L'impresa marittima: uomini e mezzi
In quest'età del comune, che coincide per molta parte con l'età delle Crociate, sarebbe difficile negare la loro influenza nella serie di profondi mutamenti e di innovazioni destinati a caratterizzare a lungo le costruzioni navali e le navigazioni, mentre l'orizzonte politico ed economico della città si estendeva gradualmente dall'Adriatico al mare Ionio e al Mediterraneo orientale.
Ci fu un'espansione della domanda di trasporti a largo raggio e con carichi di carattere particolare - soldati, cavalli, viveri, materiale bellico - che richiesero tonnellaggi maggiori e imbarcazioni di nuovo tipo. Acquistò grande importanza il movimento dei pellegrini e crebbe notevolmente il volume del commercio internazionale, con un continuo flusso di mercanti e più intensi rapporti col Vicino Oriente. L'ampliamento del quadro geografico e la più vivace e complessa attività arricchirono le conoscenze pratiche sia nel settore delle costruzioni navali sia in quello delle tecniche della navigazione. I progressi della scienza nautica furono notevoli, soprattutto nella seconda metà del Duecento. Questo, infatti, è anche il periodo dell'adozione della bussola, che aprì il mare alla navigazione invernale, in pratica raddoppiando il potenziale della flotta, con l'eliminazione dei lunghi periodi d'inattività e il conseguente aumento della resa degli investimenti, grazie al maggior numero di viaggi.
Non si può negare che le trasformazioni che intervennero abbiano trovato un ambiente favorevole nella frequenza di contatti tra navi di diversa provenienza, mediterranea e nordica, le quali offrivano modelli ed esperienze costruttive che il modesto grado di complessità delle tecniche impiegate permetteva di imitare e di accogliere senza difficoltà, cosicché nelle offerte del 1268 per la fornitura a Luigi IX le navi di Venezia, di Genova, di Marsiglia finiscono col presentare sostanzialmente le stesse caratteristiche (1). Circolavano imbarcazioni di ogni tipo come una delle "cinquecento" navi della spedizione di Riccardo Cuor di Leone descritta da un cronista "longa, gracilis et parum eminens, lignum a prora praefixum habet, quod vulgo calcar dicitur, quo rates hostium transfiguntur percussae" (2).
L'apporto tecnico nordico ebbe certamente il suo peso, tuttavia non va sopravvalutato facendone un fattore determinante, perché nel settore delle galere e in genere dei vascelli lunghi a remi si restò fedeli alla tradizione mediterranea, adattando e perfezionando vecchi modelli piuttosto che sostituirli con nuovi. Anche nel settore delle navi rotonde, cioè dei velieri mercantili dalle forme arrotondate a poppa e a prua, molto più che da un processo d'imitazione i progressi furono stimolati dalle necessità militari e commerciali che si dovevano soddisfare. Per una rottura con le vecchie pratiche costruttive bisognerà aspettare i primi del Trecento, con l'apparizione della nordica cocca, la quale segna un'epoca nuova, caratterizzata dall'avvento della vela quadra e del timone collegato al dritto di poppa che rivoluzioneranno le linee della nave rotonda. Ma quando l'adotta, il Mediterraneo già conosce questa nave da più di un secolo: nel 1197, leggiamo in una cronaca, i prigionieri cristiani a Beirut avevano potuto ravvisare l'avvicinarsi degli amici tedeschi dalle loro navi con le ampie vele quadre (3).
Le Crociate non ci hanno lasciato il ricordo di grandi battaglie navali, e non ebbe importanza decisiva neppure la disfatta della flotta egiziana ad opera di quella veneziana, al largo di Ascalona, nel 1123. La cooperazione navale si rivelò invece utilissima in appoggio alle operazioni terrestri, specialmente con la fornitura di macchine da assedio e di personale capace di impiegarle, e fu indispensabile per tutte le necessità logistiche di eserciti tanto lontani dalle basi di partenza. È in queste attività che l'impiego veneziano fu maggiore. Ecco, in un documento del 1198, il proprietario di una nave obbligarsi col doge Enrico Dandolo a farla tornare a Venezia "excepto si communi exercitu fieret in Soria quod navem oportet ut ipse vadat cum ea in communi hoste", giurando che "non ibunt in illa nave veneticos nec mercadente sine parabola domini ducis" (4). Tuttavia, anche se è probabile che poche o molte sue navi private vi abbiano partecipato isolatamente, con gli altri Italiani, l'intervento di Venezia nelle prime spedizioni verso la Terrasanta fu solo marginale, sollecitato piuttosto che dall'ardore pio dalle esigenze di difesa e di sviluppo dei propri interessi nel quadro nuovo che s'andava determinando in quel settore. Le relazioni che essa aveva con Bisanzio erano le più privilegiate e in Oriente queste imprese non potevano favorire che i concorrenti pisani e genovesi.
In ogni caso la collaborazione militare prestata si fece dipendere dalla concessione di benefici commerciali nei territori occupati. È significativo l'episodio dello sbarco a Mirra, nel 1099, dove il tentativo di stabilirvi una base marittima si risolse nella rapina delle reliquie di s. Nicola di Bari, il mitico patrono dei marinai del Mediterraneo, lasciando incerto lo stesso cronista sulle vere finalità dell'operazione (5). Nel 1123 la flotta al comando del duca Domenico Michiel, forte di oltre cento unità cariche di uomini, di cavalli, di materiale bellico pesante, collaborò alla conquista di Tiro, dopo lunghe trattative sui diritti territoriali e giurisdizionali e sulle immunità e franchige fiscali che dovevano costituire il prezzo dell'aiuto. Il racconto di un cronista testimonia quanto i crociati più infiammati d'entusiasmo religioso ritenessero non molto affidabile la partecipazione veneziana alle loro imprese. Proprio davanti a Tiro non bastò che la flotta tirasse in secco le galere, ma a garanzia che non avrebbero preso il mare a tradimento il duca volle ordinare che da ognuna venisse tolto un asse (6).
Le vicende della quarta Crociata, con la presa di Zara e la diversione su Costantinopoli, sono estesamente trattate in altre pagine dell'opera. Qui ci limitiamo ad illustrare qualche aspetto marittimo dell'impresa, lasciando da canto ogni considerazione sulla sua opportunità e sul modo nel quale venne condotta. I termini della partecipazione veneziana ci serviranno a cogliere la misura del potenziale che la città aveva raggiunto.
I compiti organizzativi appaiono senza precedenti, quando si pensa alle difficoltà che aveva incontrato Filippo Augusto per mettere insieme, con l'aiuto di Genova, il centinaio di unità destinate al trasporto di 650 cavalieri, 1.300 scudieri, 1.300 cavalli e viveri per otto mesi (7), unità tutte evidentemente di modesto tonnellaggio. Tra la primavera del 1201 e l'estate del 1202, nel giro di un anno, Venezia fu in grado di allestire una flotta per il trasporto di 4.500 cavalieri, 20.000 fanti e 4.500 cavalli con 9.000 scudieri, oltre alle 50 galere che rappresentavano il suo intervento diretto e che possiamo pure supporre già armate. Lane calcola che queste 50 galere richiedessero sui 6.000 uomini d'equipaggio, per la grandissima parte rematori, e che per imbarcare la quantità richiesta di crociati e di cavalli occorressero 200 navi (6), stima che ci trova concordi ove la nave s'intenda nel senso generico di unità marittima, non in quello più ristretto di mercantile d'alto bordo. Va infatti tenuto presente che, secondo la stessa fonte, su cinque di queste "nefs de Veniciens, mult granz et mult bellez", viaggiavano 7.000 uomini in armi (9), dunque una media unitaria di 1.400, piuttosto elevata ma non eccezionale se nel 1251 la nave genovese Oliva, nel viaggio di Siria, poteva trasportare 1.100 pellegrini, oltre ai 75 marinai e provviste per quattro mesi (10). Dai cronisti le navi della flotta veneziana sono descritte munite di ponti e di castelli, con alberi altissimi (11), armate di petriere e di màngani e trasformabili rapidamente in macchine da assedio. Le quattro o cinque maggiori erano così alte che poterono competere vittoriosamente con le torri e con le bertesche di Bisanzio.
A 200 unità, non a 200 navi si può arrivare includendo nel novero anche gli uscieri, cioè i piccoli navigli ausiliari specializzati nel trasporto di cavalli, che come spiega Guglielmo di Tiro "avoient les portes au costé de la nef derrieres, et ponz par que li cheval i pooient entrer et issir" (12). Non sono una creazione delle Crociate, perché il loro modello è bizantino, ma è in quest'epoca che si diffondono largamente presso le marine occidentali, destando l'interesse dei cronisti, che li descrivono volentieri. Sembra che gli animali viaggiassero sospesi mediante cinghie, toccando appena il suolo, per assicurare la loro stabilità e per sottrarli al mal di mare; di tanto in tanto venivano frustati, perché si sgranchissero le zampe (13). In genere si caricavano una ventina di quadrupedi, eccezionalmente il doppio (14), anche perché bisognava dar posto pure ai garzoni e ai foraggi.
Senza dubbio erano questi mezzi minori che costituivano il nucleo numericamente più cospicuo della flotta crociata armata a Venezia, accanto alle 50 galere, mentre le unità maggiori - le navi - dovevano essere relativamente poche, e in parte occupate da "perrières et de mangoniaus plus de trois cenze, et toz les engins qui ont mestier à ville prendre, à grant plenté" (15). Ognuno dei grandi cavalieri, scrive Roberto di Clari, "avoit sa nef à lui et à sa gent, et son uissier à ses chevaux mener" (16): in questo modo, con gli scudi appesi alle murate della nave e dei castelli, con le bandiere e i gonfaloni, al suon delle trombe d'argento, la spedizione conservava l'aspetto di un esercito feudale in marcia.
Galere, navi, uscieri, secondo la testimonianza di Villehardouin. Roberto di Clari, invece, accanto alle unità di questo tipo vede anche dei "grans dromons", che verosimilmente erano galere di taglia maggiore della normale (17). Una differenziazione "entre petites et grans" (18) galere comincia a delinearsi con sufficiente chiarezza anche ora, trovando numerose conferme in Martin da Canal, già prima degli inizi del Trecento, quando la galera grossa e la sottile, benché sostanzialmente simili nella costruzione, assunsero caratteristiche proprie tanto nelle dimensioni quanto nell'attrezzatura e nell'impiego (19). La prima galera grossa fu costruita nel 1294 e anche questo evento, con la quasi contemporanea apparizione della cocca, può aprire una fase nuova nella vita marittima veneziana (20).
Riferendosi alla flotta crociata del Dandolo, le Estoires del maistre veneziano parlano di "chalandres et nes et galies à planté" e fanno imbarcare i baroni di Francia nelle loro navi, mentre i cavalieri entrano nelle "chalandres et es autres nes ou lor chevaus estoient mis" (21), dove la salandra - anch'essa destinata al trasporto di cavalli - prende il posto dell'usciere. Il vecchio chelandion bizantino era un'imbarcazione da guerra a remi, con caratteristiche imprecisate, che appare spesso impiegata nel trasporto di cavalli; nelle fonti occidentali del Duecento la salandra si presenta invece come un veliero - ai remi non si accenna mai - che ha conservato le linee del vascello lungo, perché ha un coefficiente di finezza maggiore e un'altezza minore di quelli della nave rotonda. Continua ad essere adibita al trasporto di cavalli perché il suo equipaggiamento comprende degli stabularia e delle reste, cioè delle trecce di fibre vegetali da mettere sotto i quadrupedi. Era molto simile alla tarida, per la quale poteva essere scambiata (22).
L'allestimento in un termine così breve di una flotta di simile composizione richiedeva l'impiego di tutte le forze produttive cittadine, perciò un bando ducale ordinò la sospensione dei viaggi commerciali in maniera che nessuno potesse negare la sua collaborazione (23). Questa larga partecipazione spiega perché i cronisti tacciano del cantiere di Stato, che certamente aveva già cominciato a funzionare e dovette contribuire anch'esso allo sforzo costruttivo, magari con la fornitura delle macchine belliche (24), le quali implicavano una certa specializzazione e un'attrezzatura di non largo impiego.
Venezia, del resto, non era nuova a queste imprese, perché già nel 1172 era stata in grado di costruire un centinaio di galere in quattro mesi (25), e questo comportava l'esistenza, e l'efficienza, di una pluralità di cantieri privati, che non è necessario supporre sottoposti al diretto controllo statale piuttosto che strettamente connessi con attività armatoriali e commerciali private. E dobbiamo ritenere che la città disponesse di una congrua riserva di materie prime o di una vasta area d'approvvigionamento sulla quale poteva fare affidamento con sicurezza: si pensi al legname, che doveva essere di qualità e di forma idonee e sufficientemente stagionato. Il significato di questa impresa organizzativa non muta anche se consideriamo che una parte del naviglio poteva essere già pronta a Venezia e mobilitabile.
Un altro elemento può attestare, con l'attrezzatura cantieristica, il grado di maturità raggiunto dall'organizzazione marittima veneziana all'epoca della quarta Crociata: i rifornimenti alimentari apprestati per la spedizione, che secondo l'accordo dovevano assicurare l'autonomia per nove mesi. Le preferenze per la via terrestre delle prime Crociate si spiegano anche con le maggiori possibilità che questa offriva per il vettovagliamento di eserciti così numerosi (26), a parte la maggiore autonomia della quale i comandi potevano disporre, mentre in mare i loro poteri erano subordinati a quelli navali.
Le navi partirono cariche "d'armes et de viandes", e una cronaca molto più tarda, la pseudo-Zancaruola, informa che gli uomini potevano disporre di sei stai (cinque ettolitri) a testa di pane, farina, cereali e legumi e di mezza anfora di vino (150 litri), sempre come razione individuale; per ciascun cavallo trenta moggia di avena (poco meno di 30 ettolitri) e acqua a sufficienza (27).
È difficile accogliere queste cifre, considerato l'ingombro e il peso di circa 353.000 ettolitri di derrate, e in aggiunta la provvista di acqua; senza contare i problemi di conservabilità, che non dovevano essere trascurabili. Tralasciando l'esame della congruità dei dati, peraltro complicato dall'indeterminatezza della composizione della razione, preferiamo pensare ad un obbligo di fornitura da assolvere con l'ausilio di una catena di basi attrezzate nelle quali, lungo la rotta, era possibile rinnovare le riserve di bordo, tanto più che la navigazione non s'allontanava molto dalla costa e che le soste furono numerose. Villehardouin, il quale prese parte alla spedizione, parla di un rifornimento di cereali - di cui le navi "avoient grant mestier quar il en avoient peu" - ad Abido, quasi all'arrivo, e più avanti a Calcedonia, nelle acque di Costantinopoli (28). Sia pure con qualche difficoltà i crociati riuscirono a sostenersi fino alla presa della città, ciò che indica che tutto era stato predisposto a dovere.
È legata alle Crociate anche l'offerta di quindici navi a Luigi IX, nel 1268, "pro passagio transmarino", alla quale dobbiamo l'indicazione delle dimensioni di tre unità di grosso tonnellaggio e di dodici più piccole. Gli specialisti l'hanno studiata a fondo, disputando sul modo di interpretarne e di utilizzarne correttamente i dati. Le fonti alle quali è affidata presentano infatti numerose discordanze, aggravate dall'ambiguità di certe espressioni e dai problemi metrologici. Un altro elemento d'incertezza è costituito dall'insellatura e dalle altre incurvature degli scafi, per determinare le quali le testimonianze iconografiche non soccorrono molto e quelle archeologiche si riducono a due navi di taglia piuttosto ridotta, emerse da uno scavo a Contarina nel 1898, databili tra il 1000 e il 1500 (29). Si sa bene che nei contratti medievali di costruzione navale si guardava con maggiore interesse alla portata che non alle forme: una volta fissate certe dimensioni di massima il maestro costruttore le interpretava con grande libertà, rimettendosi all'esperienza e ai segreti del mestiere.
Le questioni sono state affrontate con diversi metodi, per la prima volta da Augustin Jal nel 1840, con risultati che René Bastard de Péré ha sottoposto a severe critiche; le hanno riprese Leonard G. Carr Laughton e più recentemente John H. Pryor (30), il quale ha concentrato la sua attenzione soprattutto sulle navi rotonde a tre ponti. Tra i punti controversi della ricostruzione vi sono la presenza del paramezzale e più genericamente le dimensioni e la figura dell'ossatura dello scafo nei suoi vari elementi, se in questo convenga ricollegarsi alla tradizione delle navi mercantili romane oppure - come preferisce Carr Laughton - alle costruzioni navali inglesi del XV e XVI secolo. Le navi romane adoperavano legname più leggero e inoltre venivano costruite allestendo in primo luogo lo scafo, con giunture ad incastro, maschio e femmina; una volta che lo si era completato, si aggiungevano le strutture interne destinate a dargli solidità.
Nell'epoca della quale discorriamo questo metodo di costruzione "a conchiglia" era ormai superato dalla nuova tecnica "a scheletro", per la quale si principiava dalla chiglia, alla quale si fissavano le costole, continuando poi coi bagli e con gli altri elementi, fino a formare l'ossatura completa dello scafo, che solo in ultimo si circondava col fasciame (31). È chiaro che questo radicale mutamento del sistema di costruzione non può non aver influito sulle linee della nave e sulla scelta del legname, cioè sulla forma e sullo spessore dei singoli pezzi. Tutti quelli che hanno scritto di queste navi hanno cercato di trarre il massimo profitto dai non molti dati disponibili e forse non ha portato gran danno che si siano ispirati, più o meno esplicitamente, ai trattati veneziani di architettura navale del Quattro e del Cinquecento.
Tralasciamo altri aspetti specialistici che interessano più da vicino l'architettura navale, limitandoci a riportare l'opinione del comandante Bastard de Péré, il quale afferma che per il coefficiente di finezza e le prore slanciate, che dimostrano a quale maestria erano arrivati i costruttori del Duecento, le navi offerte a s. Luigi non avevano nulla da invidiare a quelle del Settecento (32). Giudizio in aperto contrasto con quello espresso dalla commissione che riferì sulle due imbarcazioni scoperte a Contarina, alla quale esse sembrarono il prodotto di "un'arte ancora bambina". Le singole parti, tutte di rovere, le parvero di robustezza esagerata, con gran spreco di legname per ottenere pezzi molto più piccoli dei tronchi dai quali erano stati ricavati, mal distribuite e connesse così da farne risultare un complesso debolissimo, il quale rivelava che ai lavori aveva dovuto "sopraintendere un costruttore navale ben ignorante" (33).
Non crediamo che questa valutazione negativa, per quanto fondata su reperti archeologici, possa essere generalizzata. Ad essa peraltro si oppongono gli scritti della grandissima parte degli specialisti della materia, che sulle navi veneziane di quest'epoca giungono a conclusioni molto diverse.
La maggiore delle navi veneziane dell'offerta - la Roccaforte - misurava di lunghezza massima prorae et puppis m 38,3, di larghezza m 10,09; la S. Maria e la S. Nicolò le erano inferiori di poco, le altre dodici navi avevano m 29,9 di lunghezza e m 7,48 di larghezza (34). Ma se guardiamo la lunghezza alla chiglia, che nella Roccaforte era soltanto di m 24,4, e la confrontiamo con la larghezza, le navi più grandi risultano piuttosto tozze; e poiché le dodici più piccole sono di finezza maggiore, in quanto la loro lunghezza alla chiglia è più di due volte e mezzo la larghezza, Lane ha ragione nel ritenere che per aumentare la portata i costruttori veneziani operassero accentuando la larghezza (35).
Con le sovrastrutture queste grosse navi acquistavano l'aspetto, e le caratteristiche, di una fortezza e tale si configura la Roccaforte nel racconto di Martin da Canal dello scontro con sedici galere genovesi al largo di Durazzo nel 1264. I mercantili veneziani, diretti in Siria, andavano di conserva, senza scorta di galere, appoggiandosi a questa "grant nef et mult defensable", però priva di capacità di manovra e di armi offensive, un massiccio torrione protetto dalla sua altezza e da gruppi di balestrieri. Quando videro che non potevano difenderle, tutti abbandonarono le unità minori e con le merci più pregiate si ritirarono sulla Roccaforte, contro la quale le galere nemiche rimasero impotenti (36).
Mentre il cronista veneziano parla di una grande nave e di una flottiglia indeterminata di "petites tarites", l'ignoto annalista genovese precisa invece che il gruppo di unità veneziane comprendeva tre navi, una delle quali più grande delle altre, tredici taride magne cum gabiis, un banzone, due galere e una saettia (37).
Le cronache ci hanno serbato la memoria di un'altra nave veneziana di straordinaria grandezza, che nel 1173 partecipò all'assedio di Ancona. Era la più grande che si fosse mai vista e perciò la chiamavano iperbolicamente Totus Mundus: anch'essa "erat enim quasi castellum, sub cuius umbra et patrocinio universe naves et galee consistere videbantur". Carica di macchine belliche e di balestre, produceva gravi danni alla città assediata, ma bastò che un ardito sommozzatore le tagliasse il cavo di un'ancora perché - rigida alla manovra - rischiasse d'andarsi ad infrangere sugli scogli (38). I massicci velieri d'alto bordo riusciranno a modificare le tecniche dei combattimenti navali soltanto dopo l'avvento delle artiglierie e l'adozione di un'alberatura più composita e articolata.
Navi per trasportare dovunque e galere per far danno ai nemici, scrive Martin da Canal, sintetizzando la composizione delle forze navali di Venezia (39). Della nave rotonda di quest'epoca, prima della sua sostituzione con la cocca, una nitida raffigurazione è offerta dai cinque schizzi che illustrano lo Zibaldone da Canal. Vi compare, in quattro diversi colori, lo stesso tipo di nave, con un'insellatura abbastanza pronunciata, cassero e uno dei timoni laterali; gli alberi sono due (d'artimone e di mezzana, come leggiamo a p. 28 dell'edizione), fortemente inclinati verso prua e muniti di una gabbia e di una lunga antenna costruita in due pezzi che - come sottolinea Lane nella sua particolareggiata descrizione - mostra la sua destinazione a vela latina (40). La nave è dello stesso tipo di quella miniata nella prima pagina del codice degli Statuta navium di Renier Zeno posseduto dalla Biblioteca Querini Stampalia, che mostra con chiarezza i due timoni laterali e i due alberi dalle lunghe antenne; e di quella a vele spiegate del mosaico trecentesco della cappella di S. Isidoro, nella basilica marciana. È il momento della massima diffusione della vela latina, già da qualche secolo in uso nel Mediterraneo, nella marina bizantina, e della sua applicazione a navi di grossa taglia. La coppia di timoni laterali permetteva di navigare con una certa sicurezza lungo la costa perché aiutava ad evitare le rocce e i bassifondi.
Non siamo certi che l'aumento delle dimensioni delle navi, specialmente in larghezza, si sia accompagnato con un'armonica modificazione delle varie parti componenti, in modo da realizzare la migliore navigabilità. L'offerta veneziana del 1268 non dà le misure delle navi in tutti i loro elementi, e per esempio mancano quelle degli alberi, delle antenne e delle vele, ma esaminando i dati genovesi, che sono i più completi, John H. Pryor teme che la chiglia poco profonda per le concezioni che se ne hanno oggi abbia potuto ridurre la loro efficienza (41). Purtroppo le fonti, quelle scritte come le iconografiche, sono avare di particolari e se sulla tendenza all'ingrandimento non ci sono dubbi, non si riescono a cogliere gli elementi e le fasi della trasformazione né i riflessi sulle tecniche costruttive.
I velieri di questo tipo figurano nelle fonti col nome di nave, che però è anche impiegato genericamente per altri modelli, di solito di una certa grandezza, perché per quelli minori si preferisce l'espressione di lignum. Naves et ligna, in una deliberazione del maggior consiglio del 1276 (42) sembra includere il naviglio d'ogni specie, ma in una del 1287 troviamo un lignum magnum e un lignum parvum che ci rendono attenti alla volubilità di tale nomenclatura (43), così come la navis magna communis della quale si parla nel 1274 (44). Naves, tarete et bançones leggiamo in altre deliberazioni del maggior consiglio, mentre gli statuti di Jacopo Tiepolo appaiono diretti alle navi e ai banzoni di 200 migliara di portata e alle navi di portata superiore, fino a 1.000; gli statuti super navibus et aliis lignis dello Zeno, alle navi, banzoni e buzonaves dalle 200 alle oltre 600 migliara di portata; le tarrete hanno uno statuto speciale che in sostanza riproduce quelli Zeno.
Una varietà di tipi di nave fu certamente imposta dalle nuove necessità, che nel caso veneziano erano rappresentate da itinerari più lunghi, anche con l'inclusione di trasporto di cavalli, di materiale bellico e di merci povere, e presumibilmente pure da una più pronunciata differenziazione tra le funzioni marittime di un grande porto e i servizi a scala regionale. Ci fu la comparsa di modelli nuovi e forse con frequenza maggiore l'adattamento e anche la sopravvivenza di vecchi, con una specializzazione in relazione a determinati impieghi che non sempre appare di un livello tale da giustificarsi. Infatti Lane ritiene di poter usare il nome di buzonave anche per le navi e i banzoni, cioè per unità di una certa grandezza, con due ponti e due alberi a vela latina (45), che sono poi quelle regolate dagli statuti Zeno, che invece sembrano escludere i vascelli lunghi a remi del tipo delle galere. Questi, a partire almeno dall'ultima parte del Duecento, vengono comunemente classificati navi armate, in opposizione alle navi rotonde, che sono invece considerate disarmate, ma sarà bene ricordare che le galere potevano anche essere di proprietà privata e utilizzate da privati e che le navi rotonde avevano l'obbligo di imbarcare una congrua quantità di armi e di uomini capaci di adoperarle.
Una divisione netta tra naviglio mercantile e naviglio da guerra non c'è ancora, per quanto le differenze si vadano accentuando soprattutto per la pratica dei convogli, che fornendo certe garanzie di sicurezza dovevano incoraggiare la proprietà navale a trascurare a beneficio della capacità di carico le qualità apprezzabili in caso di aggressione. Le forme della guerra in mare, con combattimenti a distanza ravvicinata e abbordaggi, e l'incapacità di manovra delle navi rotonde portavano per necessità alla destinazione dei vascelli lunghi a remi preferibilmente a compiti militari, per la loro abilità di muoversi in ogni direzione indipendentemente dal vento, mentre i trasporti erano riservati ai navigia disarmata. La diversificazione procede con lentezza non solo perché i mari non erano sufficientemente vigilati per permettere viaggi isolati senza congrui apprestamenti difensivi ma anche, crediamo, per i problemi che poneva la modificazione delle linee di un bastimento da trasporto.
Come tendenza generale, sembrerebbe che fossero piuttosto i vascelli lunghi a perdere i remi, a diventare più alti e meno affinati che viceversa. L'aumento dell'altezza dello scafo doveva necessariamente accompagnarsi, oltre certi limiti, con la rinuncia ai remi, e il passaggio al veliero d'alto bordo implicava tecniche costruttive più evolute perché poneva più complessi problemi di stabilità e in genere di rapporti tra le varie dimensioni della nave. Il banzone - se accettiamo la facile etimologia che darebbe risalto alla sua grossa pancia (46) - non può essere il risultato di un'imponente dilatazione della larghezza dello scafo? La stessa galera viene impiegata utilmente nei trasporti di merci, e i privati continuano a costruirne ancora nel 1301, quando il senato regola la quota di partecipazione ai noli del convoglio d'Armenia per quelle di portata inferiore alle 90 migliara (poco meno di 43 tonnellate) (47).
Le navi rotonde di più grossa taglia si caratterizzano anche come ligna incaibata, cioè con alberi muniti di una coffa, sulla quale potevano prender posto i balestrieri: navis, tareta vel lignum incaibatum, leggiamo in una deliberazione del 1290; navis, tarita et bançonus incaibatus, in un'altra, contemporanea, nella quale si fa obbligo di imbarcare un esperto capace di provvedere alla manutenzione delle balestre (48). Un'altra distinzione era quella tra navis et lignum coopertum e le imbarcazioni prive di un ponte che limitasse superiormente lo scafo. Le navi munite di coperta, che erano le più grandi, venivano assoggettate ad un intervento più attivo da parte dello Stato.
La buzus navis corrisponde probabilmente al bucius dei documenti genovesi e potrebbe essere la versione veneziana della buza nordica, che si trova menzionata tra le unità di trasporto dei crociati e dei pellegrini, e col nome di buza una nave veneziana diretta a Costantinopoli figura in un documento del 1155. Dalla fine del XIII secolo questo era diventato il nome generico dei mercantili scandinavi (49). Il nome la ricondurrebbe non al significato di ventre, come sostiene stranamente Jal, trasformandola in un "navire ayant beaucoup de largeur, bien assis sur l'eau, très-propre à porter de lourds fardeaux" (50), ma a quello di cavità chiusa, di guscio, come suggerisce il dizionario del Guglielmotti (51), e questo farebbe pensare ad una costruzione navale del tipo a conchiglia, del che avremmo una conferma della sua presumibile origine nordica, da un'area cioè che conservò a lungo tale metodo costruttivo (52). Si differenziava dal banzone per le forme più affinate, ma in ogni caso alle due navi gli statuti attribuiscono le stesse caratteristiche ed anche le stesse qualità, perché le obbligano, dopo sette anni di esercizio, a spostare di mezzo piede - nei viaggi fuori dell'Adriatico - la linea di massima immersione (53).
Non aggiungono molto alle informazioni date dagli statuti una ventina di documenti notarili e del maggior consiglio, tutti del terzo decennio del Duecento, dove figurano dei banzoni che percorrono rotte adriatiche, di Costantinopoli, di Alessandria, uno dei tanti con un carico di legname, un altro con un carico di grano (54). Un panzonum magnum oneratum grano, con 45 armati a bordo, nel 1265, al largo di Modone, affronta coraggiosamente una galera genovese ma ha la peggio (55). Merita di essere osservato che di navis vel banzonus vel buzus navis parlano nel 1255 gli statuti Zeno, mentre quelli Tiepolo del 1229 accennano semplicemente a navis aut banzonus. L'omissione della buzonave indica, in modo più esplicito del silenzio nella documentazione della prima parte del secolo, che questo tipo non era ancora molto diffuso. A Genova un contratto del 1191 riguarda un bucius di 40 remi con un equipaggio di 32 uomini e quindi si potrebbe ipotizzare anche per Venezia un passaggio dalla propulsione a remi a quella a vela, che spiegherebbe perché gli statuti Tiepolo, che interessano i mercantili, ne tacciano (56). Noi invece propendiamo a credere che, quali siano le sue trasformazioni nordiche, la buza che è servita da modello alla buzonave veneziana sia giunta nel Mediterraneo già nella sua versione a vela. Comunque, non sembra che abbia riscosso molto favore negli ambienti marittimi veneziani: nel 1293 una deliberazione del maggior consiglio destinata a tutto il naviglio maggiore nomina naves, galee, tarete et bançones, tacendo delle buzonavi (57).
Le tarrete o taride, anch'esse a due alberi a vela latina, avevano un solo ponte ed erano di grandezza tendenzialmente minore delle navi (58). Lo speciale statuto che le regola, infatti, prende in considerazione una portata massima di 400 migliara (poco meno di 200 tonnellate), ma è degno di nota che dovevano imbarcare un numero di marinai superiore a quello delle navi, cioè 25 sulle prime 200 migliara di portata in luogo di 20. Le forme notevolmente affinate a poppa e a prua, il bordo basso e la possibilità d'aiutarsi con remi le rendevano simili alla galera, della quale erano però più pesanti e meno veloci anche perché avevano il centro dello scafo molto largo, per cui erano impiegate soprattutto per i trasporti. Il fondo piatto le faceva assomigliare all'usciere, e infatti nel contratto con Luigi IX quelle genovesi dovevano essere attrezzate a taride-uscieri. Gli uscieri appaiono utilizzati anche per viaggi commerciali, e infatti nel 1203 quello di Tommaso Viaro ne compie uno sulle due sponde dell'Adriatico e più tardi prende parte ad un taxegium per il Levante (59).
Gli statuti del XIII secolo interessano le navi di portata superiore alle 200 migliara (circa 100 tonnellate), che erano certo destinate ai collegamenti a largo raggio. Altro naviglio, di dimensioni presumibilmente più ridotte, figura in numerosi documenti pubblici e privati, che danno qualche accenno sul loro impiego. Sono plati, sandali, corabi, talvolta qualificati genericamente navisoli, il cui campo d'azione dovrebbe essere contenuto nell'Adriatico settentrionale, a nord di Ancona e di Zara, e al massimo nell'area più meridionale compresa entro la linea Gargano-Ragusa, ma che troviamo anche sulle rotte del Mediterraneo orientale. I plati trasportano frumento, sale, vino, olio e anche pellegrini in Terrasanta; un sandalo nel 1232 opera nel mar Nero, un corabo nel 1211 a Costantinopoli. Il corabo era probabilmente un vascello del tipo della galera ma di proporzioni molto ridotte; i sandali dovevano essere qualche cosa di più di semplici barconi lagunari. Nelle fonti bizantine del1'XI-XII secolo il σάνδαλοϚ designa delle barche da pesca a due o a quattro remi (60).
La pratica della navigazione lungo la costa e nelle stagioni più propizie favorisce il prolungamento delle rotte, che vengono percorse anche da unità di piccolo tonnellaggio. Dopo il 1204 i viaggi sono facilitati dalla catena di punti d'appoggio di cui Venezia dispone nella Romània dopo la spartizione. Le navi percorrevano le rotte principali in taxegium, cioè di conserva, oppure in convoglio, secondo un calendario costruito sull'avvicendamento di periodi meteorologicamente favorevoli o contrari alla navigazione, dal quale dipendeva tutto il movimento marittimo, così da evitare una dannosa concorrenza a questi traffici privilegiati, ai quali la città affidava le sue fortune. A scadenza fissa veniva deliberato "quod terra aperiatur et possit iri ad omnem partem", salvo che in certi paesi espressamente vietati. Non poche navi, infatti, preferivano muoversi isolatamente, esponendosi - molto più che al periculum maris - al periculum gentis, perché la parte meridionale dell'Adriatico e soprattutto le acque oltre il canale di Otranto non erano ancora sufficientemente pattugliate e protette dalle galere e dalle altre navi armate veneziane. Nel 1224 bastarono quattro uomini per catturare nelle acque di Cervia un plato carico di sale e successivamente un altro plato e un gondolone; e quattro anni dopo, mercanti e pellegrini di una nave che s'era andata ad infrangere sugli scogli dell'isola di Leucade furono spogliati di tutto dal despota greco di Corfù, il quale si giustificò dicendo: "Audivimus quod vos estis gentes mercatores, qui monetam satis habetis". Nel dicembre 1300 persino una galera da mercato, proveniente dalla Siria e dalla Romània, alle bocche dell'Adriatico fu assalita e saccheggiata da navi armate siciliane (61).
In linea di massima per partire da Venezia tutte le navi dovevano chiedere una speciale autorizzazione, che era subordinata a visite e controlli operati da numerosi organi governativi incaricati d'accertare l'osservanza delle numerose norme di polizia marittima. La disposizione viene ribadita nel 1246 e nel 1287, limitandola a quelle che uscivano dall'Adriatico, per cui dobbiamo ritenere che i servizi locali e tutta la navigazione a nord della linea Gargano-Ragusa alla quale abbiamo accennato potessero esercitarsi liberamente. Poiché questi collegamenti interessavano i rifornimenti alimentari o di materie prime per le attività cittadine e la ridistribuzione di merci dell'emporio veneziano, andavano incoraggiati al massimo. Comunque non c'erano norme, o almeno non ne conosciamo, che vietassero ad alcuni tipi di nave di superare la barriera del canale di Otranto. D'altronde sarebbe stato difficile assicurarne il rispetto.
Per lunghi periodi del Duecento, ad esempio, quando i viaggi per l'Egitto furono tassativamente vietati, in particolare quelli con carichi di legname, per far osservare l'ordine del 1226 il comune s'accordò col proprietario di una nave che imbarcava 36 marinai, concedendogli i due terzi del carico, delle vele e delle ancore del naviglio contravventore catturato mentre viveri, armi e vesti dovevano essere ripartiti tra l'equipaggio "secundum modum et consuetudinem patriae nostrae" (62), ma abbiamo seri dubbi che l'operazione abbia avuto l'esito sperato, proprio per l'insufficienza dell'apparato di forze destinato al servizio. Ce ne danno conferma i documenti che parlano di merci sequestrate perché di sospetta destinazione o provenienza egiziana (63). Quelli che si spingevano oltre le acque dell'Adriatico, insomma, lo facevano a proprio rischio e non era facile impedirglielo.
Al movimento marittimo locale contribuiscono altre imbarcazioni minori, plate, scaule, burchi, barche, che percorrono anche il Po e l'Adige, così cariche che viene ordinato di "camitare ipsum navigium uno pede minus de eo quod fuerit amplum in fundo", ma una plata carica di legname viene fermata nel sospetto che voglia andare in Egitto, meta ambita di questi trasporti, e poi preferisce collocare la merce a Bologna.
Accanto a queste unità prevalentemente destinate a funzioni commerciali dava corpo alle forze navali veneziane un numero ragguardevole di vascelli lunghi a remi, di antica tradizione mediterranea, bassi e stretti e con un solo ponte, piatto. Innanzi tutto la galera, che per secoli sarà destinata ad essere il simbolo del potere marittimo veneziano come il vascello di linea lo è stato di quello inglese (64). Ai primi del Trecento il rapporto tra la lunghezza del ponte e la larghezza massima era di 7,6 a 1 in quella grossa e di 8, 1 a 1 nella sottile (65). L'albero a vela latina le conferiva un ampio raggio d'azione, la manovrabilità e il gran numero di uomini a bordo ne facevano uno strumento bellico di eccezionale potenza in una stagione gloriosa che nel Mediterraneo si chiude solo a Lepanto.
Fino al 1290 le galere veneziane erano quasi tutte biremi, cioè avevano due rematori per banco; più tardi aggiunsero un terzo remo per banco, cosicché nei primi anni del Trecento avevano quasi tutte adottato la voga ad terçarolos (66). È lecito ritenere che il costoso supplemento di rematori si sia accompagnato con un congruo aumento della capacità di carico; carico di uomini, per potenziare la sua efficacia bellica, o più probabilmente di merci, per realizzare un mezzo che compensava la maggiore spesa con quello che guadagnava in sicurezza, autonomia di manovra, velocità. Dotson è d'opinione che il terzo uomo abbia raddoppiato l'efficienza della galera come unità mercantile (67), e non bisogna inoltre dimenticare che una schiera di rematori i quali in caso di pericolo potevano trasformarsi in soldati costituiva un dato positivo quanto mai apprezzabile nelle condizioni del mare in quest'epoca.
Una gran parte, senza dubbio la maggiore, era di proprietà comunale, ma come abbiamo visto ne possedevano anche i privati, i quali di regola se ne servivano per il trasporto delle merci di maggior pregio. I costi d'esercizio erano elevatissimi e solo in misura molto ridotta erano compensati dalle minori spese per l'impianto e la manutenzione dell'apparato velico: poiché le stive avevano in ogni caso una capacità limitata, la sicurezza aveva un costo che evidentemente era assorbito senza difficoltà dagli utili prevedibili.
Il comune - così come i privati - disponeva inoltre di altri vascelli lunghi a remi, che sostanzialmente erano delle varianti della galera, più lunghi o più corti, più larghi o più stretti, utilizzati per vari compiti che purtroppo non abbiamo elementi per determinare. Sono le galeotte, alle quali accenna Martin da Canal (68), e i galeoni, presumibilmente di larghezza maggiore, ma non sappiamo fino a che punto diversi di linea: in un documento del 1224 un galeone figura con 115 uomini contro i 158 della galera che ha a bordo il comitus et capitaneus della spedizione (69). Erano mosse dai remi anche le sagittede, cioè le saettie, molto veloci per la forma decisamente slanciata, spesso impiegate per la sorveglianza contro i trasporti di merci proibite o di contrabbando (70). Un documento del 1128 ne presenta una attrezzata con 50 remi, un albero, un'antenna, un'ancora e cordame vario (71). Nel 1226 i magistri communis costruiscono due asiri con tavolame di quercia della lunghezza di diciotto passi (m 31,3) (72). Uno di tali asiri viene subito assegnato ad un privato, perché lo utilizzi per conto del comune in viatico Apulie (73), e questa è una delle prime testimonianze di quelle gestioni sulle quali si svilupperà il sistema degli incanti di galere statali. Più piccole delle saettie erano le vacchette, che in un documento del 1287 appaiono mosse da 40 remi e fornite di un velum (74).
La nuova congiuntura di trasporti a largo raggio favorì la costruzione di navi più grandi e i cantieri veneziani furono in grado di rispondere alla domanda, certamente in modo soddisfacente se cercarono di farne acquisto anche i forestieri. Ci fu tuttavia una tendenza, nei primi decenni del Duecento, all'impiego di naviglio di piccolo tonnellaggio, per la quale si possono cercare diverse spiegazioni. In primo luogo, crediamo, la scarsa propensione ad investire capitali - a parte la difficoltà di procurarseli - in un'attività, come quella armatoriale, che ancora non costituiva un settore autonomo, distinto dall'attività commerciale, ma ne era uno strumento.
E sulle rotte principali - quelle per il Levante - i collegamenti erano di norma assicurati da convogli ai quali potevano aggregarsi unità di ogni tipo, perciò ne bastava anche una modesta, che non avesse le dimensioni e gli apprestamenti difensivi indispensabili per un viaggio isolato.
È vero, però, che la partecipazione ai convogli implicava l'osservanza di regole varie, in particolare di quelle sui periodi di carico, che paralizzavano in lunghe soste, senza contare i danni della pressione sui prezzi esercitata dal concorso di tante navi sull'offerta per i prodotti in arrivo e sulla domanda per quelli in partenza. Perciò molti preferivano una certa libertà di movimento, soprattutto per lo sfruttamento di traffici con piazze minori: in una fase d'espansione geografica dei traffici, con la possibilità di stabilire collegamenti nuovi, l'autonomia era quanto mai apprezzabile. E una nave piccola vi si prestava benissimo, perché col suo modesto pescaggio approdava ovunque senza grandi difficoltà. Bisogna infatti tener presente che i porti in condizione di ricevere una nave di grossa taglia erano pochi e non sempre provvisti dell'attrezzatura e dei servizi necessari. Vorremmo anche aggiungere che le navi piccole erano meno vincolate delle altre alle sempre più invadenti regolazioni statali che andavano prendendo il posto delle antiche consuetudini per le quali erano solamente gli interessati a curare l'idoneità della nave al viaggio (75). Numerose norme statutarie, infatti, riguardano le navi di più di 200 migliara, lasciando quelle di portata minore libere da oneri supplementari e da controlli.
La tendenza verso piccoli tonnellaggi dovette assumere proporzioni vistose se nel 1229 il maggior consiglio vietò la costruzione nei cantieri del Dogado, da Grado a Cavarzere, di navi di misura inferiore ai 56 piedi di lunghezza alla chiglia, 24 di larghezza massima, 9 di altezza (76). Della deliberazione purtroppo è stato registrato solo il dispositivo e perciò non conosciamo le circostanze che la motivarono né le finalità che si proponeva, anche se non ci dovrebbero esser dubbi sulla sua connessione con esigenze militari. Quello di Venezia era un "regnum aquosum" (77). Il Dominio in Levante era molto frazionato e costituito in gran parte da isole: era un sistema di punti d'appoggio, di basi, di colonie che bisognava organizzare e consolidare, e su un vasto territorio quale quello di Creta, che ne costituiva il cardine, c'era ancora da stabilire una sovranità effettiva. Per assolvere questi compiti bisognava fare affidamento su una larga disponibilità di navi che fossero in grado, all'occorrenza, di trasportare soldati, personale ausiliario, rifornimenti, materiale bellico, e in casi di emergenza di trasformarsi in unità da combattimento.
Questa attenzione ai grossi tonnellaggi mostra che la differenziazione tra nave da guerra e nave da trasporto, ricercata dai privati, era poco gradita agli organi governativi, per le necessità imposte dalla congiuntura politica. Infatti, nonostante i numerosi trattati e tregue, la lotta che si andava conducendo era per il dominio mediterraneo e le grandi battaglie erano navali. Nello stesso Adriatico anche dopo la riconquista di Zara, che aveva rinsaldato la sicurezza della navigazione veneziana per il Levante, la quale si sviluppava lungo la costa della Dalmazia, s'imponeva una politica di protezione armata, con privilegi e restrizioni che richiedevano efficaci mezzi di polizia marittima.
È una prima forma d'intervento, questa del 1229, destinata a non avere grande successo perché s'esauriva in un divieto, senza tener conto delle implicazioni economiche che comportava. E infatti, come abbiamo visto, la carovana di navi veneziane che nel 1264 fu assalita dalle galere genovesi mentre percorreva la rotta per la Siria, contava una sola unità della taglia della Roccaforte, mentre tutte le altre erano di dimensioni ridotte. Per quanto dagli statuti marittimi del 1255 si ricavi l'impressione di un aumento della grandezza media delle navi rispetto a quelli Tiepolo, che la costruzione di naviglio di piccolo tonnellaggio continuasse è provato da una deliberazione del maggior consiglio del 1286, la quale vietava che ai convogli venissero ammesse unità inferiori alle 250 migliara (tonnellate 120 circa) (78). La politica d'incoraggiamento ai grossi tonnellaggi diverrà efficace più tardi, quando si tradurrà in prestiti per le costruzioni navali e in premi di navigazione in relazione a certe rotte e a certe merci.
Un potente stimolo alla costruzione di navi più grandi furono i trasporti di grano e di sale dell'ultima parte del Duecento, con le provvidenze statali a loro favore. La data d'inizio di questa fase è la crisi annonaria del 1268, che spinse le navi veneziane ai porti bizantini e fino al mar Nero, alle foci dei grandi fiumi che convogliavano la produzione dall'interno: "parmi le munde jusque as Tatars et en maint autres leus ou eive court", scrive Martin da Canal, aggiungendo che fu il doge a mandarle, vale a dire che il comune s'impegnò ad acquistare il grano a prezzi remunerativi o che promise dei premi d'importazione (79). Altre carestie furono successivamente superate nello stesso modo e la disponibilità di naviglio, con l'attrezzatura commerciale stabilita nei centri di produzione, alimentò una regolarità di rifornimenti che non solo consentì di far fronte all'espansione della domanda sotto la spinta del forte incremento demografico ma determinò anche le condizioni perché la città assumesse la funzione di centro di ridistribuzione del prodotto. Nella promissione ducale l'impegno ad importare frumento per via marittima passa dalle 1.000-2.000 moggia annue del 1229 alle 2.000-3.000 del 1249 e alle 3.000 del 1275 (80).
Dal 1281 cominciarono i provvedimenti a favore dei trasporti di sale importato da Cipro, dalla Sardegna, da Ibiza, da Ras' al-Makhbaz e si ripeterono con una frequenza tale che nel 1286 le loro modalità furono riassunte nella formula "secundum usançam". Quelli del 1283 sono collegati con l'esportazione in Provenza e nel Garbo (Maghreb) di cotone, seta greggia, spezie ed altri prodotti orientali che la piazza non riusciva a smaltire, e a trarne vantaggio furono le navi, alle quali venne assicurato il carico di ritorno. Infatti, con l'eccezione del 1299, essi furono sempre a beneficio del naviglio nazionale. Nel 1291, quando si vollero imporre equipaggi più numerosi, il maggior onere si trasferì allo Stato mediante un aumento del prezzo del sale che sarebbe stato acquistato dai suoi magazzini (81).
Gli arrivi di sale straniero contribuirono a soddisfare il fabbisogno veneziano per la distribuzione sul mercato padano, e forse è ancora un po' presto per inquadrare la politica del sale di questi decenni in quella che porterà a sacrificare la produzione nazionale della derrata alla prosperità del commercio e dell'armamento navale (82), ma fu allora che se ne intuirono i frutti e se ne sperimentarono gli strumenti. L'incremento del movimento marittimo determinato dai trasporti di grano e di sale, merci che richiedevano una notevole capacità di stiva, eccitò la domanda di navi di maggiore portata, e i cantieri veneziani cercarono di farvi fronte con adattamenti del naviglio già disponibile. Alle taride si applica un secondo ponte e molte navi subiscono l'elevazione della coperta e l'aggiunta di sovrastrutture varie, persino di una o più bertesche. In qualche caso si arriva ad intervenire sulla larghezza dello scafo, cercando di dilatarlo, con gravi rischi per la sua stabilità È quello che vieta tassativamente una deliberazione del 1291, insieme con l'aggiunta di una terza coperta ("naves aperire in bucchis nec levare coopertas ipsarum"), mentre permette altre modificazioni di minor rilievo (83). Le disposizioni delle autorità comunali per evitare eccessi, imprudenze, abusi sono numerose e molto più degli statuti di metà secolo dimostrano l'interesse pubblico assunto dalla navigazione e l'opportunità di tutelarlo con interventi diretti da parte dei consigli e delle magistrature che con vari compiti davano corpo all'ordinamento comunale in graduale sviluppo.
Nella stessa direzione operano le numerose norme sul carico delle navi, un settore nel quale la sicurezza della navigazione faceva molte concessioni alla ricerca del facile guadagno. Già i primi statuti, quelli Ziani del 1227, dettano norme sui livelli d'immersione permessi, sul carico sopracoperta e negli spazi tra i due ponti, sullo stivaggio ad trabem, cioè mediante compressione con una trave, e i divieti vengono rinnovati dagli statuti successivi (84). Nel 1283 e 1284 è fatto obbligo, nella navigazione fuori dell'Adriatico, di non "recipere nec mittere aliquas mercaciones super cohoperta nec subtus bertescam nec subtus vanum nec subtus paradisum nec subtus corredores nec subtus tabernas", e di lasciare sgombri altri spazi, oltre tutte queste sovrastrutture (85).
Crediamo che a questi viaggi del grano possa essere in qualche modo ricollegato anche l'affermarsi del sistema di insediamenti commerciali nei maggiori centri del Levante, con la trasformazione del mercante che accompagnava personalmente le merci e il denaro in un operatore che manovrava gli affari in un più vasto spazio geografico, attraverso una rete di agenti e di commissionari. Gli acquisti del prodotto anche con anticipazioni sul raccolto, una concreta valutazione delle possibilità commerciali e la tempestiva prenotazione di sufficienti spazi di stiva oppure il pieno carico di una nave non sarebbero stati certo possibili senza un'organizzazione stanziale, che poi deve essere servita da modello, e forse anche da attrezzatura di base per altri settori di traffico (86).
L'espansione dei trasporti marittimi legata alle importazioni di grano e di sale ha per sfondo la ripresa dei collegamenti col mar Nero nel 1265, dopo la chiusura del trattato di Ninfeo, e la sospensione più che ventennale delle ostilità coi Genovesi, a partire dalla tregua del 1270. Essa compensò in larga misura il rallentamento dei traffici commerciali seguìto alla caduta di Acri. Non è casuale che proprio in questi anni - intorno al 1290 - si collochi l'adozione della bussola da parte dei Veneziani, con l'apertura dei mari alla navigazione invernale e la moltiplicazione dei viaggi. Infatti, se nel 1227 le quattro navi mandate in Puglia a caricare 2.000 moggia di grano (hl 6.664) per conto del comune partono da Venezia nel mese di marzo, nel 1284 il termine massimo di partenza dai porti d'approvvigionamento del grano, per beneficiare delle condizioni offerte, viene fissato all' 11 novembre, nel 1299 al 30 novembre, il che significa che il trasporto a Venezia poteva essere compiuto in piena stagione invernale; il 18 novembre 1291 si escludono dalle provvidenze governative le navi "que ibernassent in Mari Maiori" (87), ma dopo un mese la deliberazione viene revocata, presumibilmente perché non tutte erano attrezzate per muoversi in tale periodo (88). Anche per i viaggi del sale almeno dal 1286 il termine massimo di partenza è il 30 novembre.
Furono questi trasporti di importanza vitale che permisero anche ai Veneziani di modificare i ritmi della navigazione eliminando gli inconvenienti della lunga pausa invernale, e l'adozione della bussola metteva una nave grossa a pieno carico in grado di abbreviare i tempi percorrendo lunghi tratti in mare aperto, senza necessità di tenersi vicina alla costa. Per un processo circolare, poi, la disponibilità di navi idonee al trasporto favorì lo sviluppo della cerealicoltura in aree controllate o soggette, in particolare nell'isola di Creta, che diventò la principale fornitrice del mercato realtino. Le importazioni di grano continuarono ad essere incoraggiate, praticamente tutti gli anni, dal 1301 al 1320.
In questa favorevole congiuntura molte navi diventarono così grandi che con le vecchie attrezzature portuali, rimaste immutate, non ebbero più possibilità di approdo a Venezia: nel 1299 agli importatori di sale fu concesso di far scalo in Istria e di trasbordare il carico su unità minori, che lo portavano a destinazione (89); nel 1305 per tre navi di tre ponti, anch'esse "nimis magne pro portu Veneciarum", i proprietari ottennero il permesso di venderle all'estero, poiché inutilizzabili (90). Per la difficoltà tecnica di modificare oltre certi limiti i vecchi modelli, si determinarono le condizioni perché ne venisse adottato uno nuovo. Fu la cocca, la nave nordica caratterizzata dagli alti castelli, dall'albero a vela quadra e dal timone assiale, molto più adatta del bastimento a vele latine e dai timoni laterali alla navigazione in mare aperto e più resistente alle tempeste (91).
Anche la cocca aveva subito un processo d'ingrandimento, che dalla metà del Duecento ne aveva aumentato notevolmente la capacità di carico, senza richiedere tuttavia un equipaggio proporzionalmente maggiore, e questo rappresentava un elemento preferenziale sicuro (92). Inoltre la manovra della sua vela quadra richiedeva forza, ma un'abilità minore di quella delle vele latine. Lo stesso si può dire della manovra del timone centrale, rispetto a quella dei due laterali (93), cosicché il reclutamento dei marinai poteva compiersi a condizioni più vantaggiose perché il grado di specializzazione era meno elevato.
La prima attestazione di una cocca veneziana si riferisce al 1310 (94). Cinque anni dopo, ad un convoglio della muda d'agosto si aggregano, per una parte del viaggio, una cocca, un banzone, cinque naves magne e un certo numero di unità minori, un ventaglio di navi di vario tipo che documenta la lentezza con la quale la trasformazione del naviglio ebbe luogo.
"Quilibet possit laborare et laborari facere naves, taretas et ligna sicut ei placet", leggiamo in una deliberazione del maggior consiglio del 1286 (95). L'industria delle costruzioni navali era fiorente. Aveva un numero di occupati certamente inferiore ai tremila "marangoni de nave" e agli altrettanti calafati dell'arringa del doge Mocenigo, ma è significativo che Martin da Canal scriva che il grosso d'argento di Enrico Dandolo fu coniato espressamente per pagare i maistres che avevano lavorato per le navi della quarta Crociata (96). L'attività era svolta soprattutto nei cantieri privati, benché già da prima degli inizi del Duecento funzionasse un cantiere di Stato, che nel corso del secolo venne acquistando una sua struttura amministrativa ordinaria (97).
Non di rado, quando l'arsenale era troppo impegnato, il comune commissionava qualche costruzione all'industria privata e si valeva anche della facoltà di chiamare dei carpentieri temporaneamente al suo servizio, ma la precettazione - accompagnata da pesanti sanzioni in caso d'inosservanza - non doveva essere molto gradita, forse perché il salario poteva essere fissato d'autorità (98), dunque anche al disotto del livello corrente sulla piazza. Nel 1227 venne fatto tassativo divieto ai marangoni e ai calafati di andare a lavorare fuori della città (99), ma contemporaneamente si tutelarono gli interessi degli iscritti all'arte vietando ai forestieri di prendere lavoro da carpentiere a Venezia per più di otto giorni e ai calafati con meno di dieci anni di residenza di partecipare all'elezione dei gastaldi ed ufficiali (100).
Accanto ai cantieri che avevano le ridotte dimensioni di uno scarum (squero), dove si praticava anche la vendita di pece e di stoppa, ce ne erano alcuni nei quali prestavano la loro opera più di sei maestri, alle dipendenze di un proto e con un certo numero di garzoni. Nella seconda metà del Duecento ci fu qualche difficoltà nell'approvvigionamento delle materie prime, in particolare della pece e della canapa. Nel 1282 si stimava che affluissero annualmente sulle 477 tonnellate di pece e dalle 190 alle 238 tonnellate di canapa, quantità cospicua che serviva tanto per le nuove costruzioni quanto per la manutenzione delle vecchie. Per far fronte alla magna necessitas che se ne aveva si cercò di regolarne il commercio e anche di assumerne la distribuzione (101).
Di legname, invece, non sembra vi fosse carenza, salvo in certi periodi, per esempio nel 1227. All'entrata era gravato di un dazio e nel 1279 poteva essere esportato liberamente, purché già lavorato (102). Era larice, carpine e abete di varie specie, che veniva dal Cadore, dalla Valsugana, da Trieste, e nel 1227 anche da Modena, in forma di alberi di nave e antenne, di giusta grossezza in rapporto a una determinata lunghezza (103). Di regola veniva segato in travi, assi, panconi dagli uomini della speciale sezione dell'arte dei remeri, con l'osservanza delle tariffe e delle norme stabilite dai capitolari del mestiere (104). Non era un lavoro da poco perché bisognava tener conto degli stortami, cioè delle naturali curvature dei tronchi e dei rami.
Non è chiaro chi curasse la progettazione della costruzione ma si può pensare che in quelle più importanti fosse un'incombenza del proto. In ogni caso, però, l'ultima parola toccava al committente, in particolare intorno al modo migliore di applicare i perni di ferro con cui si collegavano i singoli pezzi di legname dello scafo, diritto, questo, espressamente tutelato dagli statuti corporativi. È vero che di solito il proprietario della nave o il rappresentante della proprietà era un mercante armatore o lo stesso nauclerus che ne avrebbe assunto il comando, un esperto insomma che qualche volta provvedeva anche alla fornitura del legname (105). Forse il piano di costruzione, almeno nei suoi elementi essenziali, era frutto della collaborazione dei diversi interessati all'operazione, proprietario e proto, e questa poteva essere la condizione più favorevole per l'adozione delle innovazioni, perché cumulava i progressi tecnici maturati nelle esperienze di cantiere con modelli assunti dall'esterno come risposta alla domanda di speciali servizi.
Un problema particolare era rappresentato dalle ancore (106). Gli statuti del 1229 e del 1255 ne fissavano il numero, dalle sette per le navi da 200 migliara di portata (95 tonnellate) alle venti per quelle da mille (477 tonnellate), coi loro galleggianti (indigarii) per segnalarne la posizione. Una dotazione così alta fa ritenere che molte ne andassero perdute e perciò fosse consigliabile, o obbligatorio, tenerne qualcuna in riserva. Sulla funzionalità del disegno depongono favorevolmente le pur modeste testimonianze iconografiche; il peso, almeno per le più grandi, usate sulle rotte del Levante, doveva aggirarsi sui 130 chilogrammi (107). I1 capitolare dei fabbri del 1286 stabilì delle norme per la saldatura delle marre al fusto e tre anni dopo si ordinò che tutte quelle importate dal retroterra padano o transalpino dovessero essere collaudate da una speciale commissione di esperti, presumibilmente nel sospetto che non tutte fossero fabbricate a dovere (108). È possibile che alla loro fornitura concorresse anche l'arsenale comunale, che nel 1288 ne mandò 30-40 ad Acri, perché se ne potesse disporre pro necessitate mali temporis (109).
La documentazione attestante la cessione in affitto di ancore per uno o più viaggi e la loro proprietà frazionata potrebbero offrire l'immagine di un'industria armatoriale molto povera di mezzi. Noi invece siamo propensi a credere che per un bene, come l'ancora, soggetto facilmente a perdita, la comproprietà rappresentasse una forma di ripartizione del rischio, del tipo di quelle che precedono l'assicurazione marittima, e che il prestito interessasse una circolazione di ancore da imbarcare semplicemente come riserva. Comunque, la provvista di questi attrezzi di produzione notevolmente specializzata doveva certo presentare qualche difficoltà in una città nella quale impianti del genere non trovavano la loro sede ideale.
Le navi non potevano essere vendute a forestieri. È un precetto del capitolare Ziani del 1229, giurato da tutti i proprietari (110), che viene più volte confermato e ribadito. Ma già nel 1227, quando Nicolò Calbani vende una galera a Geoffroy de Villehardouin, si dichiara che ciò è avvenuto "contra honorem Venecie" (111). Provvedimenti come questi, che certamente miravano a mantenere elevata la consistenza della flotta veneziana e a non rafforzare le concorrenti - infatti era lecito acquistare navi estere (112) - si risolvevano a vantaggio delle attività armatoriali, senza che ci si preoccupasse dei cantieri, e quindi favorivano i mercanti, che le esercitavano, nei confronti delle lavorazioni artigiane, per le quali costituivano un'onerosa limitazione. Negli ultimi anni del Duecento si concesse la vendita anche ai forestieri, ma solo delle navi che avessero superato una certa età, che nel 1303 appare fissata in dieci anni (113).
Apparentemente i cantieri erano favoriti da norme statutarie che autorizzavano i carpentieri a lavorare per tutta la giornata del sabato e i segatori ad eseguire anche di domenica certi lavori preparatori del loro mestiere. Era una facoltà che consentiva loro qualche guadagno supplementare ma di fatto si traduceva in una rinuncia al riposo festivo per accelerare i tempi della costruzione, in definitiva nell'interesse dei committenti (114).
Gli statuti disciplinano abbastanza diffusamente la funzione dei patroni navium, nei quali la condizione di proprietario e quella di armatore si cumulano, o quanto meno la pratica non le distingue. E di regola l'impresa di navigazione non viene condotta in modo autonomo ma come strumento di quella commerciale. In altri termini, è il mercante che impiega la nave come servizio accessorio nel quadro della propria attività di scambio di beni, come servizio interno della propria azienda (115). Nella spedizione marittima la situazione più comune è quella illustrata da un documento del 1193 (116), con la nave S. Marco sulla rotta dell'Egeo, che aveva a bordo "Petrus Rambaldus et alii socii de eiusdem navis, et ipsi habebant suum caricum de suprascripta nave", un gruppo di comproprietari che viaggiavano sulla nave carica di merci proprie e certamente anche altrui. Il mercante aveva interesse a possedere una nave o anche una sua quota, perché questo gli garantiva la sicurezza del carico e gli permetteva di avere un peso nella scelta degli itinerari. Ai proventi assicurati dai noli si attribuiva forse un'importanza minore che alla disponibilità di un mezzo per trasportare liberamente le merci nei luoghi e nei tempi più opportuni.
La proprietà navale era frazionata ma non eccessivamente, almeno alla luce della documentazione disponibile, dove figurano quote che non vanno sotto il quarto o il quinto. Ad esse era spesso interessato lo stesso nauclerus, che era colui che a bordo esercitava le funzioni direttive ma con poteri ristretti che non andavano molto oltre la parte puramente tecnica della manovra. Le decisioni sull'impiego della nave venivano prese dalla maggioranza dei proprietari che per il viaggio di un usciere, nel 1203, in quattro diversi atti notarili viene definita: "maior pars eiusdem usserii", "maior pars sociorum suprascripti usseri", "maior pars societatis eiusdem usseri", "compagnia ipsius usseri". E in documenti analoghi dei decenni successivi troviamo: "maior pars navis" o "societatis" o "compagnie" (117).
Questa autonomia era sempre più limitata dalle norme di polizia marittima contenute negli statuti e dall'obbligo di prendere accordi coi noleggiatori, coi pellegrini, coi mercanti, coi marinai per certe questioni particolari come lo zavorramento, il calafataggio, le aggiunte di carico durante la rotta, la scelta dello scrivano. E per tutto ciò che concerneva il "regimen navis in navigando", cioè le decisioni sulla manovra, i bastimenti di più di duecento migliara, nei viaggi oltre la linea Ragusa-Gargano, dovevano costituire a bordo un consiglio di cinque rectores, composto di un padrone, del nauclerus e di tre rappresentanti dei mercanti.
Alcune di queste norme affermano l'interesse pubblico dell'impresa di navigazione, altre prolungano il carattere dei vecchi ordinamenti col comune vincolo sociale che unisce tutti i partecipanti alla spedizione marittima. Un documento del 1182 (118) descrive vivacemente una vertenza sul governo della nave. Informati del pericolo di proseguire per Costantinopoli, dove erano diretti, il nauclerus ed omnes socii navis decidono di andare ad Alessandria; per vincere l'opposizione dei marinai, giustificata dai patti intercorsi al momento dell'arruolamento, la questione viene rimessa ai due prodei, che erano probabilmente gli addetti alla manovra delle ancore. Costoro, dopo essersi consultati con i probi homines che erano a bordo, si esprimono favorevolmente al cambiamento di rotta e i marinai vengono tacitati con merci imbarcate di contrabbando, cioè rami, armi, olio e altro.
Nel corso del Duecento acquista importanza sempre maggiore uno dei patroni imbarcati, che agisce anche in rappresentanza di tutti gli altri, e perciò gli vengono attribuite molte responsabilità, per le quali si finisce col riconoscerlo quale comandante della nave, con una certa pienezza di poteri. Il nauclerus diventa allora un semplice nocchiero alle sue dipendenze. Lane segue acutamente tale evoluzione, sottolineando come si parli ormai di un patronus, non più al plurale, e come negli statuti del 1255 questo termine serva per designare sia il proprietario armatore sia il comandante. Col tempo sarà la seconda accezione a prevalere, e la nave che prima veniva identificata col nome del nauclerus lo sarà con quello del patron (119), segno certo dell'avvenuta successione al vertice.
La ricchezza di testimonianze permette di seguire per tutta la seconda metà del secolo XII le vicende di un mercante armatore, Romano Mairano, che Gino Luzzatto considera non molto diverse da quelle di "decine e decine di mercanti del suo tempo e della sua statura" (120). È il proprietario della nave Totus Mundus che nel 1173 abbiamo visto in azione nel porto di Ancona, e che due anni prima, a Costantinopoli, aveva aiutato molti Veneziani a sottrarsi all'arresto ordinato dall'imperatore (121). Di origini modeste, riesce a far fruttare un piccolo capitale facendolo circolare attraverso una fitta rete d'affari in un vasto quadro geografico cercando il finanziamento in contratti di commenda, in prestiti e cambi marittimi e in investimenti in merci varie.
Lo troviamo qualche volta al comando di navi che possiede per intero ma delle quali più spesso è comproprietario per quote che fa oggetto di complesse operazioni commerciali, dandole in colleganza o in garanzia. Grossi finanziamenti con un elevato tasso d'interesse, ottenuti con una quindicina di prestiti marittimi, gli permettono, nel 1167 e nel 1170, di far giungere in Egitto e a Costantinopoli due navi, di una delle quali egli stesso è nauclerus. Nel 1174 è ancora nauclerus di una sua nave con la quale fa il viaggio di Alessandria, finanziato da Pietro Ziani e da altri, e nel 1177 stipula tre prestiti, ciascuno garantito dalla quota di un quinto di una nave che ha fatto costruire e che - "bene ornata et de marinariis et de omnibus suis necessariis causis, sicut consuetudo est navium ire per mare" (122) - si unisce al convoglio per Ceuta e per Bugia. Quest'ultima spedizione non dovette avere buon esito, perché per soddisfare i creditori non si trovò di meglio che vendere la nave. Negli anni fra il 1179 e il 1190 altre navi delle quali ha quote in comproprietà percorrono le rotte del Levante e nel 1190 egli partecipa ancora direttamente ad un viaggio come nocchiero. Nel 1185 fa costruire una nave e la vincola immediatamente in garanzia di una fornitura di pepe (123).
Di altri operatori del settore armatoriale abbiamo notizie solo frammentarie, che non permettono di marcare meglio, o di sfumare, il quadro offerto dalla documentazione sull'attività del Mairano. Sono però confermati la subordinazione all'azienda commerciale e il frazionamento della proprietà in un certo numero di quote, distribuite volentieri su varie unità. Poche le navi con un solo proprietario e assolutamente eccezionale che qualcuno ne possedesse più di una: è possibile che la concentrazione venisse guardata con diffidenza e comunque non incoraggiata. Per il finanziamento delle spese d'esercizio sembra normale il ricorso al prestito marittimo, che sulla piazza doveva trovare un certo favore come forma d'investimento particolarmente redditizia.
Nell'epoca in considerazione il reclutamento dei marinai non doveva presentare grandi difficoltà. Il grado di specializzazione richiesto non era ancora molto elevato e questo favoriva un cospicuo afflusso di manodopera da parte di una città in espansione demografica, nella quale il mercato del lavoro non offriva molte occupazioni alternative a quelle artigiane, che peraltro imponevano lunghi tirocini e non erano un buon canale di mobilità sociale. L'imbarco poteva fornire l'occasione di un viaggio commerciale senza pagare il passaggio né il trasporto di una cassetta al seguito, e il contratto di colleganza, allora largamente praticato, assicurava senza difficoltà il finanziamento a chi ne avesse bisogno. In più si riceveva un salario, col quale si doveva però provvedere anche al proprio vitto.
Il divieto di arruolare come marinai i pellegrini, i soldati, i servitori mostra che cercavano di farsi assumere anche molti che intraprendevano il viaggio per altre ragioni. Ma questa limitazione non tocca i mercanti, i quali del resto in molte disposizioni degli statuti vengono accomunati ai marinai, né bisogna trascurare che a viaggiare erano di regola i più giovani di loro, che attraverso la pratica di accompagnare di persona a destinazione le mercanzie acquistavano un'esperienza di vita marittima non disprezzabile. A Venezia marinai e mercanti, anche quelli di media levatura, avevano la stessa estrazione sociale e il confine tra le due professioni era molto sfumato.
Che gli statuti autorizzino l'armatore a trattenere il marinaio e comminino una pesante penale a carico di costui, ove voglia "violenter vel furtive" abbandonare la nave, non deve far pensare che fosse solo un cattivo trattamento a provocare la diserzione. Qui si trattava semplicemente della violazione di un patto per il quale si erano percepiti degli anticipi e del danno provocato alla nave, che veniva a trovarsi con un equipaggio manchevole. D'altronde a quest'obbligo del marinaio corrispondeva quello dell'armatore di non sbarcarlo se non per decisione della maggioranza dei mercanti a bordo, quindi con una procedura che doveva impedire violenze o abusi. La vita del marinaio aveva certo le sue durezze e non tutti erano in grado di condurla fino in fondo; l'avventura e altre attrattive di paesi lontani avevano anch'esse la loro parte. Comunque nel 1291 si prescrisse che all'atto dell'arruolamento chi si voleva imbarcare desse un'adeguata garanzia (124).
I marinai erano convenientemente tutelati e in particolare era fissato un termine preciso per la liquidazione delle loro competenze. In alcuni casi partecipavano anche loro a certe decisioni: sui carichi supplementari nel corso del viaggio, sull'opportunità di svernare in Levante, sulla vendita di parti dell'attrezzatura. Erano forme d'intervento in cui continuava a realizzarsi la comunione degli interessati che si trovavano a bordo. È significativo che la formula del giuramento imposto ai marinai non contenesse alcun obbligo di subordinazione o di obbedienza al nauclerus o al patron ma solo un generico impegno di custodire e curare la nave e le sue attrezzature. In aggiunta, il dovere di denunciare gli eccessi di carico, le irregolarità della zavorra e tutte le violazioni delle norme di polizia marittima, come se fossero degli agenti, doveva creare a bordo un clima d'intimidazione e di compromessi. Per incoraggiare la denuncia delle assenze arbitrarie dei compagni, gli statuti promettevano la quota di un terzo della multa che sarebbe stata inflitta ai colpevoli (125), un incentivo alla delazione, questo, sul quale si continuerà a fare affidamento per secoli finché presso gli equipaggi non maturerà una coscienza di classe. Gli stessi statuti, invece, non punivano il marinaio che commettesse a bordo furti per un valore inferiore ai cinque soldi, evidentemente allo scopo di evitare che sorgessero questioni sproporzionate alla futilità degli interessi.
L'arruolamento era aperto a tutti, anche a chi non fosse veneziano, unico requisito richiesto essendo l'età di diciotto anni. Dal 1282 si prescrisse quella di venti per la partecipazione ai vari consigli e commissioni (126). Nessuna maggior limitazione d'età, invece, per i comandanti, naucleri o patroni che fossero, salvo per quelli di navi comunali che dovevano avere più di trent'anni (127). Non si esigeva una preparazione tecnica specifica, che s'acquistava con la pratica, e l'ingerenza di rappresentanti dei mercanti nei fatti della navigazione mostra che le nozioni correnti erano di livello modesto, non molto superiori a quelle di alcuni dei viaggiatori. Una capacità maggiore doveva imporsi con l'adozione della bussola e della carta nautica.
Ad un esame, invece, dovevano essere sottoposti gli scrivani, per accertare "si ad istum officium sufficientes fuerint et legales". Mentre negli statuti Tiepolo appaiono reclutati dall'armatore, secondo quelli Zeno dovevano essere insediati dai consoli dei mercanti. Infatti essi erano diventati dei pubblici ufficiali con funzioni notarili perché dovevano curare - per tutti gli effetti giuridici che ne derivavano - la registrazione delle merci caricate nel libro di bordo e la compilazione, ad uso dei mercanti interessati, di quegli estratti che più tardi diverranno la polizza di carico. Sulle navi di più di 200 migliara di portata essi dovevano essere due, per cui si avevano altrettante registrazioni in distinti quaterni, in modo da evitare frodi o contestazioni, una forma di controllo, questa, che in seguito vedremo adottata anche nella tenuta di tutti i conti pubblici, dove era d'obbligo una doppia scritturazione, l'una ad opera del quaderniere, l'altra dello scontro.
A parte quelle sui patroni, sui naucleri e sugli scrivani non si hanno molte notizie sulla disposizione gerarchica e sulle funzioni esercitate dai componenti l'equipaggio. Nel giuramento del marinaio c'è un breve accenno al timoniere (128). Il compito doveva essere poco gradito, come si può dedurre dal divieto di ricusarlo, anche se chi lo assumeva lucrava un supplemento di paga a carico, non si capisce perché, degli altri marinai. Lo era, probabilmente, per la fatica che comportava la manovra dei timoni laterali, per quanto gli esperti sostengano che far ruotare attorno al proprio asse, mediante una barra, una pala dissimmetrica (nel senso che nella parte di dietro aveva maggiore estensione che in quella davanti) non richiedeva un grande sforzo (129).
Dagli statuti del 1255 si rileva che la paga non era uguale per tutti i marinai, e che ci fossero mansioni differenziate parrebbe ovvio, pure nei limiti di tecniche poco progredite. Alcuni venivano pagati più di 40 lire, probabilmente a viaggio, altri meno (130). Questa poteva essere una distinzione tra addetti alla manovra della nave e rematori oppure tra esperti e praticanti, e qui aveva effetto sulle armi di cui essi erano tenuti a fornirsi. Nel 1280 gli scaglioni nei quali erano distribuite le paghe diventano tre, e la scala retributiva appare di notevole ampiezza perché andava dalle 60 alle 75 lire, e quindi dalle 75 alle 90 e dalle 90 alle 100 (131). Ciò farebbe pensare ad equipaggi composti di numerosi membri di buona specializzazione, dovendosi presumere che la diversificazione corrispondesse a vari gradi di responsabilità, di perizia, di fatica. Purtroppo non abbiamo elementi per identificarli.
Il lavoro dei rematori, volontario ma assimilabile a quello di uno schiavo, e il lavoro dei marinai erano troppo differenti per essere retribuiti nella stessa misura. Il contrasto non era ancora molto accentuato ma difficilmente le file dei primi devono essere state ingrossate - come quelle dei marinai - da mercanti itineranti. La lentezza con la quale, nel corso del Duecento, il numero dei rematori sulle navi mercantili si andò riducendo fa pensare che le loro paghe non fossero troppo alte, tali da stimolare trasformazioni tecniche miranti ad economie sul costo del lavoro. Si rifletta che a metà del Trecento si prendeva ancora in considerazione l'impiego di uscieri mossi da 120 rematori per trasportare 20 cavalli, dunque sei rematori per cavallo, che è un costo non indifferente (132).
Si deve tuttavia tener presente che per un'evoluzione verso la vela e in genere verso la riduzione degli equipaggi, rematori o marinai che fossero, un freno era rappresentato dall'obbligo di dotare la nave di una ciurma composta da un determinato numero di uomini in grado di prendere le armi prescritte, coltellacci, spade, balestre di corno o di legno di vario tipo, quadrella, lance di faggio o di frassino da 15 piedi (m 5,2). Gli statuti del 1229 e quelli del 1255 fissano lo stesso rapporto marinai/portata, cioè uno ogni dieci migliara, e le cose non cambiano fino al secolo successivo, quando i balestrieri diventano una categoria a parte (133). Delle navi offerte al re di Francia nel 1268 le due maggiori dovevano imbarcare 110 marinai ciascuna, una terza 86, le altre minori 50.
Queste norme - per le quali diventava ad esempio inoperante la regola che il numero degli uomini di equipaggio aumenta in proporzione molto minore del tonnellaggio - certamente scoraggiarono la ricerca di tecniche più avanzate e di nuovi modelli e rallentarono la loro diffusione. Nell'economia marittima veneziana la cocca perfezionata nei mari nordici sarebbe forse penetrata prima se il risparmio di manodopera che assicurava non fosse stato reso vano dalle esigenze di difesa della nave, che irrigidivano il rapporto marinai/portata. Che queste esigenze prevalessero su ogni altra considerazione può essere dimostrato dal permesso che si dà nel 1279 di sovraccaricare le navi del peso corrispondente ai mucchi di pietre che erano obbligate a tenere a bordo come proiettili da lanciare da speciali impalcature che si dovevano sistemare sulle murate e a poppa (134): tutte le cure per la migliore stabilità della nave e le attente disposizioni perché non venisse caricata in eccesso appaiono ignorate in questa ricerca della sicurezza.
I perfezionamenti intervenuti nell'ultima parte del Duecento nella tecnica della navigazione, col generalizzarsi dell'adozione della bussola, determinarono una frattura tra un gruppo relativamente ristretto di specializzati che erano in grado di applicarli e la massa dei marinai ai quali si chiedevano prestazioni prevalentemente materiali. Al deterioramento sociale della categoria contribuì in qualche misura anche il progressivo abbandono, da parte dei mercanti, della pratica del viaggio al seguito delle merci, per cui non solo cominciarono a mancare le occasioni di un loro arruolamento come marinai ma vennero anche meno la solidarietà e la comunanza d'interessi che abbiamo visto contrassegnare l'epoca degli statuti (135). Gli statuti del 1255 e le disposizioni del 1280 e del 1288, che imponevano ai marinai una particolare dotazione di armi (136), con ogni evidenza presupponevano che essi fossero in condizioni di fornirsene. L'obbligo di viaggiare armati era peraltro esteso anche ai mercanti, e dal 1283 chi caricava merci per la Provenza era tenuto ad imbarcarsi oppure a farsi sostituire a proprie spese da un homo bene armatus ogni tante migliaia di lire di valore della spedizione (137).
Quando - nel 1300 - il peso della provvista delle armi viene trasferito alla nave (138), vale a dire agli armatori, si deve credere che i marinai ne fossero stati sollevati perché per il reclutamento s'attingeva ormai a una fascia sociale diversa. È probabile che il flusso maggiore della manodopera marittima non venisse più assicurato dalla città ma dalle località periferiche del Dogado e dell'Istria. Era una riserva praticamente inesauribile, che non deve aver mai provocato crisi nell'offerta di marinai e di lavoratori in mestieri affini ai quali attingere nelle fasi di maggiore attività.
Di questo flusso beneficiava anche la marina statale, che in cambio della possibilità di un viaggio commerciale offriva una maggiore continuità dell'occupazione e l'attrattiva di bottini di guerra. In caso d'emergenza funzionavano alcune forme di coscrizione obbligatoria. In città il reclutamento avveniva per sorteggio tra gruppi di adulti idonei e chi restava a terra contribuiva al salario di coloro che erano imbarcati (139). E quando il comune armava più di trenta galere erano le città dell'Istria a fornire il supplemento di uomini (140). Il fabbisogno di rematori era molto elevato perché le unità al servizio pubblico erano per la maggior parte galere ed altri vascelli lunghi, tuttavia senza escludere qualche nave rotonda, come la navis magna communis che l'arsenale stava completando alla fine del 1287 (141). Nel 1224 una galera in servizio di vigilanza nell'alto Adriatico aveva a bordo 139 uomini più 13 pro honorantia e altri 4 tra balestrieri e varnitos ad remos (142). Sulle biremi i rematori erano normalmente 120, ai quali s'aggiungeva qualche decina di marinai; alla fine del secolo le triremi ne imbarcavano 166 con l'aggiunta di 30 balestrieri che in caso di necessità potevano essere anche loro impiegati alla voga (143). Qui il problema di una maggiore efficienza non si cercò di risolverlo con soluzioni legate alla diminuzione del numero dei rematori ma al contrario se ne aggiunsero altri per ottenere un beneficio più che proporzionale. Nel 1343 si calcolava che una galera "bene armata" imbarcasse 200 uomini (144). Questi dati si dovranno tenere presenti per una concreta valutazione dell'impiego in materiale umano che comportò lungo tutto il periodo l'armamento di decine e decine di galere.
In questo settore la distinzione tra equipaggi e comandanti divenne gradualmente molto più netta che nella marina mercantile. La squadra navale che nel 1262 salpò per affrontare i Genovesi era agli ordini del noble sire Jacopo Dolfin, assistito da un consiglio di 6 gentis homes, ed era composta di 37 galere governate da altrettanti gentiluomini di alto lignaggio (145).
Anche questo evento, che può essere accostato al rafforzarsi dei poteri del comandante sulle navi mercantili, con la sostituzione del patron al nauclerus, chiude un ciclo della vita marittima veneziana. Si allentavano i vincoli per i quali, a vario titolo e con poteri variamente regolati, i diversi interessati avevano ingerenza nella spedizione marittima e diventava più rigida l'articolazione dei loro rapporti.
Altri elementi indicano la fine di questa lunga epoca di trasformazioni, che la documentazione non permette purtroppo di seguire nelle sue fasi. Nel settore dei vascelli lunghi a remi abbiamo la separazione tra galere grosse e galere sottili e, intorno al 1300, il passaggio dalla bireme alla trireme. Subito dopo, nel 1315, un convoglio di galere grosse stabilisce il primo collegamento di linea coi mari nordici. Nel settore delle navi rotonde scompaiono i massicci velieri alla latina legati alle Crociate e si diffonde il modello della cocca.
Così, il Trecento si configura come un secolo del tutto nuovo rispetto all'età comunale che lo ha preceduto. Il contrasto con le vecchie istituzioni è nettissimo. Certamente il cammino percorso era stato lungo, sia sul terreno legislativo, con l'intervento diretto dello Stato nel controllo e nella protezione delle attività marittime, che lasciava un campo sempre più ridotto alle consuetudini, sia su quello tecnico, nel quale tuttavia i progressi possono apparire mascherati dalla persistenza di molti vecchi modelli. Ma i benefici maggiori si trassero dalle nuove forme d'organizzazione dello spazio marittimo, con insediamenti commerciali, basi, rappresentanze consolari, protezioni delle rotte. Il movimento ne fu agevolato, la rete dei collegamenti divenne efficiente e durevole, aumentò la produttività degli investimenti sia privati sia pubblici, determinando le condizioni più favorevoli alle innovazioni.
1. René Bastard de Péré, Navires méditerranéens du temps de Saint Louis, "Revue d'Histoire Économique et Sociale", 50, 1972, p. 333 (pp. 327-356).
2. Itinerarium Peregrinorum et Gesta regis Ricardi, cit. da Michel Mollat, Problèmes navals de l'histoire des croisades, "Cahiers de Civilisation Méditerranéenne", 10, 1967, p. 353 (pp. 345-360).
3. Paul Heinsius, Dimensions et caractéristiques des "Koggen" hanséatiques dans le commerce baltique, Travaux du Troisième Colloque International d'Histoire Maritime, Paris 1960, p. 18 (pp. 7-23).
4. Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Antonino Lombardo - Raimondo Morozzo della Rocca, Venezia 1953, nr. 45.
5. Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, pp. 340-341 (pp. 67-476).
6. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, p. 32.
7. M. Mollat, Problèmes navals, p. 354.
8. Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1978), p. 36. Per Andrea Dandolo "trecentorum navigiorum fere stolus erat", v. R.I.S., XII, 1728, col. 320.
9. Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, in Historiens et chroniqueurs du Moyen Âge, V, a cura di Albert Pauphilet, Paris 1952, p. 166 (pp. 76-186).
10. Eugene H. Byrne, Genoese Shipping in the Twelfth and Thirteenth Centuries, Cambridge 1930, p. 22.
11. Antenne da trenta tese e più, informa con evidente esagerazione Robert de Clari, La Conquête de Constantinople, in Historiens et chroniqueurs du Moyen Âge, a cura di Albert Pauphilet, Paris 1952, p. 37 (pp. 14-72).
12. Guillaume de Tyr et ses continuateurs, a cura di Paulin Paris, Paris 1879-1880, pp. 327-328.
13. Augustin Jal, Archéologie navale, II, Paris 1840, pp. 423 ss.; M. Mollat, Problèmes navals, p. 353.
14. R. Bastard de Péré, Navires méditerranéens, pp. 353-356, con particolari sulle loro dimensioni e sull'impiego; John H. Pryor, Transportation of Horses by Sea during the Era of the Crusades: Eigth Century to 1285 A. D., "The Mariner's Mirror", 68, pt. I, 1982, pp. 9-27; pt. II, pp. 103-125; Bernard S. Bacharach, The Origins of William the Conqueror's Horse Transports, "Technology and Culture", 26, 1985, pp. 505-531.
15. G. de Villehardouin, La conquête, p. 101.
16. R. de Clari, La conquête, p. 15.
17. Ibid. p. 12; ma nel 1318 Filippo V di Francia fa costruire naves et dromones, Charles de la Roncière, Charlemagne et la civilisation maritime au IXe siècle, "Moyen Age", ser. II, 1, 1897, p. 222 (pp. 201-223).
18. Segnalata da Alberto Limentani, con varie attestazioni nella cronaca di Martin da Canal, in Elementi di vita marinara veneziana nel lessico di Martino da Canal, "Bollettino dell'Atlante Linguistico Mediterraneo", 8-9, 1966-1967, pp. 102 s. (pp. 93-111).
19. Frederic C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, pp. 6 ss.
20. Gli statuti marittimi veneziani fino al 1255, a cura di Riccardo Predelli - Adolfo Sacerdoti, Venezia 1903, p. 15; Lane arretra la data al 1290, v. Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, p. 158.
21. M. da Canal, Les estoires, p. 47; A. Limentani, Elementi di vita marinara veneziana, p. 101.
22. John H. Pryor, The Naval Architecture of Crusaders Transport Ships, "The Mariner's Mirror", 70, pt. III, 1984, pp. 377-378; A. Limentani, Elementi di vita marinara veneziana, p. 101, osserva che nella cronaca di Martin da Canal di chalandre si parla solo entro i primi 47 capitoli, mentre successivamente compare la tarida.
23. R. de Clari, La conquête, p. 11.
24. Come suggerisce opportunamente Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, p. 10.
25. Ibid., pp. 10-11.
26. M. Mollat, Problèmes navals, p. 346.
27. Che però parla di "victualia ad uno anno". Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, p. 317.
28. G. De Villehardouin, La conquête, pp. 111, 113, 119.
29. Sulla scoperta di due barche antiche nel comune di Contarina, "Miscellanea di Storia Veneta della R. Deputazione Veneta di Storia Patria di Venezia", ser. II, 7, 1901, pp. 3-64.
30. A. Jal, Archéologie navale, pp. 347-446; Leonard G. Carr Laughton, The Roccafortis of Venice, 1268, "The Mariner's Mirror", 42, 1946, pp. 267-278; R. Bastard de Péré, Navires méditerranéens, pp. 327-356; J. H. Pryor, The Naval Architecture, pp. 171-219, 275-292, 363-386.
31. Richard W. Unger, The Ship in the Medieval Economy, 600-1600, London-Montreal 1980, pp. 36-42 e passim.
32. R. Bastard de Péré, Navires méditerranéens, p. 335.
33. Sulla scoperta di due barche, pp. 31-33.
34. I dati sono quelli del Pryor.
35. F. C. Lane, Navires et Constructeurs, p. 34.
36. M. da Canal, Les estoires, pp. 202-204. Sullo scontro v. F. C. Lane, Navires et constructeurs, pp. 2-3.
37. Annali Genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, III, a cura di Cesare Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1923, pp. 55-56.
38. Boncompagni Liber de obsidione Ancone, a cura di Giulio Carlo Zimolo, in R.I.S.2, VI, 3, 1937, pp. 14-15, 20-21.
39. M. da Canal, Les estoires, p. 4.
40. Zibaldone da Canal, manoscritto mercantile del sec. XIV, a cura di Alfredo Stussi, Venezia 1967, pp. LXI-LVII, 28.
41. J. H. Pryor, The Naval Architetture, pp. 378-379.
42. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I-III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931-1950: II, p. 106.
43. Ibid., III, p. 163.
44. Ibid., II, p. 422.
45. F. C. Lane, Le navi di Venezia, p. 96.
46. Anche per A. Jal è un vascello ventru (Archéologie navale, p. 251).
47. Le Deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", I, a cura di Roberto Cessi - Paolo Sambin, I, Venezia 1960, 1301, 5 luglio. La deliberazione non fu adottata.
48. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, pp. 261-262, 1290, 26 marzo.
49. R. W. Unger, The Ship in Medieval Economy, p. 136.
50. A. Jal., Archéologie navale, pp. 249-250.
51. Alla voce bucio.
52. Su questi metodi di costruzione v. R. W. Unger, The Ship in Medieval Economy, pp. 36-42, 104-106, 222; per Venezia, Alvise Chiggiato, Contenuti delle architetture navali antiche, "Ateneo Veneto", 178, 1991, pp. 141-211.
53. Gli statuti marittimi veneziani, p. 132.
54. Nelle fonti indicate non figurano mai buzonavi, forse classificate come navi, in quanto di caratteristiche meno spiccate.
55. Annali Genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, IV, a cura di Cesare Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1926, p. 70.
56. L'ipotesi, soprattutto per Genova, è di John E. Dotson, Merchant and Naval Influences on Galley Design al Venice and Genoa in the Fourteenth Century, in New Aspects of Naval History, a cura di Craig L. Symonds, Annapolis 1881, pp. 21-22 (pp. 20-32).
57. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 336.
58. Sulle taride, Enrico A. D'albertis, Le costruzioni navali e l'arte della navigazione al tempo di Cristoforo Colombo, Roma 1893, pp. 16-17; E. H. Byrne, Genoese Shipping, p. 55; F. C. Lane, Le navi di Venezia, p. 97; R. Bastard de Péré, Navires méditerranéens, pp. 351-352; Ugo Tucci, La navigazione veneziana nel Duecento e nel primo Trecento e la sua evoluzione tecnica, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, p. 823 (pp. 821-841); J. E. Dotson, Merchant and Naval Influences, p. 21.
59. Nuovi documenti del commercio veneto, nrr. 56, 57, 59.
60. Augustin Jal, Glossaire nautique, Paris 1848, alla voce golabus, p. 787; Hélène Antoniadis-Bibicou, Vocabulaire maritime et puissance navale en Méditerranée Orientale au Moyen-Âge d'après quelques textes grecs, in Atti del VI Colloquio di Storia Marittima, Firenze 1970, pp. 338-339 (pp. 317-348); A. Limentani, Elementi di vita marinara veneziana, pp. 103-104; R. W. Unger, The Ship in Medieval Economy, p. 115. Per le taride e i corabi, Barbara M. Kreuz, Ships, Shipping and the Implications of Change in the Early Medieval Mediterranean, "Viator", 7, 1976, pp. 99-100 (pp. 79-110).
61. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 64-65, 196-197; Le Deliberazioni del Consiglio dei Rogati, 1300, 13 dic.
62. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 106.
63. Qualche volta i patroni prestavano garanzia, per somme determinate, che la nave non sarebbe andata in Egitto. Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Torino 1940, docc. 105-106.
64. Geoffrey V. Scammel, The World Encompassed. The First European Maritime Empires, London-New York, 1981, p. 129.
65. F. C. Lane, Navires el constructeurs, pp. 220-221.
66. Id., Le navi di Venezia, pp. 45 ss.
67. J. E. Dotson, Merchant and Naval Influences, p. 25.
68. A. Limentani, Elementi di vita marinara veneziana, p. 103.
69. Louise Buenger Robbert, A Venetian Naval Expedition of 1224, "Exploration in Economie History", 7, 1969, pp. 141-151.
70. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 29-30, 56, 82, 103-104.
71. Ibid., p. 157.
72. Ibid., pp. 98 e 101.
73. Ibid., p. 103.
74. Ibid., III, p. 163. Cf. A. Limentani, Elementi di vita marinara veneziana, p. 105.
75. Guido Bonolis, Il diritto marittimo medievale dell'Adriatico, Pisa 1921, pp. 81-82.
76. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 212, 1228 m.v., 7 genn.
77. Boncompagni Liber, p. 14.
78. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 148.
79. M. da Canal, Les estoires, p. 324.
80. Le promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, pp. 19, 37, 57, 77, 99, 123.
81. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 292.
82. Su questa politica v. Jean-Claude Hocquet, Le
sel et la fortune de Venise, II, Voiliers et Commerce en
Méditerranée, Lille 1979.
83. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 300.
84. Gli statuti marittimi veneziani, pp. 47-49 e passim.
85. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, pp. 35, 47, 85.
86. Ugo Tucci, Il commercio veneziano e l'Oriente al tempo
di Marco Polo, in AA.VV., Marco Polo. Venezia e l'Oriente, Milano 1981, p. 58.
87. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 178-179, 182-189.
88. Ibid., III, pp. 309-310.
89. Ibid., p. 448.
90. Cassiere della Bolla Ducale, Grazie, Novus liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro, Venezia 1962, nrr. 352, 544, 561.
91. Per le questioni connesse coi trasporti di grano e di sale v. U. Tucci, La navigazione veneziana, pp. 834 ss.
92. P. Heinsius, Dimensions et caractéristiques, pp. 7 ss.; R. W. Unger, The Ship in Medieval Economy, pp. 138 ss. Lane ritiene che la cocca impiegasse meno della metà degli uomini richiesti per i due alberi a vela latina, ma il confronto non ci pare molto persuasivo perché è fatto con una cocca del 1400. F. C. Lane, Navires et constructeurs, p. 37.
93. Paul Adam - Leon Denoix, Essai sur les raisons de l'apparition du gouvernail d'étambot, "Revue d'Histoire Économique et Sociale", 40, 1962, p. 107 (pp. 90-109).
94. Domenico prete di S. Maurizio, notaio in Venezia (1309-1316), a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1970, doc. 143.
95. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 139.
96. M. da Canal, Les estoires, p. 47.
97. E. Concina, L'Arsenale della Repubblica, pp. 9 ss.
98. I Capitolari delle Arti Veneziane, II, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1905, pp. 198-199; Gino Luzzatto, Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 38-39.
99. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 186.
100. I Capitolari delle Arti, pp. 199-200. Difficoltà minori per gli abitanti del Dogado.
101. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, n. 74; III, p. 352. Magna necessitar de pegola nel 1284, ibid., pp. 74 e 87
102. Ibid., II, p. 359.
103. Ibid., I, p. 181.
104. I Capitolari delle Arti, pp. 3-7.
105. Documenti del commercio veneziano, doc. 398 (1191).
106. Su questi problemi v. David Jacoby, Venetian Anchors for Crusader Acre, "The Mariner's Minor", 71, 1985, pp. 5-12.
107. Documenti del commercio veneziano, doc. 24 (1095) libbre 280; doc. 41 (1119) libbre 270.
108. I Capitolari delle Arti, pp. 357-358.
109. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 213.
110. Gli statuti marittimi veneziani, p. 50; G. Bonolis, Diritto marittimo, p. 121.
111. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 180.
112. Gli statuti marittimi veneziani, p. 154.
113. Le Deliberazioni del Consiglio dei Rogati, 1302 m.v., 26 genn.
114. I Capitolari delle Arti, p. 202.
115. Giuseppe Valeri, Osservazioni critiche sul concetto di trasporto, "Rivista di Diritto Commerciale", 18, 1920, p. 467 (pp. 465-489); Federico Melis, I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, Firenze 1984, pp. 43 ss.
116. Documenti del commercio veneziano, doc. 417.
117. Ibid., docc. 56-59.
118. Ibid., doc. 331; G. Bonolis, Diritto marittimo, pp. 134-135. I due prodei dichiarano di non saper scrivere.
119. F. C. Lane, Le navi di Venezia, pp. 154-155.
120. G. Luzzatto, Studi di storia economica, pp. 109-116, con un compiuto ritratto del Mairano.
121. Boncompagni Liber, pp. 13-15, con la notizia, attinta alla cronaca di Niceta Coniate, che la nave, a tre alberi, fu donata dal Mairano all'imperatore d'Oriente; A. Jal, Archéologie navale, pp. 143-150.
122. Documenti del commercio veneziano, docc. 284, 293-294.
123. Ibid., doc. 359.
124. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 304.
125. Gli statuti marittimi veneziani, pp. 102-103, 109-111.
126. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 5.
127. Ibid., II, p. 418.
128. Gli statuti marittimi veneziani, p. 110.
129. P. Adam - L. Denoix, Essai sur les raisons, pp. 90-91. Questo per impedire che la pala si voltasse con troppa facilità.
130. Gli statuti marittimi veneziani, p. 96.
131. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 70.
132. Diplomatarium Veneto-Levantinum sine Acta et Diplomata, res Venetas, Graecas atque Levantiis illustrantia a. 1300-1454, I-II, a cura di Georg M. Thomas - Riccardo Predelli, Venezia 1880-1899: I, doc. 136, 1342 m.v., 11 genn.
133. Gli statuti marittimi veneziani, pp. 54-57, 92, 96; F. C. Lane, Le navi di Venezia, p. 245.
134. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 218.
135. F. C. Lane, Le navi di Venezia, pp. 156-157.
136. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 70; III, p. 210.
137. Ibid., p. 333.
138. A.S.V., Avogaria de Comun, Magnus, 1300, 18 dic.
139. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 1912, p. 332; F. C. Lane, Le navi di Venezia, pp. 151- 152.
140. M. da Canal, Les estoires, p. 8.
141. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 194.
142. Ibid., I, p. 57.
143. F. C. Lane, Le navi di Venezia, pp. 45 ss.
144. Diplomatarium Veneto-Levantinum, I, doc. 136.
145. M. da Canal, Les estoires, pp. 180-182.