L’imperatore e la Chiesa
Dalla tolleranza (312) alla supremazia della religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese
La mentalità tardoantica implica la continuità attraverso processi di reduplicazione per cui la ‘divinità’ imperiale deve riprodursi in una forma accettabile nelle manifestazioni religiose emergenti, mentre il nesso civile fra vita della res publica e religione non può essere risolto nel senso della separazione dei due momenti di vita associata: la religione nella tradizione e mentalità tardoantica ha una rilevanza pubblica ineliminabile. Il giusto rapporto con il divino è garanzia di prosperità e successo terreno, garanzia di mantenimento dell’Impero.
Nel corso del IV secolo l’Impero passa velocemente dalla accettazione del cristianesimo alla sua assunzione a base della vita pubblica. La gratitudine verso gli imperatori assicura da parte della Chiesa il riconoscimento del loro ruolo vicariale nei confronti della divinità e quindi una sorta di vigilanza e protettorato sulla vita ecclesiastica. Il rapporto fra potere imperiale e sacerdozio cristiano subisce peraltro i contraccolpi delle dispute e scissioni dottrinali a proposito dell’economia trinitaria e della natura del Cristo. Quando imperatore e Chiesa erano in contrasto, gli imperatori dovevano ritenersi soggetti ai vescovi nelle questioni religiose e la loro presenza all’interno delle questioni ecclesiastiche era vissuta con insofferenza. Fino al VII secolo non si pone la questione delle tesaurizzazioni ecclesiastiche, forse perché gli imperatori da Costantino in poi possono attingere, attraverso le confische, ai tesori dei templi ridotti a luoghi di un culto non più pubblico e progressivamente esaugurati. Da Eraclio agli iconoclasti, il potere imperiale confisca i tesori e i beni di chiese e monasteri, e comprime il ruolo politico delle gerarchie ecclesiastiche. Problemi, questi, che non si erano posti concretamente nel corso del IV e del V secolo, anche se lo spirito di autonomia dell’alto clero e l’insubordinazione verso le figure imperiali si sperimentano più volte da Ambrogio a Giovanni Crisostomo, a papa Felice III (II) (483-492).
La rifondazione di Bisanzio in Costantinopoli (dal 325 al 330, con inaugurazione l’11 maggio), che nel corso del IV secolo è additata come Nuova Roma, assume nella prospettiva storica dell’Impero romano d’Oriente e in quella dell’Europa moderna una valenza epocale, ispirata peraltro dallo svolgimento della storia nei secoli successivi alla rifondazione. I punti chiave di questa interpretazione sono il concetto di Nuova Roma, come rinascita e sopravvivenza di Roma, evidenziato dall’invasione araba che nel VII secolo manda in frantumi l’Impero, e il rapporto fra la rifondazione della città imperiale e l’affermarsi ecumenico della nuova confessione religiosa e del suo apparato amministrativo: il cristianesimo, fenomeno la cui portata esclusiva nei confronti di altre confessioni religiose si manifesta soprattutto fra IV e VI secolo1.
Nova Roma, nella visione mistico-magica propria dell’aristocrazia del IV secolo, significa reduplicazione della virtù espansiva insita in Roma, doppione magico di Roma, operazione impensabile alla luce della nostra mentalità ma perfettamente adeguata alla mentalità neoplatonica dell’alta cultura del IV secolo. Il pensiero corre al filosofo e politico Salustio, che ci ha lasciato il suo aureo libretto neoplatonico Sugli dei e il mondo2: maestro, stretto collaboratore e successore designato di Giuliano l’Apostata, insignito di una statua d’oro nel foro di Traiano3, per due volte oggetto dell’ovazione militare alla morte di Giuliano e alla morte di Gioviano: designazione imperiale che Salustio rifiuta. Il mondo per Salustio4 è imperituro e ingenerato. Gli dei sono eterni. Ne consegue che una realtà cosmica come la dea Roma non può che permanere al di fuori del divenire e manifestarsi secondo un’appropriata evocazione, consueta nelle pratiche teurgiche di quell’aristocrazia.
L’identificazione e reduplicazione magico-sacrale di Roma in Costantinopoli5 è una realtà giuridicamente sancita secondo il canone 3 del concilio ecumenico di Costantinopoli del 3816 e secondo la costituzione Deo auctore del 533, nella quale Giustiniano stabilisce due principi: il principio della centralità di Roma rispetto alle altre città, che debbono seguirne le consuetudini in quanto essa è caput orbis terrarum (vertice del mondo); e il principio dell’identità migliorata e più ricca di futuro di Roma in Costantinopoli: «Romam autem intelligendum est non solum veterem, sed etiam regiam nostram, quae Deo propitio cum melioribus condita est auguriis»7.
L’età giustinianea realizza, al di là di ogni allusione retorica, l’identificazione di Roma con Costantinopoli.
L’idea e il progetto di porre il centro operativo dell’Impero nell’oriente anatolico non sono di Costantino ma del suo mentore Diocleziano (284-305), che aveva fatto di Nicomedia, l’attuale Izmit, il suo centro operativo. A Nicomedia, fra l’altro, Costantino è allevato e educato, proprio a cura dell’imperatore dalmatico, affascinato dalla personalità del suo giovane ostaggio, garanzia della fedeltà di suo padre. Costantino è figlio di Costanzo Cloro (Cesare dal 293 e Augusto d’Occidente dal 305 alla sua morte nel 306), fortunato generale originario della latinità balcanica – da cui tutti gli imperatori ebbero a provenire fino a Tiberio II (578-582) –, e di Elena, una donna di Drepanon, Trapani di Anatolia, città che poi Costantino imperatore ridenominerà Elenopoli. Costantino, destinato a divenire l’archetipo mitico dell’Impero orientale8, nasce nell’intersezione della latinità balcanica, che l’invasione slava avrebbe in gran parte spazzato via nella seconda metà del VI secolo, con la grecità anatolica e soprattutto nel cuore della struttura sociale più viva del suo tempo, l’esercito, che con la sua forza di cooptazione e di mobilità verticale era in grado di portare al vertice della società elementi dei ceti inferiori come Elena, Romula – la madre addirittura barbara di Galerio e nonna di Massimino Daia –, Minervina, la madre di Crispo figlio di Costantino, e come Lupicina, la madre del figlio di Licinio.
La dislocazione del centro operativo dell’Impero rispetto a quello ideologico, fenomeno che noi – nella nostra mentalità centralistica e stanziale dell’amministrazione – siamo portati a indicare come spostamento della capitale, era una prassi consueta per gli imperatori itineranti, da Adriano a Settimio Severo ad Aureliano, e agli imperatori balcanici, e d’altra parte è un fatto che evidenzia l’assoluta concentrazione del potere nelle mani dell’autocrate, vero centro dell’Impero a prescindere dal luogo in cui si trovava: nel 322-323 Costantino – impegnato in una campagna militare nella penisola balcanica – dimostra questo suo assunto dichiarando «la mia Roma è Sardica»9. Basta elencare le località diverse da cui gli imperatori sono soliti emettere le loro disposizioni legislative e i loro ordini esecutivi per rendersi conto della prassi mobile dell’esercizio dell’autorità imperiale, del resto confermata ancora nel X secolo dalla descrizione, tramandataci da Costantino VII Porfirogenito, dell’accampamento imperiale, una vera e propria città mobile.
Le chiese cristiane dal I al IV secolo si trovano di fronte alla sacralizzazione fino alla divinizzazione della figura imperiale e all’organizzazione del cultus publicus, occasione sociale di lealismo e riconoscimento del potere imperiale11. Il princeps ideale è invitto in guerra, clemente e giusto in pace, soprattutto è prescelto dalla divinità per governare l’Impero romano universale. Il princeps è optimus e sacratissimus, sede di ogni eccelsa virtù, come si conviene a persona degna della legittimazione divina.
Di fronte a questa ideologia e pratica sociale, le varie chiese cristiane avevano reagito in modo diverso a seconda delle regioni di appartenenza e a seconda dei periodi di tolleranza o intolleranza del cristianesimo da parte dell’autorità imperiale.
Paolo, ebreo di Tarso, città ellenistica patria di numerosi filosofi stoici, afferma che «non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio»12. Mostra cioè un atteggiamento di fiducia e di lealismo verso l’Impero, comprensibile in un testo come questo, rivolto alla comunità giudeo-cristiana di Roma, dove non era pensabile sopravvivere senza dichiarata espressione di fedeltà all’Impero, e comprensibile altresì in un cittadino romano come Paolo13, evidentemente integrato entro l’ordine imperiale, come mostrano le sue vicende giudiziarie14.
Diverso è l’atteggiamento della lettera di Pietro, attribuibile a un suo discepolo che da Roma si indirizza a cristiani anatolici, che si trovavano in Galazia, Cappadocia, Bitinia e nel Ponto15, cioè in complesso nella regione dell’Asia Minore settentrionale, probabile area di diffusione di un cristianesimo originato a Gerusalemme, zona in prevalenza rurale, con poche poleis e in un contesto sociale ostile ai cristiani, percepiti nella regione come antisociali e sovversivi:
State sottomessi a ogni istituzione umana a causa del Signore, sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio… Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re16.
La sottomissione è motivata nel Signore e non nel carattere divino dell’autorità. Mentre Paolo offre una giustificazione teologica dell’Impero, l’epistola petrina fa rientrare l’obbligo della sottomissione al potere nell’obbligo generale dei cristiani verso tutti gli uomini17.
Il quadro escatologico dell’Apocalisse, scritto destinato alle chiese dell’Anatolia, esprime l’attesa del Regno di Dio in antagonismo all’Impero di Roma, nella coscienza di un’inconciliabilità fra impero ed ecclesia. Le comunità cristiane sono incitate a distanziarsi dall’Impero18, a uscire da Babilonia per non divenire conniventi e dunque destinate al castigo che pende sull’Impero. I cristiani sono la primizia del Regno di Dio, realizzato da Cristo «principe dei re della terra»19 e «agnello vittorioso»20 in lotta contro il regno di Satana. Il drago (Satana), sconfitto in cielo, conferisce il potere alla bestia che sale dal mare21 cioè il potere imperiale che domina l’ecumene. Essa possiede titoli di bestemmia (divus Augustus, dominus, dominus ac Deus). Il mostro bestemmia (cioè procede alla autodivinizzazione dell’Impero e dell’imperatore) e muove guerra ai santi22, cioè perseguita i cristiani che si oppongono all’adorazione della bestia. Il regno della bestia è limitato nel tempo e sarà seguito dal regno millenaristico di Cristo e dei santi23. Regno di Dio e regno di Cesare non possono armonizzarsi sincretisticamente.
Le posizioni cristiane nei riguardi del potere sono dunque diverse, variano pur tenendo fede all’escatologia del messaggio di Gesù, che postula un Regno di Dio come istanza superiore, da cui le strutture dell’Impero vengono ridotte a un ruolo relativo quando non sono completamente delegittimate24.
Quando io, Costantino Augusto, e io, Licinio Augusto, venimmo felicemente a Milano e prendemmo in esame tutto ciò che si riferisce al giovamento e all’utilità della cosa pubblica, tra gli altri provvedimenti che sembrarono per molti riguardi conformi al bene della comunità, decidemmo con preferenza e antecedenza di regolare quanto riguarda il rispetto e l’onore della divinità, e pertanto di dare ai cristiani e a tutti gli uomini libera scelta di seguire la religione che essi volevano, affinché ogni divinità e ogni potenza celeste potesse essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra potestà […] È evidente che ben conviene alla tranquillità dei nostri tempi che ognuno in materia religiosa abbia diritto di scelta e di pratica conforme al suo volere. È stato da noi stabilito ciò, perché non sembri che svalutiamo comunque qualche onore o culto25.
Il cosiddetto editto di Milano conclude un percorso particolarmente tormentato di scontro fra potere imperiale e comunità cristiane. Il 30 aprile del 311 Galerio emette un editto, conservato in latino nel De mortibus persecutorum26 di Lattanzio e in greco nella Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea27, in cui giustifica sinceramente gli intendimenti della tetrarchia in campo religioso. Galerio rivendica la volontà degli imperatori di perseguire Rei publicae commoda atque utilitas (il vantaggio e il guadagno della cosa pubblica). Gli imperatori cioè si prefiggono di riordinare tutto con il programma di riforme politiche, sociali, economiche e religiose sentite come necessarie da Diocleziano, e di far sì che i cristiani tornino a praticare la religione tradizionale, secondo la publica disciplina Romanorum. Si tratta di imporre l’interesse pubblico dei veterum instituta, cioè l’insieme delle norme venerande su cui si basa la vita della civitas. Il fine dell’impero si realizza se il mos maiorum non viene violato; questo è il limite della tolleranza religiosa di Roma. Ateismo è dunque non aderire a quest’ordine di cose che culmina nel culto dell’imperatore.
I cristiani «riempiti di grande ostinazione e grande stoltezza non seguono quelle istituzioni degli antichi, ma secondo il proprio arbitrio come a loro piaceva si fecero le loro leggi»28. Gli imperatori «avevano voluto fare in modo che anche i cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro padri, ad bonas mentes redirent tornassero a buoni sentimenti». Ad bonas mentes redire: questa intenzione del ceto dirigente, spaurito di fronte alla negazione della religione tradizionale della civitas pervicacemente esibita dai cristiani, era una speranza antica: si trova già il 17 luglio 180 negli Acta Sanctorum Scillitanorum29. Bona mens ha il senso religioso-politico di fedeltà e lealismo imperiale, nella indissolubilità di salvezza politica dell’Impero e rispetto degli dei.
La polemica ideologica fra culti tradizionali e culti nuovi era durata almeno due secoli. I cristiani debbono «ad Romanorum morem redire». Ad bonas mentes redire significa tornare a seguire l’antico ordinamento romano, gli usi dei maiores e quindi i riti pagani in quanto parte fondante della res publica. Dunque l’editto del 311 nella sua apertura rivendica il programma dioclezianeo di riforme entro cui rientravano le misure persecutorie prese nel 303, secondo l’antica politica religiosa perseguita da Roma verso i culti estranei alla res publica e quindi verso le chiese cristiane fino al 311.
Il problema del culto è generato dal comportamento dei cristiani, improntato alla voluntas e alla stultitia, secondo la tradizionale accusa mossa loro fin dai tempi di Plinio il Giovane nella lettera a Traiano, nella quale si attribuisce ai cristiani pertinacia et inflexibilis obstinatio, amentia. Questa critica diverrà poi luogo comune della polemica pagana contro i cristiani, come attestato da Giustino30. I cristiani cioè, in alcuni secoli di polemica culturale, sono considerati degli esaltati, piuttosto che delinquenti, ma esaltati dannosi alla sopravvivenza dell’Impero, e dunque l’autorità li esorta a rinsavire, «ad bonas mentes redire, resipiscere». L’ostinazione e la stoltezza dei cristiani li induce a rifiutare i veterum instituta per seguire leggi arbitrarie. I cristiani conseguentemente distruggono l’antica autorità e attentano alla saldezza dell’Impero contrapponendosi al mos maiorum.
Più tagliente e preoccupante sul piano dell’ordine pubblico nell’editto di Galerio è per le autorità il fatto che i cristiani attirino popoli (ethne) di diverse nazioni (varios populos congregare), rompendo i confini delle religioni nazionali, che Roma rispetta e favorisce come programma di governo. L’universalismo del cristianesimo colto nell’editto del 311 mette a rischio le istituzioni romane basate sulle differenze etniche.
L’editto comunque conferma il fallimento della Grande persecuzione del 303. Molti cristiani sono stati sottoposti a giudizio (multi periculo subiugati), molti sono stati uccisi (multi etiam deturbati), ma i più sono stati irriducibili. Si è creata perciò una situazione abnorme. Da un lato hanno rifiutato di rendere onore agli dei, dall’altro non hanno potuto rendere onore al loro dio, deus christianorum. Perciò l’editto proclama la concessione della indulgentia estesa a tutti i cristiani: si tratta di una concessione dell’autorità politica che da sempre lega ambito politico e ambito civile. L’indulgentia, la tolleranza, è disposta a patto che i cristiani ne quid contra disciplinam agant, non compiano atti contro l’ordine stabilito, divenendo religio licita a patto che preghino per la salute degli imperatori, della res publica e di loro stessi, in modo che la res publica permanga prospera et incolumis. Gli imperatori riconoscono al deus christianorum potere e grandezza, e ne riconoscono l’efficacia nei suoi interventi, per cui se ne invoca la protezione. Già Origene, sessant’anni prima, nel suo Contra Celsum aveva affermato che i cristiani danno ai responsabili della cosa pubblica un aiuto divino, rivestendosi dell’«armatura» di Dio, per cui le loro preghiere sono capaci di distruggere i demoni che suscitano le guerre e turbano la pace, recando più aiuto agli imperatori di quanto non facciano i soldati uccidendo.
L’editto di Galerio ha una portata straordinaria. Il contrasto che per due secoli e mezzo ha posto di fronte Impero romano e cristianesimo viene risolto con la indulgentia, cioè con la tolleranza. Le litterae di Costantino e Licinio emesse verosimilmente a Milano nel 313 stabiliscono un altro fondamentale principio, quello della libertà di coscienza. Come si vede, nella διάταξις di Milano si postula la libertà di coscienza e il rispetto per ogni genere di ϑρησϰεία di culto. È il principio della libertà di coscienza per pagani e cristiani. Non occorre sottolineare che questo principio è, nella realtà storica già del IV secolo, seguito da scissioni e contese accanite anche in ambito cristiano fra le diverse confessioni, con conseguente intervento dell’autorità politico-religiosa dell’imperatore quale pontifex maximus e quindi garante della pax deorum.
Dall’esame delle iconografie monetali subito dopo la morte di Costantino nel 337 si ricava l’equilibrio tra i fattori espressivi nuovi, graditi al cristianesimo, e i fattori tradizionali cui sono sovrapposti, che ribadiscono la permanenza di contenuti e linguaggi tradizionali propri degli usi antichi.
Nella parte orientale dell’Impero romano il cristianesimo accoglie di fatto, all’inizio del IV secolo, la teoria politica ellenistica a fondamento dell’idea imperiale romana. Origene aveva proposto il quadro di una pace stabilita da Dio perché l’Impero romano potesse essere utilizzato per la diffusione del cristianesimo. Interessi delle chiese e dell’Impero avrebbero potuto identificarsi se gli imperatori avessero deciso di abbandonare l’apocalittico servizio di Satana. Le relazioni fra imperatori e chiese si svilupparono su questa base quando gli imperatori adottarono la fede cristiana. La nozione di monarchia divina, formulata da Aristotele31, divenne propria dell’età ellenistica forse con mutuazione dell’idea persiana del parallelo fra regalità assoluta e monarchia divina. Filone di Alessandria32 commenta la monarchia divina in termini ellenistici atti a favorire l’approccio dei pagani al monoteismo giudaico. Se l’accordo fra cristianesimo e pensiero ellenistico non presentava difficoltà per cristiani e pagani dell’Oriente, in Occidente cominciarono a circolare le medesime nozioni. Lattanzio illustra l’ideale di un imperatore il cui governo universale sarebbe stato la miglior garanzia di pace e prosperità in relazione con l’ideale di un solo Dio, signore del mondo33 e imperator omnium34. Egli applica inoltre il concetto ellenistico di legge animata a Cristo «legge vivente e presente»35, che Dio inviò come mediatore sulla terra, in qualità di maestro e legge animata36.
La cristianizzazione della teoria ellenistica della monarchia divina è assunta durante il regno di Costantino il Grande omnium maximus imperator37. Lattanzio fra i primi dichiara che «la divina provvidenza dell’Altissimo lo ha innalzato alla dignità più alta»38. Da allora governo imperiale romano e religione cristiana sono legati insieme. Berkhof noterà, con la consapevolezza di una lunga storia europea e l’insofferenza per pratiche religiose non intimistiche, ma burocratizzate ed esteriori:
Nell’anno 313 la Chiesa cristiana non ha vinto nel senso più profondo. Poiché essa subentrò al posto dell’antica religione di Stato. Divenne una funzione della vita dello Stato e dovette contro la sua volontà e senza gratitudine assumere il carattere di questa religione di Stato. Divenne una funzione della vita dello Stato e la sua fede si realizzò in un atto di culto esteriore, in genere obbligatorio39.
Il vescovo di Cesarea, Eusebio, nella sua Demonstratio evangelica40 combinò la monarchia divina con la pax Augusti, ponendo il fondamento ideologico della pacificazione e dell’accordo fra Impero e chiese:
chi non si stupirebbe considerando che non per un mero accidente umano la maggior parte delle nazioni non fu sotto il solo Impero di Roma fino ai giorni di Gesù. Il suo miracoloso soggiorno fra gli uomini infatti fu contemporaneo con il conseguimento da parte di Roma del sommo potere, quando Augusto fu per la prima volta governatore supremo della maggior parte delle nazioni.
Il compito missionario degli apostoli è facilitato dall’Impero romano nella sua pace e sicurezza: «Ora deve essere stata opera di Dio, che è sopra ogni cosa, in particolare questa subordinazione dei nemici della sua parola al timore più grande di un governatore supremo»41.
Secondo Eusebio, inoltre, sotto la monarchia romana si realizza la profezia di Michea42 di una profonda pace messianica, che in effetti si inaugura con Augusto e dura fino ai suoi giorni43. Nel discorso sul trentennale Eusebio sostiene che «la monarchia è superiore a ogni altra forma di governo, poiché c’è un solo Dio, non due o tre, o più […] e un basileus, una parola, una legge regale».
Il re deve essere una copia della perfezione divina, conseguita avendo dato al mondo la pace e la fede. In tal modo Eusebio assume nel cristianesimo l’intera teoria politica ellenistica, ponendo le basi per i rapporti fra Chiesa e Impero. L’imperatore diviene un amico del Logos cristiano, della parola di Dio, Gesù Cristo, senza essere un dio incarnato. L’amico del Logos, interprete della parola di Dio, riconduce l’intera umanità alla conoscenza di Dio, proclamando la legge della verità e della bontà:
[L’imperatore] avendo ripulito il suo dominio terreno da ogni traccia di errore empio, invita tutti gli adoratori santi all’interno delle sedi imperiali, desideroso seriamente di salvare con tutta la sua ciurma il potente vascello di cui è stato investito come nocchiero44.
Il suo [scil. di Costantino] carattere è stato formato secondo il divino originale del sovrano supremo e la sua mente riflette come in uno specchio lo splendore della virtù di Dio. Perciò il nostro imperatore è perfetto in discernimento, bontà, giustizia, coraggio, pietà e devozione a Dio […] Egli espone in un linguaggio magnifico le lodi di Dio e imita la sua divina filantropia e i suoi atti imperiali45.
Sono dunque assunti i due attributi dei re ellenistici, philanthropia ed eusebeia, cui si aggiungono secondo Eusebio l’apparizione a Costantino di visioni del Salvatore e la visione di sogni mandati da Dio, vale a dire un rapporto diretto con la divinità.
«Infine, recando l’immagine dell’impero celeste, con i suoi occhi fissati in alto, egli [Costantino] governa la vita dei mortali, secondo quel modello originale, con la forza tratta dall’imitazione della monarchia di Dio»46.
Si noti che l’iconografia monetale di Costantino e dei suoi successori presenta appunto gli ‘occhi fissati in alto’, che Spengler definiva lo sguardo metafisico. L’autore delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti47, contemporaneo di Eusebio, afferma che l’imperatore reca «Dei imaginem, sicut episcopus Christi»48. Costantino condivide questa concezione. Nella lettera del 314 a Elafio, suo rappresentante in Africa, circa lo scisma donatista, egli scrive: «non sarò mai soddisfatto né mi aspetterò prosperità e felicità dal potere misericordioso dell’Onnipotente fino a quando non sentirò che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta adorazione della religione cattolica in una comune fratellanza»49.
L’intervento di Costantino negli affari ecclesiastici per ricondurre i cristiani alla unità e al retto esercizio del culto, secondo Dvornik, derivava dalla sua nozione ellenistica di regalità50, mentre per Girardet51 l’intervento normativo del culto e la vigilanza sulla non conflittuale condotta dei suoi sacerdoti è principis munus, secondo la lettera di Costantino al vicarius Africae Celsus (315-316): «pro instituto meo ipsiusque principis munere»52, cioè una funzione del principe che Ulpiano53 definisce norma di diritto pubblico: «publicum ius est, quod in statum rei Romanae spectat […] publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit»54.
Alcuni ritengono questa funzione del principe riconducibile al ruolo di pontifex maximus55 che sarebbe stato abbandonato solo da Graziano e Teodosio, mentre Alan Cameron è dell’opinione che il titolo continuasse a essere assunto fino all’imperatore Anastasio nella titolatura imperiale, quando questa era resa nella forma estesa56. Costantino nel corso della controversia donatista mostra di essere consapevole della possibilità di un contrasto fra l’autorità dei vescovi nelle questioni ecclesiastiche e l’autorità dell’imperatore sul modo giusto di adorare Dio: «c’è nulla di più consonante con la mia stabile decisione e con il mio dovere imperiale che io possa fare che disperdere gli errori e le vane opinioni e di offrire all’Onnipotente una religione genuina, una concordia sincera ed una adorazione che gli è dovuta?»57.
«La chiesa e l’impero, essendo ambedue ‘immagine’ della medesima Società Cristiana Celeste, non possono che coincidere»58. Dagron nota che la separazione troppo netta, di stampo liberale, tra Stato e Chiesa, laici e clero, sacro e profano, non tiene conto dell’obiettiva interferenza dei due piani, dato che il potere acquisisce la sua legittimità, sotto il profilo etnologico, attraverso la sua sacralizzazione. Gli imperatori romano-orientali cristiani assumono come eredità dei re dell’Antico Testamento non solo un potere sacrale e divino, come era il potere dei re ellenistici e degli imperatori romani, ma anche quasi sacerdotale, per via dell’unzione che assumeranno nel IX secolo i sovrani carolingi, mentre gli imperatori bizantini la mutueranno soltanto più tardi da Occidente59. L’imperatore viene a trovarsi al di sopra dell’Impero in virtù della sua funzione e al di sopra delle chiese in quanto ‘vicario di Dio’60, cioè in quanto deve realizzare l’universalità del Regno di Dio attraverso l’estensione universale dell’Impero e deve indurre tutti gli uomini alla salvezza61. In quanto vicario, l’imperatore rappresenta Dio e il Logos (Cristo). Eusebio manifesta questo concetto con l’espressione οἷά τις κοινὸς ἐπίσκοπος62 (una sorta di vescovo universale)63, e comunque l’imperatore è l’unica autorità sulla terra come Dio, di cui è immagine, lo è nel cielo64.
Costantino si attende dal cristianesimo un beneficio diretto e un contributo al bene pubblico secondo la visione utilitaristica in auge fin dall’editto di Galerio65. Per Costantino se i sacerdoti incaricati del culto sono lasciati liberi dai munera pubblici, senza essere distratti dal loro servizio, «ne verrà un grande guadagno per gli affari pubblici»66. Culto e fede divengono affari pertinenti allo Stato, sotto il cristianesimo come nella religione civica del paganesimo; le crisi (donatista, ariana) vengono definite dottrinalmente ad opera dei vescovi cui l’imperatore conferisce la funzione di iudices e da sinodi di vescovi che l’imperatore convoca, prendendovi parte senza votare, al modo delle convocazioni del Senato. Il giuramento dei soldati alla fine del IV secolo mostra bene il passaggio dalla sovranità divina dell’imperatore secondo l’ideologia e prassi ellenistica e romana all’idea della preminenza dell’imperatore dopo Dio. Secondo Vegezio, i soldati
giurano per Dio, per il Cristo, per lo Spirito Santo e per la maestà dell’imperatore che subito dopo Dio deve essere venerato e adorato dal genere umano. Perché all’imperatore, appena ha ricevuto il nome di Augusto, sono dovute una fedele devozione e una sottomissione senza fallo come a un dio fisicamente presente. È in effetti Dio che aiuta un civile o un soldato, quando egli fedelmente rispetta colui che regna per volontà di Dio67.
La messa a fuoco del ruolo di Costantino nel concilio di Nicea ha un rilievo storico particolare perché definisce un aspetto fondante del rapporto fra Impero e chiese68. Nell’indire il concilio di Nicea (325) Costantino adotta la pratica ecclesiastica delle sinodi per sedare la controversia ariana che turbava la vita delle chiese. La procedura seguita è quella d’uso nella convocazione del Senato. Costantino pare ne abbia assunto la presidenza; dopo la sua relatio, abbia chiesto il parere dei presenti (sententiam rogare)69. L’imperatore non interveniva nelle questioni dottrinali ma confermava la decisione dei vescovi e ne faceva una disposizione legale70. Nella lettera ai vescovi assenti Costantino chiarisce questo principio: «Così stando le cose, siate disposti ad accettare questa grazia celeste e questo ordine, che viene così manifestamente da Dio. Perché qualsiasi decisione presa nelle sante sinodi dei vescovi deve essere attribuita alla volontà divina»71.
Accettando il basileus come creazione unica di Dio, immagine umana di Dio e di Cristo, i cristiani non possono negargli un diretto approccio a Dio per conto dei suoi sudditi. In un certo senso l’imperatore è depositario di un vago sacerdozio imperiale, come il Logos Cristo, secondo il salmo 109(110),4 era «ἱερεὺς [...] κατὰ τὴν τάξιν Μελχισεδεχ» (sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech)72. Sia Melchisedech sia Cristo non erano stati unti con olio materiale, diversamente dai re veterotestamentari, e non appartenevano alla stirpe levitica, non recavano insegne di dignità sacerdotale, ma tuttavia erano sacerdoti73. Venne mutuato dal pensiero politico giudaico il carattere sacerdotale del re, di modo che il primo imperatore cristiano fu visto come un erede ideale dei sovrani dell’Antico Testamento, un nuovo Davide, un nuovo Salomone74: Filone aveva proposto Mosè come modello di virtù regali, per cui Costantino venne paragonato a Mosè fino a porre il parallelismo del passaggio degli israeliti nel Mar Rosso con la vittoria di Costantino su Massenzio presso ponte Milvio, divenendo l’uno immagine di Mosè e l’altro del faraone. Come segno di distinzione sacerdotale, l’imperatore poteva entrare nel recinto dell’altare riservato al clero e sostarvi fino alla comunione, prima che Ambrogio lo vietasse a Teodosio I, anche se, secondo la testimonianza di Costantino Porfirogenito nel Libro delle cerimonie, a metà del X secolo l’uso era ripreso, dato che l’imperatore poteva incensare l’altare, baciare i lini dell’altare, le patene, le reliquie, prendere la comunione al modo dei sacerdoti, benedire la congregazione, leggere il Vangelo nelle cerimonie solenni e predicare75.
La sopravvivenza del culto imperiale nella venerazione dell’immagine dell’imperatore, testimoniata ancora nella Roma del tempo di papa Gregorio Magno, che accoglie con la cerimonia dell’adventus le immagini di Focas e Leonzia, poi collocate nell’oratorio di San Cesario al Palazzo76, non aveva più implicazioni divinizzatrici, ma pure sembrava non aver recepito la legislazione circa la proibizione di Costantino di collocare statue imperiali nei templi e il divieto di rendere adoratio (προσϰύνησις) alle immagini imperiali di Teodosio77. La stessa disposizione di legge, emessa il 15 febbraio 423, prevedeva inoltre la separazione fra le laudes da rendere al nostrum numen, preferibilmente un omaggio sincero nell’intimo del suddito, e l’onore da rendersi al supernum numen: «Ludis quoque simulacra proposita tantum in animis concurrentum mentisque secretis nostrum numen et laudes vigere demonstrent; excedens vultura hominum dignitatem superno numini reservetur»78. Malgrado le disposizioni di legge, questo rituale del culto dell’immagine imperiale rimarrà ancora in uso nel 787 se nel concilio di Nicea II viene usato come argomento oratorio per difendere la venerazione delle immagini sacre e la circolazione della venerazione dal prototipo all’immagine.
Le innovazioni legislative a favore delle chiese cristiane sono introdotte da Costantino all’interno del quadro giuridico tradizionale, delle largizioni pie, dato che egli è un imperatore romano prima di essere un imperatore favorevole ai cristiani. Dal novembre 312 in poi Costantino conferisce al clero cristiano speciali privilegi fiscali e legislativi. L’introduzione del riposo settimanale nel dies solis dies domini per i soldati e l’amministrazione burocratica79, la legalità delle manomissioni in chiesa (manumissio in ecclesia)80, la legalità delle manomissioni a voce sul letto di morte del vescovo81, l’esenzione dagli obblighi curiali nell’inverno 312-313, estesa da Licinio all’intero Impero nel 313 – anche se poi egli stesso le cancellerà, fino alla reintroduzione di Costantino nel 324 –, sono alcune delle disposizioni legislative a favore del clero introdotte dall’imperatore cristiano. Costantino inoltre, credendo che le decisioni delle sinodi episcopali fossero divinamente ispirate, conferì ad esse un carattere normativo generale: «Ratificava anche le decisioni approvate dai vescovi nelle sinodi, così che non fosse lecito ai governatori delle province esimersi dall’attenersi alle deliberazioni prese, dal momento che i sacerdoti di Dio sono più autorevoli di qualsiasi magistrato» (Eus., v.C. IV 27,2).
Conferisce anche ai vescovi il diritto di essere giudicati dai loro pari, misura attestata esplicitamente nel 35582, ma la vicenda di Atanasio nel 330 mostra che essa era già in uso. Se condannato da una sinodo episcopale il vescovo veniva scomunicato e deposto, mentre l’imperatore lo esiliava in una regione periferica dell’Impero. Costantino, attraverso i vescovi metropolitani, fa pervenire alle chiese una serie di donazioni dalla cassa imperiale, come grano e articoli di vestiario per vedove e poveri. Altre misure ispirate dal cristianesimo sono i divieti di certe pene, come la crocefissione, pratica che peraltro viene sporadicamente testimoniata nella storia dell’Impero romano-orientale, e la marchiatura del volto del criminale condannato «quo facies, quae ad similitudinem pulchritudinis caelestis est figurata, minime maculetur»83. Abolisce la legislazione augustea contro il celibato, venendo incontro sia a un’aspirazione di lunga data dell’aristocrazia senatoria sia alla ricerca di ascetismo e astinenza sessuale che emerge nelle chiese cristiane. Costantino pone anche delle restrizioni sul divorzio unilaterale, possibile solo in condizioni estreme, avvelenamento, assassinio, violazione di sepolcro per i mariti; oppure adulterio, avvelenamento o conduzione di bordello per le mogli84. Ai giudei, in quanto «assassini del Signore», non è lecito avere potere su un cristiano, per cui nessun cristiano poteva essere schiavo di un giudeo. Costantino proibisce inoltre ai giudei di far circoncidere i loro schiavi non cristiani, di accogliere i convertiti al giudaismo e di impedire le conversioni di giudei al cristianesimo85.
Le grandi spese per la fondazione di Costantinopoli e per le elargizioni alle chiese, nonché l’edilizia monumentale, che Lattanzio aveva già rimproverato alla tetrarchia – «Huc accedebat infinita quaedam cupiditas aedificandi, non minor provinciarum exactio in exhibendis operariis et artificibus et plaustris, omnibus quaecumque sint fabricandis operibus necessaria»86 –, furono capitoli di una spesa molto elevata, cui si pone rimedio con la prassi della confisca dei beni mobili dei templi, di cui intanto si aboliscono anche i sacrifici. La confisca avviene attraverso il meccanismo legale dell’attribuzione alla res privata dei beni mobili di alcuni templi, secondo un programma che assumerà un lungo quadro temporale, da Costantino a Valentiniano (375-392)87. La res privata incamera i beni di natura pubblica, come quelli dei templi, ed eroga risorse e beni immobili alle ecclesiae. Queste misure di confisca non vanno confuse con la chiusura dei templi. Gioviano nel 36488 stabilisce la dotazione della res privata con tutti gli immobili dei templi. Costantino procede in primo luogo alla confisca dei metalli preziosi e delle statue di bronzo impiegate per il decoro urbano di Costantinopoli, dove il trasporto di monumenti e materiali prestigiosi dalle città del Mediterraneo e da Roma stessa materializza un’intenzione di appropriazione storica e di continuità, cioè di soppressione del tempo e dello spazio, nella perpetuità dell’Impero. Ma accanto alla linea ideologica della traslazione e appropriazione magica di Roma nella Nova Roma – trasferimento del centro ideale del potere e anche del vertice della gerarchia ecclesiastica – la cultura pagana nella sua ultima grande stagione di fioritura e tradizione filologica e i ceti urbani fanno sentire una loro linea di contestazione della monarchia assoluta, in quanto impoverimento del concerto delle città, singolarmente emergente in san Girolamo (ca. 347-419 o 420), nel suo rimpianto che l’abbellimento della Nuova Roma fosse avvenuto per mezzo della rapina di tutte le altre: «Costantinopoli venne dedicata con la spoliazione di quasi tutte le città»89. Il tema del declino delle città a causa della monarchia è la linea di Giuliano imperatore, di contestazione della monarchia costantiniana, esplicitata iconologicamente nell’appellativo di secunda, riservato a Costantinopoli.
Libanio nel 365, due anni dopo l’assassinio di Giuliano, sviluppa lucidamente tale linea di contestazione urbana di fronte alla gerarchia costantiniana, divoratrice di risorse pubbliche e private, che Giuliano aveva tentato di ristrutturare eliminando il parassitismo di corte90, gran parte della famelica burocrazia91 e i servizi segreti, gli ‘occhi del re’92, una classe di persone che addensava le ricchezze dell’Impero ai danni di privati e di città:
Si aggiravano qua e là, nemici di chi possedeva qualcosa di bello, come un cavallo, uno schiavo, un albero, un podere o un giardino: credevano infatti giusto che queste cose fossero di loro proprietà piuttosto che di chi le possedeva […]93Rendevano così gli altri poveri da ricchi e sé stessi ricchi da poveri […] Antiche città venivano saccheggiate e le loro bellezze, che avevano vinto il tempo, venivano trasportate per mare, per dare ad alcuni figli di lavandai case più splendide del palazzo imperiale94.
Un passo, questo, in cui la nostalgia per l’antichità e la bellezza «che avevano vinto il tempo» nel decoro urbano esplicita il senso di privazione della nuditas che Girolamo vede inflitta alle città dal farsi di Costantinopoli.
Costantino fa abbattere anche templi che davano problemi di ordine pubblico, due di Afrodite – uno ad Afaia e uno a Eliopoli di Fenicia – e uno di Asclepio ad Aigai. Si verifica insomma una spoliazione sistematica di templi e di statue di culto, inizialmente solo in Oriente: «Tollite securi, sacratissimi imperatores, ornamenta templorum, deos istos aut monetae ignis aut metallum coquat flamma, donaria universa ad utilitatem vestram dominiumque transferte. Post excidia templorum in maius dei estis virtute provecti»95. Il De rebus bellicis conferma la confisca dei tesori dei templi: «cum enim antiquitus aurum argentumque et lapidum pretiosorum magna vis in templis reposita ad publicum pervenisset, cunctorum dandi habendique cupiditates accendit»96.
Secondo Libanio, Costantino «ritenne per sé vantaggioso riconoscere un altro dio, per edificare la città che desiderava si servì delle ricchezze dei templi ma non abolì nulla del culto legale»97.
La requisizione dei beni mobili viene compiuta in pochi anni con l’intento ideologico di rendere disprezzabili gli idoli che non sanno difendersi e si lasciano derubare, ma anche con un intento economico.
L’intervento coercitivo dell’imperatore in materia ecclesiastica, derivante dal suo principis munus, funzione di principe «pro instituto meo ipsiusque principis munere»98, può essere accettato dalle chiese se d’altra parte è accompagnato da privilegi ed elargizioni, cioè da una condizione di favore. Si deve sottolineare la rinuncia nel 379 (secondo altri nel 376 o nel 383) da parte dell’imperatore Graziano (367-383) a esercitare le funzioni di pontifex maximus, sciogliendo il legame che univa la res publica alla religione tradizionale nella persona dell’imperatore. Con questo atto99 si distingue il legame tra ambito politico e ambito religioso: la medesima persona non presiede più al governo della res publica e alla religione, si pone un nuovo rapporto tra imperatore e sacerdotia, e comincia il processo di distinzione fra imperium e sacerdotium intesi come due realtà istituzionali distinte, che tendono in campi differenti, ma non separati, al bene dell’uomo.
Ben presto si avverte che l’alleanza troppo stretta tra Impero e Chiesa porta gravi pericoli. Alcuni pastori delle comunità cristiane percepiscono che la potenza imperiale è esposta alla tentazione di abusi nei confronti dell’organizzazione ecclesiastica. Il vescovo Lucifero di Cagliari100, avversario religioso dell’imperatore Costanzo II (337-361), bollerà quest’ultimo come preteso episcopus episcoporum. D’altra parte ci si rende conto per tempo che i privilegi di origine pubblica accordati ai vescovi nuocciono alla credibilità delle chiese. Girolamo scrive che, dal tempo in cui la Chiesa ha di fronte imperatori cristiani, essa è certamente cresciuta in potenza e in ricchezza, ma è diminuita in forza morale: «ecclesia potentia quidem et divitiis maior, sed virtutibus minor facta est» (Hier., vita Malchi 1).
Con la rinuncia di Graziano, il quale riconosce che altro è la potestà religiosa, altro la potestà terrena, e solo questa compete all’imperatore, la qualifica di pontifex maximus non figura più nei titoli imperiali. L’imperatore detiene la somma autorità terrena ed è in quest’ambito che può legiferare anche in materia di religione, ma, appunto, come principe e non in quanto autorità religiosa. Con Costantino e Licinio nel 313 ogni religione rientra nell’ordinamento giuridico statale, mentre la fondazione di Costantinopoli contribuisce a separare il centro della Chiesa (Roma) dal centro dell’Impero (Costantinopoli, Nuova Roma).
Per un imperatore del IV secolo, pagano o cristiano che sia, un compito inderogabile è costituito dalla definizione della funzione imperiale nei confronti della religione e dei culti riconosciuti come ufficiali, che erano parte integrante dell’Impero non solo in quanto struttura organizzata da regolare in vista dell’ordine pubblico, ma in quanto religio cioè rapporto con il divino, che assolve a una funzione indispensabile di tutela della civitas e che costituisce anche l’elemento essenziale della dignità imperiale e il fondamento della monarchia.
Giovanni Crisostomo, in un periodo di crisi con il potere centrale, asserisce la superiorità dello spirituale sul temporale e conseguentemente la superiorità del sacerdozio cristiano sull’Impero. Nella sua omelia XV sulla seconda epistola di S. Paolo ai Corinzi afferma:
C’è un altro tipo di governo ἀρχή più alto del governo civile. Qual è? È il governo che prevale nella Chiesa e Paolo lo menziona quando dice “obbedite ai vostri superiori e siate soggetti a loro” poiché essi stanno in guardia, in quanto uomini che debbono rendere conto della vostra anima [Hb 13,217]. Questo governo è superiore al governo civile ἀρχὴ πολιτική tanto quanto il paradiso è superiore alla terra; certo esso è molto più nobile. Poiché la sua cura più importante non è la punizione, ma la prevenzione del delitto. E se il delitto viene commesso, il governo spirituale è incline a far scomparire non il colpevole ma la sua colpa101.
Giovanni Crisostomo richiede ai responsabili spirituali la stessa qualità che i filosofi richiedevano ai loro governanti:
Sia che una persona entri nel governo civile, sia in quello spirituale, non può portare a termine la sua funzione in modo degno e onorevole se prima egli non sia a sufficienza padrone di sé stesso e non osservi con cura le leggi di ciascun governo. La funzione sacerdotale, superiore a quella dei prefetti, porta un onore più grande della porpora. La Chiesa non si occupa degli affari mondani ma guarda solo alle cose celesti. Il sacerdozio dovrebbe piuttosto chiamarsi paternità, poiché richiede la pazienza e l’amore di un padre che distoglie i figli dal male. Pertanto il governo spirituale è al livello dell’anima, il governo secolare è al livello del corpo102.
Le funzioni sacerdotali sono riservate ai sacerdoti, mentre i re hanno dei limiti103:
Rimani [o re] entro il tuo recinto. Il governo e il sacerdozio hanno ciascuno i loro limiti, anche se il sacerdozio è il più grande dei due. Un re non è stimato per ciò che si vede e non deve essere stimato sulla base dei gioielli e dell’oro che porta. Il suo territorio è l’amministrazione degli affari terreni, mentre la giurisdizione del sacerdozio è mutuata dall’alto […] I corpi sono affidati alla cura del re, le anime alla cura del sacerdote; il re rimette i debiti di valore terreno, il sacerdote i debiti del peccato. L’uno dispone di armi terrene, l’altro di armi spirituali […] e quest’ultimo dispone di un potere più grande. Perciò il re piega la sua testa alla mano del sacerdote e, nell’Antico Testamento, i re sono invariabilmente unti dai sacerdoti104. I re meritano rispetto a causa del loro ruolo, anche se non lo meritano, come Davide rispettava la dignità regia di Saul malgrado la sua ingiustizia105.
A Gerusalemme era esistita una stretta collaborazione fra imperium e sacerdotium106. Ma l’esperienza dei governi di Costanzo II e di Giuliano portava Giovanni Crisostomo a definire rigidamente i limiti dei due poteri, con precedenza conferita al sacerdozio.
Il contrasto fra vescovi ortodossi e potere imperiale portò a un cambiamento nel ruolo della basileia cristiana. Negli scritti di Atanasio si può cogliere questo mutamento di attitudine. Nel 341 Atanasio accetta l’intervento imperiale negli affari ecclesiastici e condivide la teoria dell’investitura divina dell’imperatore, supremo garante dell’ordine mondiale, e fino al 356-357 Atanasio riconosce le prerogative ecclesiastiche dell’imperatore come supremo giudice. Ma l’intervento dell’imperatore nelle questioni ecclesiastiche diventa problematico quando il potere sotto Costanzo II inclina apertamente verso l’arianesimo con le sue teorizzazioni di Dio Padre, cui sono subordinati Figlio e Spirito Santo, per l’evidente riflesso che questa teoria implica circa la figura dell’imperatore107. Nella sua Historia Arianorum ad monachos Atanasio attribuisce a Costanzo, relativamente alla sinodo di Milano (355), l’affermazione: «La mia volontà vale quanto un canone», di fronte all’obiezione dei vescovi che la procedura richiesta dall’imperatore per una seconda condanna di Atanasio non era canonica. Di fatto dopo il 357 nei suoi scritti De fuga sua (357) e Historia Arianorum (inizio 358) l’atteggiamento di Atanasio cambia: Costanzo non ha il diritto di giurisdizione sugli affari ecclesiastici come atheos ed eretico; usando le parole di Osio di Cordova afferma:
Non ti immischiare nelle questioni della Chiesa e non darci ordini su queste; piuttosto accogli le nostre istruzioni. Dio ti ha affidato l’imperium; a noi [vescovi] la Chiesa. Chiunque ti sottragga la sovranità offenderebbe la provvidenza di Dio; allo stesso modo, abbi paura che se tu sottomettessi a te la Chiesa tu ti renderesti responsabile di una grave infrazione. È scritto: “Rendi a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” [Mt 22,21]. Come noi non abbiamo la facoltà di governare il mondo, così tu non hai il potere di muovere l’incensiere108.
La stessa vicenda concettuale si ritrova nei comportamenti di Ilario di Poitiers, dall’atteggiamento sottomesso e devoto del 355 e 360109 all’aspra contestazione del 361110. La condotta offensiva di Lucifero di Cagliari, che spedisce la sua requisitoria all’imperatore stesso, induce Costanzo II ad accertare l’effettiva autenticità del testo, che lo fa segno di epiteti come mentitore, serpente, assassino, bestia, negatore del figlio di Dio, precursore dell’Anticristo, diavolo, limitandosi poi a spostare l’esilio del vescovo di Cagliari dalla civile Palestina alla più desertica Tebaide. I vescovi non accettano che l’imperatore, capo supremo e guida del popolo di Dio, sia diventato sostenitore dell’eresia, tanto che gli ariani lo avevano proclamato «episcopus episcoporum». Questa definizione è forse un tentativo di collocare la posizione dell’imperatore nella Chiesa. Se, infatti, ai tempi di Costantino la consonanza fra imperium e sacerdotium era stata piena, sotto Costanzo si determina un conflitto fra i due poteri che implica una ridefinizione del ruolo dell’imperatore. Costanzo sembra voler paragonare la posizione dell’imperatore nella Chiesa a quella dei dodici apostoli, dato che la costruzione del mausoleo imperiale della basilica dei Dodici Apostoli a Costantinopoli viene da una tradizione attribuita a Costanzo piuttosto che a Costantino. Rufino di Aquileia aggiunge due libri alla sua traduzione della Storia ecclesiastica di Eusebio, nei quali riferisce alcuni episodi fra cui quello per cui, di fronte alle lamentele di cui era stato chiamato a giudicare dai vescovi, Costantino avrebbe affermato nel concilio di Nicea:
Dio vi ha nominato vescovi e vi ha dato il potere di giudicare anche noi; e pertanto noi siamo a giusto titolo giudicati da voi; ma voi, comunque, non potete essere giudicati dagli uomini. Per questa ragione voi dovete aspettarvi il giudizio su di voi da Dio solo, e le vostre lamentele, quali che siano, dovrebbero essere riservate per quel giudizio divino111.
L’indebita attribuzione del fatto a Costantino e a Eusebio mostra l’atteggiamento del clero verso il potere imperiale nel V secolo. Giovanni Crisostomo, nelle omelie pronunciate ad Antiochia prima del 397 e a Costantinopoli prima del 404, giungerà ad affermare che la sepoltura degli imperatori lungo il vestibolo dei Dodici Apostoli dimostra che gli imperatori sono i portinai dei «pescatori» e «da queste posizioni essi possono mostrare ai non credenti che, al tempo della resurrezione, i pescatori hanno una grande preminenza»112. Sozomeno giunge ad affermare che le sepolture imperiali presso i Dodici Apostoli mostrano la dignità imperiale dei vescovi: «o piuttosto nei luoghi santi la dignità sacerdotale ha la precedenza»113, anche se peraltro l’unico vescovo sepolto – per traslazione – ai Dodici Apostoli fu Giovanni Crisostomo, morto nel 404 e successivamente traslato nella basilica delle sepolture imperiali nel 438 per disposizione di Teodosio II, quasi a sanatoria del conflitto fra il vescovo e la madre dell’imperatore avvenuto un quarantennio prima.
Costanzo II, educato nella fede cristiana fin dalla fanciullezza, in una costituzione dell’anno 361 afferma che si vanta della sua fede perché le religioni erano il miglior fondamento dell’Impero: «Gaudere enim et gloriari ex fide semper volumus, scientes magis religionibus quam officiis et labore corporis vel sudore nostram rem publicam contineri»114.
Perciò egli proibisce sacrifici pagani (341) in sede privata, raduni notturni (353) e in generale legifera contro maghi e astrologi115. La legislazione repressiva, con applicazione della tortura e della pena di morte anche per esponenti del ceto senatorio se condannati per le pratiche proibite, non si accorda né con lo spirito del cristianesimo né con la politica imperiale precedente, anche se fra legislazione e applicazione pratica si verifica una chiara sfasatura. Costanzo mantiene il titolo di pontifex maximus, non applica la pena capitale e, dopo la sua morte, viene innalzato dal Senato fra i divi, segno di approvazione da parte dell’ordine.
Non mancano cristiani eminenti nel IV secolo che auspicano la repressione legale del paganesimo, attribuendo alla funzione imperiale il compito di sopprimere le religioni false e il culto non cristiano. Giulio Firmico Materno, il senatore che aveva esordito come pagano, dopo la conversione nel suo De errore profanarum religionum, scritto fra il 346 e il 349, invita a bruciare i templi perché «l’onnipotente ti ha fatto imperatore per curare questa pestilenza»116: «bruciate le immagini e utilizzate i tesori per migliorare i vostri imperi»117, cosa invero che Costantino aveva già operato con la confisca dei tesori di alcuni templi.
Gli imperatori Gioviano (363-364), Valentiniano I (364-375, in Occidente) e Valente (364-378, in Oriente) sono tolleranti, mentre Graziano (367-383, in Occidente) e Teodosio il Grande (379-395 in Oriente, ma i due ultimi anni come imperatore unico) praticano l’intolleranza, come pure Ambrogio di Milano che vive sotto di lui118. Ambrogio peraltro contrasta le interpretazioni contrarie ai diritti personali delle professioni di fede diverse e si oppone alla pena di morte invocata dai vescovi per i priscillianisti119. Ambrogio è convinto che l’imperatore cristiano debba rifiutare ogni sostegno e ogni privilegio a pagani ed eretici120, mentre deve favorire la Chiesa. L’editto de fide catholica emesso a nome di Graziano e di Teodosio il Grande il 28 febbraio 380121 vieta la pratica dell’arianesimo anche se spesso viene interpretato in senso generale:
Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat […] Hanc legem sequentes christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes heretici dogmatis infamiam sustinere nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere122.
Ormai la difesa della libertà religiosa, postulata dal cosiddetto editto di Milano del 313, è invocata solo dagli ultimi oratori pagani123, come nell’orazione XII di Temistio: «voi sapete che non rientra nel potere dei governanti costringere i loro sudditi in tutto; ma che ci sono materie in cui essi non subiranno mai a nessun costo costrizione contro le loro volontà»124.
I cristiani comunque riconoscono i diritti fondamentali dell’imperatore in materia religiosa: convocare le sinodi e nominare i vescovi. Nella lettera a Gioviano i vescovi riconoscono all’imperatore il compito di promuovere la pace della Chiesa favorendo la condivisione della fede da parte di tutti125. Quando Aussenzio, il vescovo ariano di Milano, cerca l’appoggio imperiale, Ilario non discute il diritto di interferire da parte dell’imperatore, rimproverando soltanto Valentiniano per aver nominato una commissione formata da due dignitari laici e alcuni vescovi come assessori per decidere sulla concordanza nicena del credo di Aussenzio126. Con un decreto emesso a Milano nel 379127 Valentiniano mette al bando ogni eresia condannata da decreti imperiali precedenti. Come rappresentante di Dio l’imperatore deve mostrare ai sudditi la retta fede e il giusto culto. Nel 381 i vescovi radunati nel secondo concilio ecumenico a Costantinopoli si rivolgono a Teodosio I con queste parole:
Il nostro primo dovere nello scrivere alla vostra pietà è di ringraziare Dio per aver stabilito il vostro impero per la comune pace delle chiese e per la conferma della vera fede. Adempiuto questo dovere, noi dobbiamo esporre di fronte alla vostra pietà quello che è stato deciso in questo santo concilio […] Chiediamo pertanto alla vostra clemenza che lettere della vostra pietà ratifichino i decreti di questo concilio. Come onoraste la chiesa con la vostra lettera di convocazione, allo stesso modo conferite la vostra autorità alle nostre decisioni128.
Anche i vescovi occidentali condividono questo atteggiamento nella sinodo di Aquileia, nella sinodo romana del 382 e nella sinodo di Cartagine. La teoria è esposta nella lettera di Teodosio II (402-450) a Cirillo di Alessandria e ai vescovi riuniti a Efeso nel 431:
La stabilità dell’impero dipende dalla religione con cui noi onoriamo Dio […] Se la vera religione è osservata per la vita in tutta la purezza, l’impero fiorirà grazie alla prosperità di entrambi. Poiché Dio ci ha affidato le redini del governo e ci ha reso il tramite di pietà e di rettitudine per tutti i nostri sudditi, noi dobbiamo mantenere una indivisa unità fra loro e sorvegliare gli interessi sia di Dio sia degli uomini […] Soprattutto noi siamo ansiosi di creare condizioni ecclesiastiche tali da obbedire a Dio e beneficiare i nostri tempi, di modo che unanimità e concordia producano la pace e ci liberino dalle controversie ecclesiastiche, dalle ribellioni e dalle sedizioni, in modo che la nostra santa religione sia conosciuta da tutti e sia al sicuro da critiche, e che la vita di coloro che sono annoverati fra i chierici o che sono investiti dell’alta dignità del sacerdozio siano senza macchia e rimprovero129.
Relativamente ai compiti del suo rappresentante il domesticus Candidiano a Efeso afferma:
Egli è inviato con questo ordine e a questa condizione, che non si immischi con problemi e controversie circa i dogmi della fede (perché non è auspicabile che uno che non appartiene al corpo dei santi vescovi si immischi in problemi e discussioni ecclesiastiche). Ma egli deve cercare con ogni mezzo di allontanare dalla città qualsiasi monaco o laico che si sia raccolto là o che intenda farlo per curiosità; coloro che non sono richiesti per lo studio dei sacri dogmi non debbono poter creare fastidi od ostacoli nelle materie in cui le vostre santità sono in procinto di stabilire e definire130.
Papa Celestino nella sua risposta alle sollecitazioni imperiali esprime il suo pieno consenso al modo di procedere dell’imperatore che
In tal modo, voi state costantemente rafforzando il vostro governo, consapevole che la forza e la durata del vostro impero poggia sull’osservanza della nostra santa religione. La vostra clemenza dovrebbe essere più sollecita per la pace delle chiese che per la sicurezza dell’intero mondo. Se le cose care a Dio sono procurate in primo luogo, ogni prosperità segue […] Ogni cosa fatta per la pace delle chiese e per l’osservanza della santa religione è fatta per la salvezza del vostro imperium131.
Gli atti della sinodo dimostrano che entrambi i partiti in polemica a Efeso riconoscono il diritto dell’imperatore a convocarli e ciascun partito cerca di convincere l’imperatore della sua tesi. Teodosio II si pronuncia alla fine a favore degli ortodossi e condanna i nestoriani: «Noi crediamo che spetti alla nostra imperiale maestà illuminare i sudditi sui loro doveri religiosi»132.
Stesso atteggiamento è manifestato da papa, imperatore e padri della sinodo in occasione delle contese monofisite risolte a Calcedonia nel 451. Papa Leone I (440-461) nella sua lettera 24 a Teodosio II lascia intravedere che nel V secolo i cristiani attribuivano all’imperatore un’apparenza di potere sacerdotale: «La lettera che mi avete spedito dimostra quale conforto il Signore ha preparato per la sua Chiesa attraverso la fede della vostra clemenza. Ci dà gioia constatare in voi un’anima che è non solo regale ma anche sacerdotale»133.
Nella lettera a Marciano (450-457) e Pulcheria papa Leone loda il loro zelo sacerdotale accanto alla loro regale grandezza, e in una lettera del 457 espone la sua concezione della basileia e del dovere dell’imperatore di proteggere l’ortodossia:
Con la libertà della fede cattolica io ti esorto con fiducia ad associarti agli apostoli e ai profeti abbattendo con fermezza e respingendo coloro che hanno rinunciato al nome cristiano […] Poiché il Signore ha arricchito la tua clemenza con la grande luce del suo sacramento, devi con tutta sicurezza realizzare che il potere regale ti è stato dato non solo per governare il mondo, ma soprattutto a protezione della Chiesa [«regiam potestatem tibi non solum ad mundi regimen, sed maxime ad ecclesiae praesidium esse collata»] […] Poiché l’anima sacerdotale e apostolica della tua pietà dovrebbe scuotersi verso la giustizia della retribuzione spinta dal male che così disastrosamente contamina la purezza della Chiesa di Costantinopoli, dove alcuni chierici si trovano a favorire tesi ereticali e ad aiutare gli eretici con le loro asserzioni nel cuore stesso della comunità cattolica134.
Il papa conferisce all’imperatore il diritto di prendere misure disciplinari contro il clero; nel maggio 458 scrive all’imperatore Leone I (457-474) congratulandosi per aver rifiutato ai monofisiti alessandrini la revisione del concilio di Calcedonia: «La tua sempre crescente vigilanza mi ispira ammirazione per il tuo spirito sacerdotale»135. Questa considerazione viene poi ribadita con la valutazione di una sorta di infallibilità dell’imperatore in materia di fede: «io vedo che tu vieni edotto a sufficienza dallo spirito di Dio che alita in te, così che nessun errore può traviare la tua fede»136. Il papa sostiene in un’altra epistola che l’imperatore Leone I «non necessita di nessuna spiegazione umana poiché ha ricevuto la più pura delle fedi dalla presenza dello Spirito Santo»137. La coincidenza della fede fra papa e imperatore è solo un modo cortigiano di suggerire all’imperatore quale fede sostenere. Nondimeno si ricorre a metafore di carattere sacerdotale e si accetta un intervento giurisdizionale dell’imperatore in materia di fede.
Con Marciano e Pulcheria l’intervento ecclesiastico del potere imperiale viene circoscritto alla convocazione della sinodo, la cui presidenza è peraltro rivendicata dal papa per i suoi legati, anche se di fatto i lavori sono poi guidati dai rappresentanti imperiali. Tuttavia Marciano riconosce che le definizioni di fede esulano dall’autorità imperiale e sono compito specifico dei vescovi. I padri conciliari nella sesta riunione acclamano Marciano come nuovo Costantino e, fra gli altri titoli, augurano «molti anni all’imperatore sacerdote»138.
Fino alla metà del V secolo la relazione fra imperium e sacerdotium, malgrado le delusioni provocate dagli imperatori favorevoli agli eretici, segnano la posizione esclusiva del sacerdozio cristiano in materia sacramentale e dottrinale, anche se non sono mancati attriti che hanno segnato la storia del rapporto fra i due poteri. Il contrasto fra imperatore e vescovo esplode fra Ambrogio e Valentiniano II (375-392). Ambrogio aveva rifiutato di eseguire l’ordine imperiale di cedere agli ariani di Milano, sostenuti da Giustina, madre di Valentiano, la basilica Porzia, in base al principio che nell’Impero romano tutti i luoghi di culto appartengono all’imperatore:
Non ti appesantire, imperatore, pensando di avere un diritto imperiale su cose che sono divine; non ti esaltare, ma se desideri regnare per molti anni sottomettiti a Dio. È scritto: “Rendi a Dio quello che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”. I palazzi appartengono all’imperatore, e le chiese ai sacerdoti della Chiesa. Gli edifici pubblici sono sotto la tua cura, le costruzioni sacre no [...]. Quando hai sentito mai, pietoso imperatore, che in materia di fede i laici giudicarono un vescovo? Chi negherebbe che, in materia di fede – ripeto, in materia di fede – i vescovi giudicavano gli imperatori, non il contrario?139 […] L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa, e il buon imperatore non disdegna l’assistenza della Chiesa, egli la cerca140.
Questo è un rovesciamento del principio eusebiano dell’imperatore «Vicario di Dio» e quindi posto sopra la stessa Chiesa141. Lo stesso tono Ambrogio assume verso Teodosio I (379-395) quando questi ordina al vescovo di Callinicum di ricostruire una sinagoga incendiata e saccheggiata su sua istigazione:
«La preoccupazione per l’ordine ti muove, o imperatore: ma che cosa devi preferire, gli interessi dell’ordine o la causa della religione? È necessario che la censura ceda alla devozione»142.
Teodosio I, così interpellato in pubblico, lascia cadere la questione dell’assalto alla sinagoga. Nel 390 Ambrogio, quando è reso edotto del massacro dei settemila tessalonicesi per ordine di Teodosio I, costringe l’imperatore a una pubblica penitenza per ottenere il perdono di Dio143. Giovanni Crisostomo nel 382 descrive l’episodio, forse leggendario, di san Babila vescovo di Antiochia che nega l’ingresso in chiesa a un imperatore, forse Filippo l’Arabo, colpevole dell’uccisione di un innocente. Molto aspro è altresì lo scontro fra il vescovo di Costantinopoli e l’imperatrice Eudossia, paragonata a Gezebel144. Sozomeno e Teodoreto, nel descrivere lo scontro di Ambrogio con Teodosio I, delineano il quadro dell’imperatore ideale che, come Costantino, pone il suo potere al servizio della Chiesa e onora e rispetta i sacerdoti. Leone I viene salutato dai vescovi di Rodi, richiesti come gli altri vescovi di un parere sulle decisioni di Calcedonia: «auriga mundi et princeps totius mundi qui sub sole consistit, vere namque sacerdos et natura imperator existis»145.
Se si confrontano le risposte dei vescovi orientali e occidentali, si può constatare che all’imperatore vengono attribuite le medesime funzioni: assistere i vescovi nelle definizioni della fede, legalizzare le loro definizioni, rimuovere dalle loro sedi i vescovi discordanti, fermare gli eretici, mentre tutti manifestavano di credere al carattere sacerdotale dell’imperatore.
Trattandosi di un accordo a carattere in parte retorico e in parte strumentale, al primo insorgere di contrasti di interesse l’intesa fra i due poteri si incrina. Papa Simplicio (468-483), quando apprende che Basilisco (475-476) medita di abolire le decisioni di Calcedonia, invia una lunga epistola146 in cui ammonisce che il dovere dell’imperatore è difendere la fede definita dal concilio ortodosso e da papa Leone I. Invita l’imperatore a bandire gli eretici e a renderli innocui, ma gli vieta di convocare un’altra sinodo. Basilisco tuttavia fa approvare il suo Encyclicon monofisita da cinquecento vescovi riuniti a Efeso. Zenone (474-475, 476-491) ripristina, avuta ragione di Basilisco, l’autorità della sinodo di Calcedonia ottenendo le congratulazioni di papa Simplicio: «Ci rallegriamo nel vedere in te lo spirito di un sacerdote e principe rispettosissimo della fede»147. Nella sua corrispondenza Simplicio ribadisce più volte il dovere dell’imperatore di custodire l’ortodossia e proteggere la Chiesa. I vescovi eretici debbono essere privati della sede ed esiliati, mentre l’imperatore deve vigilare che essi vengano rimpiazzati da vescovi ortodossi.
Con l’Henotikon di Zenone e lo scisma di Acacio, patriarca di Costantinopoli, si giunge alla rottura fra imperium e sacerdotium. La pubblicazione dell’Henotikon viene considerata come una rottura del modus vivendi fra prassi ecclesiastiche e potere imperiale. Papa Felice III (II, 483-492) condanna Acacio e Pietro Mongo di Alessandria sulla base del concilio di Calcedonia. L’epistola del 484 afferma in maniera inconsueta:
È mia opinione che la tua pietà, che dovrebbe essere legata dalle tue leggi piuttosto che infrangerle, dovrebbe obbedire ai decreti del cielo, che tu sai che l’onore più alto fra gli uomini ti è stato conferito, dato che non dovresti esitare ad accettare le cose spirituali da coloro che le dispensano per incarico di Dio. Penso che sarebbe della massima utilità per te permettere che la Chiesa cattolica si governi secondo le sue proprie leggi e non consentire a nessuno di interferire nella libertà [della Chiesa] che ti ha restituito il potere del tuo regno. Sono sicuro che servirebbe i tuoi interessi adoperarti per sottomettere la tua volontà regale ai sacerdoti di Dio, piuttosto che dominarli ogni volta che gli interessi di Dio sono in gioco e la sua costituzione viene rispettata; apprendere le cose spirituali dai loro capi piuttosto che insegnare a loro; seguire la prassi della Chiesa piuttosto che imporre ad essa regole concepite in termini umani che debbono essere seguiti; non sopraffare le sanzioni di una Chiesa a cui Dio prega la tua clemenza di piegare il collo della tua pia devozione148.
Ma le riserve del papa lasciano il posto a lodi della vera fede dell’imperatore quando Zenone scrive a Felice III (II) raccomandando Flavita come successore di Acacio149. Felice III (II) accetta che l’imperatore scelga vescovi ed eserciti una missione ecclesiastica, ma a patto di non interferire in materia di fede. Le acclamazioni che accompagnano da parte del clero la lettura della missiva imperiale, testimoniate dagli ambasciatori di Zenone, confermano questo comune sentimento del clero occidentale:
egli [l’imperatore] non deve usurpare poteri contro l’ordine soprannaturale; poiché Dio ha stabilito che ciò che riguarda la chiesa deve essere nelle mani dei sacerdoti, non dei poteri secolari. Egli [l’imperatore] non deve pretendere diritti che non sono suoi né un ministero che appartiene ad altri150.
Il carattere sacerdotale dell’imperatore non viene ignorato del tutto151 e l’imperatore stesso è detto figlio della Chiesa, cioè subordinato alla Chiesa e al sacerdozio. Va peraltro rilevato che l’espressione di soggezione padre/figlio nei rapporti fra papa e imperatore romano-orientale entra a far parte del protocollo fin dal tempo di papa Leone il Grande.
Queste circostanze forniscono a Gelasio, già responsabile della cancelleria pontificia e poi papa egli stesso (492-496), l’occasione di rivendicare al papa una giurisdizione svincolata da delibere conciliari, di abbassare il rango gerarchico della sede di Costantinopoli e di negare all’imperatore il diritto di intervenire negli affari ecclesiastici. Gelasio, che nel 488 era semplicemente diacono, scrive ai vescovi orientali:
Se voi mi dite «Ma l’imperatore è universale», io potrei rispondere all’imperatore, senza volerlo offendere, che egli è un figlio e non un gerarca della Chiesa; in materia di religione gli conviene istruirsi e non insegnare; egli ha il privilegio del potere [potestas] che ha ricevuto da Dio per amministrare gli affari pubblici; ma si guardi, non accontentandosi dei privilegi ricevuti, dal nulla usurpare, che sia contrario alle disposizioni dell’ordine celeste. Poiché Dio ha voluto che il compito di dirigere la Chiesa spetti ai vescovi e non ai poteri del mondo. Se questi poteri sono esercitati da cristiani, Dio ha voluto che essi fossero sottomessi alla sua Chiesa e ai sacerdoti152.
La teoria della supremazia della Chiesa in materia di religione, con il corollario della sottomissione dei laici ai sacerdoti, viene formulata da papa Gelasio nel 494 in una lettera inviata all’imperatore Anastasio (491-518):
Due sono i princìpi, imperatore augusto, da cui il mondo è fondamentalmente governato: l’autorità sacra dei pontefici e la podestà regale [auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas]. E fra i due, i sacerdoti hanno un compito tanto più pesante perché essi dovranno rendere conto davanti a Dio anche per sé stessi. Tu sai, figlio clementissimo, che anche se per la tua dignità tu sei a capo del genere umano, tu pieghi piamente la nuca davanti ai gerarchi incaricati delle cose divine, ed è da loro che tu attendi i mezzi per essere salvato […] per conseguenza, per tutto questo, tu dipendi dal giudizio [dei vescovi] e non puoi pretendere di ridurli alla tua volontà. Se, in effetti, per ciò che concerne le regole dell’ordine pubblico, i capi religiosi sono consapevoli che l’impero ti è stato dato per una disposizione dall’alto e obbediscono anch’essi alle tue leggi, non volendo, negli affari di questo mondo, mostrare di andare contro le tue decisioni irrevocabili, con che animo non bisogna, io ti prego, obbedire a coloro che sono incaricati di distribuire i venerabili misteri?153
La confusione dei due poteri sotto l’impero pagano, che faceva dell’imperatore un pontifex maximus, è stata definitivamente risolta con la venuta del Cristo, «cosicché gli imperatori cristiani hanno bisogno dei pontefici per la vita eterna e i pontefici si conformano alle disposizioni imperiali per il corso delle cose temporali»154.
La distinzione fra auctoritas sacrata e regalis potestas pone i due poteri a livelli differenti e in un certo senso può costituire la base di un’eventuale teocrazia155, secondo interpretazioni più tardive, che forse non si addicono realmente all’abilità retorica di Gelasio, come Dagron, ereditando una tesi di Stein, tende a sostenere, sottolineando che in Oriente non si trassero le conclusioni proprie dell’Occidente, come mostra la novella 6 del Codice Giustinianeo che formula la συμφωνία dei due poteri. Gelasio comunque conosce la distinzione romana fra auctoritas e potestas, e la usa consapevolmente, anche se essa in realtà non è estranea agli scrittori cristiani precedenti. Il prestigio morale dell’auctoritas è superiore a quello della potestas, ma il potere effettivo spetta alla potestas, cui è conferito l’imperium, esercitato in materia ecclesiastica su avviso e richiesta della Chiesa. Questa tradizione giuridica romana doveva essere chiara a Bisanzio, alla fine del V secolo.
Secondo Gelasio, ai sacerdoti spetta il diritto esclusivo di somministrare i sacramenti e celebrare la liturgia; la novità è il contrasto fra i due poteri e l’affermazione che il mondo è retto da entrambi i princìpi, che Cristo, re e pontefice come Melchisedech, ebbe a separare156.
Il successore di Gelasio, papa Anastasio II (496-498), torna nelle lettere al vecchio stile, riconoscendo all’imperatore il ruolo di vicario di Dio nel mondo: «ut per instantiam vestram, quam velut vicarius Dei praesidere iussit in terris, evangelicis apostolicisque praeceptis non dura superbia resistatur, sed per obedientiam, quae sunt salutifera compleantur»157.
Il dissenso antimperiale del cristianesimo siriano, manifestato nel corso del V secolo, era ancora lontano dalla sua pratica realizzazione politica158.
1 Si veda l’analisi dei seminummi bronzei del 332 a Costantinopoli in S. Calderone, Costantinopoli: la “seconda Roma”, in Storia di Roma, III, L’età tardoantica, 1, Crisi e trasformazioni, Torino 1993, pp. 747-748, e alle pp. 737-738, dove mette in discussione la validità storica della tesi di F. Dölger (Romgedanke in der Gedankenwelt der Byzantiner, in Id., Byzanz und die europäischen Staatenwelt, Ettal 1953, rist. Darmstadt 1964, pp. 82-83) per cui non si può parlare di un uso corrente di ‘Nuova Roma’ prima del concilio del 381; inoltre S. Calderone, Costantinopoli: la “seconda Roma”, cit., pp. 736-739; G. Bühl, Constantinopolis: Das Neue Rom im Gewand des Alten, in Innovation in der Spätantike, hrsg. von B. Brenk, Wiesbaden 1996, pp. 115-136, versione più breve del suo volume Id., Constantinopolis und Roma. Stadtpersonifikationen der Spätantike, Zürich 1995. Cfr. anche la scheda di A.M. Liberati sul dittico del 470 circa con Roma e Costantinopoli in Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana, guida alla mostra a cura di S. Ensoli, E. La Rocca, Roma 2001, pp. 427-428 e le iconografie in E. Lo Cascio, La monetazione, in Aurea Roma, cit., pp. 337-341 e schede nn. 221-233, pp. 564-568. La tesi di Calderone è in contrasto con quello che afferma, senza sfumature cronologiche circa l’evoluzione del concetto nel corso del secolo IV, B. Croke, Reinventing Constantinople: Theodosius I’s imprint on the imperial city, in From the Tetrarchs to the Theodosians. Later Roman History and Culture, 284-450 CE, ed. by S. McGill, C. Sogno, E. Watts, (Yale Classical Studies 34), Cambridge 2010, pp. 241-264, p. 241.
2 Salustio, Sugli dei e il mondo, (Σαλουστίου φιλοσόφου Περὶ θεῶν), a cura di R. Di Giuseppe, Milano 2000; Al. Cameron, The last Pagans of Rome, Oxford-New York etc. 2011, pp. 445 segg., conosce un Sallustius emendatore di Apuleio nella seconda metà del IV secolo a Roma e Costantinopoli, e un prefetto di Roma dello stesso periodo: poiché sono personaggi attivi circa mezzo secolo dopo il nostro, sono da considerarsi omonimi, sia pure partecipi della medesima mentalità e cultura, almeno nel caso dell’emendatore.
3 CIL, VI, 1764.
4 Salustio, Sugli dei e il mondo, cit., pp. 132-135.
5 Cfr. A.M. Orselli, Antica e Nuova Roma nella storiografia del primo Medioevo latino. Isidoro e Beda, in ‘Da Roma alla Terza Roma’, Studi. Atti del III Seminario internazionale di studi storici, III, Napoli 1986.
6 Conciliorum oecumenicorum decreta, curantibus J. Alberigo, J. A. Dossetti, P.-P. Joannou et al., consultante H. Jedin, Bologna 1973, p. 32.
7 «Con Roma si deve intendere non solo la antica, ma anche la nostra sede imperiale, che con il favore di Dio è stata fondata con più fausti auspicii» (Iustiniani Augusti, Digesta seu Pandectae, testo e traduzione a cura di S. Schipani, Milano 2005, pp. 23-28, in partic. p. 27).
8 A. Carile, Teologia politica bizantina, Spoleto 2008, in partic. 179-198 (Il mito di Costantino in Niceforo Gregora); Nicephori Gregorae, Vita Constantini, ed. P.A.M. Leone, Catania 1994, p. IX; cfr. Nicephori Gregorae, Epistulae, ed. P.A.M. Leone, II, Matino 1982, pp. 3-6; A. Linder, The Myth of Constantine the Great in the West: Sources and Hagiographic Commemoration, in Studi Medievali, 16 (1975), pp. 43-95, rist. separatamente a Spoleto nel 1987, fondamento del saggio di A. Kazhdan, “Constantin imaginaire”. Byzantine Legends of the Ninth Century about Constantine the Great, in Byzantion, 57 (1987), pp. 196-250, il cui titolo è ispirato dalla Constantinople imaginaire di Gilbert Dagron (Paris, 1984), cui viene in certo modo reso omaggio attraverso il titolo, mentre Linder è oggetto di una sola citazione negativa in nota 92 a p. 211, che non rende giustizia all’importanza del saggio, su cui è nato quello di Kazhdan stesso, a sua volta fondamento dei contributi di Scott (che ignora il Linder) e di Markopoulos in New Constantines. The Rhythm of imperial Renewal in Byzantium, 4th-13th Centuries, Papers from the Twenty-sixth Spring Symposium of Byzantine Studies, St Andrews, March 1992, ed. by P. Magdalino, Aldershot 1994, pp. 57-71 e 159-170. Markopoulos utilizza invece Linder, note 2 e 9. A. Kazhdan, “Constantin imaginaire”, cit., pp. 196-250, in partic. p. 213; sull’autorità riconosciuta ad Eusebio dagli iconoclasti e sulla sua condanna al concilio iconodulo del 787 cfr. p. 247. Costantino V, assertore di spietata energia dell’autorità imperiale nonché generale valoroso e fortunato, odiato dalla storiografia iconodula per la sua politica iconoclastica, mostra nella sua titolatura i tratti di un’ideologia imperiale che accentua il trionfo guerresco e la gloria bellica. L’articolato repertorio delle formule antiche connesse con il culto imperiale consentiva l’impiego di un formulario, suggestivo per il suo alone antiquario, al fine di proporre temi ideologici di attualità, in questo caso il ruolo dell’autocrazia imperiale, della guerra e della gerarchia nella definizione di un modello di vita attiva, in stretta relazione con la politica iconoclastica che, secondo l’intuizione di Ladner, tendeva a rimpiazzare nell’arte la civitas Dei con la iconografia tradizionalmente riferita al culto imperiale. G.B. Ladner, The Concept of the Image in the Greek Fathers and the byzantine Iconoclastic Controversy, in Dumbarton Oaks Papers, 7 (1953), pp. 1-34, ora in Id., Images and Ideas in the Middle Ages. Selected Studies in History and Art, I (Storia e Letteratura. Raccolta di Studi e Testi, 155), Roma 1983, pp. 73-111, e Id., Origin and Significance of the byzantine Iconoclastic Controversy, in Medieval Studies, 2 (1940), pp. 127-149, ora in Id., Images and Ideas in the Middle Ages, cit., pp. 37-44; L. Brubacker, To legitimize an emperor: Constantine and visual authority in the eighth and ninth centuries, in New Constantines, cit., pp. 139-158, e A. Markopoulos, Constantine the Great in Macedonian historiography: models and approaches, ivi, pp. 159-170, in partic. 162-163; Liutpr., Antap., I 7, cfr. A. Markopoulos, Constantine the Great, cit., p. 165, n. 39.
9 H.-G. Beck, Konstantinopel – das Neue Rom, in Gymnasium. Zeitschrift für Kultur der Antike und Humanistische Bildung, 71 (1964), pp. 166-174, in partic. 167, 168-169. Lo stesso concetto esprime Dölger, Romgedanke in der Gedankenwelt, cit., pp. 70-71. Cfr. anche J. Petersohn, G. Schmalzbauer, P. Nitsche, Romidee, in Lexikon des Mittelalters, VII, München 1995, cc. 1007-1010; G. Dagron, Rome et l’Italie vues de Byzance (IV-VII siècles), in Bisanzio, Roma e l’Italia nell’alto Medioevo, XXXIV Settimana di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 3-9 aprile 1986), 2 voll., Spoleto 1988, I, pp. 65-72; W. Hammer, The concept of the New or Second Rome in the Middle Ages, in Speculum, XIX, 1 (1944), pp. 50-62, è in prospettiva occidentale. Ma si veda anche S. Calderone, Costantinopoli: la “seconda Roma”, cit., pp. 736-739, e, in particolare per la questione dell’aeternum nomen (Costantinopoli, Nuova Roma oppure il nome magico di Anthousa?), ivi, p. 738.
10 D. Lassandro, Sacratissimus Imperator. L’immagine del princeps nell’oratoria tardoantica, Quaderni di ‘Invigilata lucernis’, 8, Bari 2000. Il senatore Giulio Firmico Materno, dopo la sua conversione al cristianesimo nel 346-350, usa il qualificativo sacrosanctus, sacratissimus, sanctus, cfr. err., 13,1; 17,1.
11 I. Gradel, Emperor Worship and Roman Religion, Oxford 2002, pp. 213-250.
12 Rm 13,1-8a.
13 At 22,26.
14 L. Padovese, Il problema della politica nelle prime comunità cristiane, Casale Monferrato 1998, pp. 110-126.
15 R.E. Brown, J.P. Meier, Antiochia e Roma. Chiese madri della cattolicità antica, Assisi 1987, pp. 158-159.
16 1 Pt 2,13-17.
17 1 Pt 2,17. L. Padovese, cit., pp. 126-133.
18 Ap 18,4.
19 Ap 1,5.
20 Ap 14,4b.
21 Ap 13,2.
22 Ap 13,7.
23 Ap 20,1-6.
24 L. Padovese, Il problema della politica, cit., pp. 133-147.
25 Eus., h.e. X 5,4. Die Kirchengeschichte 1-3, hrsg. von E. Schwartz, T. Mommsen, 2. Auflage von F. Winkelmann, GCS N.F. 6/1-3, Eusebius Werke 2/1-3, Berlin 1999.
26 Lact., mort. pers., Die Todesarten der Vervolger, Lateinisch Deutsch, übersetzt und eingeleitet von A. Städele, Fontes Christiani 43, Turnhout 2003, 34, 1-4, pp. 180-182.
27 Eus., h.e. VIII 17,3-10.
28 Lact., mort. pers., cit., 34,2.
29 Il proconsole Vigellio Saturnino rivolgendosi ai cristiani afferma: «Potestis indulgentiam domini nostri imperatoris promereri si ad bonam mentem redeatis» (Acta Sanctorum Scillitanorum, 1).
30 Pliny’s Praise. The Panegyricus in the Roman World, ed. by P. Roche, Cambridge 2011. Giustino, nella prima Apologia (13,4), riferisce l’opinione dei pagani che evidenziano la follia, mania, dei cristiani. Mira stultitia et incredibilis audacia il pagano Cecilio attribuisce ai cristiani nell’Octavius di Minucio Felice (8,5) (II-III secolo, forse il più antico scritto apologetico cristiano in latino), mentre Marco Aurelio nei suoi Pensieri (XI 2) mette in luce la loro ψυλὴ παράταξις cioè «mera ostinazione». Tertulliano (150-230) nell’Apologeticum (27,2) ricorda che i pagani ritengono pazzia (dementia) il preferire la obstinatio alla salvezza della vita.
31 Arist., Pol. III 8,1284B.
32 Ph., de decalogo, 12,51; 29,155; Ph., de specialibus legibus, II 38,224; 47,256; Ph., de virtutibus, 39,220; Ph., Quis rerum divinarum heres, 35,169. Dio è il μέγας βασιλεύς, titolo regale persiano, cfr. Ph., de vita Mosis, 88; Ph., de plantatione, 8,33; Ph., de somniis, I 22,140; Ph. de decalogo, 13,61; 33,178.
33 Lact., epit. I 3; H. Jaeger, La doctrine biblique et patristique sur la royauté face aux institutions monarchiques hélleniques et romains, Recueil de la Societé Jean Bodin, XIVe Session, Toulouse 1960.
34 Lact., epit. V, 19; VI, 8; VII, 27.
35 Ivi, IV 17.
36 Ivi, IV 25.
37 D. Lassandro, Sacratissimus Imperator, cit., pp. 91-102.
38 Lact., epit. VII 27.
39 H. Berkhof, Die Theologie des Eusebius von Cäsarea, Amsterdam 1939, p. 82: «In Jahre 313 hat die christliche Kirche im tieferen Sinn nicht gesiegt, sondern verloren. Denn sie tratt an die Stelle der Alten Staatsreligion und musste gegen ihren Willen und ohne Dank die Charakter dieser Staatsreligion annehmen. Sie wurde eine Funktion des Staatslebens und ihre Glaube enthartete zu einem äusserlichen, allgemein pflichtigen kultischer Akt».
40 Eus., d.e. III 2,37; GCS Eusebius Werke 6, hrsg von I.A. Heikel, Leipzig 1913.
41 Eus., d.e. VIII.
42 Mich 4,4.
43 Eus., d.e. VIII 3.
44 Eus., l.C. 2; La théologie politique de l’Empire chrétien. Louanges de Constantin (Triakontaétérikos), éd. et trad. par P. Maraval, Paris 2001.
45 Eus., l.C. 2, GCS 7, e in PG 20 c. 1328.
46 Ivi, 3, GCS 7, e in PG 20 c. 1329. Per la coincidenza concettuale fra Eusebio, cristiano, e Temistio, pagano, cfr. F. Dvornik, Early Christian and Byzantine Political Philosophy. Origins and Background, II, Washington 1966, pp. 622-628. I codici di comunicazione tardoantichi tendono a omologarsi pur partendo da diversi principi. Cfr. G. Fowden, Empire to Commonwealth. Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1993, pp. 85-86, 87-88.
47 Ps. Aug., quaest. test. 71, 1, CSEL, 50, p. 123.
48 Ivi, 35, p. 63.
49 Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL, 26, p. 206; F. Dvornik, Early Christian, cit., II, p. 635.
50 F. Dvornik, Early Christian, cit., II, p. 637; I. Biliarsky, Ius et ritus: Rechtshistorische Abhandlungen über Ritus, Macht und Recht, Sofia 2000.
51 K.M. Girardet, Kaisertum, Religionspolitik und das Recht von Staat und Kirche in der Spätantike, Bonn 2009, p. 78.
52 Ivi, pp. 79-83.
53 Dig. I 1,1,2.
54 «Il diritto pubblico è quello che riguarda il modo di essere della cosa pubblica romana […] Il diritto pubblico consiste negli istituti del diritto sacro, nei sacerdoti, nelle magistrature» (Iustiniani Augusti, Digesta seu Pandectae, cit., p. 77).
55 Di opposta opinione F. Dvornik, Early Christian, cit., II, p. 637.
56 Al. Cameron, The last Pagans, cit., pp. 54-55.
57 Epistula Constantini ad episcopos catholicos, CSEL, 36 (Appendix 5), p. 204.
58 R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea: la prima teologia politica del Cristianesimo, Zürich 1966, p. 236. Antecedenti storiografici sono stati E. Schwartz, Kaiser Constantin und die christliche Kirche, Leipzig 1913; H. Kraft, Kaiser Konstantins religiöse Entwicklung, Beiträge zur historische Forschung, 20, Tübingen 1955; J. Bardill, Constantine, divine Emperor of the Christian Golden Age, Cambridge 2011.
59 G. Dagron, Empereur et prêtre. Etude sur le «césaropapisme» byzantin, Paris 1996, p. 17.
60 R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano, cit., p. 238.
61 Ivi, p. 239.
62 Eus., v.C. I 44,1.
63 R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano, cit., p. 240.
64 Ivi, p. 247. N.H. Baynes, Constantine the Great and the Christian Church, London 1930; B. Green, Christianity in Ancient Rome. The First Three Centuries, London-New York 2010; Ch.M. Odahl, Constantine and the Christian Empire, London-New York 2004. Si veda la raccolta di fonti tradotte Quellenforschung zur Religionspolitik Konstantins des Grossen, übersetzt und hrsg. von V. Keil, Darmstadt 1989; Th.G. Elliott, The Christianity of Constantine the Great, Scranton (PA) 1966.
65 Lact., mort. pers.: «debebunt deum suum orare pro salute nostra et rei publicae ac sua, ut undique res publica perstetur incolumis».
66 Eus., v.C. III 21,4; IV 14,2; C. Dupront, Les privilèges des clercs sou Constantin, in Revue d’Histoire Ecclésiastique, 62 (1967), pp. 729-752; F. Vittinghoff, Staat, Kirche und Dynast beim Tod Konstantins, in L’Église et l’Empire au IVe siècle, Entretiens 34, Genève 1989, pp. 1-34, in partic. 14-15.
67 Veg., mil. II 5. Atteggiamento non diverso nel pur critico Anonimo, Le cose della guerra, a cura di A. Giardina, Milano 1989, databile al IV secolo, dopo la morte di Costantino e prima del disastro di Adrianopoli, cfr. pp. XXXVII-XXXVIII; C. Allmand, The de re militari of Vegetius. The Reception, Transmission and Legacy of the Roman Text in the Middle Ages, Cambridge 2011.
68 Si veda la sottile analisi del lessico della sinodalità, che dissente dalla categorizzazione invalsa delle sinodi, di D. Dainese, Συνέρχομαι συγκρότησις σύνοδος. Tre diversi usi della denominazione, in Cristianesimo nella Storia, 32 (2011), pp. 875-943, che vede nella rete sinodale contro le eresie la emergenza di dinamiche di accentramento autoritario e di vertice che progressivamente si estenderanno ai rapporti fra Chiesa e Impero.
69 Eus., v.C. III 13 (GCS 7; PG 20, c. 1069).
70 F. Dvornik, Early Christian, cit., II, pp. 641-642.
71 Eus., v.C. III 20 (GCS 7; PG 20, c. 1080). Cfr. Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco, Milano 2009, p. 273.
72 Eb 5,5-10; 6,20; 7; 9,11.
73 K.M. Girardet, Kaisertum, Religionspolitik, cit., pp. 127-128.
74 F. Dvornik, Early Christian, cit., II, p. 645.
75 D. Treitinger, Die oströmische Kaiser- und Reichsidee, Jena 1938, pp. 136-140, per le funzioni elencate in Costantino Porfirogenito. Sulle prediche imperiali cfr. Eus., v.C. IV 29. Per le prediche di Leone VI cfr. G. Dagron, L’Église et l’État (milieu IXe-fin Xe siècle). Le chrystianisme byzantin du VIIe au milieu du XIe siècle, in Histoire du chrystianisme des origines à nos jours, IV, Eveques, moines et empereurs (610-1054), dir. par G. Dagron, P. Riché, A. Vauchez, Paris 1993, p. 186 (trad. it. Vescovi, monaci e imperatori (610-1054), Roma 1999) Les lais religeuses des empereurs romains de Constantin à Theodose II, II, Paris 2009, sch n. 351, pp. 196 e 197.
76 F. Dvornik, Early Christian, cit., II, p. 654.
77 Cod. Theod. XV 4,1.
78 «Anche le immagini esposte durante i giochi dimostrino che vigono solo negli animi e nel segreto della mente il nostro nume e le lodi; una venerazione superiore alla dignità umana sia riservata al nume superno» (F. Dvornik, Early Christian, cit., II, pp. 654-655).
79 Cod. Iust. III 12,2 (3 marzo 321). A. Di Berardino, La cristianizzazione del tempo nei secoli IV-V: la domenica, in Augustinianum, 42 (2002), pp. 97-125; I. Tantillo, L’impero della luce. Riflessioni su Costantino e il sole, in MEFRA, 115 (2003), pp. 985-1048; J. Rüpke, Kalendar und Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und religiösen Qualifikation von Zeit in Rom, Berlin 1995, pp. 462-471; K.M. Girardet, Kaisertum, Religionspolitik, cit., pp. 177-215.
80 T. Barnes, Constantine: Dinasty and Power in the Later Roman Empire, Malden (MA) Chichester 2011, p. 134.
81 Cod. Theod. IV 22,2; Cod. Ius. I 13,2; T. Barnes, Constantine: Dinasty and Power, cit., pp. 311-312 n. 76.
82 Cod. Theod. XVI 2,12; Les lois religieuses, Les lais religeuses des empereurs romains de Constantin à Théodose II, I, Code Théodosien XVI, Paris 2005, pp. 142, 144 e pp. 143, 145.
83 Cod. Theod. IX 40,2; Les lois religieuses, II, cit., pp. 196 e 197.
84 Cod. Theod. III, 16, 1; Les lois religieuses, II, cit., pp. 64, 66 e 65, 67.
85 Cod. Theod. XVI 8,6; Les lois religieuses, I, cit., pp. 376, 378 e 377, 379; T. Barnes, Constantine: Dinasty and Power, cit., p. 138; Cod. Theod. XVI 8,1 e 5; Les lois religieuses, I, cit., pp. 368, 369 e 376, 377.
86 «A questo si aggiungeva una sorta di sconfinata bramosia di costruire, una non minor fiscalità a danno delle province nella richiesta di fornire operai, artefici e carri, ogni sorta di prestazione indispensabile per la costruzione di ogni genere di edificio» (Lact., mort. pers. 7,8).
87 G. Bonamente, Sulla confisca dei beni mobili dei templi di epoca costantiniana, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), I, a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992, pp. 171-201.
88 Cod. Theod. X 1,8; Les lois religieuses, II, cit., pp. 226 e 227.
89 «Constantinopolis dedicatur omnium paene urbium nuditate» (Hier., chron. a. Abr. 334). Sulla fioritura dell’alta cultura pagana e sulla passione filologica dei suoi cultori cfr. ad esempio il saggio di R. Di Giuseppe, Sugli dei, il mondo e gli affari umani, in Salustio, Sugli dei e il mondo, cit., pp. 11-63, che coglie fervidamente, in chiave antropologica, il dramma del trapasso culturale attorno al IV secolo romano.
90 Libanii Opera, rec. R. Förster, II, Orationes XII-XXV, Lipsiae 1904, 237,14-238,2; 291,16-17; cfr. anche la traduzione in italiano; con commentario Libanio, Epitafio per Giuliano (Orazione XVIII), a cura di S. Angiolani, Perugia 2000, p. 65.
91 Lib., Opera, cit., 131, p. 292,6; Lib., Or. 18, cit., p. 66.
92 Lib., Opera, cit., 140, p. 296,4; Lib., Or. 18, cit., p. 68.
93 Lib., Opera, cit., 132, p. 293,5-7; Lib., Or. 18, cit., p. 66.
94 Lib., Opera, cit., p. 242,9; Lib., Or. 18, cit.
95 «Prendete senza timore, santissimi imperatori, gli ornamenti dei templi, questi dei fonda la fiamma della zecca o il magma metallico, tutti gli ex voto convertite a vantaggio vostro e dell’impero. Dopo la rovina dei templi voi siete progrediti di più per la potenza di Dio» (Firm., err. 28,6).
96 «Quando l’oro, l’argento e la grande quantità di pietre preziose che da epoca remota erano depositati presso i templi raggiunsero il pubblico, si accese in tutti la cupidigia di spendere e di acquisire» (Anonimo, Le cose della guerra, cit., de rebus bellicis, 2,2, pp. 12 e 13).
97 Lib., Or. 30,6.
98 K.M. Girardet, Kaisertum, Religionspolitik, cit., pp. 79-83; E.L. Grasmück, Coercitio. Staat und Kirche im Donatistenstreit, Bonn 1964.
99 Cfr. qui le note 55 e 56, con il diverso e problematico parere di Cameron.
100 Cfr. Lucif., moriend. 13, CSEL, 14, p. 311.
101 Chrys., hom. in 2 Cor. 14,4, PG 61, c. 507 segg.
102 Ivi, cc. 508.
103 Chrys., In Oziam, Sermo II, PG 54, c. 648; Ecloga de imperio, PG 63, c. 697.
104 Chrys., stat. 3, PG 63, c. 50.
105 Chrys., Anna 2, PG 54, c. 648; Ecloga de imperio, PG 63, c. 697.
106 Chrys., exp. in Ps. 121, PG 55, c. 349.
107 Athanasius, Contra gentes, 38, PG 25, c. 76; F. Dvornik, Early Christian, cit., pp. 730-738.
108 Athanasius, h. Ar. 33, PG 25, c. 732.
109 Athanasius, h. Ar. 44, PG 25, cc. 744-745.
110 Hil., ad Const. 1,1, PL 10, c. 557.
111 Rufin., hist. I 2, PL 21, c. 458.
112 Chrys., hom. in 2 Cor. 26,5, PG 61, c. 582. In generale si veda G.H. Williams, Christology and Church-State Relations in the fourth Century, in ChH 20/3 (1951), pp. 3-33, e 20/4 (1951), pp. 3-20.
113 Soz., h.e. II 34, PG 67, c. 1032.
114 «Vogliamo sempre rallegrarci ed essere glorificati per la fede, perché sappiamo che il nostro impero si mantiene più per le pratiche religiose che per la burocrazia o la fatica fisica e il sudore» (Cod. Theod. XVI 2,16). Non compare nel citato Les lois religieuses, II.
115 Cod. Theod. XVI 10,2-5; Les lois religieuses, cit., I, pp. 428-435; XVI 6,7; Les lois religieuses, pp. 354-356; IX 16, 1-6; Les lois religieuses, II, cit., pp. 134-147.
116 Firm., err., CSEL, 2, p. 100.
117 Ivi, 28,6; H. Berkhof, Die Theologie, cit., p. 87.
118 J. Mesot, Die Heidenbekehrung bei Ambrosius von Mailand, Schönen-Beckenried 1958.
119 Ambr., epist. 26, PL 16, cc. 10-11.
120 Ambr., epist. 40, 46, PL 16, cc. 1148-1149.
121 Cod. Theod. XVI 1-2; Les lois religieuses, cit., I, pp. 114-115.
122 «Vogliamo che tutti i popoli retti dal governo della nostra clemenza pratichino la religione trasmessa ai romani dal divino apostolo Pietro tale quale si manifesta fino al presente la religione che ha insegnato […] Ordiniamo che quelli che seguono questa legge siano riuniti sotto il nome di cristiani cattolici; quanto agli altri, ritenendoli insensati e folli, debbono sopportare l’infamia di una dottrina eretica e le loro riunioni non debbono ricevere il nome di chiese».
123 Al. Cameron, The last Pagans, cit., pp. 477 segg.
124 Them., Or. 12.
125 Soc., h.e., III 25, PG 67, cc. 452-453; Soz., h.e. VI 4, PG 67, cc. 1300 segg.
126 Hil., c. Aux., PL 10, cc. 609-618.
127 Cod. Theod. XVI 5,5; Les lois religieuses, I, cit., pp. 232-235.
128 Mansi, 3, c. 557.
129 Ivi, IV, cc. 1112-1113.
130 Ivi, IV, c. 1120.
131 Ivi, IV, c. 1291.
132 Ivi, V, c. 417.
133 Ivi, V, c. 1241 (ep. 24); ACO II 4, p. 3 (ep. 2); G. Dagron, Empereur et prêtre. Etude sur le ‘césaropapisme’ byzantin, Paris 1996, p. 314.
134 Mansi, 6, cc. 315 segg. (ep. 156); ACO II 4, pp. 102, 103 (ep. 97).
135 Ivi, VI, cc. 338 segg. (ep. 162, 1); ACO II 4, p. 105 (ep. 19).
136 Ibidem.
137 Ivi, VI, c. 352 (ep. 165, 2); ACO II 4, p. 113 (ep. 104).
138 Ivi, VII, cc. 169 seg., 177; ACO II 1,2, pp. 155, 156.
139 Ambr., epist. 76.
140 Ambr., epist. 21, 4; 36.
141 Cfr. qui nota 60. Sulla assunzione di tale titolatura vicariale – ma solo in senso petrino – da parte dei papi romani, cfr M. Maccarone, ‘Sedes apostolica - vicarius Petri’. La perpetuità del primato di Pietro nella sede e nel vescovo di Roma (secoli III-VIII), in Romana Ecclesia cathedra Petri, a cura di P. Zerbi, R. Volpini, A. Galuzzi, I, Roma 1991, pp. 1-102. Ricordo che gli imperatori bizantini attribuirono tale investitura petrina a sé medesimi, cfr. Ecloga. Das Gesetzbuch Leons III und Konstantinos’ V., hrsg. von L. Burgmann, Frankfurt am Main 1983, p. 160, ll. 21-25, dove a p. 12 Burgmann data l’Ecloga al marzo 741.
142 Ambr., epist. 40- 41, PL 16, cc. 1148-1160 cfr. c. 1152.
143 F. Dvornik, Early Christian, cit. , pp. 784-785; Al. Cameron, The last Pagans, cit., pp. 64, 80-82, 83, 86, 96.
144 A. Carile, Chiesa e potere nel IV-V secolo a Costantinopoli: san Giovanni Crisostomo e la corte, Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia, Storia, Religione, in Atti dell’XI Simposio Paolino, a cura di L. Padovese, Roma 2008, pp. 219-234.
145 «Tu sei l’auriga del mondo e il principe di tutto il mondo che sta sotto il sole, in vero tu sei sacerdote e per natura sei imperatore» (Mansi, 7, cc. 580, 581).
146 Ep. 3, ad Basiliscum augustum, in Epistolae Romanorum Pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a s. Hilario usque ad Pelagium II, rec. A. Thiel, Braunsberg 1868, I, pp. 179 segg.
147 Mansi, 7, c. 988 (ep. 14); e in Epistolae Romanorum Pontificum, cit., p. 203 (ep. 15).
148 Ivi, c. 1066 (ep. 9); e in Epistolae Romanorum Pontificum, cit., pp. 249 seg. (ep. 8).
149 Ivi, cc. 1097 seg. (ep. 12); e in Epistolae Romanorum Pontificum, cit., pp. 270 seg. (ep. 15).
150 Ivi, c. 1077 seg.
151 G. Dagron, Empereur et prêtre, cit., p. 309.
152 Ivi, pp. 309-310.
153 Ivi, p. 310.
154 Ivi, p. 311.
155 Ivi, pp.310-311; F. Dvornik, Early Christian, cit., pp. 804-805. Ma sul pontificato massimo dell’imperatore si vedano le argomentazioni di Al. Cameron,The last Pagans, cit., pp. 51-56, che tende a protrarne la sopravvivenza oltre l’inizio del VI secolo.
156 Secondo Berkhof, «Das theokratische Bewusstsein ist in der Kirche erst in den fünfziger Jahren erwacht, besonders in den Jahren 355-361 zwischen der Synode von Mailand und dem Tode des Konstantins. Und zur Reife gekommen ist es erst in der Gestalt des Ambrosius» (H. Berkhof, Die Theologie, cit., p. 143); «Die theokratischen Idealen des Mittelalters und später sind nicht erst in Mittelalter entstanden […] sondern entstanden bereits im vierten Jahrhundert; unter dem Druck des damals herrschenden Byzantinismus» (ivi, p. 191).
157 «Perché per vostra disposizione, che come vicario di Dio ordinò che presiedesse nel mondo, non si opponga una rigida superbia ai precetti del vangelo e degli apostoli, ma che obbedienza si compia ciò che reca salvezza» (Mansi, 8, c. 190 (ep. 1,6); e in Epistolae Romanorum Pontificum, cit., p. 620).
158 P. Wood, We Have no King but Christ: Christian Political Thought in Greater Syria on the Eve of the Arab Conquest (c. 400-585), New York-Oxford 2010.