L’implicito: forme e funzioni
Il campo dell’implicito
Il grande sviluppo che gli studi sul linguaggio hanno avuto nel 20° sec. ha messo in luce, fra l’altro, anche la questione dell’implicito. Essa è emersa come campo di riflessione e di ricerca soprattutto nell’ambito di approcci al linguaggio interessati al suo uso nei contesti ordinari: l’implicito è infatti questione di uso del linguaggio, non semplicemente di regole del sistema linguistico. Per questo motivo il suo studio è di competenza della pragmatica del linguaggio (Bianchi 2003, pp. 3-20; Bazzanella 2005, pp. 101-19).
Implicito non è lo stesso che non detto. È quella parte di ciò che non viene detto esplicitamente che può essere ricostruita dal ricevente grazie a vari tipi di indicatori presenti nel testo e a strategie d’inferenza. Conviene invece riservare il nome di non detto per ciò che non è recuperabile a partire dal testo, ma richiede ulteriori informazioni da altre fonti.
Gli impliciti non sono conseguenze logiche di quanto viene detto, per due motivi principali. Da un lato, la conseguenza logica è connessa a quanto viene detto più strettamente di qualunque implicito. Infatti, negare una conseguenza logica di un enunciato comporta negare l’enunciato stesso; ma questo, con gli impliciti, tipicamente non succede. Dall’altro lato, le conseguenze logiche di un enunciato sono innumerevoli (per es., da p, se vero, si può dedurre qualsiasi disgiunzione di cui p sia membro: ‘p o q’, ‘p o r’...), ma non si può dire che vengano tutte effettivamente comunicate dal proferimento dell’enunciato. Invece questo è tipico degli impliciti, che sono appunto senso comunicato implicitamente.
L’implicito non coincide neppure con un altro aspetto dell’uso del linguaggio, anch’esso di competenza della pragmatica: ciò che facciamo con i nostri enunciati, ovvero la loro «forza illocutoria» (J.L. Austin, How to do things with words, 1962, trad. it. 1987; J.R. Searle, Speech acts: an essay in the philosophy of language, 1969, trad. it. 1976). È raro che si accompagni un enunciato con l’esplicita dichiarazione della sua forza illocutoria («Io ti ordino di...», «Io ti prometto che...»). Sono più che sufficienti, anche se un po’ più vaghi di una dichiarazione esplicita e perciò usati a grappolo per sfruttarne le sinergie, gli indicatori di forza illocutoria che vedono in prima linea il modo del verbo, il tipo di frase, i verbi modali. Si può perciò parlare della forza illocutoria come di qualcosa che, in molti casi, è implicito negli enunciati che proferiamo. Tuttavia non si tratta di senso implicito; la funzione degli indicatori di forza è quella di mostrarci come vada recepito, in circostanze normali, l’atto linguistico del parlante.
Lo studio dell’implicito ha finora condotto a identificare alcune differenti tipologie di implicito e a formulare alcune ipotesi riguardanti la loro natura e il loro funzionamento. Tale indagine ha oggi due principali possibilità di sviluppo: la ricerca sulla modalità con cui la nostra mente comprende l’implicito, da una parte, l’analisi dei contributi che gli impliciti danno al senso dei testi e all’andamento della comunicazione interpersonale e sociale, dall’altra.
La prima direzione di sviluppo s’inserisce nel più ampio contesto degli studi cognitivi sulla comprensione del linguaggio. La seconda direzione confluisce nell’analisi del discorso, ambito in cui gli impliciti meriterebbero maggiore e più sistematica attenzione di quanto abbiano effettivamente ottenuto finora.
Tipi di implicito
I due tipi principali di implicito individuati e discussi dalla pragmatica del linguaggio sono la presupposizione e l’implicatura. Una caratterizzazione riassuntiva, che raccoglie alcune idee e osservazioni principali emerse nel corso dell’elaborazione di queste nozioni (Sbisà 2007a, pp. 20-55, 92-126), può distinguere fra presupposizione e implicatura nel modo seguente: le presupposizioni sono impliciti la cui verità deve essere data per scontata da chi accetta come appropriato il proferimento di un certo enunciato; le implicature sono impliciti che il ricevente è autorizzato a inferire dal fatto che il parlante o autore ha prodotto un certo enunciato, e che consistono in integrazioni a ciò che l’enunciato dice esplicitamente o di aggiustamenti del suo senso.
La presupposizione
Gli enunciati (1)-(5),
(1) Il tecnico informatico della facoltà di Lettere è in ferie,
(2) Giorgio ha smesso di fumare,
(3) Maria sa che Giorgio non fuma,
(4) è Marco che ha risolto il problema,
(5) Marco, che studia informatica, ha risolto il problema,
attivano presupposizioni, e specificamente:
(1p) esiste uno e un solo tecnico informatico della facoltà di Lettere / La facoltà di Lettere ha uno e un solo tecnico informatico,
(2p) Giorgio aveva l’abitudine di fumare,
(3p) Giorgio non fuma,
(4p) qualcuno ha risolto il problema,
(5p) Marco studia informatica.
Tipicamente, la presupposizione di un enunciato affermativo è condivisa dall’enunciato negativo corrispondente (e inoltre dall’enunciato interrogativo corrispondente, nonché da un condizionale che abbia l’enunciato come antecedente). Per es.:
(2a) Giorgio non ha smesso di fumare,
(2b) Giorgio ha smesso di fumare?,
(2c) se Giorgio ha smesso di fumare, Maria sarà lieta di invitarlo alla festa,
continuano a presupporre
(2p) Giorgio aveva l’abitudine di fumare.
Secondo un’idea risalente a Gottlob Frege (Über Sinn und Bedeutung, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 1892, 100, pp. 25-50; trad. it. in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, 1973, pp. 9-32) e a Peter F. Strawson (On referring, «Mind», 1950, 59, pp. 320-44; trad. it. in La struttura logica del linguaggio, 1973, pp. 197-224), quando la presupposizione di un enunciato dichiarativo (usato per fare un’asserzione) è falsa, l’enunciato non può essere giudicato vero o falso: la questione se sia vero o falso non si pone. Così se la facoltà di Lettere non ha un tecnico informatico, non c’è nessuno di cui, con (1), possiamo dire veridicamente o falsamente che è in ferie. Quest’idea è stata da più parti messa in discussione: si è, infatti, osservato che l’aggiunta di certe espressioni, o l’inserimento dell’enunciato in certi contesti di discorso, può cancellare la presupposizione e con ciò far sì che la sua eventuale falsità non abbia alcuna conseguenza sull’uso che possiamo fare dell’enunciato. Ciò accade più facilmente se l’enunciato contiene una negazione. Per es.:
(1a) il tecnico informatico della facoltà di Lettere non è in ferie: infatti la facoltà non ha a tutt’oggi alcun tecnico informatico,
(1b) il tecnico informatico della facoltà di Lettere, se ce n’è uno, è in ferie,
non presuppongono (1p).
Inoltre, alcune costruzioni di cui si è ritenuto che attivino presupposizioni, come le secondarie relative del tipo di quella presente in (5), in caso di falsità della presupposizione danno adito a intuizioni di inappropriatezza e a un certo imbarazzo nella valutazione dell’enunciato secondo verità o falsità; ma non si può dire che impediscano tale valutazione.
La cancellabilità della presupposizione e la sua relazione non sistematica con la presenza di lacune di valore di verità hanno suggerito di trattare la presupposizione non come un fenomeno semantico, legato al significato convenzionale e vero-condizionale degli enunciati (quale era stata in un primo tempo ritenuta), ma come un fenomeno pragmatico, riguardante l’uso appropriato degli enunciati in un contesto. Per rendere conto dell’impressione di ‘dato per scontato’ che ci danno le presupposizioni, ci si può avvalere della teoria della presupposizione pragmatica di Robert Stalnaker (Presuppositions, «Journal of philosophical logic», 1973, 2, pp. 447-56, trad. it. in Gli atti linguistici, a cura di M. Sbisà, 1978, pp. 240-51; Context and content. Essays on intentionality in speech and thought, 1999). Per Stalnaker la presupposizione non è una relazione fra un enunciato, o un certo uso di esso, e un altro enunciato la cui verità viene data per scontata, ma un atteggiamento proposizionale del parlante, che consiste nel credere qualcosa e nel credere, inoltre, che gli interlocutori accettino la medesima cosa anche solo in via ipotetica e provvisoria (Stalnaker 2002, pp. 716-17). Le presupposizioni così definite vengono a costituire lo ‘sfondo comune’ di una conversazione.
Lo sfondo comune non è però un dato preesistente alla conversazione, ma si costituisce anche attraverso i contributi conversazionali dei partecipanti. La presupposizione, infatti, può avere valore informativo, o persino persuasivo: può essere usata per comunicare indirettamente una certa informazione all’interlocutore, come verità da dare per scontata o comunque non da discutere nella conversazione in corso, ed eventualmente per presentare come indiscutibili contenuti potenzialmente controversi di carattere assiologico o ideologico. Si è parlato di questi fenomeni come dell’«accomodamento» delle presupposizioni, ma le spiegazioni proposte nell’ambito della teoria di Stalnaker sono state diverse: dall’idea che chi fa una presupposizione informativa ‘finga’ di presupporre qualcosa anziché realmente presupporlo, fino all’idea che il mostrare all’interlocutore che si presuppone qualcosa, presentando la presupposizione come un contenuto in qualche modo condiviso, possa far sì che l’interlocutore stesso la presupponga. In realtà una motivazione veramente forte a condividere la presupposizione del parlante viene dalla considerazione che, ai fini dell’appropriatezza dell’uso di un enunciato, la sua presupposizione deve essere soddisfatta dal mondo e non semplicemente dagli stati cognitivi dei partecipanti alla conversazione (Gauker 2003, pp. 97-119; cfr. anche Sbisà 2002).
Per spiegare il fenomeno della presupposizione informativa, inoltre, bisogna ammettere che le presupposizioni vengano segnalate dagli enunciati o dal discorso che il parlante produce grazie alla loro forma linguistica: sotto questo profilo la presupposizione può essere descritta come un’anafora ricca in contenuto semantico proprio (R.A. van der Sandt, Presupposition projection as anaphora resolution, «Journal of semantics» 1992, 9, pp. 333-77). Come le anafore pronominali «lei» o «ciò», per essere interpretate, devono essere ‘risolte’ collegandole a un’espressione precedentemente usata che indichi un referente discorsivo di genere femminile, o un oggetto, così anche le presupposizioni rinviano a un’informazione che avrebbe dovuto essere resa disponibile precedentemente, ponendo però maggiori restrizioni sul tipo di informazione cui ci si deve ricollegare, tanto che quando nessuna informazione adatta è presente nel contesto del discorso, sono in grado di creare esse stesse il loro antecedente. La teoria della presupposizione come anafora, trattando la presupposizione come fenomeno del discorso anziché proprietà di enunciati isolati, contribuisce a migliorare la nostra comprensione dei fenomeni dell’accomodamento e della cancellazione delle presupposizioni (Sbisà 2007a, pp. 44-51).
L’implicatura
Le implicature (indicate con il neologismo inglese implicatures per la prima volta nell’articolo di P. Grice, Logic and conversation, in Sintax and semantics, 3° vol., Speech acts, ed. P. Cole, J.L. Morgan, 1975, pp. 41-58; trad. it. in Filosofia del linguaggio, a cura di A. Iacona, E. Paganini, 2003, pp. 224-44) sono enunciati ricavabili per inferenza dal discorso del parlante, privi di relazioni vero-funzionali con il suo contenuto (un’affermazione può essere vera anche quando la sua implicatura è falsa; e da un’affermazione falsa può essere inferita un’implicatura vera). Sono, infatti, suggerite non da ciò che viene detto, ma dal fatto che viene detto qualcosa, o dal fatto che vengono pronunciate certe parole o frasi. A seconda che l’implicatura dipenda dal significato convenzionale delle parole o espressioni linguistiche usate, oppure dall’assunto che l’atto linguistico del parlante sia conforme alle esigenze della cooperazione conversazionale, si possono distinguere due tipi principali di implicature.
L’implicatura convenzionale. Supponiamo che qualcuno dica o scriva:
(6) Gianni vuole prendere una birra, ma non è maggiorenne;
(7) le leggi romane vietavano alla nobiltà di dedicarsi al commercio, esso dunque veniva esercitato da un’altra classe, quella dei cavalieri;
(8) il clima mostra segni di cambiamento, infatti la chimica della troposfera si sta modificando.
Il fatto che questi enunciati contengano i connettivi «ma» e «dunque» consente al ricevente di inferire:
(6i) per poter prendere una birra bisogna essere maggiorenni;
(7i) a Roma il commercio veniva esercitato dai cavalieri perché alla nobiltà era vietato dedicarsi a esso;
(8i) il modificarsi della chimica della troposfera è la causa dei segni di cambiamento mostrati dal clima.
Siccome dipendono dall’uso di certe parole o espressioni, queste inferenze non sono facilmente cancellabili:
(6a) Gianni vorrebbe prendere una birra, ma non è maggiorenne. Con ciò non voglio dire che sia necessario essere maggiorenni per prendere una birra.
Comunque, quello che il parlante dice non comprende l’implicatura, la quale scompare (viene ‘distaccata’) non appena l’elemento linguistico che la attiva viene cambiato in uno che, non attivandola, abbia però il medesimo significato convenzionale e vero-condizionale. Così, per es.,
(6b) Gianni vorrebbe prendere una birra e non è maggiorenne,
potrebbe benissimo sostituire (6) all’interno di (6a), che risulterebbe perfettamente in ordine e privo dell’implicatura (6i).
Le implicature convenzionali, secondo l’idea originaria di H. Paul Grice (Logic and conversation, sezione del volume Studies in the way of words, 1989; trad. it. Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, 1993, pp. 120-22), corrispondono alle condizioni a cui certe asserzioni possono giocare appropriatamente determinati ruoli nell’organizzazione del discorso: per es., il ruolo di una spiegazione, di una conclusione o di un’obiezione. Questo non vuol dire che l’implicatura consista nell’attribuire quel ruolo all’enunciato introdotto dal connettivo; l’enunciato che segue un «ma» non deve infatti necessariamente essere un’obiezione all’affermazione che precede. Sussiste, tuttavia, ugualmente un richiamo al ruolo che l’enunciato potrebbe svolgere all’interno di un certo insieme di relazioni argomentative (Sbisà 2007a, pp. 120-25, 128-33).
Le implicature convenzionali sono un tipo di implicito alquanto controverso. Alcuni autori hanno criticato proprio i loro casi tradizionalmente considerati centrali, quelli qui sopra esemplificati. Altri hanno cercato di allargarne il campo, assimilando a implicature convenzionali le inferenze associate agli indicatori (linguistici o paralinguistici) di tono e di affettività, oppure le presupposizioni del tipo di quella esemplificata sopra da (5)-(5p) (Potts 2005).
L’implicatura conversazionale. Le implicature conversazionali sono inferenze che il ricevente è invitato a trarre da un determinato discorso, in base al fatto che è stato compiuto e all’assunto che esso porti un contributo cooperativo agli scopi oppure agli orientamenti accettati della conversazione.
Consideriamo i seguenti esempi:
(9) a: dov’è Giorgio?
b: la sua macchina è parcheggiata vicino a casa di Maria.
(10) a: come sta andando la festa?
b: alcuni invitati sono andati via.
(11) a: com’è il tuo dentista?
b: è puntuale con gli appuntamenti.
(12) L’imputato ha un alibi a prova di bomba.
Le risposte di b in (9), (10), (11) così come l’affermazione (12) hanno (approssimativamente e almeno) le seguenti implicature conversazionali:
(9i) Giorgio potrebbe essere a casa di Maria;
(10i) non tutti gli invitati sono andati via;
(11i) le prestazioni terapeutiche del dentista non sono particolarmente soddisfacenti;
(12i) l’alibi dell’imputato è inconfutabile.
Perché queste implicature? Per i casi (9) e (10) si può ragionare come segue. Il contributo di b alla conversazione non sembra cooperativo a meno che non si ritenga che ciò che b dice sia a proposito, e che sia sufficientemente informativo per le esigenze di a. Ma la risposta di b in (9) può essere a proposito solo se b suggerisce che ci sia una connessione fra il luogo dove si parcheggia la macchina e quello dove poi, senza macchina, ci si reca (donde l’implicatura 9i). E la risposta di b in (10) può essere sufficientemente informativa solo se la si integra con l’implicatura (10i): essendo tale risposta logicamente compatibile con un’altra risposta che ci si poteva attendere, «tutti gli invitati sono andati via», una sua lettura che non tenga conto dell’implicatura non permetterebbe di distinguere i casi in cui la festa è già finita da quelli in cui è (magari a ranghi ridotti) ancora in corso. Queste implicature, insomma, evitano che si imputi al parlante la violazione di attese dell’interlocutore esprimibili mediante massime della conversazione quali «Sii pertinente» o «Da’ tanta informazione quanta è richiesta». Per i casi (11) e (12) si possono invece identificare delle violazioni vere e proprie di alcune di tali massime: in (11) b fa un commento sull’organizzazione dello studio dentistico, che non è del tutto fuori tema ma non fornisce ad a informazioni sufficienti sulle capacità del dentista; in (12) si applica l’espressione ‘a prova di bomba’ a qualche cosa che nessuno intende saggiare mediante esplosivi, anche perché farlo sarebbe impossibile. In ambedue i casi si può ugualmente ritenere che il parlante stia fornendo un contributo cooperativo alla conversazione, poiché le violazioni sono troppo palesi per essere non cooperative, e confermare questa cooperatività attribuendo a (11) l’implicatura (11i) che il dentista non è particolarmente bravo, a (12) un’interpretazione metaforica (l’implicatura 12i).
Esistono svariati modelli d’implicatura conversazionale, alcuni risalenti già a Grice; particolarmente degna di nota è la distinzione fra implicature ‘generalizzate’ che vengono suggerite dal fatto di dire una determinata cosa in qualsiasi contesto (è, per es., il caso di 10i) e implicature ‘particolarizzate’, recuperare le quali richiede il ricorso a premesse riguardanti il contesto della particolare conversazione in cui l’enunciato è inserito. Consideriamo:
(13) a: come va con Luigi?
b: bene: lavora in banca, va d’accordo con i colleghi e non è ancora finito in prigione.
Qui quello che b sta insinuando potrà essere compreso soltanto da chi conosca parecchi dettagli sulla situazione di Luigi e su quella della banca in cui lavora. Questa distinzione è stata valorizzata dalle ricerche sulle implicature generalizzate, considerate a mezza via tra elaborazioni inferenziali e fatti linguistici codificati (v., per es., Levinson 2000).
Mentre in linea di massima la valutazione di un enunciato secondo verità o falsità è indipendente dalla presenza o meno di implicature, in alcuni casi le implicature possono interferire con le condizioni di verità di enunciati composti. Si considerino:
(14) Gianni ha fatto la doccia ed è andato a casa;
(15) Gianni è andato a casa e ha fatto la doccia;
(14i) Gianni ha fatto la doccia e poi è andato a casa;
(15i) Gianni è andato a casa e poi ha fatto la doccia;
(14a) se Gianni ha fatto la doccia ed è andato a casa, può essere l’assassino;
(15a) se Gianni è andato a casa e ha fatto la doccia, non può essere l’assassino.
Gli enunciati (14a) e (15a), se ne consideriamo esclusivamente il significato vero-condizionale (che non include le implicature 14i e 15i), si contraddicono l’un l’altro. E, tuttavia, ci sono casi in cui accetteremmo ambedue come veri senza timore di contraddirci: per es., potrebbero far parte di uno stesso ragionamento su di uno stesso caso di omicidio. A quest’osservazione sono state date risposte diverse. Nell’ambito della teoria della pertinenza (D. Sperber, D. Wilson, Relevance: communication and cognition, 1986; trad. it. La pertinenza, 1993) si sostiene che (14i) e (15i) non sono implicature, ma fanno parte delle proposizioni espresse rispettivamente da (14) e (15) e quindi comunicate esplicitamente (anche se inferenzialmente: concetto racchiuso nell’idea di esplicatura, studiata dettagliatamente in Carston 2002). Secondo altri autori (Levinson 2000), si può invece parlare di un ‘circolo’, non vizioso, per cui si rende necessario elaborare le implicature di un enunciato prima di poterlo combinare con altri enunciati e quindi di valutare l’enunciato composto vero o falso.
Funzioni testuali e comunicative degli impliciti
La tipologia degli impliciti che abbiamo presentato non è oziosa: non si tratta di un semplice esercizio tassonomico. La possiamo vedere in azione se consideriamo le funzioni che i diversi tipi di implicito svolgono nel testo e nella comunicazione.
Osservando casi di presupposizione vediamo facilmente che il materiale linguistico necessario a formulare il contenuto presupposto può essere presente nella superficie del testo, come accade nei nostri esempi (1), (3), (5). La riformulazione richiesta dall’esplicitazione di presupposizioni può così essere, in certi casi, davvero minima. Tuttavia la presupposizione rimane un implicito, in quanto la sua verità è data (e deve essere data) per scontata. Il fatto che il suo contenuto sia dato per scontato ma insieme sia linguisticamente presente consente alla presupposizione di giocare un ruolo centrale nell’economia di un testo. Ciò accade in modi diversi a seconda che abbia un chiaro antecedente nel testo (o nel suo contesto), o che apporti informazioni nuove. Nel primo caso, la presupposizione contribuisce alla connessità del testo o della conversazione, e alla sua collocazione intertestuale. Nel secondo caso, ha funzione informativa, e la esercita in modo alquanto accattivante, con una sorta di doppio registro: consente di compattare l’informazione in modo da sveltire l’esposizione e non annoiare un eventuale ricevente già informato, ma lascia l’informazione stessa accessibile, per ogni evenienza, a chi ancora non la possedeva. Ciò è particolarmente utile quando il testo si rivolge a un pubblico vasto, presumibilmente eterogeneo quanto a conoscenze di sfondo: il lettore riceve comunque tutte le informazioni necessarie, ma in forma tale da non essere trattato come un ignorante.
La presupposizione può anche avere funzione persuasiva. Può, infatti, introdurre come date per scontate entità dubbie, interpretazioni tendenziose, criteri di valore, imponendo al ricevente di vedere il mondo nel modo voluto dall’autore del testo. È uno strumento di persuasione potente, in quanto il suo contenuto si sottrae alla discussione: per discuterne, bisogna in qualche modo delegittimare l’agire linguistico del parlante o autore del testo. Anche dell’uso persuasivo della presupposizione si trovano facilmente numerosi esempi nei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto nei settori della cronaca e del commento culturale o politico, oltre che, naturalmente, della pubblicità. Nell’interazione faccia a faccia, inoltre, usiamo la presupposizione come strategia persuasiva tutte le volte che, non volendo mettere qualcosa in discussione, passiamo direttamente a trattarlo come dato per scontato, dando di ciò appropriata traccia linguistica: la presupposizione può così contribuire a rimodellare le relazioni interpersonali. Un ulteriore effetto anch’esso persuasivo della presupposizione è, infine, il rafforzamento dei legami di gruppo: il fatto che qualcosa sia segnalato linguisticamente come presupposto suggerisce al destinatario del discorso e del testo che lo si ritiene un membro del gruppo, e indica al contempo una precisa condizione di questa appartenenza.
Molto diverso è il carattere e il funzionamento delle implicature. Esse non formano uno sfondo dato per scontato, ma rendono disponibili informazioni aggiuntive o correttive rispetto a quelle che il testo fornisce esplicitamente. Diversamente dalla presupposizione, l’implicatura non coincide mai con qualcosa che il testo, nello stesso segmento testuale che attiva l’implicatura, formula anche esplicitamente. Se la stessa informazione viene data esplicitamente, prima o dopo l’enunciato o espressione che potrebbe attivare l’implicatura, questa non è risolta, come sarebbe una presupposizione, ma viene resa totalmente inutile e con ciò fatta quindi scomparire.
Mentre su come si debba formulare esplicitamente una presupposizione i dubbi non sono poi tanti (semmai, a volte il dubbio è se si tratti veramente di una presupposizione), sulla formulazione esplicita di un’implicatura i dubbi sono molti di più. L’implicatura, infatti, si presenta come un alone di senso non ben definito, rispetto a cui ciascuna singola esplicitazione è in qualche modo manchevole (troppo precisa, e insieme non esauriente). Può avere anch’essa, in certi casi, carattere sfumato e aperto: come sia Grice sia la teoria della pertinenza hanno in diversi modi affermato, e com’è particolarmente evidente nel caso dei testi poetici, spesso quanto un testo implica conversazionalmente ha più formulazioni, tutte in linea di principio accettabili, in alternativa o in aggiunta l’una all’altra. Tuttavia, l’implicatura fa parte della fisionomia del testo (come suggerisce Levinson 2000: paragonando le implicature conversazionali generalizzate ai completamenti percettivi, irriflessi, anche se in parte determinati dal nostro sfondo di conoscenze, delle immagini che percepiamo). Cogliere la presenza di implicature e regolarsi di conseguenza è in effetti possibile anche senza giungere a un’esplicitazione. Ciò che l’esplicitazione aggiunge è, da un lato, come nel caso della presupposizione, la piena accessibilità e manipolabilità linguistica dell’implicito, dall’altro, l’articolazione della fisionomia percepita in una serie lineare di passaggi inferenziali.
Riconoscendo un’implicatura, riconosciamo che il testo ha un alone di senso da elaborare secondo certe linee guida. Forse nessuna elaborazione può mai essere considerata esauriente: una lista di implicature rese esplicite non coinciderà mai esattamente con l’alone di senso che il testo proietta intorno a sé. Ciò nonostante, tentare di esplicitare le implicature (eventualmente prevedendo diverse formulazioni o percorsi argomentativi alternativi) è un’operazione che fa a buon diritto parte dell’analisi del testo: la ricerca dei modi più corretti per elaborarle, l’impegno a specificare percorsi inferenziali e argomentativi che le sostengano, danno infatti luogo – soprattutto nel caso dell’implicatura di tipo conversazionale – a un controllo argomentativo del modo in cui il testo è interpretato. Il lavoro di esplicitazione così inteso presuppone una nozione di implicatura normativamente carica, anziché descrittiva e psicologica. La normatività comporta che, data una certa situazione di scambio comunicativo e dato un contributo a tale scambio, ci siano implicature che è corretto da parte del ricevente elaborare come parte del senso del contributo conversazionale in questione. Ciò che il parlante ha reso disponibile è, infatti, ciò che è corretto derivare, secondo qualche modello di implicatura, dalle sue parole.
Le implicature possono servire, come le presupposizioni, a economizzare l’informazione, ma si trovano a essere usate anche per motivi inerenti alla relazione interpersonale, quando, per es., si desidera comunicare qualcosa di problematico o con sfumature emotive e si preferisce indurre il ricevente a recuperare il messaggio anziché imporglielo. L’implicatura convenzionale presenta questa caratteristica in grado minore, poiché come strumento di precisazione di relazioni intratestuali non richiede tanto riconoscimento e complicità quanto padronanza nell’uso di connettivi e indicatori e dominio delle relazioni argomentative in cui l’enunciato può entrare.
Le implicature trovano un limite esterno nelle inferenze tratte da sintomi. Queste possono sì essere interpretative del comportamento di un soggetto, ma risalgono essenzialmente alle cause di tale comportamento, non a un senso inteso dal soggetto stesso. Per fare un esempio, di qualcuno che racconta troppi particolari inutili è possibile dire che la sua condotta è motivata dal fatto di essere ansioso. La distinzione fra queste inferenze e le implicature non risulta sempre facile, ma è importante mantenerla, perché altrimenti dovremmo ammettere come parte del senso implicito del testo qualsiasi informazione su stati o condizioni del parlante che in esso, magari suo malgrado, si rivelano. Invece, l’implicatura deve sempre poter essere ascritta al ‘voler dire’ del parlante e, se si tratta di un’implicatura conversazionale, dipende dall’attribuire al parlante un atteggiamento cooperativo. Per es., in determinate circostanze la persona che racconta troppi dettagli apparentemente inutili, se ritenuta in questo cooperativa, comunica implicitamente una qualche ragione che rende i particolari in questione degni di nota.
Impliciti e comprensione del linguaggio
La ricerca sugli impliciti ha dedicato molta attenzione alla questione dei processi mentali mediante i quali il ricevente comprende il senso implicito. La teoria dell’implicatura di Grice, di per sé stessa essenzialmente di carattere filosofico, ha trovato diffusione in ambito linguistico e psicologico aprendo la strada all’ipotesi che il senso prodotto e recepito negli scambi linguistici dipenda per la maggior parte non dalle regole della lingua, ma da processi psicologici di carattere inferenziale, presenti in modo parallelo e inverso nel parlante e nel ricevente della comunicazione. Ciò ha indotto la ricerca linguistica e psicologica a interrogarsi sul carattere dei processi di comprensione del linguaggio, sulla loro collocazione fra gli altri processi mentali, sull’ampiezza del ruolo da attribuire all’elemento inferenziale. Si è così dato avvio a un nuovo campo di studi, la pragmatica cognitiva (Bianchi 2009), in cui ha giocato e continua a giocare una parte assai importante una teoria sorta dalla rielaborazione critica del pensiero di Grice, la teoria della pertinenza di Dan Sperber e Deirdre Wilson (Relevance, 1986; trad. it. La pertinenza, 1993).
Grice riteneva che le implicature conversazionali sorgessero esclusivamente nei contesti in cui vigono determinate attese di cooperatività fra parlante e interlocutore, esprimibili nella forma di un ‘principio di cooperazione’ e articolabili in una molteplicità di massime. Sperber e Wilson hanno sostenuto che una sola massima, quella della Relazione (‘Sii pertinente’), può svolgere tutto il lavoro necessario a produrre ogni tipo di comunicazione implicita. E hanno trasformato tale massima in un ‘principio di pertinenza’ innato, che a loro avviso le nostre menti seguono automaticamente. Si tratta in sostanza della tendenza della mente umana a processare gli stimoli che riceve ricavandone la maggior informazione al minor costo; ogni messaggio verbale viene quindi inteso nel modo più favorevole alla possibilità di farlo interagire con le assunzioni già presenti nella mente per trarne ulteriori conseguenze (non è necessario che si tratti di assunzioni attivate, consapevoli, ma può trattarsi anche di assunzioni latenti, che il processo di elaborazione degli stimoli andrà ad attivare). Il ruolo di tali assunzioni nel processo di comprensione fa sì che ogni interpretazione sia ad hoc, vincolata cioè al particolare contesto cognitivo del parlante e dell’interlocutore in una certa conversazione; scompare, di conseguenza, l’idea che ci possano essere implicature generalizzate che si producono indifferentemente in qualsiasi contesto.
Altre ricerche hanno invece rivolto l’attenzione ad alcuni modelli di implicatura che sembrerebbero proprio avere un carattere ‘generalizzato’ (perlomeno in situazioni di default: rimangono, infatti, sempre contestualmente cancellabili). Queste implicature si produrrebbero in virtù di ‘euristiche’, schemi di ragionamento routinari che senza grosso sforzo cognitivo e velocemente ci consentono di allargare il raggio di informazioni che un nostro enunciato trasmette. Levinson (2000) ne descrive tre: «Ciò che non viene detto, non è», che genera implicature del tipo di quella del nostro esempio (10); «Ciò che è descritto semplicemente è esemplificato stereotipicamente», per cui quando diciamo, per es.,
(16) il chiodo è nel muro
intendiamo che è infisso nel muro con la punta (e non murato fra i mattoni o nascosto nella malta); e infine «Ciò che è detto in modo anormale, non è normale», per cui se confrontiamo le seguenti frasi
(17) Giorgio ha fatto fermare la macchina,
(17a) Giorgio ha fermato la macchina,
possiamo constatare che quando utilizziamo la prima suggeriamo che il soggetto ha fatto ‘fermare la macchina’ in modo indiretto o comunque inusuale.
Mentre Grice era interessato in primo luogo a una ricostruzione razionale dei percorsi di comprensione (ai modi in cui possiamo giustificare l’attribuzione di senso implicito), sia la teoria della pertinenza, sia le euristiche proposte da Levinson si pongono il problema di dare una descrizione dei processi cognitivi effettivamente all’opera quando comprendiamo degli enunciati e al loro collegamento con l’architettura generale e il funzionamento della mente/cervello (v. su questo Sperber, Wilson 2002). I due progetti di ricerca non sono veramente in competizione (infatti, dall’uno possono venire suggerimenti o restrizioni per l’altro, e viceversa), ma certamente è opportuno distinguerli (come ben ha argomentato Saul 2002; cfr. anche Sbisà 2007a, pp. 191-92), evitando fra l’altro di importare automaticamente modelli filosofici (il ragionamento deduttivo, il parlante razionale ideale...) nello studio dei processi cognitivi della comprensione linguistica. A conferma e rafforzamento di questa esigenza, la pragmatica cognitiva sta diventando sempre più un campo sperimentale (Experimental pragmatics, 2004) e aperto a nuove ipotesi.
La ricostruzione razionale dei percorsi di comprensione, a sua volta, può interagire con il livello dell’esperienza abilitando il ricevente di un testo ad assegnamenti di senso implicito ben motivati, e contribuire così all’analisi del discorso e alla sua metodologia.
Impliciti e società del 21° secolo
Lo studio dell’implicito come ricostruzione razionale dei percorsi di comprensione rende possibile l’analisi dei contributi che gli impliciti danno al senso dei testi e all’andamento della comunicazione. Studiare i processi grazie a cui la nostra mente comprende il senso implicito è sicuramente un progetto di notevole rilevanza scientifica, che si collega ad altre indagini sul modo di funzionare della mente, e può avere applicazioni in campo psicologico e medico-psichiatrico, nonché nella progettazione di agenti artificiali capaci di interpretare il linguaggio verbale. Ma essere in grado di identificare e motivare il contributo che gli impliciti danno al senso dei testi è qualcosa che interferisce direttamente con la nostra vita quotidiana. C’è una grande differenza nelle possibilità di manovra che un ricevente ha nei confronti di un testo, a seconda che ne intuisca semplicemente il significato complessivo (nel qual caso si troverà ad aver accettato, acriticamente, almeno alcuni dei suoi impliciti), oppure che sia in grado di dare del testo una o più parafrasi esplicitanti, meglio se solidamente motivate. Quando si è in grado di analizzare un testo, e con ciò di darne parafrasi esplicitanti, si possiede completamente la rete di informazioni che il testo fornisce, con le sue relazioni interne, e si è in grado quindi di utilizzarne ogni parte – anche quelle meno evidenti – tanto a fini cognitivi, per orientarsi nel mondo, quanto al fine di valutare le strategie comunicative del parlante o autore.
Come ogni analisi di testi o discorsi, un’analisi rivolta a formulare esplicitamente gli impliciti di un testo ha una duplice finalità, cui si accompagna una duplicità di livelli d’uso. Una finalità è vedere come funziona un certo testo (o genere testuale): come si rivolge al destinatario l’articolo di divulgazione scientifica o quello di commento politico, come è strutturata l’informazione del foglio d’istruzioni di una telecamera o del foglio esplicativo di un medicinale, come fanno la pubblicità o le varie forme più o meno nascoste di promozione e propaganda a persuadere i destinatari, perché un certo personaggio pubblico appare più affidabile di un altro. Da ciò possiamo anche trarre ipotesi più generali sulla testualità e sulle relazioni comunicative. L’altra finalità invece appare se dal funzionamento dei testi e della comunicazione passiamo a focalizzarci sui loro contenuti. Vogliamo aver chiaro da che parte sta un certo giornale e perché? Ci interessa capire meglio il foglio d’istruzioni, o il foglietto esplicativo, per esser sicuri che niente di utile ci sia sfuggito? Dobbiamo applicare una circolare burocratica complicata? Abbiamo ancora interesse, come si aveva nel 20° sec., a identificare e criticare luoghi comuni dati per acquisiti, prese di posizione retoriche e apparentemente emotive, stereotipi di genere? Le risposte a questi interrogativi si trovano negli impliciti stessi dei testi che sottoponiamo a esame, cioè nelle parafrasi che li rendono espliciti. Se, invece di procedere semplicemente per intuizione, si vuole concretizzare il senso implicito intuito in enunciati linguistici chiari e completi, in molti casi trovare le forme giuste per rendere gli impliciti del testo su cui stiamo ragionando può non essere semplice: potrà allora essere d’aiuto essere a conoscenza della gamma degli attivatori presupposizionali e delle particolarità dell’uno o dell’altro tipo di essi, essere consapevoli della proprietà di certe parole di suscitare convenzionalmente inferenze e, infine, essere capaci di ricostruire un percorso inferenziale basato sulle massime della conversazione. A questa seconda finalità dell’analisi dell’implicito può corrispondere un livello d’uso non più disciplinare e accademico, ma quotidiano e civile, nel cui ambito ciò che conta è soprattutto la tensione verso esplicitazioni motivate e con ciò controllabili.
La capacità di formulare parafrasi esplicitanti svolge due funzioni principali: l’una cognitiva, l’altra critica. Ambedue sono importanti per ciascun individuo nella sua vita sociale e per la qualità della vita sociale stessa, e potrebbero rivelarsi determinanti nel corso di un 21° sec. che nei suoi primi anni si è delineato come soggetto a gravi rischi di scomparsa del senso e di irrazionalità. Con l’espressione scomparsa del senso intendo riecheggiare Jean Baudrillard che nel secolo scorso aveva parlato di «implosione del senso» per eccesso di comunicazioni (L’implosion du sens dans les media, in Simulacres et simulation, 1981; trad. it. in J. Baudrillard, Il sogno della merce, 1987); al problema, crescente, della quantità si è recentemente aggiunto un problema di qualità, evidente nel carattere consumistico e di produzione di consenso che ha assunto la maggior parte delle comunicazioni di massa. Con il termine irrazionalità mi riferisco soprattutto ai nuovi nazionalismi, ai localismi, ai fondamentalismi, al diffuso bisogno di appartenenza intriso di neoromanticismo cui sempre più spesso si ricorre, forse, proprio perché non si ritrova più il senso come percorso, sia pure modesto e contestuale, della propria ragione.
La funzione cognitiva della capacità di esplicitare consente di ricavare da un testo tutte le informazioni che rende disponibili, selezionare le informazioni che (per le finalità dello scambio linguistico in corso) contano davvero, e dominare insiemi articolati di informazioni. Quest’abilità è preziosa nell’attuale società complessa, tecnologica e a dimensione planetaria, in cui ogni problema su cui il cittadino può dovere o voler intervenire – nel caso voglia farlo a ragion veduta – richiede di orientarsi in un groviglio di informazioni e di regole. Siamo chiamati a dare consensi o a rispondere a sondaggi, a prendere decisioni (da quelle sui nostri stessi consumi, oppure in qualità di elettori), ma chissà se siamo riusciti a ricostruire i termini del problema. A mettere insieme correttamente un numero di informazioni sufficienti a decidere con un certo grado di attendibilità per quanto riguarda ragioni e conseguenze. Senza che il cittadino possieda questa base informativa e la capacità di elaborarla, la democrazia delle forme non può che scivolare in una demagogia con delega ai poteri forti. Anche dal punto di vista più generale e neutro della trasmissione del sapere, le note difficoltà delle giovani generazioni con la lettura tradizionale negli ultimi decenni del 20° sec. sono state minimizzate o reinterpretate come segno dell’avvento di modalità comunicative nuove e diverse, più iconiche che simboliche, e multimediali, con una sorta di oralità di ritorno: ma un utilizzo adeguato di frammenti ben selezionati della massa enorme di informazioni su ogni aspetto dello scibile, che sono disponibili oggi nell’editoria tradizionale o multimediale e sul web, è possibile solo a patto di saper acquisire un dominio sul testo che includa i suoi impliciti e le loro motivate esplicitazioni. E tradizionalmente quest’abilità si acquisiva proprio (per la facilitazione che la staticità del testo scritto comporta) tramite la lettura. Le pratiche educative dentro e fuori dalla scuola dovrebbero tener conto di questi problemi e avviare, con sistematicità ed elaborando strategie didattiche adeguate, all’esercizio di forme di parafrasi esplicitante (Sbisà 2007a, pp. 6-10, 160-190; v. anche Lumbelli 2007).
Dobbiamo invece ricorrere alla funzione critica della capacità di esplicitare quando ci troviamo davanti a comunicazioni in qualche modo fuorvianti o sleali, o comunque tali da proporre l’adesione acritica a stereotipi (di ruolo, di genere, di etnia o cultura ecc.), a sistemi di valori e ideologie, ad appartenenze. L’esplicitazione è un passaggio necessario per contrastare l’influenza della presupposizione persuasiva, con la quale si tenta di indurci a dare per scontato qualcosa senza sottoporlo a discussione, trattandosi magari di qualcosa che non accetteremmo se ce lo dicessero esplicitamente. Ma saper esplicitare è cruciale anche quando si riceve una comunicazione circondata da un’aura vaga di impliciti, che non consente di rendersi conto a prima vista di quali contenuti esattamente siano quelli rispetto ai quali il parlante accetta di essere impegnato. In alcuni casi tentando un’esplicitazione ci accorgiamo che in realtà il testo proietta impliciti fra loro contrastanti: è quindi incoerente e la sua efficacia affabulatoria si rivela un inganno.
Nel caso della funzione cognitiva della capacità di esplicitare, riconosciamo e formuliamo esplicitamente l’implicito per impadronircene. Nel caso della funzione critica, facciamo lo stesso per prendere distanza da esso ed eventualmente sbarazzarcene. In ambedue le direzioni, è ugualmente di grande aiuto una consapevolezza dell’implicito, delle sue forme e funzioni, di quella sua profonda differenza dal non detto che lo rende controllabile, motivato, e con ciò razionale. È a questa consapevolezza che lo studio dell’implicito può dare fondamento e strumenti, ponendosi così a sostegno di una delle condizioni necessarie della cittadinanza nel 21° secolo.
Bibliografia
S.C. Levinson, Presumptive meanings. The theory of generalized conversational implicature, Cambridge (Mass.) 2000.
R. Carston, Thoughts and utterances. The pragmatics of explicit communication, Oxford 2002.
J.M. Saul, What is said and psychological reality. Grice’s project and relevance theorists’ criticisms, «Linguistics and philosophy», 2002, 25, 3, pp. 347-72.
M. Sbisà, Presupposizioni e contesti, in La svolta contestuale, a cura di C. Penco, Milano-New York 2002, pp. 221-39.
D. Sperber, D. Wilson, Pragmatics, modularity and mind-reading, «Mind & language», 2002, 17, 1-2, pp. 3-23.
R. Stalnaker, Common ground, «Linguistics and philosophy», 2002, 25, 5-6, pp. 701-21.
C. Bianchi, Pragmatica del linguaggio, Roma-Bari 2003.
Ch. Gauker, Words without meaning, Cambridge (Mass.) 2003.
Experimental pragmatics, ed. I.A. Noveck, D. Sperber, Basingstoke (Hampshire)-New York 2004.
C. Bazzanella, Linguistica e pragmatica del linguaggio. Un’introduzione, Roma-Bari 2005.
Ch. Potts, The logic of conventional implicatures, Oxford 2005.
L. Lumbelli, Complex connective inference and a possible type of implicature, «Lingue e linguaggio», 2007, 1, pp. 85-100.
M. Sbisà, Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Roma-Bari 2007a.
M. Sbisà, Pathways to explicitness, «Lingue e linguaggio», 2007b, 1, pp. 101-20.
C. Bianchi, Pragmatica cognitiva, Roma-Bari 2009.