L'Impero neobabilonese: strutture politiche ed economiche
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, edizione in 75 ebook
Le istituzioni politiche dell’Impero neobabilonese sono segnate da un’evidente continuità rispetto al modello assiro. Una novità è rappresentata dall’importante ruolo delle tribù caldaiche all’interno della struttura politica. Lo sviluppo economico di Babilonia nel VI secolo a.C. è caratterizzato da una rapida crescita demografica e una notevole monetizzazione degli scambi economici l’argento, preso come tributo dai paesi soggetti e speso per ingenti progetti costruttivi, circola nell’economia babilonese in quantità mai raggiunte prima, divenendo il principale mezzo di scambio anche nelle transazioni quotidiane. Questi processi, insieme all’intensificazione della produzione agricola, portano ad un’espansione economica che alza lo standard di vita non solo delle élites dello Stato, ma anche della maggior parte della popolazione urbana.
Abbiamo definito come “opportunistico” l’imperialismo neobabilonese nel senso che non si basa su un fondamento religioso come l’imperialismo assiro; infatti, l’esistenza stessa dell’Impero neobabilonese si deve più a una reazione babilonese al dominio assiro, e alla natura (imperiale) di questo dominio, che a un programma politico indipendente. Ne risulta una dipendenza notevole dello Stato neobabilonese dal suo precursore assiro, una dipendenza però che viene celata dalla retorica delle fonti babilonesi che parlano della missione della nuova dinastia di Nabopolassar di liberare la Babilonia e di sconfiggere l’oppressore assiro.
L’influenza del modello assiro non si riconosce sul piano ideologico, dove le differenze sono palesi, ma innanzitutto al livello dell’organizzazione dello Stato. La terminologia utilizzata per definire le funzioni più alte alla corte reale, nell’esercito e nell’amministrazione è di origine assira: è solo un po’ iperbolico sostenere che la dinastia di Nabopolassar cerchi semplicemente di ricreare la corte neoassira in una veste babilonese. Il re è affiancato, aiutato e protetto da un piccolo gruppo di funzionari che hanno la loro sede nel palazzo stesso, o almeno nella capitale, e che devono il loro potere interamente all’incarico che ricevono dal re: nell’amministrazione civile, il soprintendente che si occupa di agricoltura, irrigazione e relative entrate, il capo tesoriere, il giudice supremo e il segretario reale; nell’amministrazione palaziale, il (cosiddetto) capo cuoco, il maggiordomo del re e il soprintendente del palazzo; e nell’amministrazione dell’esercito, il capo della guardia reale, il capo eunuco (comandante delle truppe professionali e dei mercenari), il generale della cavalleria e dei carri da guerra. Quasi tutti questi funzionari portano gli stessi titoli dei loro omologhi assiri – titoli sconosciuti a Babilonia prima della conquista assira. Uno stretto parallelismo fra costumi assiri e costumi neobabilonesi si riscontra anche nei pochi aspetti del cerimoniale di corte che conosciamo dalle fonti: anche in questo caso i Babilonesi adattano o semplicemente copiano istituzioni assire.
La scelta di adottare il modello assiro per l’organizzazione del nuovo Stato, o almeno di alcuni suoi aspetti, può essere considerata quanto meno lungimirante poiché l’Assiria è un esempio di stabilità dinastica e di successi secolari. L’Impero babilonese invece, come abbiamo visto, è tutt’altro che stabile: nel corso di pochi decenni si susseguono due dinastie a seguito di usurpazioni e si ha anche testimonianza di altre rivolte di palazzo fallite. Almeno in parte quest’instabilità è dovuta a una differenza strutturale fra l’Impero assiro e quello babilonese le cui implicazioni hanno più peso dei supposti parallelismi: in Assiria gli alti funzionari del re, oltre al loro incarico principale a corte, svolgono il ruolo di governatori delle varie province dell’Impero. In questo modo si crea un legame strettissimo fra il potere centrale, concentrato nella capitale e focalizzato nella persona del re, e le forze potenzialmente centrifughe dislocate nella periferia. Nel caso dell’Impero neobabilonese i grandi del re debbono il loro potere interamente alla propria posizione presso la corte; essi non contribuiscono alla coesione dello Stato tramite legami aggiuntivi con alcuni territori dell’Impero. Il potere territoriale nel cuore dell’Impero, cioè nella Babilonia centrale e nelle regioni ad est oltre il Tigri, è diviso fra il re e la sua casa, le vecchie città con la loro popolazione babilonese sedentaria, e le tribù aramaiche e caldee, solo in parte sedentarie.
Gli estesi domini reali gestiti dal maggiordomo del re contribuiscono in maniera considerevole al potere del sovrano ma difficilmente riescono a controbilanciare il peso economico e demografico delle vecchie città babilonesi che si espandono in questo periodo con grande rapidità. I re neobabilonesi cercano di limitare la lunga tradizione di semiautonomia delle città e delle loro istituzioni, affidando gli incarichi principali dell’amministrazione urbana (di natura civile e religiosa) a funzionari reali e a famiglie di provata lealtà. In molte città quest’ultime sono in effetti di origine babilonese, cioè vengono dalla capitale e debbono la loro importanza al re. Anche se in questo modo si viene a creare in molte città una dicotomia, persino una tensione, fra famiglie babilonesi e famiglie locali, la politica reale riesce sostanzialmente ad assicurarsi il sostegno delle città babilonesi. Molto meno domabili si rivelano le tensioni che dividono le varie tribù (innanzi tutto quelle caldee) sia al proprio interno che dalla monarchia stessa, con la sua pretesa di potere assoluto per elezione divina. Le conseguenze di queste tensioni per lo Stato sono notevoli poiché il potere militare babilonese sembra dipendere più dalle tribù caldee che dalle città etnicamente babilonesi. Abbiamo già illustrato in quali modi i re neobabilonesi cercano di creare legami fra le tribù e la monarchia (Nabucodonosor – un re caldeo! – dà sua figlia in matrimonio al capo di un’altra tribù caldea), ma anche i fallimenti di questi tentativi: l’usurpatore Neriglissar non si lascia fermare da questo matrimonio e uccide suo cognato, il re figlio di Nabucodonosor; anche l’usurpatore successivo, Nabonedo, sembra esser stato di origine tribale. A quanto pare l’Impero babilonese nei suoi ottant’anni di vita non riuscirà mai a risolvere totalmente i problemi connessi alla natura multietnica (babilonese e caldea/aramaica) e multiculturale della sua parte centrale. Solo i successori persiani dell’Impero babilonese risolveranno questa difficoltà (su una scala ancora più vasta).
La divisione tripartita del potere fra il re e i suoi grandi, le città babilonesi poste nel cuore dell’Impero e le tribù caldee dislocate nel centro e nelle periferie, si rispecchia in un’iscrizione di Nabucodonosor che nomina i più alti funzionari dello Stato come contribuenti alla costruzione di un palazzo voluto dal re. La lista cita anzitutto i grandi del re e i vari funzionari palatini di secondo rango; vengono poi elencate autorità con un dominio territoriale: capi tribù e governatori che dirigono le regioni disposte a sud, est e sud-est della parte centrale dell’Impero da un lato, funzionari reali e sacerdoti di alto rango che si dividono il controllo delle città etnicamente babilonesi dall’altro. La lista si conclude con un elenco di re di popoli e città-stato del Levante che, come vassalli, vivono alla corte di Nabucodonosor.
In questo testo, datato al settimo anno del re (598 a.C.), è significativa l’assenza dei governatori dei territori (o province) nell’ovest dell’Impero: un’assenza che ha indotto alcuni studiosi ad ipotizzare che il controllo babilonese su questi territori sia indiretto, limitato ad alcune città-chiave sulle principali direttrici di comunicazione nelle quali risiede una guarnigione babilonese, mentre il resto del territorio gode di una semi indipendenza, a patto che non si impedisca la riscossione annuale del tributo dovuto al centro dell’Impero. In mancanza di fonti chiare non è tuttavia possibile verificare quest’ipotesi. È comunque necessario tener conto di uno sviluppo diacronico nei sistemi di amministrazione dei territori occidentali dell’Impero. Mentre nulla impedisce di applicare al lungo regno di Nabucodonosor la posizione “minimalista” di cui si è detto, altre fonti provano che almeno sotto Nabonedo esistono concreti progetti di colonizzazione sistematica di alcuni territori ad ovest. Nabonedo (o forse già il suo precursore Neriglissar) dona delle terre in Siria ai principali templi babilonesi; questi ultimi vi spediscono il proprio personale, capi di bestiame e provviste, con l’incarico di coltivare le terre in loro vece. Un dossier di lettere e documenti provenienti dalla città di Sippar ci permette di seguire lo sviluppo di una di queste colonie per più di un decennio, fino alla caduta di Babilonia per mano dei Persiani. Alcuni dipendenti del tempio del Sole a Sippar vengono inviati nel bacino del fiume Habur in Siria centrale dove si dedicano alla coltivazione del grano e alla produzione di vino, creando un villaggio babilonese in un ambiente occidentale a popolazione aramaica. La scarsa evidenza archeologica disponibile suggerisce che colonie di questo tipo esistono anche altrove, in Siria occidentale e in Anatolia orientale, ma finora non è stato possibile datare con precisione questi insediamenti babilonesi. Allo stesso modo non è possibile né fissare cronologicamente lo sviluppo del fenomeno, da usufrutto indiretto dei territori occupati a controllo più stretto tramite un processo di insediamento, né la sua estensione.
Il periodo neobabilonese, o meglio il cosiddetto “lungo sesto secolo” che va dall’insurrezione di Nabopolassar (626 a.C.) fino al secondo anno del re persiano Serse (484 a.C.), cioè tutta la durata dell’esistenza dell’Impero neobabilonese e i primi decenni della dominazione persiana, è notevole per alcuni cambiamenti e processi socio-economici. Una documentazione testuale di eccezionale ricchezza conferma questi fatti; nei musei occidentali si trovano decine di migliaia di tavolette cuneiformi risalenti a questo periodo. Anche se bisogna tener conto di alcune limitazioni di questa documentazione – essa è innanzi tutto di origine urbana e mette a fuoco soprattutto i ceti più alti della popolazione babilonese – ne risulta un quadro di insieme molto dettagliato. I numerosi archivi di famiglia pervenutici riflettono preoccupazioni e interessi dell’“alta borghesia” babilonese: si trovano sia atti giuridici e notarili (compravendite, testamenti, contratti di matrimonio ecc.) che trattano i beni immobiliari di queste famiglie (case di città, giardini di palme da dattero, campi di grano ecc.), sia documenti legati alla gestione quotidiana dei patrimoni e degli affari (contratti di prestito, ricevute, liste di mobili ecc). A questo materiale si aggiunge un corpus di lettere private: questi testi sono spesso evocativi nella loro capacità di focalizzare un problema particolare, anche (apparentemente) minimo, nella vita dei corrispondenti.
La documentazione appartenente agli archivi di alcuni templi, il più grande dei quali consiste in più di 30 mila tavolette, amplia notevolmente la prospettiva offertaci dai testi di origine privata. Gli archivi dei templi documentano l’amministrazione delle proprietà degli dèi (campi, giardini, greggi) e dei loro dipendenti umani. Diversamente da quanto avviene con la documentazione privata, questi archivi hanno spesso come protagonisti artigiani e semplici operai o persino i cosiddetti oblati, cioè una parte della popolazione babilonese dalla ristretta libertà personale che deve prestare servizio alla divinità a cui è stata dedicata. I testi provenienti dagli archivi templari ci forniscono anche la maggior parte delle informazioni disponibili sui prezzi dei beni più importanti, inclusi i cibi principali. Si tratta di una documentazione importante e molto coerente che rende possibile, per la prima volta nella storia mesopotamica, un attendibile studio quantificativo dello sviluppo economico.
A prima vista questa documentazione si inserisce con facilità nel quadro tradizionale, piuttosto statico, della storia socio-economica mesopotamica. I soggetti trattati negli archivi privati del VI secolo a.C. sono gli stessi che contraddistinguono la documentazione analoga risalente al periodo paleobabilonese. L’apparente continuità quasi millenaria che ne risulta è tuttavia dovuta a similitudini superficiali il cui peso è più che controbilanciato dall’importanza delle differenze strutturali che si rivelano a uno studio più approfondito del materiale: il contesto sociale ed economico di un capo famiglia con terreni urbani e rurali nel XVI secolo a.C. è molto differente da quello in cui si trova il suo omologo del VI secolo a.C. (per usare come esempio un “tipo” socio-economico molto ben documentato). Nel periodo in esame, la società urbana delle vecchie città dell’alluvio centrale della Mesopotamia meridionale si rivela abbastanza dinamica e fluida. Anche se alcuni settori della società sono caratterizzati da una grande stabilità e persino da una continuità secolare, altri segmenti sociali dimostrano una notevole mobilità e capacità di innovazione, dipendente da condizioni socio-economiche uniche che non hanno paralleli in altri periodi della storia mesopotamica.
Sono pochi i fenomeni demografici ed economici tra loro connessi che definiscono il “lungo sesto secolo” e gli danno il suo carattere particolare. Nell’ambito demografico si nota una crescita rapida della popolazione, soprattutto della popolazione urbana: più persone vivono nelle città, sia da un punto di vista assoluto che relativo, rispetto alla popolazione rurale. I risultati di sondaggi archeologici hanno condotto alcuni studiosi a supporre che nel corso del periodo neobabilonese e durante il dominio persiano, cioè in meno di quattro secoli, la popolazione si sia quintuplicata. Anche se la precisa quantificazione dell’espansione demografica rimane una domanda aperta, l’interpretazione qualitativa dell’evidenza è chiara: la società neobabilonese è segnata da una forte e crescente tendenza verso l’urbanizzazione. Nel VI secolo a.C., all’interno di questo contesto urbano in espansione avviene un’importante innovazione economica: la maggior parte degli scambi si effettua usando denaro in argento. Anche in altri periodi della storia mesopotamica l’argento è presente come standard di valore e come mezzo di scambio per transazioni di alto valore, ma solo nel periodo neobabilonese, e per la prima volta dal punto di vista della storia globale, si può parlare di un’economia veramente monetizzata: l’uso dell’argento (pesato, mai in forma coniata) come moneta è molto esteso e nessuno, almeno in un contesto urbano, può evitare di essere in qualche modo coinvolto nella sua circolazione. Rispetto al periodo paleobabilonese (prima metà del II millennio a.C.) l’argento perde la metà e finanche due terzi del suo potere d’acquisto. Questo processo inflazionistico fa sì che anche oggetti di scarso valore possano essere acquistati con quantità di argento pesabili con precisione sufficiente: l’unità più piccola usata pesa 0,208 grammi; si noti che le prime monete coniate nel tardo VI secolo a.C. in Lidia pesano 0,167 grammi. Nello stesso tempo i salari raggiungono un livello altrettanto alto, così che il potere d’acquisto di un salario medio nel VI secolo a.C. è quasi doppio rispetto a un salario del XVI secolo a.C. Nel VI secolo a.C., soprattutto durante il tardo regno di Nabucodonosor fino alla fine del regno di Nabonedo, la Babilonia gode di una fase di prosperità relativamente alta.
Questa prosperità è il risultato di un’economia in espansione che approfitta sia di un dinamismo interno sia di fattori esterni favorevoli. La dinamica interna si riconosce soprattutto nell’agricoltura, chiaramente il settore dell’economia più importante per una società agraria come quella babilonese. Dopo la fine della guerra contro l’Assiria, la popolazione in rapida crescita demografica riprende a coltivare i propri terreni; quasi ovunque campi di grano vengono sistematicamente trasformati in giardini di palme da dattero. L’orticoltura intensiva è la forma di agricoltura più efficace a Babilonia dal punto di vista sia del raccolto per unità di terra, sia del tempo lavorativo impiegato, ma richiede allo stesso tempo investimenti a lungo termine e quindi dipende dalla stabilità politica e da una sufficiente disponibilità di mano d’opera, due condizioni che si riscontrano nel periodo in esame. Ne risulta una crescente produttività agricola e di conseguenza una crescita della produttività pro capite del lavoro della maggior parte della popolazione. Meccanismi di mercato efficienti e costi di trasporto bassi rendono relativamente facile la distribuzione dei prodotti agrari e permettono una certa specializzazione della produzione. Questo fenomeno si riconosce tanto nel settore privato dell’economia quanto in quello istituzionale. I proprietari terrieri che risiedono in città – dei cui archivi disponiamo – normalmente non mirano all’autosufficienza con la loro produzione agraria come vorrebbe l’interpretazione tradizionale: una parte notevole dei prodotti viene invece venduta. A spingere questi ceti sociali verso il mercato sono esigenze pratiche, in parte dipendenti dallo Stato: le tasse possono essere pagate in argento ma è anche necessario racimolare il denaro che serve a remunerare i lavoratori e i mercenari ingaggiati come sostituti per rendere allo Stato il servizio lavorativo o militare obbligatorio connesso al possesso di beni immobili. Anche per i templi, importanti produttori agrari, si nota una crescente dipendenza dal mercato. Il loro sistema economico è caratterizzato non dall’autosufficienza associata con il modello economico dell’òikos (geschlossene Hauswirtschaft) come si è pensato nel passato, ma da un regime produttivo mirato allo sfruttamento delle possibilità offerte dal commercio dei prodotti agrari. In questo modo si rinforzano a vicenda la crescente monetizzazione degli scambi, l’intensificazione della produzione agraria, il suo orientamento verso il mercato e, per finire, il sistema della tassazione e dell’estrazione di servizi lavorativi a loro volta basati sull’uso dell’argento. Il contesto economico favorisce fortemente lo sviluppo di nuovi tipi di attività economica da parte di individui senza affiliazione istituzionale: al mercante di lunga e venerabile tradizione in Mesopotamia si aggiungono imprenditori con interessi molto più vari, per esempio esattori di tasse e, nel V secolo a.C., banchieri.
Questo processo dipende e viene accelerato dalla politica dei re neobabilonesi e dai benefici che la Babilonia trae dal suo Impero. Dopo la caduta dell’Impero assiro notevoli quantità di argento e di oro arrivano a Babilonia come bottino, un tesoro a cui si aggiungono i tributi versati dai vassalli e dai territori conquistati in Siria e nel Levante. Tuttavia i re neobabilonesi non adottano una politica di tesaurizzazione; una buona parte dell’argento viene speso per gli ambiziosissimi progetti architettonici con cui soprattutto Nabucodonosor fa trasformare nel corso del suo lungo regno le città babilonesi: ovunque si scavano canali di irrigazione, si erigono mura e si costruiscono templi e palazzi. Secondo l’opinione tradizionale questi lavori vengono eseguiti da una mano d’opera forzata; oggi invece sappiamo che la maggior parte dei lavoratori impiegati in questi progetti è formata da uomini liberi che vengono pagati con salari in argento. In questo modo le ingenti quantità di denaro portate a Babilonia vengono messe in circolazione ed è quasi certo che questa è anche la ragione dei salari alti che contraddistinguono questo periodo: la continua domanda di lavoro fatta dallo Stato li fa crescere.
I fenomeni sopra enumerati – la crescita demografica e l’alto grado di urbanizzazione, la monetizzazione degli scambi economici, la sostituzione di strategie economiche mirate all’autarchia da una dipendenza dal mercato, lo sviluppo di nuovi ruoli economici soprattutto di tipo imprenditoriale, l’intensificazione della produzione agricola, la grande importanza del lavoro salariale rispetto ad altre fonti di lavoro (forzato), il ruolo dello Stato (e dell’Impero e dei suoi contributi alla prosperità della sua parte centrale, cioè della Babilonia) nel mantenimento di questo complesso di fattori interconnessi – cambiano fondamentalmente l’economia babilonese. Si deve constatare una rottura abbastanza netta fra le strutture economiche dell’Età del Bronzo tipiche del millennio precedente e l’economia più complessa del “lungo sesto secolo”. Il paradigma economico che si può dedurre dalle fonti è specifico per lEtà del Ferro; l’economia babilonese di questo periodo è più vicina alle economie del mondo classico (greco-romano) che ai precedenti sistemi economici della Mesopotamia.
L’età d’oro dell’economia babilonese, cioè la fase di prosperità dei regni di Nabucodonosor e dei suoi successori, finisce nei primi decenni del dominio persiano. A una crisi economica dovuta soprattutto a problemi agrari – alcuni anni intorno al 520 a.C. sono caratterizzati da raccolti falliti e da prezzi molto alti – si aggiunge l’effetto dei cambiamenti politici. La dominazione persiana nei primi anni dopo la conquista della Babilonia nel 539 a.C. è poco invasiva e lascia intatte le strutture di governo locale che trova nelle vecchie città babilonesi della Mesopotamia meridionale. Ciò nonostante si fanno subito notare problemi legati a un processo di inflazione: i prezzi salgono rapidamente. D’altro canto le tasse e i servizi di lavoro richiesti dal governo persiano crescono nel corso dei primi due decenni di dominio e contribuiscono a creare una certa inquietudine nella provincia di Babilonia. Ne consegue un’insurrezione babilonese contro Serse, il successore del grande re persiano Dario: un’insurrezione che comporta una cesura molto profonda nella storia di Babilonia nel I millennio a.C.
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, Il Vicino Oriente Antico, Storia