Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il tentativo di contrastare il dominio ottomano con l’aiuto delle potenze occidentali, a prezzo di concessioni in campo religioso, fortemente contrastato dalla Chiesa, non è condiviso nell’ambiente di corte. Se una parte dell’élite vede con favore la ricomposizione dello scisma, un’altra considera invece l’opportunità della pacifica convivenza con i Turchi, valutando le possibilità di influenza e assimilazione di questi nelle proprie tradizionali strutture amministrative.
Di fronte alla situazione sempre più disperata di Bisanzio, una parte dell’élite statale e varie figure imperiali cominciano in quest’epoca a ritenere che ci sia l’assoluta necessità di giungere a un accordo con i Latini. Tale riavvicinamento, com’è chiaro fin dall’inizio, non può essere ottenuto solo tramite patti diplomatici: affinché l’Occidente guardi con favore verso l’Oriente e s’impegni a tutelarlo e soccorrerlo, occorre liberarsi del marchio d’infamia dello scisma, e dunque giungere a una comunione con la Chiesa di Roma.
A livello formale e teologico tutto ruota, dunque, intorno alle annose questioni del Filioque, del primato papale, dei pani azzimi e del purgatorio. È difficile non sospettare che in fondo, per molti imperatori e alti dignitari bizantini, questa sia una semplice, per quanto forse sgradevole, faccenda di Realpolitik, una sorta di ineluttabile dazio da pagare per salvare quel che resta del proprio Stato. Per la Chiesa ortodossa, tuttavia, il fine non è tale da giustificare un simile mezzo. E con la Chiesa, in genere, si schiera unanime la popolazione. Gli accordi d’unione politica ed ecclesiastica godono di una base di consenso troppo ristretta perché si riesca a imporli dall’alto, e anzi finiscono per ripercuotersi contro i loro promotori, rafforzando le posizioni di un’altra parte dell’élite bizantina che, anche in seno alla stessa casa imperiale, assume un atteggiamento spregiudicato in senso opposto, e vede con sempre maggior favore i Turchi. Ciò avviene non solo per un fenomeno di repulsione e sfiducia verso l’Occidente, soprattutto quello mercantile, o per semplice rassegnazione, ma anche perché il dominio ottomano viene percepito come al contempo più assimilabile e meglio influenzabile dalle strutture amministrative e ideologiche dello Stato bizantino.
Già Michele VIII Paleologo, come si è visto, nel 1274 cerca inutilmente di imporre l’unione sancita al concilio di Lione, poco più di un patto politico tra l’imperatore e il papa in cui la partecipazione della Chiesa greca è stata minima. I suoi successori sono più cauti, per quanto l’ipotesi di nuove trattative con il papato venga ventilata di frequente.
Giovanni V, nel tentativo di alleggerire la propria situazione, cerca di intavolare nuove trattative con il papato per ricomporre lo scisma e ottiene anche l’invio (1366-1367) di un contingente crociato capitanato dall’avventuroso “Conte Verde”, Amedeo VI di Savoia, imparentato con la casata paleologa, che riesce in breve tempo a sgomberare Gallipoli dai Turchi e a restituire ai Bizantini alcune città sul Mar Nero. Ben presto, tuttavia, il legato papale che accompagna la spedizione pretende di intavolare trattative sull’unione delle Chiese e questo fa arenare irrimediabilmente ogni azione militare. I Greci suggeriscono la convocazione di un concilio ecumenico a Costantinopoli, ma la proposta non viene accettata. Giovanni V deve recarsi a Roma e fare atto di conversione, a titolo strettamente privato, nel 1369. Il gesto risulta, ancora una volta, inutile se non dannoso: Andronico IV Paleologo, lasciato come reggente nella capitale, si ribella contro il padre, al fianco del quale invece si schiera l’altro figlio, Manuele II. Si scatena l’ennesima lotta intestina, trascinatasi con fasi alterne per lunghi anni, della quale, ancora una volta, approfittano variamente Turchi, Genovesi e Veneziani. Manuele II riesce finalmente a sedere stabilmente sul trono nel 1391, e in qualità di vassallo del sultano, spesso obbligato ad accompagnarlo in campagne militari rivolte contro territori cristiani, può osservare il dilagare degli Ottomani attraverso i Balcani, frammentati in una miriade di staterelli, giù fino alla Morea, dove anche i principi latini possono sperimentare la loro ferocia. L’Occidente comincia a prendere maggior coscienza della minaccia incombente. Viene organizzata una crociata composta in massima parte da elementi francesi e ungheresi (peraltro male amalgamati), che tuttavia subisce una catastrofica sconfitta a Nicopoli, nel 1396. I desolanti risultati, tuttavia, non attenuano l’impulso dei sovrani bizantini a cercare aiuto in Italia, Francia, addirittura Inghilterra: nel 1399 Manuele II parte alla volta di Venezia, poi soggiorna a lungo a Londra e Parigi.
Dal punto di vista politico, tutto è inutile; da quello culturale, sono forse gettati i primi semi di quel crescente interesse verso l’Oriente e la grecità che darà notevoli frutti negli anni successivi. La caduta di Costantinopoli sembra imminente, ma nel 1402 la sconvolgente meteora di Tamerlano, emerso inaspettatamente dal profondo Oriente dove poi subito tornerà, travolge completamente gli Ottomani nella battaglia di Angora. Il sultano Bayazid è fatto prigioniero e deportato, e tra i suoi figli scoppiano immediatamente discordie di cui, per una volta, sono gli altri ad approfittare. Con l’ascesa al trono nel 1421 di Murad II, com’è prevedibile, i Turchi tornarono a farsi minacciosi e riprendono la loro inesorabile avanzata. Quando, nel 1425, muore Manuele II, il figlio Giovanni VIII si trova tra le mani un impero sempre più debole economicamente e piagato dalla pratica ormai invalsa di suddividere tra i principi imperiali gli esigui territori restanti (la cessione di Tessalonica ai Veneziani data al 1423): si pensi che la Morea bizantina, che non arriva neppure a coprire tutto il Peloponneso, è spartita tra ben tre autorità (i despoti Teodoro, Costantino, Tommaso).
Il vecchio e disincantato Manuele II ha a suo tempo ammonito il figlio a usare il concilio solo come uno spauracchio nei confronti dei Turchi, senza tuttavia mai permettere che fosse effettivamente organizzato, giacché sicuramente destinato al fallimento, che avrebbe condizionato anche la sorte di Bisanzio. Giovanni VIII non presta però ascolto ai consigli del padre e intavola ben presto serie trattative per l’unione delle Chiese con Eugenio IV.
Nel 1437 l’imperatore, il suo irrequieto fratello Demetrio e un enorme stuolo di prelati – dal vecchio patriarca Giuseppe II al giovane e rampante Bessarione di Nicea, a letterati tra cui si segnala in particolare il filosofo Pletone – si imbarcano per Venezia, da dove si recano a Ferrara, sede iniziale del concilio che poi sarà trasferito a Firenze. Tra gli ecclesiastici ortodossi si riscontra un’ostilità sempre maggiore nei confronti del compromesso, e molti sono quelli rimasti dissidenti o recalcitranti fino all’ultimo, nonostante le pressioni e le lusinghe cui sono sottoposti. Da un lato si colloca il fiero e intransigente difensore dell’ortodossia, Marco Eugenico; dall’altro il brillante Bessarione, che diviene il vero e proprio alfiere e ideologo dell’unionismo, per una sincera conversione o forse – come si è sostenuto recentemente con buoni argomenti – per uno spregiudicato calcolo politico. L’unione tra cattolici e ortodossi, comunque, è finalmente proclamata a Firenze il 6 luglio 1439: i Greci possono conservare i loro riti, ma per il resto hanno dovuto cedere su quasi tutti i punti. Immediatamente dopo, comincia il rientro in patria. È subito chiaro che, come di consueto, a livello interno la mossa del concilio è stata disastrosa: Marco Eugenico si pone a capo di una durissima opposizione, molti dei firmatari ritrattano, vari sovrani ortodossi (in particolare il principe di Mosca, Basilio II) rimangono scandalizzati e tagliano i legami con Costantinopoli. La grande spedizione crociata contro i Turchi propiziata dal papa, alla quale prendono parte forze serbe, polacche, ungheresi, dopo alcuni iniziali successi subisce nel 1444 una terrificante sconfitta nei pressi di Varna, nell’attuale Bulgaria; per quanto questa non sia stata l’ultima spedizione organizzata in Occidente per liberare i Balcani dai Turchi, tuttavia il suo esito disastroso agisce per molti anni come deterrente nei confronti di qualsiasi ulteriore iniziativa.
La sorte dell’Impero bizantino è ormai segnata. La Morea, in sostanza l’unico territorio rimasto (oltre alla capitale), vive un periodo di relativa prosperità, ma nel 1446 viene duramente devastata dai Turchi, che riescono senza difficoltà a sfondare l’Hexamilion, il muro che dovrebbe chiudere l’istmo di Corinto, e su cui i despoti bizantini hanno investito inutilmente tante risorse. Tre anni dopo, alla morte del fratello, secondo un principio di rotazione stabilito da Manuele II, è incoronato imperatore Costantino XI, che da Mistrà si trasferisce nella città fantasma di Costantinopoli. Sarà l’ultimo imperatore bizantino.