L’impresa di terzo millennio
Scenario
Affrontare il tema dell’impresa produttiva agli albori del 21° sec. significa anzi tutto analizzare l’evoluzione dello scenario generale, nel quale l’impresa opera e dal quale l’impresa viene condizionata.
Infatti, oggi si avverte un legame sempre più stretto fra l’ambiente esterno all’impresa e le sue configurazioni interne, tanto che è ormai abitudine consolidata parlare di ‘impresa che apprende’ in tempo reale, ovvero di learning organisation, per esprimere il costante cambiamento delle sue strategie e della sua struttura organizzativa in un processo costante e continuo di adeguamento alle mutevoli condizioni ambientali, sempre più turbolente e quindi difficili da prevedere e da programmare sul medio e lungo periodo.
Fra le caratteristiche ambientali più significative da considerare c’è quella della globalizzazione dei mercati ormai presente e operativa grazie all’avvento e alla diffusione delle alte tecnologie. Siamo stati e tuttora siamo protagonisti di una grande rivoluzione epocale: l’avvento e la diffusione delle tecnologie high-tech, in particolare quelle relative alle ICT (Information and Comunication Technologies), quindi di un’informazione sempre più pregnante e diffusa, facilitata dagli sviluppi dell’informatica distribuita e da una comunicazione resa in larga misura più efficace ed efficiente grazie appunto all’evoluzione tecnologica, quindi all’uso dei computer e delle reti del tipo Internet e all’utilizzo ormai abituale nei processi produttivi della robotica avanzata.
Questa rivoluzione ha indotto un mutamento epocale nei costumi, nelle abitudini operative, nello stesso modo di pensare le organizzazioni, in particolare le strutture d’impresa che a esse presiedono. Fra l’altro, va subito segnalato il fatto che questo epocale cambiamento di scenario ha influenzato il modo stesso di lavorare e dunque le comuni consuetudini operative, imponendo una nuova grande alleanza fra cultura ed economia. Si assiste così al declino degli organigrammi aziendali di tipo verticale impostati su precise deleghe che indicavano la one best way, ovvero l’unica via ritenuta migliore per svolgere i compiti assegnati.
L’ampia, diffusa presenza delle alte tecnologie in tutte le organizzazioni comporta l’emergere di una nuova unità d’indagine operativa, costituita dalla singolare, strana coppia ‘individuo-computer’; una coppia, cioè, espressa dall’operatore e dallo strumento informatico al quale è ormai indissolubilmente legato. Nella pratica, questo legame si attua attraverso un particolare processo di delega – delega tecnologica – che vede l’individuo trasferire alla macchina specifici compiti di elaborazione dei programmi sui quali lavora. Il computer opera di conseguenza in piena autonomia, pervenendo ai risultati sui quali l’operatore svilupperà poi le funzioni necessarie per esercitare i debiti controlli.
Emergono così organigrammi appiattiti con caratteristiche tendenzialmente orizzontali capaci di rendere gli individui molto più liberi nelle scelte delle modalità operative del proprio lavoro, generalmente svolto con l’uso dei computer o, nei cicli produttivi, di robot automatizzati – strumenti con i quali si instaura il rapporto di delega tecnologica che nell’operatore umano implica un elevato grado di cultura affinché possa dominare e controllare adeguatamente i sofisticati mezzi tecnologici.
Il rapporto fra soggetto umano e apparecchiature high-tech informatiche diventa complesso anche a motivo delle molteplici interazioni che l’individuo è chiamato a governare per non rimanere sopraffatto dall’intensa attività delle macchine, le quali assumono la prerogativa di quella che può essere assimilata a una quasi ‘intelligenza’, a scapito del soggetto umano impegnato nella loro conduzione. Emerge di conseguenza la necessità di una nuova alleanza fra la cultura e gli ambiti tipici che caratterizzano il mondo economico, in particolare le imprese produttive nelle loro configurazioni complesse di reti di tecnologie avanzate, governate dagli individui che a esse sovrintendono. Si avverte, cioè, l’esigenza di una nuova cultura, profonda e ampiamente diffusa nell’ambito delle imprese, in grado di mettere i collaboratori in condizione di esprimere stimolanti capacità di intuito creativo e particolari attitudini alla sintesi critica necessaria per dominare con intelligente sapienza l’astuzia delle macchine, alle quali peraltro gli operatori umani rimangono indissolubilmente legati attraverso la delega tecnologica e le interazioni che costantemente si manifestano nell’ambito del lavoro quotidiano così come oggi si configura in tutti i sistemi complessi.
La cultura nuova deve essere in grado di assumere un nuovo ruolo propositivo in una nuova alleanza con il mondo dell’economia; un’alleanza che sappia e possa consolidarsi nel tempo, rispondendo alla sempre più evidente necessità di coesistenza e di cooperazione che si proietta nel futuro di medio e lungo periodo.
In questo scenario generale si manifestano anche nuove esigenze organizzative, in particolare nell’ambito delle imprese produttive. Così l’impresa rigida dell’era tayloristico-fordista si trasforma, diventando impresa snella, flessibile, corta, tanto da poter metaforicamente affermare – seguendo le notazioni di Federico Butera, studioso delle organizzazioni – che l’impresa, per adeguarsi alle mutate condizioni di scenario, si è trasformata da ‘impresa castello’, completamente chiusa in sé stessa, in ‘impresa-rete’, pertanto aperta all’ambiente nel quale opera.
Ma torniamo allo scenario ambientale e alle sue connotazioni più significative. Agli inizi del 21° sec., l’ambiente socioeconomico è condizionato dalla presenza di almeno due situazioni che in larga misura lo caratterizzano e condizionano.
L’avvento delle ICT determina nell’ambito delle teorie organizzative una rivoluzione, ampiamente indagata e studiata da diversi autori. L’impresa è interpretata come gerarchia in grado di governare transazioni e in tal senso verrà definita impresa transazionale. Si parla poi di impresa corta (perché di fatto diminuiscono nel suo organigramma le interconnessioni verticali a causa dell’appiattimento della struttura e questa sarà in grado di effettuare una produzione ‘snella’), per pervenire infine al concetto di impresa-rete come espressione di un’unità organizzativa resa snella e flessibile in tutte le sue attività operative proprio dalla innovativa struttura reticolare. Nel contesto che ne consegue si evidenziano per importanza le interazioni fra individui e quindi fra individui e macchine elettroniche – ormai nuove unità di indagine in tutte le organizzazioni – e, infine, le interazioni fra gli stessi computer.
In secondo luogo è venuto a determinarsi un generalizzato clima di benessere presente ormai su tutti i mercati globali, nei quali si sviluppa una forte concorrenza imprenditoriale in grado di trasformare la qualità della domanda rendendola non più soltanto passiva fruitrice dell’offerta. Grazie all’ampia disponibilità di opzioni qualitative, infatti, l’utilizzatore consumatore assume il nuovo ruolo di vero e proprio committente in grado di decidere sulla qualità da scegliere, spesso imponendo preliminarmente alla transazione le proprie esigenze. Ne consegue che l’offerta espressa dalle imprese, per restare competitiva e dunque per poter soddisfare le diverse richieste, deve necessariamente sapersi adeguare ai desideri dei consumatori.
L’offerta imprenditoriale deve inoltre tenere in debito conto la necessità di un’assistenza imprenditoriale continua, dunque attiva e operativa in particolare dopo l’avvenuta transazione economica, con processi che potremmo assimilare a una sorta di manutenzione programmata dei prodotti o servizi offerti e venduti. Così, il prodotto oggetto dell’offerta va sempre più connotandosi come un vero e proprio servizio reso al cliente e ciò implica una forte terziarizzazione dell’impresa.
In questo ambito emergono anche nuove forme di valutazione del valore dell’impresa legate soprattutto ad attività, definite intangibili e immateriali, quali l’organizzazione, la propensione innovativa, la preparazione delle risorse umane, il know-how, la storia dell’impresa, i suoi marchi, le sue attività sociali e via dicendo. Queste attività sono oggi diventate oggetto di approfonditi studi al fine di renderle valutabili con esattezza e quindi di poterle esporre in specifiche contabilità aziendali. Va segnalato in proposito il fatto che nell’impresa di terzo millennio si deve fra l’altro perseguire costantemente l’‘innovazione imprenditoriale’ attraverso un potenziamento della sua funzione di ricerca e sviluppo.
Queste due situazioni – interazioni e transazioni nell’ambito imprenditoriale e modificazioni delle strategie nel definire l’offerta produttiva – hanno provocato una rivoluzione assai significativa, che impone sensibili cambiamenti nell’universo delle imprese, in particolare nel modo in cui gestire la conseguente contrattualistica. Il discorso vale anche nell’ambito dell’amministrazione pubblica, da intendere ormai come grande impresa terziaria fornitrice di servizi per i cittadini utenti.
È pertanto emersa la necessità di ricercare nuove ispirazioni per disegnare forme organizzative adeguate alle mutate esigenze di struttura e di competizione sui mercati globali, escogitando metodi di indagine utili nelle emergenti situazioni.
Un altro elemento che caratterizza in maniera peculiare l’impresa di terzo millennio è il fenomeno ormai estremamente diffuso della complessità, tant’è vero che ancora oggi è di grande attualità domandarsi quale sia la reale natura che connota l’istituzione impresa.
Il problema fu affrontato da Ronald H. Coase, economista americano di origine inglese, nato a Londra nel 1910 e vincitore nel 1991 del premio Nobel per l’economia. Coase riaprì la questione già affrontata dagli economisti classici, chiedendosi nel 1937 cosa fosse l’impresa e come funzionasse sul mercato. Professore nell’Università di Chicago, Coase è autore di pochi saggi, ma due almeno hanno avuto un profondo impatto sull’economia: The nature of the firm (1937; trad. it. 2001), scritto quando aveva ventisette anni, e The problem of social cost, pubblicato nel 1960.
In particolare nel primo – a detta dello stesso autore ‘molto citato e poco usato’ – il premio Nobel americano si propone di scoprire il motivo per cui nasce l’impresa in un’economia di scambio specializzata, e questo scopo introduce quel concetto dei costi di negoziazione (ovvero di transazione) che in tempi più recenti Oliver E. Williamson, lo studioso che più di altri ha seguito la strada tracciata da Coase, ha contribuito a diffondere. Secondo Williamson l’unità elementare di analisi della teoria delle transazioni non è più, come nell’economia neoclassica, il bene prodotto, ma proprio la transazione intesa come il trasferimento di un bene o di un sevizio che sempre comporta uno scambio di valori economici tra le parti.
La complessità è accresciuta dal fatto che la transazione non può, in genere, essere considerata come l’unica ipotesi di unità d’indagine. Si è già accennato alle interazioni fra individuo e computer, in grado di determinare, all’interno dell’impresa, una nuova base di riferimento. Inoltre, la stessa impresa può essere assunta come unità di studio sullo scenario ambientale, cioè sul mercato, considerandola nodo unitario di scambio ovvero snodo di transazioni presenti a monte e a valle della sua gestione.
La complessità aziendale è poi caratterizzata dal fatto che l’azienda non può essere vista esclusivamente quale funzione di produzione, come avviene nell’economia neoclassica, ma va interpretata come un insieme di gerarchia e di mercato inteso come luogo delle transazioni che si svolgono nelle acquisizioni dal proprio indotto. In particolare la gerarchia dà origine alla struttura imprenditoriale attraverso la quale si attua la governance delle transazioni produttive relative ai contratti che ne costituiscono la base. Il concetto di organizzazione imprenditoriale assume allora un significato ben più vasto: le imprese non possono essere considerate soltanto un mercato sia pure internalizzato, né tanto meno solo gerarchia, ma presentano sempre caratteristiche miste in funzione anche di quanto realizzano al proprio interno (logica del make, quando privilegiano la gerarchia) e di quanto comprano all’esterno (logica del buy, con riferimento prevalente al mercato). Il relativo contesto di contratti posti in essere rende così l’impresa un «nexus of treatis», per usare proprio la definizione elaborata da Williamson.
Va anche precisato che le transazioni hanno natura di scambi materiali differenziandosi perciò dalle ‘interazioni’ che nell’ambito della gerarchia si sviluppano come tipici fenomeni immateriali, costituiti dai rapporti instaurati fra i protagonisti dei processi aziendali quando interagiscono fra loro. Le interazioni si sviluppano pertanto fra individui attraverso la comunicazione e il trasferimento di informazioni, mentre in generale in esse manca proprio il prezzo come meccanismo di scambio tipico delle transazioni.
Le connotazioni descritte condizionano lo stato dell’impresa che si manifesta in un perenne mutamento evolutivo oscillante fra regolarità e crisi incombenti, comunque avvolto sempre in ambiti di grande complessità. Peraltro, le deleghe da attribuire, sufficientemente ampie per consentire significative autonomie operative, presentano anche il rischio di forme periferiche di autorganizzazione da parte dei soggetti che partecipano all’attività imprenditoriale. Tendenze, queste, da considerare come specifiche manifestazioni della complessità espressa da potenziali stati critici di sistemi aperti, analoghe alle manifestazioni che si verificano nel mondo fisico studiate e messe in evidenza in particolare da un altro premio Nobel (1977), il chimico fisico belga di origine russa Ilya Prigogine.
La situazione italiana
La rivoluzione socioeconomica di cui si è detto ha inciso non poco sull’organizzazione dell’impresa e sullo stesso suo modo di proporsi sui mercati, al punto da modificarne profondamente i comportamenti.
La natura dell’impresa e lo spirito imprenditoriale si sono evoluti in diversi modelli. Il discorso – valido in un mondo produttivo da considerarsi ormai ‘globale’ – si presenta tanto più attuale nella realtà del nostro Paese, dove sono entrate in crisi situazioni classiche come quelle del made in Italy legate ai distretti industriali che avevano determinato il successo dell’impresa italiana nel mondo.
In tutti i Paesi industrialmente avanzati il tessuto connettivo imprenditoriale è costituito soprattutto da piccole imprese le quali, in molti casi, convivono utilmente con le aziende maggiori – medie o grandi – in una complementarità virtuosa in grado di consentire un razionale sviluppo economico del settore industriale della nazione.
In Italia, invece, una nutrita presenza di piccole imprese si contrappone a una notevole scarsità di aziende industriali di grande dimensione e questo fenomeno, che pure presenta connotazioni storiche, sembra permanere nelle piccole imprese sempre più a scapito di evolutive tendenze verso le dimensioni maggiori. Non va d’altronde sottovalutato e tanto meno dimenticato il fatto che nel nostro Paese proprio le piccole imprese hanno ottenuto, in particolare nel passato, grandi successi esportando sui mercati internazionali il made in Italy. Quei risultati così positivi erano legati in particolare alla piccola dimensione, alla sua grande flessibilità e, soprattutto, all’esemplare capacità innovativa legata alla geniale creatività del piccolo proprietario-imprenditore.
Tuttavia, in questi ultimi tempi un nuovo fe-nomeno sta emergendo proprio in Italia, nazione da considerare un vero e proprio laboratorio imprenditoriale. Il fenomeno ha preso il nome di quarto capitalismo, seguendo le indicazioni di un libro di Andrea Colli (2002) dedicato specificamente a ‘un profilo italiano’. In esso si mette in evidenza l’emergere negli ultimi anni dei notevoli successi – in particolare a livello internazionale – conseguiti da un soggetto per molti versi nuovo sul nostro scenario economico: le imprese di medie dimensioni con particolare riferimento a quelle che fanno capo a gruppi internazionalizzati.
Il fenomeno è stato definito quarto capitalismo per distinguerlo dal capitalismo privato (il primo) e pubblico (il secondo), nonché dal capitalismo tipico delle microimprese dei distretti industriali (il terzo). Il primo capitalismo, infatti, è costituito dai grandi gruppi privati creati dalle famiglie che hanno dominato la fase iniziale del Novecento italiano, mentre il secondo può essere riferito al modello pubblico che, nato nel fascismo degli anni Trenta con l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), fu in pieno sviluppo nel secondo dopoguerra. Il terzo capitalismo fa riferimento all’economia diffusa che si registra intorno agli anni Settanta, basata proprio sulle piccole imprese collocate nell’ambito dei distretti industriali, quelle che seppero proporre e imporre il made in Italy. Farà seguito, a partire dagli anni Novanta, l’emergere di medie imprese internazionalizzate che operano prevalentemente nei settori manifatturieri più che nei servizi, imprese che daranno luogo appunto al quarto capitalismo.
In realtà in queste medie imprese si è determinata una terziarizzazione dei prodotti che si sono trasformati quasi sempre in veri e propri servizi resi alla clientela e in tal senso si è assistito a una terziarizzazione della media impresa anche quando non opera prevalentemente e specificamente nel settore terziario.
La media impresa diviene così la nuova protagonista dell’economia italiana dell’inizio del 21° secolo. È un’impresa in realtà di difficile definizione perché è generalmente vista come una fase di passaggio dalla dimensione minore alla grande, pertanto presenta una articolata identità, in qualche modo definibile incrociando il numero di addetti (meno di cinquecento) con il fatturato (inferiore ai 250 milioni di euro), senza trascurare la complessità della sua organizzazione.
Così le medie imprese concorrono agli inizi del nuovo millennio a formare le nuove connotazioni del made in Italy manifestando una forte inclinazione verso i mercati esteri. Tuttavia in Italia la realtà della piccola dimensione deve ancora, necessariamente, essere considerata come fattore importante, possibilmente da assecondare piuttosto che da contrastare, proprio per assicurare una propensione a un normale sviluppo verso la dimensione più grande.
Oggi la presenza di mercati globali impone che la domanda di prodotti divenga quantitativamente sempre più ampia: è il caso già noto dei mercati americani e poi delle nuove emergenti aree orientali, con un particolare riferimento ai mercati indiano e cinese. Ci si trova dunque a dover sovente affrontare da un lato il nanismo congenito, ma innovativo e qualitativamente significativo, delle nostre imprese, e dall’altro una domanda dalle dimensioni crescenti e nei nuovi mercati comunque sempre enorme.
Va tenuto presente, a questo proposito, che in particolare le piccole imprese tendono a stabilirsi in aree territoriali omogenee, dando origine al fenomeno dei distretti industriali che in Italia ha assunto connotazioni abbastanza tipiche, tanto da diventare oggetto di studio anche da parte di molti esperti stranieri. Queste aggregazioni distrettuali sopperiscono in par-te ai problemi della piccola dimensione dato che nel loro insieme assumono spesso masse critiche sufficienti per poter affrontare grandi mercati. Ma adesso questi fenomeni sembrano anch’essi entrare in crisi tanto da non essere più in grado di affrontare le nuove sfide globali.
Ecco allora che agli albori di terzo millennio è necessario pensare a nuove forme organizzative che possano sposare la qualità del ‘piccolo è bello’ con l’indispensabilità del ‘grande è necessario’. A questo proposito vanno considerate sotto una prospettiva differente le tradizionali forme di associazione come raggruppamenti consortili con le loro diverse connotazioni (joint ventures, associazioni temporanee, consorzi veri e propri e altre ancora), utilizzate in particolare dalle unità di piccole e medie dimensioni per accrescere la loro potenzialità esprimendo dimensioni imprenditoriali di media misura. Si configurano così anche ‘reti’ esterne di imprese messe in atto con logiche funzionali, questa volta dettate dalle singole volontà imprenditoriali con lo scopo di dare sviluppo a ben individuate strategie associative.
Si delinea dunque l’opportunità di ricercare nuove aggregazioni, assimilabili ai distretti, in grado di collegare fra loro, attraverso reti organizzative virtuose, piccole imprese simili o con produzioni complementari, territorialmente anche distanti ma coinvolte per conseguire nei fatti la dimensione medio-grande che consenta di raggiungere più agevolmente l’obiettivo comune di competere sui grandi mercati. Quindi, agli inizi di terzo millennio, la rete d’imprese, che trova una sua rappresentazione territoriale nel distretto industriale classico, deve sapersi trasformare – grazie all’uso delle tecnologie informatiche e delle ICT – in una nuova unità d’indagine economica tale da realizzare una sorta di distretto imprenditoriale virtuale che permetta alle diverse imprese di presentarsi unite e dunque dotate di una forza di scambio significativa in termini quantitativi.
Il nuovo distretto virtuale – un vero sistema integrato di aziende – potrebbe di fatto essere realizzato da un nuovo tipo di impresa di servizio proprio a questo fine dedicata: una sorta di polo tecnologico di eccellenza in grado di continuare a mantenere vivo, grazie alla tradizione di qualità del made in Italy, l’interesse per l’offerta italiana in qualunque dimensione essa si presenti e su qualsiasi mercato si proponga.
Ciò deve certamente costituire elemento di futuri studi innovativi nell’ambito delle strategie imprenditoriali, elaborate appunto per conquistare nuove frontiere che vedranno modificare il significato tipico delle singole imprese proiettate in un contesto espresso dalla loro comunità. Proprio in tale comunità la natura imprenditoriale deve trovare nuova linfa vitale per manifestare in pieno una rinnovata energia operativa.
La media e piccola dimensione imprenditoriale, fra l’altro, sta assumendo un particolare rilievo in un mondo sempre più turbolento che vede l’economia condizionata dalle alte tecnologie. E ciò fa sì che la creazione di nuove imprese si fondi oggi in gran parte sulla conoscenza più che sull’intensità degli investimenti finanziari; si facilita in questo modo proprio la nascita e la proliferazione di aziende di non grandi dimensioni, che tenderanno a operare attraverso aggregazioni capaci di conseguire la media dimensione in un mercato caratterizzato da innovazione continua e costante, dunque in perenne trasformazione e perciò molto incerto. In un contesto del genere, la riscoperta di valori fondamentali nel comportamento dell’impresa costituisce l’elemento di riferimento più sicuro per l’azione imprenditoriale.
Strategie e organizzazione
Le strategie perseguite dall’impresa di terzo millennio ne determinano anche la struttura organizzativa, così che sia in grado di attuarle in termini operativi. Concetto, questo, espresso molto chiaramente da Alfred D. Chandler (1918-2007) nel suo fondamentale libro del 1962 Strategy and structure (trad. it. 1976), nel quale lo studioso americano approfondisce il significato di strategia assimilandolo alla pianificazione e alla gestione dello sviluppo imprenditoriale, anteponendolo alla funzione stessa della struttura organizzativa.
Le organizzazioni complesse che caratterizzano non solo il mondo delle imprese ma anche altre istituzioni – per es. quelle della pubblica amministrazione – si articolano sempre più strategicamente attraverso un processo diffuso di deleghe operative che manifestano la tendenza a un forte decentramento delle responsabilità, con conseguente modifica della loro natura, e in quest’ambito si avverte di conseguenza un allentamento del concetto di unitarietà istituzionale. Ciò impone di dedicare nuova attenzione proprio alle strategie interpretate come gli strumenti più adatti per realizzare un’adeguata governance dei comportamenti aziendali. È allora indispensabile concentrarsi in maniera più specifica sulle linee guida che nascono dai piani strategici pluriennali per poi ispirare i comportamenti di breve periodo, necessari per lo sviluppo di una corretta gestione di tutte le attività aziendali.
Così, il piano strategico pluriennale – generalmente di medio termine – diventa lo strumento che deve consentire a tutti i collaboratori dell’impresa di individuare, a fronte delle finalità e degli obiettivi da conseguire, i comportamenti più convenienti e adeguati per raggiungerli, anche in relazione alle risorse disponibili e alle situazioni contingenti proprie del contesto socioeconomico.
Nell’attuale momento storico, i piani strategici si inquadrano di solito in uno scenario ambientale sempre caratterizzato da complessità e turbolenza, il che impone adeguamenti continui sia negli obiettivi sia nelle azioni per conseguirli. Ogni strumento di pianificazione aziendale deve allora assumere un carattere dinamico contraddistinto da una accentuata flessibilità operativa che lasci largo spazio all’innovazione dei comportamenti previsti.
L’utilizzo del piano strategico dovrà poggiare su un costante controllo dei risultati conseguiti e degli obiettivi raggiunti e si dovrà per questo cercare di realizzarlo nei tempi brevi, grazie a una pianificazione strategica che converta le mete del medio termine in tappe di breve periodo, in modo da poter innescare eventuali azioni correttive retroattive (feedback) che aggiustino le successive azioni o gli stessi obiettivi anche in funzione delle possibili modificazioni di scenario dovute alle sue turbolenze. La finalità è quella di concludere l’intero periodo programmato con un consuntivo effettivamente soddisfacente a fronte dei risultati complessivamente auspicati.
Il consolidamento degli obiettivi determina necessariamente un cambiamento nello scenario nel quale si opera. Ed è proprio questo cambiamento che diviene per certi versi il metro misuratore dell’efficienza e dell’efficacia con la quale si sarà agito. D’altra parte, il cambiamento va inteso anche come strategia di conservazione della tradizione, ponendo così l’impresa in un contesto costantemente altalenante fra continuità della storia e novità conseguite per meglio affrontare il futuro.
Seguendo l’insegnamento di Chandler, è la strategia a definire la struttura organizzativa e ciò accade anche per l’impresa di terzo millennio che dovrà essere particolarmente adeguata a superare le turbolenze dei mercati locali e globali tipiche della nostra era.
Per quanto riguarda gli aspetti relativi alla struttura aziendale, oggi l’impresa tende ad assumere sempre più spesso una connotazione reticolare che possa renderla flessibile, snella nella sua operatività, corta nell’organizzazione del fattore umano. Così si parla ormai in termini diffusi di impresa-rete, che si presenta come un’organizzazione costituita da una rete di tecnologie prevalentemente informatiche (computer e robot), guidate da una rete di individui che operano alla stregua di ‘imprenditori di sé stessi’ in quanto capaci di esprimersi per mezzo di una rete di decisioni operative che essi stessi determinano.
Nell’area produttiva si è anche in presenza di una rete di imprese di indotto che nel loro insieme configurano, con l’unità di riferimento, quella che si può definire una macroimpresa, alla quale spesso corrisponde, a valle, una struttura speculare costituita da una rete di clienti interconnessi fra loro dall’organizzazione della funzione vendite, o più in generale dal marketing aziendale dell’unità di riferimento, funzioni entrambe delegate appunto a coordinare la rete di clienti mediante appositi processi di governance.
Il modello reticolare non invalida affatto i più tradizionali organigrammi funzionali: li rende più snelli e più corti ponendosi nei loro confronti in termini di complementarità e quindi chiarendone e precisandone le modalità più operative.
Per conseguire il successo imprenditoriale su mercati sempre più turbolenti è importante che l’impresa-rete sia pensata come totalmente orientata verso il cliente con l’obiettivo di fornirgli prodotti e servizi sempre nuovi. Proprio nella ricerca di innovazione imprenditoriale deve diventare prioritaria l’attitudine al perseguimento di un’alta qualità dei prodotti e delle loro prestazioni, interpretando il prodotto anche come un processo capace di generare servizi di eccellenza.
Al concetto di impresa-rete si è arrivati nel tempo dopo un lunga serie di aggiustamenti organizzativi, fra i quali sono prevalse le operazioni di esternalizzazione e di terziarizzazione che hanno portato a considerare l’azienda prima come ‘transazionale’, quindi come impresa ‘corta’ dato il contenimento dei livelli verticali di organizzazione, per poi giungere appunto al modello di impresa-rete.
È questa una forma di organizzazione che in ogni sua manifestazione tende a privilegiare il concetto di flessibilità. La sua ideazione è andata sviluppandosi con il consolidarsi della rivoluzione seguita all’avvento delle alte tecnologie. In particolare l’introduzione nelle imprese produttive – e in genere in tutte le istituzioni operative – del personal computer e delle ICT ha agevolato e in parte stimolato l’instaurarsi di un modello di organizzazione ispirato al concetto di rete, inteso come network ovvero web, una ragnatela che si sviluppa intorno a un riferimento direzionale di coordinamento generale (lo spider, cioè il ragno), con funzioni di governance sulla gestione aziendale e quindi in particolare sulle attività di produzione.
Fra l’altro, va sottolineato il fatto che oggi emergono nuove responsabilità verso il cliente, che viene ormai considerato come vero e proprio committente così come accade nei sistemi produttivi che prendono origine dai modelli di produzione organizzati in maniera particolarmente flessibile.
In genere l’impresa-rete si presenta in termini bipolari, caratteristica comune a tutte le imprese produttive. Un primo polo infatti, è relativo alla ‘gestione generale’, che ha natura prevalentemente strategica, poichè vi si generano le decisioni che determineranno il futuro aziendale, e, pertanto, presenta connotazioni molto ampie dovendo prendere in esame tutte le opportunità dei mercati globali. Un secondo polo, invece, che possiamo definire di produzione, riguarda il processo produttivo e coincide in genere con la fabbrica o le fabbriche industriali radicate sul territorio, quindi tipicamente locali.
L’impresa di terzo millennio, dunque, nel suo insieme può essere definita come un’organizzazione a rete bipolare costituita al tempo stesso da gerarchia e da quasi mercato transazionale, e i due poli sono fra loro collegati da costanti rapporti di interazione.
Nel precedente scenario, fortemente caratterizzato dalle procedure di tipo tayloristico-fordista, ciascun responsabile era assoggettato a una sorta di passività decisionale determinata dai preliminari processi di programmazione, particolarmente rigidi, attraverso i quali si delineavano e definivano nel dettaglio più specifico le linee dei singoli comportamenti aziendali. Le cose cambiano radicalmente nell’impresa-rete, in particolare con l’avvento dell’informatica distribuita e con il diffuso uso di personal computer e di robot, sia in ambito di gestione ordinaria – specialmente nell’amministrazione d’impresa – sia in sede di produzione con propensioni di tipo robotico. La possibilità di operare sulle macchine informatiche modificandone facilmente le prestazioni attraverso la semplice sostituzione dei loro programmi software, costituisce una grande rivoluzione, la quale consente di rendere flessibili le prestazioni nell’utilizzo degli impianti industriali fissi.
Fra l’altro, perché possa agire sulle nuove apparecchiature di alta tecnologia è necessario che l’operatore sia dotato di una specifica preparazione, il che implica un buon grado di cultura. Ed è proprio la cultura uno dei fattori fortemente innovativi da sviluppare in forma generalizzata nell’ambito della cosiddetta impresa-rete.
La natura dell’impresa di terzo millennio ha subito in questi ultimi tempi grandi trasformazioni organizzative che ne hanno terziarizzato in maniera sostanziale le attività, in particolare con l’affermarsi della rivoluzione informatica e con l’avvento e l’uso delle tecnologie legate all’elaborazione elettronica dei dati (EDP, Electronic Data Processing) e quelle tipiche dei processi di informazione e comunicazione (ICT). Questi servizi costituiscono elementi che caratterizzano una terziarizzazione spinta, fra l’altro in grado di modificare sensibilmente la gestione della ‘funzione amministrativa’, ma anche di tutte le altre funzioni aziendali. A titolo di esempio, un particolare cambiamento è in atto nella ‘funzione acquisti’, che diventa allo stesso tempo strategica e terziarizzata, essendo chiamata a controllare una serie ormai molto ampia di contratti riguardanti la complessa rete di subforniture e di prestazioni di servizio che l’impresa di riferimento acquista da terzi a monte della sua produzione. Tutte queste operazioni vengono facilitate dal fatto che anche la funzione di produzione si è terziarizzata grazie all’uso diffuso della robotica e dell’informatica applicate direttamente ai processi produttivi.
Quanto alla funzione che presiede alle vendite dei prodotti, ormai viene spesso attuata attraverso reti di comunicazione del tipo Internet o Intranet, e comunque la gestione dei dati di vendita e di informazioni sulle propensioni della domanda sono governati grazie a servizi sempre più automatizzati.
Fra le varie funzioni aziendali ha assunto una grande rilevanza, come tipica terziaria, quella della finanza che è diventata più importante delle stesse funzioni di produzione e di vendita, dato il rilievo e lo sviluppo crescente del mercato dei capitali. E anche il controllo di gestione assume un importante significato operativo grazie alla possibilità di avvalersi di servizi tipici del terziario avanzato.
Fra le attività che sempre più tendono a terziarizzare l’impresa è rilevante il ruolo assunto dalla funzione di ricerca e sviluppo, divenuta indispensabile per assicurare la sopravvivenza aziendale in mercati instabili e turbolenti, nell’ambito dei quali occorre rispondere alle modificazioni della domanda che intervengono in maniera rapida inducendo continue innovazioni sia nei processi sia nei prodotti. Ed ecco che torna di moda il concetto schumpeteriano che interpreta l’impresa come strumento per introdurre innovazione nel sistema economico: un fatto più che mai vero oggi, a causa delle turbolenze di scenario in grado di provocare rapidi cambiamenti che influiscono su tutte le regole del gioco economico, compreso l’altalenante andamento dei mercati di scambio, da assecondare mediante continue risposte caratterizzate appunto da innovazione.
Peraltro, allo stato attuale, la ricerca di innovazione in senso schumpeteriano sembrerebbe agevolata dal fatto che, in genere, il prodotto ha cessato di assumere esclusivamente una configurazione, per così dire, di hardware. Infatti, i prodotti forniti dal sistema delle imprese – in particolare i prodotti high-tech – si trasformano sempre più in ciò che potremmo definire prodotti-processi, assimilabili a veri e propri servizi resi possibili dalle loro prestazioni di utilizzo, essendo quasi sempre caratterizzati da una componente immateriale tipica di ciò che usualmente definiamo conoscenza: una conoscenza legata alle complicazioni tecnologiche dei manufatti e, dunque, alla loro complessità intrinseca; ovvero, una conoscenza necessaria per facilitare l’interazione con l’utente di questi prodotti e quindi per poterne programmare la migliore utilizzazione. Ma anche una conoscenza utile per rendere ottimale la conservazione dei prodotti stessi attraverso processi innovativi di manutenzione programmata: una funzione che acquisisce così dignità di scienza nuova, dotata di una propria specifica autonomia in grado, tuttavia, di condizionare profondamente la natura stessa dell’impresa.
Di tutto ciò va tenuto conto anche nel proporre l’architettura dei manufatti in un costante adeguamento ai processi che essi comportano: un discorso, questo, al quale concorrono in maniera fondamentale la funzione del design, e in particolare quella dell’industrial design, in una continua e costante collaborazione con la funzione di ricerca e sviluppo, che deve caratterizzare la connotazione di architettura del prodotto, ma anche dei processi industriali legati a quel prodotto. Proprio a queste discipline si deve fra l’altro, in larga misura, il successo sui mercati globali del made in Italy che oggi deve competere sui mercati globali anche con l’utilizzo del contract, forma contrattuale in grado di istituzionalizzare il cliente nel ruolo di vero e proprio committente collegando l’appalto anche alla fornitura di prodotti realizzati dalle industrie interessate. Nel futuro, la conquista di queste frontiere intensificherà sempre più l’alleanza fra cultura ed economia.
I processi descritti possono essere metaforicamente considerati come la necessitata conseguenza dell’apporto, nella gestione operativa, di knowledge workers – i lavoratori della conoscenza – i quali, operando nelle moderne imprese high-tech, producono prodotti-servizi definibili anch’essi come knowledge products, cioè prodotti dotati di una intensità di conoscenza che li rende in grado di configurarsi attraverso un hardware fisico sempre più accompagnato da un software conoscitivo indispensabile per il loro effettivo utilizzo.
Oggi, dunque, l’innovazione di prodotto si traduce spesso in un vero e proprio processo che amplia sia quello produttivo sia quello di marketing. Quest’ultimo, poi, è legato al fenomeno delle vendite e degli scambi reali, resi sempre più complessi dai sofisticati strumenti di comunicazione utilizzati nel settore.
In sostanza, è possibile a questo punto affermare che la terziarizzazione trasforma l’impresa di terzo millennio in una sorta di laboratorio di costante sperimentazione innovativa.
Nuove frontiere nei processi di produzione
Nella storia dell’organizzazione imprenditoriale le manifestazioni innovative più importanti si sono verificate nell’ambito della produzione manifatturiera, con specifico riferimento al settore automobilistico che Peter Drucker definì industria delle industrie. Il discorso vale anche per le imprese operanti nel terzo millennio, che nella loro organizzazione, in particolare quella relativa alla produzione, si sono ispirate all’evoluzione intervenuta nei processi di gestione presenti in questo comparto economico.
Agli inizi del nuovo secolo l’impresa ha dovuto tenere conto delle due particolarità già messe in evidenza: la caratteristica del consumatore che di fatto svolge il ruolo di vero e proprio committente per l’impresa e la presenza delle alte tecnologie guidate da programmi software facilmente intercambiabili. È così emersa la tendenza a sviluppare un’impresa estremamente flessibile dal punto di vista organizzativo, in grado di rispondere in tempo reale alle mutevoli esigenze espresse da un mercato la cui domanda è sempre più caratterizzata da turbolenza ovvero da difficile programmabilità, in particolare sul lungo periodo.
Nel Novecento la rivoluzione organizzativa più significativa fu certamente quella messa in atto da Frederick Winslow Taylor (1856-1915), il quale, insieme a Henry Ford (1863-1948), agli inizi di quel secolo propose l’organizzazione scientifica del lavoro in fabbrica, ben presto definita proprio taylorismo-fordismo e destinata a diventare l’esempio più tipico della produzione di massa.
In contrapposizione ma anche in complementarità a tale fenomeno verso la fine del secolo scorso emersero in Giappone nuove istanze organizzative che si rivelarono immediatamente rivoluzionarie. In sostituzione dei metodi di produzione tayloristico-fordisti, negli stabilimenti automobilistici delle industrie giapponesi Toyota vennero messi a punto nuovi processi di lavoro industriale che indussero a coniare diversi appellativi innovativi per l’impresa. Si parlò, infatti, di spirito o sistema Toyota, di fabbrica integrata, di toyotismo, e più in generale di produzione flessibile o snella (lean production). Questo rivoluzionario modo di concepire il processo produttivo fu proposto da un tecnico giapponese, Taiichi Ohno, nato nel 1912 in Manciuria, il quale teorizzò alla stregua di Taylor un sistema di produzione (Toyota production system) voluto e poi realizzato nelle fabbriche della Toyota dal suo presidente Kiichiro Toyoda.
Le modificazioni organizzative del sistema di produzione giapponese sono sostanziali, ma il fatto più rilevante è costituito dal cambiamento delle strategie produttive, che vengono totalmente modificate e per certi versi invertite nel loro tradizionale flusso di processo.
In realtà la concezione organizzativa che presiede il nuovo modo di produrre realizzato dalla Toyota ha valenze rivoluzionarie enormi, certamente assimilabili a quelle introdotte con i metodi tayloristico-fordistici promossi nei primi del Novecento. E tuttavia il grande impatto innovativo delle nuove tecniche orientali è ancora in fase di sviluppo nel mondo occidentale. Il suo inventore Taiichi Ohno lo definisce proprio ‘pensare all’inverso’ in quanto concepisce il processo produttivo come un’operazione di prelievo che, partendo da ‘valle’, va a ‘monte’ per utilizzare solo le componenti necessarie nel momento in cui ce n’è reale bisogno. Il discorso si estende all’intero processo produttivo, così che per fornire il materiale per l’assemblaggio l’ordine parte dal processo finale in direzione di quello iniziale. Il tecnico giapponese ribadisce a tale proposito che dietro questo approccio c’è l’idea di un mercato in cui ogni cliente sceglie l’acquisto di una macchina secondo i propri gusti personali. Emerge quindi la figura del cliente-committente in grado di presentare le richieste qualitative che maggiormente lo interessano.
Nell’ambito del processo produttivo le modifiche sostanziali del sistema Toyota riguardano l’eliminazione delle scorte sia di prodotti finiti sia di singole componenti, grazie alla tecnica che va sotto il nome di just in time, attuata attraverso il flusso inverso d’informazione reso metodo operativo con il nome di kanban. Inoltre, si introduce di fatto il concetto di qualità totale adottando il procedimento che ha preso il nome di kaizen, consistente nella ricerca di un miglioramento continuo della qualità nell’ambito del flusso produttivo attraverso piccoli incrementi migliorativi sia sui prodotti sia sul sistema di produzione. Per mezzo delle tecniche kanban e del controllo continuo dei componenti, si sviluppa quindi una costante e immediata attenzione per la qualità (assimilabile al concetto di total quality), grazie alla quale non si consente mai a un componente difettoso di giungere alla fine della linea di produzione.
L’applicazione integrale del just in time rivoluziona anche la funzione acquisti. Infatti, per rendere più flessibile il processo produttivo si attua una forte esternalizzazione della produzione secondo una logica che privilegia la concezione del buy – comprare il più possibile da imprese esterne – rispetto a quella tayloristica del make, cioè del realizzare il massimo all’interno della fabbrica.
I giapponesi della Toyota iniziarono il processo di cambiamento intorno agli anni Settanta del 20° sec., per concluderlo dopo circa un decennio. In sostanza, la filosofia di produzione giapponese era immaginata per un mercato ormai in crisi nel cui ambito diventava necessario non solo produrre, ma soprattutto vendere effettivamente i prodotti realizzati per evitare le insolvenze finanziarie tipiche della sovrapproduzione.
Uno dei punti focali del sistema Toyota è costituito proprio dai sistemi informativi collegati alle vendite tendenti a meglio definire la domanda dei po-tenziali clienti. Va sottolineato in proposito come i concessionari giapponesi mantengono in stretta osservazione l’andamento dei gusti, che viene comunicato in tempo reale ai responsabili della programmazione di fabbrica. Ciò consente di realizzare in pratica gli obiettivi di Taiichi Ohno, nel senso di ridurre la sovrapproduzione con lo scopo di rendere la quantità da produrre eguale alla quantità richiesta, secondo le reali esigenze del mercato, in modo che ogni impianto produttivo produca in accordo con la domanda effettivamente espressa.
Il sistema Toyota si è rapidamente diffuso e affermato in tutti i comparti industriali più avanzati, diventando di fatto il modello organizzativo emergente, al quale si ispirano tutte le imprese produttive di terzo millennio.
Nelle più recenti organizzazioni imprenditoriali va anche affermandosi il concetto di impresa socialmente impegnata – un concetto che assume nuove connotazioni, tali da assimilarlo quasi a una positiva azione di marketing imprenditoriale. In un mondo sempre più turbolento, dominato com’è dalla rivoluzione dell’informatica e delle alte tecnologie, in cui agisce una molteplicità di imprese fortemente concorrenziali, il sistema di valori sociali può infatti diventare un elemento di successo imprenditoriale in grado di rinnovare lo spirito d’impresa e dunque il valore che essa costantemente crea.
Del resto, è necessario e utile che una particolare attenzione oggi venga appunto dedicata ai ‘valori’ delle organizzazioni imprenditoriali. A questo proposito si potrebbe enunciare una sorta di legge per la quale il ‘valore’ prodotto è necessariamente generato dai ‘valori’ sui quali si fonda la natura dell’impresa: entrambi questi elementi vivono la storia dell’impresa e quindi dipendono dall’esperienza che essa ha saputo generare. Ed è una storia che si manifesta in un ciclo vitale e che pertanto non può essere indifferente al trascorrere del tempo: interviene una naturale obsolescenza che ne consuma il contenuto rendendo necessaria una continua manutenzione per rigenerarne costantemente la potenzialità.
D’altra parte l’impresa si propone sempre come un insieme di individui motivati verso il conseguimento di obiettivi comuni, e per questo realizza di fatto un ambiente interno dal quale è necessario fare emergere un contesto di valori moralmente motivanti, così da favorire in primo luogo la positiva convivenza di persone che devono lavorare insieme e perciò esprimere una sempre maggiore efficacia ed efficienza operativa. Di conseguenza, si determinerà anche una atmosfera di costante apprendimento conoscitivo, grazie al quale gli interessi culturali dei singoli concorreranno a far lievitare una cultura d’impresa soddisfacente anche nel senso dei valori di comportamento. L’impresa, peraltro, è radicata nell’ambiente circostante e così può agevolmente portare avanti l’obiettivo di migliorarlo continuamente.
Questo discorso, vero per le grandi imprese, deve diventarlo anche per quelle di piccola e media dimensione la cui sopravvivenza, nelle difficoltà di uno scenario in costante mutamento, è legata allo spirito che le caratterizza e dunque anche ai valori che esso è in grado di esprimere.
La situazione delineata è resa tanto più attuale dal fatto che, ormai, la maggior parte dei lavoratori – come si è visto – ha assunto le caratteristiche di knowledge worker, ovvero di professionisti della conoscenza che operano su macchine informatiche – i computer – per gestire prodotti il più delle volte intangibili, cioè costituiti sostanzialmente da informazioni. Questi stessi prodotti sono sempre più caratterizzati dai servizi che con essi vengono proposti sul mercato in uno scambio che tende a durare nel tempo. In tal modo l’impresa viene sottoposta a una costante valutazione critica da parte del cliente, il quale non potrà esimersi dal valutare anche i comportamenti aziendali che, per non essere penalizzati, dovranno necessariamente configurarsi nell’ambito di un contesto di valori etici positivi.
In queste circostanze è proprio il sistema imprenditoriale a ‘rete’ a caratterizzare come vera e propria ‘macroimpresa’ il sistema impresa, espandendolo anche ai fornitori d’indotto a monte e, a valle, ai clienti, in un contesto operativo in grado di unificare o rendere omogenei i valori perseguiti dagli uni e dagli altri.
Una propensione in grado anche di stabilire quella stretta connessione fra etica ed economia che tanti importanti pensatori hanno teorizzato e più volte proposto come utile e necessaria.
Nel mercato di nuovo millennio, per poter ritornare a praticare lo spirito d’impresa con l’entusiasmo indispensabile per il successo, è poi utile riscoprire la cultura imprenditoriale e non soltanto nel senso di storia dell’azienda, bensì interpretandola con una valenza strategica utilizzabile da ciascun collaboratore così che agisca nel processo d’impresa con una rinnovata coscienza professionale. Ed è in questo senso che va attribuita nuova importanza al concetto di qualità, da riproporre nell’impresa come espressione individuale da integrare poi nei processi tipici della qualità globale (total quality). L’impresa di nuovo millennio deve perciò affrontare una differente dimensione nell’educazione culturale e formativa, che si estenda anche verso i propri clienti; e il fenomeno naturalmente si ripropone poi sul piano etico, aprendo le teorie dell’organizzazione a nuove frontiere tutte da esplorare.
Sono superati i tempi in cui la divisione del lavoro, con la quale si incrementava l’efficienza produttiva e dunque anche la quantità prodotta, implicava una forte specializzazione nella professionalità operativa a prescindere da qualsiasi contesto culturale di carattere generale. Anzi, allora la cultura era ritenuta pressoché inutile per la formazione specialistica e professionale, che andava invece sviluppata nell’ambito di una spinta parcellizzazione delle attività lavorative.
La nuova impresa, che oggi assume sempre più connotazioni di ‘rete’ di alte tecnologie, è costantemente alla ricerca di operatori colti che possano governare i computer e le macchine per così dire intelligenti, interpretando nel migliore dei modi la governance aziendale e il ruolo di ‘imprenditori di sé stessi’.
L’impresa come società di individui e di beni riuniti intorno a un progetto di lavoro deve quindi far emergere non soltanto professionalità, ma anche cultura in grado di qualificare i partecipanti unifican-done le azioni grazie a un rinnovato e condiviso spirito d’impresa. D’altra parte, questo anelito imprenditoriale va ricercato proprio nel gusto del creare, del fare, dell’intraprendere, del realizzare, del costruire una nuova realtà sociale e dunque anche culturale. Questo spirito è generalmente più presente nelle medie e piccole imprese familiari dove proprietà e management tendono a coincidere, mentre è spesso assente nelle grandi corporation.
Cultura e spirito d’impresa sono destinate poi a trasferirsi sull’ambiente esterno anche grazie al comportamento generale di un’azienda da ritenersi ormai socialmente evoluta, capace di contrastare il concetto di impresa irresponsabile teorizzato dal sociologo Luciano Gallino (2005).
Emerge perciò l’esigenza di non farsi travolgere dal perseguimento del mero profitto economico come obiettivo unico cui mirare nella gestione aziendale, e questo facendo leva proprio su di un diverso spirito d’impresa, espressione di un insieme di persone che sappiano contrastare l’egoismo di una nuova ‘corte barocca’, motivate quindi al conseguimento di obiettivi comuni in un contesto socialmente significativo, nel quale riscoprire la personalità dell’essere umano e con essa la razionalità che le compete, in un atteggiamento legato a un sentire e a un sapere di tipo neoilluministico.
Bibliografia
F. Butera, I frantumi ricomposti, Venezia 1972.
Ohno Taiichi, Lo spirito Toyota, Torino 1978.
A. Fabris, Storia delle teorie organizzative, Milano 1980.
I. Prigogine, From being to becoming, San Francisco 1980 (trad. it. Torino 1986).
O.E. Williamson, The economic institutions of capitalism. Firms, markets, relational contracting, London-NewYork 1985 (trad. it. Milano 1987).
G. Dioguardi, L’impresa nell’era del computer, Milano 1986.
F. Butera, Il castello e la rete, Milano 1990.
B. Coriat, Penser à l’envers. Travail et organisation dans l’entreprise japonaise, Paris 1991 (trad. it. Bari 1991).
R.H. Coase, Impresa, mercato e diritto, Bologna 1995.
G. Dioguardi, L’impresa nella società di terzo millennio, Bari 1995.
O.E. Williamson, The mechanisms of governance, New York 1996 (trad. it. Milano 1998).
A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Venezia 2002.
G. Azzone, U. Bertelè, L’impresa. Sistemi di governo, valutazione e controllo, Milano 2003.
E. Auteri, Dalla gerarchia alla leadership, Milano 2004.
G. Dioguardi, I sistemi organizzativi, Milano 2005.
L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino 2005.
G. Becattini, Il calabrone Italia, Bologna 2007.
G. Dioguardi, Le imprese rete, Torino 2007.
C. Ronca, Competere con gli intangibili, Milano 2007.