di Alessandro Pio
Chi ricerca esclusivamente all’interno della Repubblica Popolare Cinese le ragioni della sua straordinaria affermazione economica e commerciale degli ultimi decenni trascura un importante elemento: le sinergie tra la Cina e i paesi che la circondano. Dal 2001 – anno dell’accessione cinese all’Organizzazione mondiale per il commercio – al 2010, a fronte di una percentuale di importazioni statunitensi da tutta l’Asia sostanzialmente stabile (cresciuta dal 34 al 36%), la percentuale di quelle provenienti dalla Cina è raddoppiata, dall’8 al 16%. Ciò significa che una quota crescente di beni, che in precedenza venivano esportati direttamente verso gli Stati Uniti, fa adesso una sosta in Cina, dove vengono compiute alcune fasi di assemblaggio in una catena del valore aggiunto che coinvolge molti paesi vicini, in particolare i paesi sviluppati dell’Asia orientale (Giappone e Corea del Sud) e le nazioni del Sud-Est asiatico appartenenti all’ASEAN. Significa anche che le statistiche del commercio estero, basate sul valore finale dei prodotti esportati e non sul valore aggiunto dal paese esportatore, amplificano i reali disavanzi, poiché circa il 30% delle esportazioni mondiali è costituito da riesportazione di prodotti intermedi. Un esempio significativo è rappresentato dall’iPhone, la cui esportazione dalla Cina agli Stati Uniti ha contribuito per circa 2 miliardi di dollari al disavanzo commerciale americano nel 2009. In realtà, di tale importo solo il 4% era rappresentato dal valore aggiunto in Cina a componenti provenienti dal Giappone (34%), Corea del Sud (13%), Germania (16%), Stati Uniti (6%) e altri paesi (27%). Il costo del prodotto finito era pari al solo 36% del prezzo di vendita.
I dati confermano una graduale ma continua integrazione regionale. Tra il 1990 e il 2012 il commercio intraregionale in Asia è cresciuto dal 45% al 55% del totale, registrando le punte più alte proprio nei flussi la cui origine o la cui destinazione è in Asia orientale (53%) e nel Sud-Est asiatico (67%). La crescente integrazione non si limita ai flussi commerciali: il 46% degli investimenti diretti esteri, il 26% degli investimenti azionari, il 12% di quelli obbligazionari, e ben l’80% dei movimenti turistici in Asia sono ormai interni alla regione, con punte particolarmente elevate nel Sud-Est asiatico. Questa crescente integrazione spiega come, nel 2008-09, la buona tenuta dell’economia cinese abbia protetto quelle dei paesi della regione, che non hanno risentito in maniera notevole della crisi che infuriava negli Stati Uniti e in Europa, mentre la recente revisione verso il basso delle previsioni di crescita per i paesi ASEAN (dal 5,6% nel 2012 al 4,9 nel 2013, prima di risalire al 5,3% nel 2014) è legata anch’essa al rallentamento dell’economia cinese (la cui crescita nel 2014 è prevista a un tasso del 7,4%, inferiore al 9-10% annuo a cui la Cina ci aveva abituato).
La Cina ha a sua volta coltivato questo ruolo regionale partecipando a numerosi meccanismi di integrazione e coordinamento. Nell’ottobre 2013 ha preso parte con il primo ministro Li Keqiang al vertice ASEAN e con il presidente Xi Jinping a quello della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC). In particolare ha colto l’occasione dell’assenza del presidente statunitense Obama, impegnato sul fronte domestico dalle trattative per l’innalzamento del tetto sul debito pubblico, per elevare il profilo cinese nella regione, avanzando proposte quali la creazione di una banca asiatica per l’infrastruttura, con significativa partecipazione di capitale cinese, e il rafforzamento attraverso un ‘decennio di diamante’ delle relazioni economiche con i paesi ASEAN. La Cina partecipa anche
ai negoziati sulla Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), lanciata al summit ASEAN del 2012 e comprendente anche Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud e India, oltre ai paesi ASEAN. In più è attiva nei meccanismi di cooperazione regionale della subregione del Gran Mekong (GMS) e della Cooperazione economica regionale per l’Asia centrale (CAREC), appoggiati dalla Banca asiatica di sviluppo. Questi ultimi sono particolarmente consoni all’approccio cinese, essendo pragmaticamente basati su concreti progetti infrastrutturali transnazionali e sulla armonizzazione delle procedure. In questa strategia regionale, la proiezione verso i paesi dell’Asia centrale risponde all’obiettivo di approvvigionare materie prime energetiche e minerarie, perseguito anche in ambito agricolo nelle relazioni con Africa e America Latina, e complementare all’integrazione nelle catene produttive manifatturiere dell’Est e Sud-Est asiatico che deriva dalla collaborazione con ASEAN e APEC.
La crescente integrazione regionale ha anche portato stabilità sul fronte finanziario. Cina, Giappone e Corea del Sud hanno apportato il significativo peso delle loro riserve valutarie all’Iniziativa di Chiang Mai, che prevede swap multilaterali per un totale di 240 miliardi di dollari, a cui i paesi membri possono attingere in caso di crisi valutaria. Mentre tra il 2005 e il 2012, per riequilibrare il rapporto capitale-prestiti, le banche europee hanno ridotto la loro esposizione verso l’Asia dal 27 al 22% e verso i paesi ASEAN dal 27 al 24%, le banche giapponesi nello stesso periodo l’hanno aumentata dall’11 al 15% e dal 15 al 21% rispettivamente. Resta da vedere se le fonti regionali saranno sufficienti a controbilanciare, nel 2014, le possibili uscite di capitali a breve termine che derivano dai previsti aumenti dei tassi di interesse negli Stati Uniti, il cui annuncio nel 2013 ha già causato qualche difficoltà a paesi con maggiori squilibri delle partite correnti, come l’Indonesia e la Thailandia.