbullonatura) e che non riesce ad assecondare i ritmi disumani dell'automazione (come accade nella crudele sequenza del pasto fatto con la 'macchina per mangiare'). In Cameraman (1928; Il cameraman) il corpo di Buster Keaton che cade pesantemente ai bordi del campo di baseball, sotto lo sguardo impietoso del custode, dopo che in un innocuo delirio di onnipotenza era stato il protagonista di un'esaltante vittoria sportiva, ci dà la perfetta immagine plastica di questa dimensione del corpo grottesco come residuo, come precipitato. Il corpo grottesco è quindi un corpo tragico, un corpo che cerca invano di sottrarsi all'oggettivazione dello specchio, dello sguardo dell'altro, come viene illustrato da Film (1965) di Alan Schneider e Samuel Beckett, una delle ultime fantasmatiche apparizioni del corpo vecchio di Buster Keaton.
d) Il corpo orrorifico. - Quello orrorifico è un corpo ridotto a organo: un organo ipertrofico o separato (reso autonomo) dal corpo originario che genera paura o diventa fonte di comportamenti anomali. Organi isolati dal corpo (cervello, occhio, mano) o integrati in un corpo diverso dal proprio popolano i film dell'orrore (Prawer 1980). L'esempio più ovvio è quello delle mani di un assassino trapiantate sul corpo di un pianista mutilato in un incidente ferroviario nel film Orlacs Hände (1924; Le mani di Orlac) di Robert Wiene e nel remake di Karl Freund (Mad love, 1935). Frankenstein (1931; Id.) di James Whale, per quanto non sia la prima versione cinematografica del celebre romanzo di Mary Shelley (1818), è per molti aspetti una sorta di archetipo dell'horror film: il mostro creato dal dottor Frankenstein e interpretato da Boris Karloff altro non è che l'assemblaggio di vari organi. Se il cinema è tornato con tanta frequenza su questo mito della modernità, è perché è attratto da tutto ciò che ha a che fare con il mostruoso e perché, con la sua capacità di manipolare il 'visibile' e di violarne ogni limite, è esso stesso una 'fabbrica' di mostruosità dalle potenzialità illimitate. Oltre alla 'costruzione' di creature più o meno fantastiche si arriva a utilizzare anche la riproduzione cinematografica, dal vero, di anomalie di tutti i tipi, con finalità che comprendono sia la documentazione scientifica sia il puro e semplice sfruttamento spettacolare del 'diverso', secondo una tradizione che viene dai baracconi di fiera che il cinema prolunga e rinnova. Freaks (1932) di Tod Browning è forse, nel cinema spettacolare, quello che si è spinto più avanti nell'impiego di veri freaks (esseri deformi). Il film evidenzia sia l'ambigua fascinazione prodotta sul pubblico dal 'diverso', sia il cinismo e la mancanza di scrupoli dei cosiddetti 'normali', capovolgendo il rapporto tradizionalmente stabilito tra mostruosità fisica e deviazione morale. The elephant man (1980; Id.) di David Lynch, mettendo in scena i metodi di sfruttamento spettacolare delle anomalie fisiche, ci fa vedere come la mostruosità altro non sia che il prodotto dei vari atteggiamenti che la scienza, la società, il pubblico hanno di fronte al diverso. In tutti i casi il cinema, che tanta parte ha avuto nell'imporre stereotipi di bellezza, di perfezione fisica, nel momento stesso in cui ci permette di familiarizzare con l'anomalia, la stranezza, infrange il pregiudizio secondo il quale quanto fuoriesce dalla norma (biologica, fisica, estetica) sia per ciò stesso contrassegnato dal disvalore etico, comportamentale, spirituale.
e) Il corpo beante: pornografia e 'new horror'. - Il 'corpo in frammenti', disarticolato e assolutizzato nelle sue componenti: questa sembra essere la configurazione dominante dell'immaginario cinematografico nell'epoca dell'iperrealismo, che trova le sue espressioni più tipiche nel cinema pornografico e nel new horror. Il corpo non custodisce più segreti, ha cessato di essere territorio di esplorazioni fantastiche, come nel classico Fantastic voyage (1966; Viaggio allucinante), che Richard Fleischer ha ricavato da un romanzo di Isaac Asimov, in cui un'équipe di medici veniva miniaturizzata e introdotta nel corpo di un paziente per poter condurre un delicato intervento al cervello. Nel cinema del new horror il corpo è divenuto oggetto di ingrandimenti, esplosioni, mutilazioni, decomposizioni. Organi sessuali, viscere, muscoli, tessuti, liquidi organici, sacche purulente, piaghe: il rimosso del corpo riemerge nelle configurazioni estreme del cinema contemporaneo. Ovunque domina l'ingrandimento, il dettaglio: inserts vengono chiamate nel cinema pornografico le inquadrature relative agli organi genitali. La decontestualizzazione del particolare ci introduce in uno spazio di iperrealtà: il corpo si espande sullo schermo offrendo allo sguardo dello spettatore i recessi più nascosti, le più intime pieghe dei tessuti. Il corpo dilaga sullo schermo lasciando ben pochi margini per qualsivoglia contesto, ridotto in ogni caso a quanto basta per dare maggior rilievo alla visione iperrealistica del dettaglio, dell'insert, dell'effetto speciale. Cinema pornografico e new horror sono accomunati nella dimensione del corpo 'beante', corpo spalancato allo sguardo vampiresco della cinepresa che nel momento in cui ce lo restituisce a un grado di inusitata visibilità lo priva di ogni realtà. "Dovrebbero fare dei concorsi di bellezza anche per l'interno dei corpi" dice uno dei gemelli Mantle, protagonisti di Dead ringers (1988; Inseparabili) di David Cronenberg, l'autore cinematografico che ha fatto dell'ossessione della 'nuova carne', del corpo mutante uno dei temi centrali del suo cinema. La fascinazione (e l'orrore) dell'interno del corpo, del corpo beante, che tanta parte ha avuto nel genere pornografico e nel new horror, viene ricondotta in questo film nella sfera dell' 'infigurabile', dove riacquista il senso perduto negli eccessi di visibilità del cinema contemporaneo.
f) Il corpo artificiale. - Il corpo artificiale, doppio meccanico e programmabile a piacimento del corpo umano, è uno dei miti fondatori del cinema. A un'epoca ancora precinematografica appartiene il romanzo di Villiers de l'Isle-Adam, Eva futura (1866), nel quale compare la figura di Thomas Alva Edison, futuro pioniere del cinema, che costruisce per un amico un automa, copia perfetta della donna amata, tanto bella fisicamente quanto spiritualmente mediocre. Questo romanzo viene abitualmente citato da critici e teorici come una prefigurazione del cinema, che nel corso della sua storia non solo si imporrà come un dispositivo per la creazione di corpi immaginari (lo 'star system'), ma tornerà anche più volte sul mito dell'uomo artificiale. La storia del cinema è popolata di creature artificiali. Possiamo ricordare, per l'epoca del muto, Der Golem (Il Golem, 1920) di Paul Wegener, L'uomo meccanico (1922) di André Deed e Metropolis (1926; Id.) di Fritz Lang. In anni più recenti, dopo i 'replicanti' di Blade runner (1982; Id.) di Ridley Scott, si è imposto nel nuovo immaginario il corpo 'immateriale', ormai solo 'televisivo', generato e programmato al computer, di Max Headroom (1985; Id.) di Rocky Morton e Annabel Jankel. Grazie all'enorme sviluppo delle tecniche degli effetti speciali, il cinema è riuscito a mettere a punto personaggi che incarnano in forme sempre più realistiche la perfetta fusione tra l'elemento meccanico e quello biologico. In Terminator (1984; Id.) di James Cameron, il cyborg (cybernetic organism), interpretato da Arnold Schwarzenegger, una delle ultime incarnazioni del mito del 'forzuto', è una sorta di corpo mutante in cui non sono più distinguibili le componenti meccaniche, elettroniche e biologiche. Dal punto di vista iconografico, nella sua immagine si fondono la fascinazione del corpo idealizzato e quella della macchina sempre più perfetta, ma anche l'orrore delle carni lacerate, dei tessuti decomposti e lo sgomento dei circuiti disattivati, dei meccanismi inerti. In queste nuovissime incarnazioni della mitologia del 'superuomo', tecnologie sempre più raffinate portano a un accrescimento del fascino e delle prestazioni del corpo, ma è pur sempre nei residui di umanità ordinaria sopravvissuta in questi 'organismi cibernetici' che risiede, come accade in Robocop (1987; Id.) di Paul Verhoeven, la loro superiorità rispetto ad altre macchine.
g) Il corpo quotidiano. - Dai fratelli Lumière in poi, dalla scena dell'uscita degli operai dalla fabbrica Lumière (La sortie des ouvriers de l'usine Lumière, 1895), il cinema ha rappresentato il corpo soprattutto nella sua dimensione ordinaria, un corpo carico dei segni sociali che ne condizionano l'aspetto e il destino. È quindi questo corpo ordinario il principale protagonista della scena quotidiana in tutte le manifestazioni del realismo cinematografico, comunque esso venga concepito e realizzato. Ritroviamo questo corpo ordinario ‒ sia nelle sue forme più ingenue e immediate di realismo, sia in quelle che coscientemente e coerentemente si sono rifatte ai principi di un'estetica naturalistica ‒ nelle infinite articolazioni del cinema documentario (sostituito oggi dalle pratiche sempre più diffuse delle immagini video) come nelle più complesse applicazioni del cinema nelle ricerche antropologiche ed etnografiche (nel cui ambito si è sviluppata una disciplina specifica che va sotto il nome di 'antropologia visuale'). La messa in scena cinematografica come una sorta di linguaggio universale basato sulla registrazione di relazioni di corpi nello spazio è stata teorizzata all'interno di quella corrente critica francese che ha in A. Bazin il suo caposcuola (De Baecque 1991). In quest'ambito si è teorizzato un cinema della trasparenza, fondato su un'idea di 'realismo ontologico', che ha trovato i suoi riferimenti in Roberto Rossellini, nel neorealismo italiano e in quanti ‒ dai cineasti giapponesi a quelli americani, da Jean Renoir a Henri Cartier-Bresson ‒ hanno inteso la messa in scena come una fenomenologia di corpi, di volti, di gesti. Pur con i limiti di un certo idealismo universalitisco, questa corrente critica, che tanta parte ha avuto nello sviluppo del 'cinema moderno', ha contribuito all'affermazione di un'idea di cinema dell''espressione corporale', della messa in scena del corpo, visto per lo più nella sua dimensione quotidiana.
In una famosa pagina della Montagna incantata, Thomas Mann descrive con grande efficacia la sgradevole esperienza degli spettatori alla fine della proiezione, quando essi, dopo l'incanto delle immagini, riprendono possesso del proprio corpo: "Le mani rimanevano inerti davanti al nulla. Gli spettatori si soffregavano gli occhi davanti a sé, si vergognavano della luce e desideravano tornare al buio a guardare ancora" (Mann 1924, trad. it., p. 528). La teoria del cinema ha riflettuto, con l'ausilio della psicologia e della psicoanalisi, sui processi di identificazione che stanno alla base della visione filmica. Da una parte si individua un fenomeno di 'identificazione primaria', che consiste in un'identificazione dello spettatore con lo sguardo della cinepresa: in tal modo lo spettatore si trasforma in un soggetto 'ubiquitario', in grado di intraprendere un 'viaggio immobile', senza limiti di spazio e senza condizionamenti fisici (Metz 1977; Burch 1990). Dall'altra, lo spettatore si identifica con i personaggi proposti sullo schermo, in un regime di parziale oblio della propria identità fisica e psicologica, in una sorta di fantasmatica fusione con il corpo e la personalità dell'attore con il quale si identifica (Metz 1977). Entrambe le forme di identificazione comportano una rimozione del corpo dello spettatore, nell'ambito di un'esperienza che ha tratti in comune con quella onirica caratterizzata da sottomotricità fisica e da iperattività psichica. Attraverso i meccanismi dell'impressione di realtà, lo spettatore vive, vicariamente, per interposta persona, situazioni che hanno comunque attinenza con desideri non superficiali, né momentanei. Il cinema, in quanto invenzione attraverso cui l'uomo cerca di rispondere agli 'ostinati obiettivi' postigli dal suo narcisismo (Metz 1972), si configura come esperienza di superamento dei limiti del corpo, mediante lo sguardo mobile della cinepresa e i più disparati giochi di identificazione. Allo stesso tempo, però, esso celebra la centralità del corpo, in tutte le possibili accezioni, come oggetto di conoscenza e di rappresentazione.
Come nel caso del cinema, anche la televisione ha decretato per il corpo umano una stagione di assoluta centralità, estendendo e moltiplicando le occasioni di visibilità del corpo stesso, e facendo ricorso ai propri codici specifici per esplorarne i vari aspetti. La televisione coinvolge tutte le dimensioni della rappresentazione del corpo umano, in ambito scientifico e medico, in sede sportiva, nella divulgazione didattica, nelle pratiche spettacolari e di intrattenimento. Insieme ad altri mezzi di comunicazione di massa (pubblicità, stampa ecc.), con i quali intesse una fitta serie di rapporti intermediali, ha contribuito a creare una nuova sensibilità del corpo umano, indagato nella sua realtà fisiologica ed esposto in tutte le sue parti da una programmazione televisiva che ne sfrutta in pieno le potenzialità. Inoltre, con l'avvento delle nuove tecnologie si fa strada l'ipotesi che si possa fare a meno di un corpo reale o che, comunque, ci si trovi di fronte a un corpo 'espanso', per sempre compromesso dal dato inorganico. Si può affermare quindi che la televisione rappresenta il corpo umano nella quasi totalità dei suoi stati e processi fisiologici, mutandone anche la percezione con la creazione di nuovi modelli estetici e comportamentali.
Se all'inizio degli anni Cinquanta funzionari statali si recavano ai teatri di posa della RAI per misurare le pur esigue zone di pelle scoperte delle attrici del varietà e delle ballerine di prima fila (Del Buono, Tornabuoni 1981), oggi, in epoca 'neotelevisiva', si procede in senso contrario privilegiando la visibilità del corpo fino al limite tollerato dalla censura televisiva. Negli ultimi cinquant'anni, in Italia e nel resto del mondo, la televisione ha rappresentato il corpo umano in svariati modi, coinvolgendone ogni aspetto, scientifico, sociologico, antropologico o estetico.
a) Il corpo censurato, occultato e mostrato. - Quella del corpo in televisione è anche una storia di corpi parzialmente censurati. Senza affrontare riflessioni analitiche sull'ideologia rappresentata dalle televisioni di Stato e dal conseguente controllo esercitato sulla programmazione, ci si limita a ricordare che la censura è intervenuta in numerosi casi per bloccare immagini troppo esplicite del corpo umano: uno dei primi episodi fu l'intervento censorio, piuttosto macroscopico, ai danni della trasmissione La piazzetta (1956) in cui la ballerina indossava una calzamaglia giudicata eccessivamente aderente. In seguito, con il mutare del concetto di moralità pubblica, la televisione d'intrattenimento ha concesso sempre di più, mantenendo però il controllo sugli infortuni più clamorosi (per es., bloccando la messa in onda di programmi in cui compariva il nudo integrale di pornostar). Forse la storia della censura televisiva equivale alla storia del costume nazionale, e la televisione si fa carico di rimuovere gli aspetti meno gradevoli della rappresentazione del corpo umano, come la malattia e la violenza. Il corpo nella sua accezione sessuale e riproduttiva ha incontrato notevoli difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella programmazione televisiva. Preferendo rimuovere o trattare in modo eufemistico i problemi relativi alla sfera sessuale e, ancor più, genitale, la televisione ha di conseguenza affrontato in modo radicale il problema della rappresentazione dell'atto erotico anche nei film; un lungo elenco di sequenze tagliate e 'sfumate' dimostra come la dimensione domestica e familiare della televisione tenda a 'oscurare' gli aspetti più realistici della sessualità. Persino il lessico non ammette ambiguità: nel 1954 la RAI vieta di utilizzare parole come 'membro' (del Parlamento) o 'seno' (in seno a) per non generare fraintendimenti. Successivamente, per opportunità etiche vengono sospesi programmi di educazione sessuale ritenuti scabrosi, in quanto troppo diretti nei riferimenti al corpo umano ed espliciti nel nominare gli organi genitali. Una forma storica dell'intrattenimento televisivo, il varietà, centra la sua attenzione sul corpo umano in funzione spettacolare. Mutuando le forme espressive dal café-chantant e dal varietà di tipo teatrale, lo spettacolo televisivo ha sperimentato i fenomeni dell'intrattenimento di massa e del divismo. Si è avuta una densa tipologia di 'stelle' del piccolo schermo e un altrettanto nutrito repertorio di espressioni del corpo. La ballerina-cantante tradizionale occultava il proprio corpo con calze, collant, abiti di scena, secondo una rinegoziazione continua tra moda consacrata e proposta innovativa. La diva del varietà moderno cerca di mostrare più ampie porzioni del proprio corpo rispettando i vincoli minimi di omissione (organi genitali, seno) e costruendo una gestualità più esplicita, fatta di ammiccamenti, suggerimenti e metafore erotiche. Dall'idealizzazione e stilizzazione del corpo femminile si passa all'ipertrofia dei caratteri sessuali della donna. Del resto è proprio la televisione italiana che ripropone negli anni Ottanta le maggiorate fisiche scomparse al cinema fin dagli anni Cinquanta; queste portano a evoluzione il modello della 'showgirl' indirizzando la funzione seduttiva del corpo femminile verso una rappresentazione iperbolica delle sue singole parti (seni, glutei ecc.).
b) La diva. - La diva televisiva ottiene spesso la sua riconoscibilità attraverso la peculiarità del proprio corpo o della propria mimica. Come nel cinema, l'ostentazione del corpo trova terreno fertile nei programmi di intrattenimento musicale e nel balletto da varietà. Il corpo della stella televisiva è idealizzato quasi quanto quello della diva cinematografica, non fosse che per la sua continua esposizione agli spettatori. La televisione, quindi, dona l'illusione di poter assistere al progressivo svelamento del corpo della diva, delle sue caratteristiche quotidiane, dei suoi momenti di défaillance attraverso la diretta (il sudore, la stanchezza, le occhiaie, i piccoli difetti fisici). Il successo del corpo della diva è quindi il risultato di uno stratificato lavoro che coinvolge gli aspetti cosmetici e pubblicitari, quelli della moda e della recitazione, quelli comunicativi e linguistici. Se la televisione impedisce di sciogliere la tensione allo 'svelamento' della diva, attraverso il nudo suggerito e sempre rimosso, questa non di rado sceglie il mezzo cinematografico per scoprire ciò che è necessariamente occultato in TV.
c) Il corpo travestito, trasfigurato, transessuale. - Se il corpo della diva o del divo è fortemente idealizzato, non mancano esempi di trasfigurazione comica e caricaturale del corpo. Una forma classica di intrattenimento 'ironico' televisivo è quella della satira: imitazioni delle caratteristiche vocali, parodia dei gesti e delle caratteristiche fisionomiche, travestimenti in funzione ludica. Non può essere un caso se la televisione utilizza elementi storici di attrazione come quelli della contraffazione, del teatro satirico, dell'umorismo critico, che evidentemente trovano nel mezzo televisivo un efficace punto di sublimazione. Essi ripropongono il fascino esercitato dal travestitismo e dalla transessualità impiegati in precedenza nella commedia classica e dallo spettacolo di varietà, e di qui ripresi dalla televisione. L'elemento della transessualità viene addirittura esplicitato, o utilizzato a fini sensazionalistici nei programmi di intrattenimento in cui situazioni di ambiguità sessuale vengono presentate allo spettatore sotto forma di monstrum circense.
d) L'atleta. - Il corpo dello sportivo è sicuramente quello che ha ottenuto la maggiore visibilità nella televisione moderna e contemporanea. A causa della pervasività dell'evento sportivo nei palinsesti quotidiani di tutte le nazioni, in diretta o in differita, il corpo atletico è diventato un luogo privilegiato della rappresentazione televisiva. Lo sport ha contribuito a sperimentare diversi codici di ripresa televisiva. Gli sport collettivi, per es., alla continua ricerca di un montaggio più articolato e di una 'narrativizzazione' delle immagini, fanno largo uso di primi piani e zoomate per isolare il gesto sportivo (il gol, il canestro, la meta) o il corpo del fuoriclasse. Si fa invece ricorso al dettaglio quando si presenta la necessità di osservare un particolare altrimenti impercettibile, come l'escoriazione al ginocchio di un calciatore o la caviglia gonfia di un cestista. Il grado di attenzione che la televisione dedica al corpo umano in quanto corpo atletico e sportivo può definirsi quindi molto alto. Lo sport più seguito in Italia e in Europa, il calcio, ha sviluppato una vera e propria retorica del gesto atletico e dei corpi atletici, studiati e approfonditi nella dinamica dei movimenti sul campo da gioco. La Domenica sportiva, prima fra tutte, sperimentò nei primi anni Settanta il procedimento di scomposizione della partita di calcio in piccole unità episodiche: il gesto atletico viene bloccato, riavvolto, accelerato o offerto a velocità ridotta per facilitare la comprensione degli avvenimenti, e infine dilatato maniacalmente con la moviola (Grasso 1992). Attraverso lo sport, la televisione consacra il corpo umano in quanto detentore di gesti agonistici, prestazioni atletiche, capacità fisiomotorie. L'enfasi nei confronti della caduta, del contatto, dello scontro o della performance plastica non escludono, anzi rafforzano, l'attenzione dedicata alle conseguenze fisiologiche di questi stessi gesti atletici: il sudore, la respirazione, l'affanno, i traumi. Ogni sport ha sviluppato una specifica retorica della ripresa televisiva, la cui figura fondamentale rimane tuttora il ralenti, particolarmente efficace negli sport individuali come il tennis, lo sci, la ginnastica artistica o l'atletica leggera, nei quali l'interesse per il comportamento del corpo atletico è moltiplicato. Anche nello sport, la dimensione ludica viene accentuata attraverso il mascheramento o l'occultamento del corpo stesso in funzione simbolica: questo avviene nei paesi che, attraverso la rappresentazione televisiva, esaltano il carattere spettacolare della gara sportiva a scapito della dimensione agonistica. Negli Stati Uniti gli sport privilegiati sono football e hockey, i cui campioni, lungi dall'essere resi irriconoscibili dal proprio 'esoscheletro' strutturale (maschere, tute, imbottitute, sospensori), personalizzano lo strumento di gioco che, da accessorio protettivo dell'integrità fisica, diventa oggetto commerciale e cultuale per il tifoso.
e) Il corpo esotico. - Il corpo in televisione è anche un corpo 'sociale'. Ciò significa che la rappresentazione della persona, della sua appartenenza sociale, etnica, culturale, è sbilanciata verso il corpo individuale, specialmente nei programmi di informazione e di intrattenimento come i talk show o i programmi-contenitore. Molti di essi insistono sulla caratterizzazione fisionomica dell'ospite o del protagonista in opposizione alla riconoscibilità comune dell'intervistatore, del conduttore o dell'anchorman. Potremmo quindi affermare che esiste un corpo di provincia, un corpo meridionale, un corpo extracomunitario, secondo codici espressivi spesso aspramente criticati per il sotteso razzismo che manifestano. Fenomeno recente, l'immigrazione da altri paesi ha rilanciato la questione del corpo 'estraneo' in televisione. Spesso nell'informazione televisiva o nella finzione ci troviamo di fronte a un corpo estraneo alla comunità, e come tale presentato e raccontato. Difficilmente lo spettatore riceve informazioni che non rispondano a caratterizzazioni stereotipe del 'diverso' (Marletti 1991). Anche quando la televisione cerca di favorire didatticamente l'integrazione dell'extracomunitario, non fa che dotare di significati ironici, rassicuranti e bonari, le stesse connotazioni fisiche e peculiarità fisionomiche dei corpi estranei. Ciò vale anche per le minoranze sessuali (occultamento e trasfigurazione della voce, del busto, del viso degli omosessuali o dei transessuali, per es.) o dei soggetti clandestini (prostitute, tossicodipendenti ecc.). Quando è invece il nostro sguardo a spostarsi su realtà lontane e incomprensibili, il mezzo televisivo privilegia gli aspetti spettacolari, come è accaduto con il massiccio ingresso di immagini provenienti dal Terzo Mondo, raffiguranti corpi ischeletriti, prosciugati dalla fame: momento che ha rappresentato un'esposizione televisiva mai eguagliata del corpo esterno (De Marchi, Ercolessi 1991).
D'altra parte, fenomeno complementare, il corpo estraneo si trasforma in corpo 'esotico' e, infine, in corpo integrato. La televisione consacra il mito della bellezza esotica nei programmi di moda, negli spot pubblicitari, nei contenitori musicali, nel videoclip, tutte forme di intrattenimento che agiscono secondo logiche funzionali e di attenta analisi del target, il bersaglio comunicativo. Il corpo esotico è sano, attraente (gli stereotipi della pelle nera) e sensuale (le top model straniere) proprio perché diverso e intrigante. Studiosi massmediologi hanno però riscontrato, almeno nel Nord America, la duplice contraddittoria natura del corpo atletico nero, numericamente dominante su quello bianco negli sport di massa come basket, baseball, football: attraverso la massiccia presenza dello sport in TV si formerebbe un complesso di inferiorità da parte della comunità bianca, che per una volta viene relegata in minoranza, ma anche un opposto rafforzamento degli stereotipi razziali riguardanti il corpo nero. Esso infatti viene identificato per tratti macroscopici quali l'esplosività muscolare, l'esuberanza fisica, la sfrontatezza degli atteggiamenti in campo, la minacciosa potenza, e riavvicinato quindi a un modello irrazionale di forza lavoro infaticabile e brutale.
Fin dalle origini la televisione e la pubblicità non hanno fatto nulla per nascondere la dimensione sensoriale del corpo umano. Nella pubblicità si è anzi proceduto a individuare una sempre più stretta interazione tra individuo e oggetto merceologico pubblicizzato. Si potrebbe interpretare la storia del corpo umano nella pubblicità come una lunga marcia di avvicinamento all'acquisizione di un corpo esteso, che fa sue prerogative biologiche e artificiali senza alcuna distinzione. Anche prima che, in epoca recente, la comunicazione pubblicitaria dedicasse al corpo e ai rapporti tra corpo e merce tutta la propria attenzione, il corpo umano in quanto veicolo e soggetto delle strategie di persuasione compariva con insistenza nei vari mezzi di comunicazione. Di fatto la pubblicità partecipa del clima storico e sociale del tempo cui appartiene. Così la comunicazione pubblicitaria (che presenta un corpo 'macroscopico' nei cartelloni e un corpo assente nel messaggio radiofonico) sotto il fascismo risente dell'ideologia dominante, e propone corpi prestanti e robusti, forgiati per essere pronti alla guerra, quasi stilizzati, mentre il corpo femminile è stereotipato secondo costanti che lo rendono familiare, protettivo e rassicurante. Successivamente, negli anni del 'boom' economico, la comparsa della televisione attribuisce al corpo umano un'inedita centralità (Ceserani 1988). Attraverso il Carosello, primo contenitore pubblicitario del mondo televisivo occidentale che coinvolge divi e vedette, e in seguito mediante la forma dello spot, la comunicazione pubblicitaria televisiva rafforza e definisce i suoi codici espressivi. Via via più rapido e iconico, lo spot sintetizza modelli cinematografici, multimediali e persino d'avanguardia, per rappresentare corpi umani riconoscibili (alimentazione, salute), trasfigurati (fitness e investimenti edonistici) o grotteschi. Dagli anni Ottanta la pubblicità insiste sull'importanza decisiva che rivestono i confini del benessere e la cura del proprio corpo. Il corpo umano viene definito e settorializzato, ha i suoi territori e i suoi specifici prodotti; la cosmesi domina il mondo della pubblicità ed 'emenda' il corpo dai difetti; la moda e l'abbigliamento lo ricoprono con ricchezza di varianti, mentre l'accessorio paracorporeo è avvertito come indispensabile per una vita piacevole ed equilibrata. Lozioni per capelli, detergenti, schiume e deodoranti, depilanti e creme rassodanti: è la rimozione degli aspetti fisiologici sgradevoli (sudore, impurità della pelle, alitosi ecc.). La pubblicità televisiva traduce questo atteggiamento in una rappresentazione 'sensorializzata' del corpo, celebrandone il trionfo in quanto detentore di sensazioni iperboliche, per es. il 'godimento' per un bagno-schiuma, l'ammiccamento erotico per un vestito, fino a coinvolgere aspetti come il feticismo e il masochismo, che fino ad allora costituivano tabù inaffrontabili.
È paradigmatica l'insistenza sul corpo umano in quanto corpo della crescita. Il moltiplicarsi dei prodotti dedicati ai primi anni di età coinvolge le strategie del messaggio pubblicitario. Incitati a una sempre più ossessiva vigilanza sulla salute e il benessere dei figli, i genitori ricevono dalla pubblicità modelli di perfetta integrità psicofisica. Pulizia, igiene, alimentazione e altri prodotti per l'infanzia veicolano un messaggio di equilibrio tra sviluppo e scienza dell'educazione. Meno elegante, la televendita privata, visibile al di fuori dei grandi circuiti televisivi, rivendica una maggior efficacia del prodotto casalingo e naturale, del rimedio tradizionale e quasi 'stregonesco'; personaggi 'pittoreschi' offrono erbe medicamentose, pozioni vitaminiche e altri accessori (tapis roulant, cyclette) non di rado esemplificati con dettagli di corpi umani (i glutei e gli arti di modelli viventi). In epoca contemporanea, poi, la comunicazione pubblicitaria ha cominciato a dotare di potenzialità sensoriali il mondo artificiale della merce. L'automobile sessualizzata, con curve e glutei, lo schermo della televisione o il telecomando resi tattili dallo sviluppo delle nuove tecnologie, l'erotizzazione del dato merceologico proposto dal design industriale, avvicinano e quasi confondono il corpo umano con il prodotto pubblicizzato, rendendolo partecipe di un mondo che, una volta esplorato il corpo in tutte le sue funzioni, preferisce estendere le caratteristiche biologiche all'universo artificiale (Perniola 1994).
Potremmo affermare che il corpo nell'informazione è un corpo dimezzato. Il giornalista televisivo, inquadrato dalla cintola in su, è infatti un 'mezzobusto', secondo la definizione coniata da Sergio Saviane. Il mezzobusto è un corpo parzialmente occultato, alla ricerca della neutralità e di una centralità verbale che storni l'attenzione dal dato fisico. Personalizzare il mezzobusto non è facile: mimica, gestualità, atteggiamenti anticonformisti hanno costituito i tratti distintivi di un giornalismo informale, fuori degli schemi, come quello di Ruggero Orlando o di Carlo Mazzarella, e perciò ne ricordiamo i nomi piuttosto che quelli di altri conduttori altrettanto preparati. In epoca recente, l'infrazione delle regole del 'mezzobustismo' (per es., camminare nello studio di registrazione, coinvolgere gestualmente il fuori-campo, dilatare le pause, imporre il proprio corpo o le proprie espressioni in un contesto altrimenti convenzionale) sembra contenere elementi di trasgressione della deontologia professionale (Grasso 1992). Più occultato ancora è il corpo delle 'teste parlanti' (talking heads), ovvero i visi di intervistatori e intervistati, giornalisti televisivi e conduttori di talk show, spettacoli-conversazione di cui viene privilegiata la funzione verbale e rimossa la corporeità (Sorlin 1997). Quello nell'informazione televisiva è un corpo assai codificato che coinvolge aspetti comunicativi e linguistici specifici del mezzo. Soltanto nell'epoca della 'neotelevisione' (Eco 1983), definita 'autoreferenziale', eclettica, metalinguistica, troviamo violazioni della norma: l'intervistatore irruento che riguadagna la sua corporeità, la discussione salottiera che contempla lo scontro fisico, secondo modelli importati dagli Stati Uniti, il conduttore che centra la sua riconoscibilità sul proprio corpo, invece di occultarlo, l'esperto che lavora sul proprio look e impone attente strategie comunicative. L'ultima frontiera è forse quella del corpo virtuale, che può fare a meno di un referente reale e disegna la figura postumana del personaggio televisivo digitale. Un esordio si è avuto con Max Headroom, creatura un po' inquietante, metà uomo e metà macchina, che si muove a scatti sul teleschermo (Grasso 1992).
Headroom, creato elettronicamente ma con tecnica mista analogica, è il prototipo del conduttore virtuale che, secondo gli studiosi, presto segnerà la fine della televisione tradizionalmente antropocentrica, consentendo, con tecniche di grafica tridimensionale assai più sofisticate, di ottenere figure umane sintetiche senza più legami con la realtà, estreme conseguenze di una lunga tradizione culturale-scientifica affascinata dalla generazione indotta (Caronia 1996).
La fiction televisiva, 'macrogenere' che abbraccia sottogeneri più circoscritti quali il teleromanzo, lo sceneggiato, l'originale, il serial, la serie (Grasso 1992), è un repertorio inesauribile di rappresentazione dei corpi. Rispetto al cinema, la tipologia del corpo televisivo è più limitata, dal momento che deve confrontarsi con problemi di censura, palinsesto, strategia comunicativa (i modelli seriali, per es.) e peculiarità tecniche. Anche la fiction televisiva, secondo schemi mutuati dal processo di produzione dei film e rifunzionalizzati al consumo domestico televisivo, prevede i suoi divi e consacra le sue star. In particolare la serialità, che nella televisione ha trovato il mezzo ideale per il suo sviluppo, permette un'insistenza pressoché infinita sulle caratteristiche fisionomiche dell'attore.
a) Il corpo passionale. - Il corpo del divo è un corpo passionale ‒ come dimostra il genere della soap opera (Peyton Place, Sentieri) ‒ idealizzato secondo caratteristiche primarie (bruni e forti, o biondi, efebici, delicati) e stereotipi occidentali (corpi femminili ben disegnati, volti perfettamente truccati, inalterabilità dei tratti somatici). Il corpo di queste star è privo di difetti, appartiene a un ideale secondo il quale salute, ricchezza, eleganza coincidono per una sorta di diritto naturale; sono 'belli universali', in base a canoni elementari tipici dei linguaggi popolari (fotoromanzo, telenovela, radiodramma, feuilleton, romanzo rosa; Valerio 1992). L'importazione della fiction statunitense aggiunge probabilmente un elemento di fascino esterofilo nei corpi rappresentati, come nel caso della telenovela di successo Beautiful, per la caratterizzazione, in tal senso estrema, dei personaggi. Non sono mancati tuttavia progetti produttivi autoctoni, che hanno cercato di arginare lo strapotere della soap opera di importazione, e lo hanno fatto accentuando, in opposizione al modello americano, l'aspetto realistico dei luoghi (gli interni e i rari esterni), oltre che dei visi, delle fisionomie, dei corpi non stilizzati (per es. Un posto al sole). La produzione melodrammatica, quella seriale, e in definitiva tutta la finzione televisiva, sono state parodiate e svelate nei loro meccanismi dallo sceneggiato sperimentale Twin Peaks, di David Lynch, che ha lavorato proprio sulle caratteristiche più sgradevoli dei protagonisti, ribaltando un ideale codificato da anni di produzioni televisive. Il mondo di Twin Peaks è popolato di corpi imperfetti: orbi, storpi, handicappati, fenomeni da baraccone e cadaveri. Il serial americano ha inoltre influenzato in questo senso molte produzioni successive (X-Files, Millennium). Più classici gli esempi per ciò che riguarda i telefilm che hanno come tema principale il corpo stesso: Dr. Kildare, General Hospital o E.R. - Medici in prima linea tematizzano la sospensione del corpo tra la vita e la morte e il pronto intervento sull'organismo in difficoltà. Sempre più realistiche, le serie televisive di ambiente medico si ispirano a riprese documentarie di interventi, operazioni, soccorsi, tratteggiando personaggi di eroi della quotidianità ma non rinunciando a una componente sadica e sensazionalistica della messa in scena.
b) Il corpo indistruttibile. - Esiste un apporto della supereroistica in TV, ispirata al fumetto o alla letteratura popolare, costellata di corpi iperbolici, instabili, in perenne trasformazione, che trascendono il dato biologico e vanno oltre le barriere della fisica grazie a premesse fantastiche o parascientifiche. Questo accade in Superman, 'doppio' quotidiano ed eroico, L'uomo da sei milioni di dollari, storia di un astronauta che viene trasformato in un cyborg dopo aver subito un grave incidente, o nel corrispettivo femminile La donna bionica, dotata di poteri straordinari grazie alle parti artificiali di cui è composto il suo corpo, o nell'Incredibile Hulk, versione televisiva del fumetto di Lee e Kirby, storia di uno scienziato nucleare vittima delle radiazioni che si trasforma in un gigante verde ogni qualvolta si adira. In tutti i casi sembra di assistere a una rappresentazione del corpo paradossale, che ottiene attraverso cause esterne e soluzioni narrative già ideate da cinema, letteratura e fumetto, una sorta di 'indistruttibilità' con la sistematica attivazione dei propri superpoteri. Le riflessioni epistemologiche, abbastanza superficiali, suggerite da questi serial televisivi anticipano quelle più inquietanti del cartone animato giapponese. D'altra parte, una tipologia opposta di corpo indistruttibile è quella del corpo burlesco nella fiction comica televisiva. Il successo del cortometraggio comico in televisione ha ragioni molteplici, non ultima quella che riguarda l'elasticità dei tempi previsti dal palinsesto e che consente di recuperare formati scomparsi dal cinema con l'introduzione del lungometraggio (serial e burlesco). Contrapposto, così in televisione come al cinema, a quello divistico, il corpo grottesco del comico reitera all'infinito il proprio impaccio, la difficoltà di agire nello spazio, l'impossibilità di muoversi nei luoghi del vivere quotidiano, in brevi episodi fortemente codificati; ma esso non conosce morte, distruzione, annientamento. Il burlesco del cinema, tra l'altro, ritrova in televisione uno spazio di visibilità che garantisce riproposizioni continue dei film con Charlot, Stanlio e Ollio, e (pochi) altri. Corpi grotteschi specificamente televisivi sono invece quelli di Benny Hill e Mr. Bean; anche il Fracchia (1975) di Paolo Villaggio è un corpo grottesco della quotidianità che costruisce i propri gesti comici a partire dalle caratteristiche più spiacevoli del lavoratore moderno.
c) Il cartoon. - I cartoni animati compaiono, almeno nella televisione italiana, a partire dagli anni Sessanta, con rassegne del cinema d'animazione di tutte le parti del mondo. A distanza di un decennio, la RAI comincia a mandare in onda programmi d'acquisto, specificamente prodotti per la televisione, tra i quali ben presto si fanno strada i cartoni animati giapponesi (anime). La violenza grafica e la cinica disinvoltura con cui gli anime nipponici presentano la realtà raccontata sono stati occasione di dibattito acceso tra esponenti della società civile, legislatori, programmatori ed educatori dell'infanzia. Il dato più originale e destabilizzante della produzione giapponese risiede proprio nella rappresentazione del corpo umano, che, se nelle serie melodrammatiche fa riferimento a un'iconografia occidentale e quotidiana, nei cartoni di fantascienza propone un mondo dominato dalla tecnologia e dalla forza brutale, nel quale organico e inorganico tendono a fondersi mescolando dato meccanico e dato biologico. Quasi preconizzando gli elementi più radicali della narrativa e della cultura chiamata cyberpunk, gli anime prevedono che il corpo umano sia confuso con il suo rivestimento robotico (Jeeg robot d'acciaio), che gli eroi in carne e ossa patiscano insieme alla macchina (Atlas Ufo Robot, Goldrake e Mazinga), che i robot siano sessualizzati (Afrodite A lancia addirittura i propri seni come missili, scatenando diverse obiezioni da parte degli psicologi) e che vi sia piena continuità tra il piano naturale e quello artificiale (Raffaelli 1994). Disegnati con i lineamenti morfologici dell'uomo occidentale, quelli degli eroi giapponesi sono corpi sofferenti, che ricevono e infliggono dolore, portati a lotte fisiche e patimenti estremi, secondo alcuni dei codici tradizionali della cultura nipponica. Con un tratto grafico abbastanza elementare e un'oculata amministrazione delle risorse produttive, il mondo dell'animazione giapponese invade l'Italia, tratteggiando corpi divistici e affascinanti (Emeraude), dolci e innocenti (Candy Candy), improbabili figure bucoliche (Heidi) o visioni impressionanti e paradossali del corpo atletico (masochista) nelle serie d'ambiente sportivo (L'uomo tigre, Mila & Shiro, Grand Prix).
Una trattazione diretta del concetto di corpo in televisione proviene dai programmi divulgativi. Pur non esente da confusioni metodologiche e ambiguità ideologiche, la divulgazione televisiva trova da subito ampio spazio nella programmazione quotidiana. Del resto, tra tutti i mezzi di divulgazione è sicuramente il televisivo quello che favorisce la comprensione dell'utente attraverso le proprie potenzialità descrittive. Secondo la ripartizione elaborata da A. Grasso (1992, p. 116), l'illustrazione didattica privilegia quattro tipi di comunicazione: l'esperto, la lezione, il documentario, il conduttore. Ancora Grasso segnala come l'ideologia di fondo sembri rifarsi a una salda concezione positivistica, quantunque mai direttamente esplicitata; i mezzi linguistici usati sono tra i più sofisticati e spettacolari e concorrono tutti a presentare la scienza attraverso le modalità del racconto fantastico e meraviglioso. Il corpo umano partecipa della stessa attenzione riservata ad altri campi del sapere scientifico dalla stampa di settore, grazie all'articolazione intermediale del sapere enciclopedico in tutte le sue forme.
a) Il corpo scientifico. - Il corpo umano, in quanto corpo della divulgazione, condivide problemi e contraddizioni tipici dell'illustrazione scientifica in televisione, di ordine comunicativo, epistemologico e deontologico. Seguendo la suddivisione in quattro forme di intervento suggerita da Grasso, notiamo che essa si può facilmente applicare anche alla spiegazione scientifica del corpo umano. L'esperto, depositario del sapere settoriale, interviene in programmi condotti da non specialisti e racconta i meccanismi fisiologici del corpo umano; la lezione amplia il concetto di televisione quale scuola parallela e si struttura come una seduta informativa corredata di filmati, mezzi didattici (lavagne, pannelli, cartelli) e materiali multimediali; il documentario ha il compito di facilitare la comunicazione del sapere e quindi di utilizzare codici espressivi dell'intrattenimento o della fiction a questo scopo; infine il conduttore riassume in sé le caratteristiche degli altri tre modelli e compone in modo coerente il discorso scientifico.
Nell'ambito della divulgazione del corpo umano, il ciclo di Piero Angela intitolato La macchina meravigliosa (1991) affronta il viaggio all'interno del corpo umano e, attraverso un raffinato lavoro combinatorio tra strategie comunicative e strumenti didattici, conduce lo spettatore fin nei recessi più segreti: tessuti, cellule, arterie e organi vengono illustrati e spiegati con dovizia di particolari (Dorfles 1991). Ma fin dagli inizi la scienza medicale sfrutta le potenzialità del mezzo televisivo: durante le prove tecniche di trasmissione RAI, all'inizio degli anni Cinquanta, viene ripresa in via sperimentale un'operazione chirurgica (Delli Colli 1984). La programmazione televisiva degli interventi sul corpo umano, troppo impressionanti per poter ottenere visibilità nelle ore di maggior ascolto, viene presto relegata nei 'tempi morti' del palinsesto: a notte fonda, specialmente su reti private regionali, è possibile imbattersi in riprese parziali o integrali di operazioni chirurgiche a scopo dimostrativo e didattico. Le ore giornaliere, invece, servono a ospitare una concezione più ottimistica, in qualche modo 'preventiva', della salute del corpo umano.
b) Il corpo della salute. - La salute, nell'accezione ampia di benessere psicofisico, occupa spazi via via più importanti nella televisione occidentale. In Italia, almeno dagli anni Settanta, si moltiplicano le trasmissioni espressamente dedicate alla cura del corpo. L'argomento, in piena espansione su tutti i mezzi di comunicazione (riviste, supplementi, videocassette, Cd-Rom), conquista le TV pubbliche e private: Nutrirsi e Salute, della serie di trasmissioni Sapere; Check Up, primo e più rigoroso tentativo di offrire un dialogo tra esperto e utente sulle patologie più comuni; Elisir, e ancora Più sani e più belli, che, come suggerisce il titolo, coniuga salute ed estetica, benessere e cosmesi, equilibrio fisiologico e psicologico. Il corpo umano, rappresentato secondo fini scientifici, riacquista centralità nella sua interezza: il nudo non è più tabù, i seni e gli organi genitali vengono riammessi nel consesso televisivo purché svuotati di ogni prerogativa erotica. Tra tutti gli argomenti posti all'attenzione pubblica dalla fitta proposta televisiva, risultano sempre più diffusi quelli legati alla cura della propria immagine: dermatologia, oftalmologia, cosmetologia conquistano spazio sottraendolo alla comunicazione parascientifica. Questi fenomeni di investimento narcisistico si situano, infatti, più propriamente entro la comunicazione pubblicitaria (igiene, diete, rimedi naturali, televendite), basata su tecniche di persuasione, che in quella della divulgazione del corpo umano.
Il corpo dello spettatore televisivo non possiede caratteristiche omologhe a quello di chi assiste ad altre forme spettacolari. Privato dell'elemento rituale della visione cinematografica o teatrale (che tutt'al più ricrea artificiosamente in occasioni di eventi importanti), lo spettatore televisivo è assai più sfuggente ad analisi psicologiche, sociologiche o mediologiche da parte degli studiosi. Uno dei motivi di questa ambiguità, oltre alla scarsa rappresentatività dei gruppi-campione e all'insormontabile scoglio metodologico rappresentato da una realtà empirica inconoscibile, è da ricercarsi proprio nel corpo dello spettatore televisivo. L'ambiente domestico in cui avviene il consumo televisivo favorisce il rilassamento del corpo, posizioni di abbandono e relax, la possibilità di svolgere parallelamente alla visione attività domestiche impensabili per altre forme di consumo culturale. Da queste differenze si evince anche la minore soglia di attenzione dedicata alla comunicazione televisiva. A seconda della collocazione del televisore e del proprio corpo rispetto all'elettrodomestico, si ha un consumo di volta in volta differente, decretando un tipo di comunicazione ridotta e senza precedenti nella cultura occidentale (Mancini 1991).
A. Abruzzese, Il corpo elettronico, Firenze, La Nuova Italia, 1988.
B. Balász, Der sichtbare Mensch. Eine Filmdramaturgie, Halle, Wilhelm Knapp, 1924 (trad. it. parziale in Sapere e teorie del cinema. Il periodo muto, a cura di G. Grignaffini, Bologna, Clueb, 1989).
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