L'impresa
Il processo attraverso il quale la nozione d’impresa si afferma in seno alla cultura giuridica italiana va collocato in un quadro di respiro europeo, segnato da due momenti cruciali: l’emanazione, nel 1807, del Code de commerce francese, imperniato sulla dialettica tra commerciante e atti di commercio, e l’entrata in vigore, nel 1900, del Codice di commercio tedesco (HGB, Handelsgesetzbuch), seguito dalla risolutiva elaborazione, da parte della dottrina, del concetto di Unternehmen. Il confronto, talvolta scomodo, con il piano economico rappresenta il filo conduttore di una vicenda caratterizzata dal continuo intrecciarsi di diritto ed economia, con quest’ultima, nel corso dell’Ottocento, sempre più a suo agio nelle logiche del capitalismo industriale, e il primo a lungo in ritardo, 'vittima' di una politica legislativa votata all’individualismo dominicale e di una scienza giuridica impegnata in esercitazioni esegetiche, inizialmente poco attenta alle istanze dell’ordine economico.
Prima ancora che del diritto, dunque, l’impresa è un concetto dell’economia, nella cui sfera denota l’organizzazione della produzione capitalistica, quale sistema basato sul macchinismo, sull’impiego di lavoro altrui, sulla divisione fra capitale e lavoro, sull’utilizzo di energie alternative. Già nel 19° sec. la scienza economica evidenziò il nesso strutturale che legava produzione e organizzazione, così da spiegare i meccanismi della prima passando dalla combinazione razionale, sotto la direzione dell’«entrepreneur», di «moyens de production», «forces musculaires», «forces intellectuels» e «forces produits», «travail», «capital» e «terre» (P. Rossi, Cours d’économie politique, 1° vol., 18654, pp. 195-216). In Das Kapital Karl Marx considera l’impresa il luogo d’incontro, figurato non meno che reale, tra il capitalista, le macchine e il lavoro, un’entità complessa e collettiva, il momento culminante della «combinazione sociale», dell’organizzazione produttiva di macchine, capitale e «forza operaia», mezzi tecnici, mezzi di produzione, di godimento e di accumulazione, «materie prime ed ausiliarie» (K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, 1867; trad. it. Il Capitale. Critica dell’economia politica, 1963, pp. 372-80 e 525 segg.). Come Werner Sombart avrebbe spiegato in Der moderne Kapitalismus, il capitalismo «viene al mondo sotto forma di 'imprese', sotto forma quindi di formazioni razionali, consapevoli e lungimiranti dello spirito umano», luoghi di coordinamento di energie lavorative sottoposte a un’«organizzazione» retta dai principi di «specializzazione» e di «cooperazione» (W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, 19162; trad. it. Il capitalismo moderno, 1978, pp. 235 e 104-07).
Il problema, pertanto, non è quello di rinvenire nel tessuto legislativo dell’età liberale il lemma impresa, largamente presente nella codificazione francese del 1807, in quella germanica del 1861 (ADHGB, Allgemeines Deutsches Handelsgesetzbuch), nei codici di commercio italiani, spagnoli e portoghesi, ma quello di scendere sul terreno dei contenuti e dei concetti, con l’intento di leggerli e interpretarli alla luce dell’ideologia, del pensiero giuridico e della filosofia dei tempi. L’impresa, quale nozione giuridica autonoma, avrebbe preso forma solo quando il piano giuridico avrebbe collimato, aderendovi, con quello economico; quando, ancora, il diritto avrebbe recepito, facendone il fulcro del sistema giuscommercialistico, la nozione d’impresa come «istituzione centrale dello sviluppo economico», come «organizzazione produttiva», stabile e «complessa», di capitale e lavoro (P.A. Toninelli, Storia d’impresa, 2006, pp. 13 e 35).
L’art. 1 del Code de commerce, entrato in vigore il 1° gennaio 1808, assumeva quale referente il «commerçant», ma poiché lo faceva attraverso una «dénomination générique» (J.G. Locré, Esprit du Code de commerce, 1° vol., 1807, p. 2), definendolo come colui che avesse fatto dell’esercizio di atti di commercio la sua professione abituale, postulava la propedeutica individuazione degli «actes de commerce». Al cuore del sistema, pensato per affrancarsi da condizionamenti corporativi, ma in realtà ancora contaminato da componenti soggettivistiche, stava dunque, direttamente o indirettamente, l’accertamento, caso per caso, di singoli «actes de commerce», che il Code enumerava nel secondo titolo del quarto libro, dedicato alla giurisdizione dei Tribunali di commercio. Con gli artt. 631-638 il legislatore da un lato forniva un’enumerazione di atti che, per i loro caratteri intrinseci, avrebbero dovuto sempre e comunque, indipendentemente dalla qualità degli autori, considerarsi commerciali (la dottrina li avrebbe definiti «assoluti» o «obiettivi»), dall’altro decretava la 'commercialità' di tutti gli atti compiuti da commercianti (dalla dottrina definiti «relativi» o «subiettivi»), fermo restando che tale commercialità non era stabilita in maniera tassativa, ma solo presunta nel presupposto che i commercianti fossero soliti compiere «actes de commerce». Anche per quella parte del diritto che si presumeva «commercial» in ragione della qualità delle persone, pertanto, si rendeva necessario tornare alla nozione di «acte de commerce», al fine di verificare se in concreto il commerciante avesse compiuto un atto di commercio nell’esercizio della sua professione o un mero atto civile dettato da esigenze personali.
L’elemento caratterizzante, nell’enumerazione codicistica degli atti di commercio, era costituito dal momento speculativo dello scambio, conformemente a una visione che esauriva l’economia nell’attività dispositiva di beni mobili (commercio in senso stretto): l’atto di commercio per eccellenza, di conseguenza, era costituito dalla compra di derrate o di merci allo scopo di rivenderle, sia in natura, sia dopo averle lavorate, o anche solo per concederle in locazione, intorno al quale gravitavano, in posizione strumentale o collegata, tutti gli altri atti. L’«entreprise», che avrebbe potuto essere «de manufactures», «de commission», «de transports par terre ou par eau», «de fournitures, d’agences, bureaux d’affaires, établissements de ventes à l’encan, de spectacles publics», figurava nell’enumerazione legislativa come uno dei possibili atti di commercio, ovvero, giusta l’interpretazione che in Francia avrebbe prevalso, come serie di atti della stessa specie. In tali ambiti, secondo la valutazione del legislatore, l’atto isolatamente compiuto non sarebbe stato commerciale, ma lo sarebbe diventato se, dando appunto luogo a un’«entreprise», fosse stato ripetuto in serie.
Non solo, dunque, l’«entreprise» era intesa come serie di «actes», non solo la sua esistenza risultava irrilevante per il configurarsi della quasi totalità degli «actes de commerce», ma anche quando invocata essa non avrebbe costituito il criterio per una generalizzata applicazione del diritto commerciale, ma solo il presupposto per inferire la commercialità di singoli atti tipizzati dal legislatore (contratto di trasporto, di manifattura, di commissione, di agenzia ecc.). Non erano dunque da considerare 'commerciali', anche se collegati a un’«entreprise de manufacture», gli acquisti di attrezzi e di macchinari, e nemmeno le compre e le locazioni di una fabbrica o di uno stabilimento per esercitare la propria attività, perché in questi casi l’«entrepreneur» acquistava, sì, beni, ma non per rivenderli né per darli in locazione, compiendo atti che non realizzavano immediatamente uno scambio; né lo erano gli atti di quelle industrie che avessero fatto commercio di beni immobili, reputati dal Code beni di natura non commerciale; né gli atti delle imprese di costruzioni, non annoverate fra le «entreprises»; né gli atti di vendita di quelle industrie che avessero ricavato i prodotti da materie prime estratte da fondi di loro proprietà, mancando, in questo caso, un acquisto a monte, necessario per realizzare un’intermediazione e dunque per configurare un «acte de commerce».
Non era l’«impresa», pertanto, come organizzazione complessa, a rilevare giuridicamente per il «droit commercial», ma solo quegli «actes» che, eventualmente ripetuti in serie, potessero obiettivamente qualificarsi «de commerce». La nozione giuridica di «entreprise», che pur presupponeva quella economica di impresa, risultava sopravanzata e sostanzialmente annullata dai singoli «actes de commerce», gli unici effettivamente rilevanti per il diritto commerciale. Il Code guardava entità semplici, sia sotto il profilo personale («individus», «commerçants») che sotto il profilo reale («actes de commerce»), creando un sistema fondato su tre elementi:
1) l’individuo, perché il droit commercial assumeva e manteneva una prospettiva rigorosamente individualistica, in cui il protagonista era il commerciante, ovvero, e meglio, un proprietario di ricchezza mobiliare;
2) i singoli atti di commercio, che costituivano il criterio di applicazione del droit commercial, in quanto rilevavano sia per una sua immediata applicazione, sia per stabilire in concreto la qualità di commerçant;
3) lo scambio, perché tutti gli actes de commerce, direttamente o indirettamente, geneticamente o funzionalmente, determinavano, realizzavano, promuovevano o agevolavano un atto di disposizione della proprietà.
Per tutto il secolo l’impresa avrebbe prosperato sul piano economico senza imporsi su quello giuridico, non soltanto nel senso della sostanziale irrilevanza dell’organizzazione imprenditoriale quale oggetto e quale criterio di applicazione del diritto commerciale, ma anche per l’insufficiente considerazione di tutte quelle vicende giuridiche che avrebbero assunto un significato totalmente nuovo se e in quanto collegate alla dimensione collettiva e complessa dell’impresa: la cessione, la locazione e in genere la circolazione dei beni d’impresa non già come singoli elementi, ma come complesso unitario, comprensivo di avviamento e di clientela; l’impresa come oggetto unitario di esecuzione forzata e di attivo fallimentare; la concorrenza sleale come lesione non della persona del commerciante ma del valore patrimoniale dell’impresa; i segni distintivi non come segni della persona ma come segni dell’impresa; l’azienda non come pluralità amorfa di beni in proprietà ma come complesso unitario a servizio dell’attività d’impresa.
L’impianto individualistico e dominicale della codificazione francese sarebbe stato sostanzialmente recepito dai legislatori degli altri Paesi europei, anche se le decisioni della giurisprudenza e le riflessioni della dottrina avrebbero contribuito a produrre qualche significativa novità, se non altro in termini di razionalizzazione, semplificazione e apertura del sistema. Il 'pendolarismo' tra la definizione di commerciante e l’enumerazione degli atti di commercio fu non solo mantenuto dove, come nel Ducato di Lucca, nel Granducato di Toscana, nel Regno lombardo-veneto e nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il Code de commerce rimase totalmente o parzialmente in vigore, ma anche riprodotto in quegli Stati, come il Regno delle due Sicilie (1819), lo Stato pontificio (1821) e il Regno di Sardegna (1842), nei quali vennero emanati codici nuovi.
Il primo Codice di commercio dell’Italia unita, promulgato il 25 giugno 1865 e quasi per intero corrispondente a quello albertino, anticipava l’enumerazione degli «atti di commercio» dal libro sulla giurisdizione al principio del Codice (artt. 2-3), a conferma degli effetti sostanziali, non solo processuali, della commercialità. Le «imprese», che per la prima volta includevano quelle «di fabbriche e costruzioni», ma solo «se l’imprenditore provvede i materiali», figuravano nell’art. 2, fra gli atti di commercio obiettivi, affiancate alle compre, alle operazioni di banca, alle lettere di cambio, alle spedizioni marittime, ai noleggi, alle assicurazioni, alle convenzioni «per salari e stipendi di equipaggi», agli arruolamenti nelle navi «a servizio commerciale». Nel suo Codice di commercio annotato, Luigi Borsari sottolineava la scelta, da parte del legislatore, di ricorrere, per individuare i vari atti di commercio, a vocaboli diversi («compre», «imprese», «operazioni», «convenzioni» ecc.), da cui si ricavava, in senso conforme all’impianto francese, che con il lemma «impresa» si fosse voluto designare un concetto specifico, non un singolo atto di commercio, ma un insieme di atti di commercio, un «complesso di operazioni», una «serie di fatti» inerenti a un’attività tipica (manifattura, trasporto, costruzione ecc.; L. Borsari, Codice di commercio del Regno d’Italia, 1868, p. 54, n. 31).
Ad appena tre anni dalla sua entrata in vigore, il Codice italiano diventava oggetto di un lungo processo di riforma, concluso nell’ottobre del 1882 con la pubblicazione del nuovo Codice di commercio, che manteneva fermo il sistema molecolare degli atti di commercio, ma tradiva chiaramente la necessità di estendere l’ambito di applicazione del diritto commerciale. In quest’ottica il legislatore, che confermava la scelta di collocare in principio l’enumerazione degli atti di commercio (artt. 3-6), disciplinava in maniera esplicita, ricalcando l’art. 277 dell’ADHGB, l’ipotesi di atti di commercio per parte di uno solo dei contraenti, stabilendo che si sarebbero applicate le disposizioni del Codice egualmente ad ambo le parti (art. 54). Adottava inoltre unicamente la formula «reputa atti di commercio», a differenza delle due impiegate nel Codice del 1865 («sono» e «reputa»), proprio a voler ribadire la natura meramente dimostrativa ed esemplificativa dell’enumerazione; espungeva la condizione della somministrazione dei materiali da parte dell’imprenditore affinché le imprese di fabbriche o di costruzioni potessero considerarsi commerciali (art. 3, n.7); aggiungeva le imprese editrici, tipografiche e librarie (art. 3, n. 10); ma soprattutto riconosceva natura commerciale agli immobili, attraendo nella sfera del diritto commerciale «le compre e le rivendite di beni immobili, quando siano fatte a scopo di speculazione commerciale» (art. 3, n. 3).
La scienza giuridica italiana, sulla falsariga di quella d’oltralpe, avrebbe cercato di allargare, facendo leva sulla natura dimostrativa dell’enumerazione legislativa, il perimetro degli atti di commercio e con esso la sfera di applicazione del diritto commerciale, indagando la natura giuridica di singole operazioni, ordinando e classificando le diverse categorie di atti, cercando un denominatore comune, un criterio in virtù del quale distinguere oggettivamente un atto di commercio da un atto civile. Oltre a una capillare e analitica ricostruzione di singole fattispecie atipiche, compiuta sulla scorta delle decisioni emesse dalle Corti di cassazione, si faceva strada un filone teorico volto a individuare gli elementi propri della categoria generale di atto di commercio. Nel presupposto che atto di commercio in senso giuridico fosse solo quello idoneo a realizzare un commercio in senso economico, Ulisse Manara (1858-1943) nel 1887 riteneva che atto di commercio fosse, insieme a quelli «connessi», «collegati», «dipendenti» o «accessori», ogni «intromissione fra produttori e consumatori direttamente rivolta ad effettuare od agevolare la circolazione delle ricchezze e fatta a scopo di lucro» (U. Manara, Gli atti di commercio secondo l’art. 4 del vigente Codice commerciale italiano, 1887, p. 40). Sarebbero state «la speculazione e la intermediazione lucrativa» a conferire commercialità a un atto, come osservava Eugenio Masè-Dari (1864-1961) approdando a una definizione di «atto obbiettivo di commercio» come
atto di intromissione fra produttori e consumatori, che, effettuando od agevolando la circolazione della ricchezza, procura un lucro all’intermediario e ricade sempre sotto la competenza e la giurisdizione commerciale per entrambe le parti contraenti (E. Masè-Dari, Atti di commercio, in Il Digesto italiano, 4° vol., 2a parte, 1893-1899, p. 202).
Nei casi in cui fosse stata contemplata dal Codice, pertanto, l’impresa, considerata dalla dottrina più avveduta nella sua natura di «organismo economico, che pone in opera gli elementi necessari per ottenere un prodotto destinato allo scambio, a rischio dell’imprenditore» (C. Vivante,Trattato di diritto commerciale, 1° vol., 19022, n. 63, p. 110), sarebbe rientrata nel diritto commerciale solo in ragione della sua funzionalità a un’attività di scambio e di intermediazione, al punto che le «imprese di manifattura», «di fabbrica e di costruzione», quelle editrici, tipografiche o librarie avrebbero teoricamente dovuto escludersi dalla sfera di applicazione del Codice di commercio, rientrandovi solo in quanto il legislatore aveva espressamente ravvisato in esse, oltre all’attività manifatturiera e tecnica, un’opera commerciale consistente nel vendere ai consumatori i prodotti realizzati (U. Manara, Gli atti di commercio secondo l’art. 4 del vigente Codice commerciale italiano, cit., pp. 54-55). Anche quando la nozione economica d’impresa risultava colta e trasferita sul piano giuridico, essa assumeva rilievo non già per il fatto in sé dell’organizzazione, ma in quanto presupposto funzionale alla realizzazione di un’attività (serie di atti) di scambio, di intermediazione, di commercio in senso stretto.
La progressiva affermazione di una struttura sociale complessa e solidaristica, dovuta ai processi di aggregazione e di associazione innescati dalle dinamiche del capitalismo organizzato, spostava l’asse dell’economia dall’individuo ai gruppi, dal commerciante alle comunità, dagli atti agli organismi, reclamando un diritto commerciale imperniato sulla dimensione collettiva e complessa dell’organizzazione imprenditoriale. Nel 1900, a tre anni dalla sua approvazione, entrava in vigore nella Germania guglielmina il nuovo Codice di commercio (HGB), con il quale, per la prima volta, il segno di riconoscimento della commercialità diventava l’esercizio di un’attività in forma commerciale, talché sarebbero stati commerciali tutti gli atti e i rapporti di ogni «Unternehmen» che avesse operato nel mercato commercialmente, cioè secondo le forme, le dimensioni e le logiche proprie di un’organizzazione imprenditoriale.
Cominciava, nella dottrina austro-tedesca, incoraggiata dagli indirizzi giusliberisti e sollecitata dal movimento del Wirtschaftsrecht, un itinerario riflessivo volto a rappresentare l’assetto produttivo del capitalismo industriale non più secondo le logiche dell’individuo e dei singoli atti di commercio, ma sulla base della nozione economica di «Unternehmen», di quel paradigma collettivo e complesso che designava, al di fuori di ogni chiave di lettura semplice, atomistica e individualistica, l’organizzazione unitaria di persone, competenze, energie e beni, materiali e immateriali, dai rapporti giuridici agli immobili, dal lavoro ai segreti di fabbrica, dai contratti alle macchine, dai diritti alle obbligazioni, dalla reputazione all’avviamento, riuniti e assemblati per il perseguimento del medesimo scopo economico. L’impresa dell’economia capitalistica, come struttura organizzativa della produzione di massa, era il fatto nuovo e centrale del capitalismo industriale: non si esauriva nell’esercizio, da parte di un proprietario, di atti di intermediazione singoli e separati, ma in un quadro unitario di contatti e contratti, in un’organizzazione stabile e permanente che includeva l’imprenditore e i lavoratori, il capitale, le macchine e i prodotti, i negozi, i rapporti giuridici, i segni distintivi, le invenzioni industriali.
Il messaggio lanciato dal laboratorio germanico coglieva per certi versi impreparata la scienza giuridica italiana che tuttavia, quasi sospinta dal decollo industriale, avrebbe moltiplicato gli sforzi concettuali, sempre più spesso impegnata, pur nella cornice obiettiva degli atti di commercio, a misurarsi con la nozione d’impresa. Proprio nel 1900 Ercole Vidari (1836-1916) confessava un certo disagio nel «badare ai singoli atti di commercio presi separatamente», mentre «ognun vede come la notizia dell’atto di commercio, disgiunta» a tacer d’altro da un’«organica ripetizione», non giovasse «ad illuminare la nozione del commercio». L’«autorevole esempio del nuovo Codice tedesco, il quale fa di se stesso null’altro, appunto, che il Codice dei commercianti» era sotto questo profilo «di molto conforto», ma poiché «un libro di dottrina» avrebbe necessariamente dovuto «tener conto di quanto stabiliscono le leggi», non restava che esporre «il sistema seguito» dal legislatore (E. Vidari, Corso di diritto commerciale, 1° vol., 19005, p. 25, nr. 34, pp. 29-34, nn. 37-43). Si confermavano, di conseguenza, la «piena importanza» e l’«altissima utilità pratica» della «teoria degli atti di commercio» (A. Arcangeli, Contributi alla teoria generale degli atti di commercio. La natura commerciale delle operazioni di banca, «Rivista del diritto commerciale», 1904, 1, p. 23), in seno alla quale, però, il concetto d’impresa, ancorché richiesto solo per sette delle ventiquattro fattispecie enumerate dall’art. 3, vedeva crescere il proprio peso specifico, ricevendo maggiori attenzioni, allungando la sua ombra sulle operazioni di banca e sulle assicurazioni, aspirando a una definizione generale.
L’impresa si caratterizzava per l’«organismo economico» che combinava «i fattori della produzione» (L. Bolaffio, Concetto dell’atto oggettivo di commercio e del commerciante, «Rivista del diritto commerciale», 1908, 2, p. 114), per il «complesso di affari di un determinato genere» (A. Scialoja, Osservazioni sull’'impresa' come atto obiettivo di commercio, «Il Foro italiano», 1908, 1, c. 157), per l’«esercizio di una attività economica complessa» (Montessori 1912, p. 505), per l’«intenzione, esternamente riconoscibile, di dedicarsi all’esercizio stabile e continuativo di determinati atti» (A. Arcangeli, Contributi alla teoria generale degli atti di commercio. La natura commerciale delle operazioni di banca, cit., p. 53), ma anche quando veniva in superficie, rilevando come presupposto di applicazione del diritto commerciale, rimaneva 'imprigionata' nel carattere obiettivo che le assegnava il Codice, con la conseguenza che a rientrare nella sfera del diritto commerciale non sarebbe stata né l’impresa in quanto tale, né tutti gli atti riconducibili a essa come soggetto organizzato, ma solo quelli che, compiuti in forma d’impresa, intesa nelle molteplici accezioni appena ricordate, fossero considerati dal Codice «atti di commercio» (spettacoli pubblici, contratti di trasporto, commissioni ecc.): «se l’esercizio professionale» – spiegava Scialoja – «si intendesse in senso subiettivo, tutti gli atti compiuti dall’imprenditore dovrebbero essere commerciali, per ciò solo che rientrano nell’esercizio dell’impresa», ma «dato il concetto di impresa secondo il nostro codice, per determinare la commercialità degli atti che rientrano nell’impresa, occorre tener di mira il fine economico, la specifica speculazione che l’impresa tende a realizzare», di modo che avrebbe dovuto seguirsi
un criterio puramente oggettivo, osservando se gli atti singoli compiuti dall’imprenditore siano o no intesi a realizzare o ad agevolare la speculazione, oggetto dell’impresa (A. Scialoja, Osservazioni sull’'impresa' come atto obiettivo di commercio, cit., c. 158).
Nel determinare quale fosse, sul piano giuridico, l’aspetto saliente dell’impresa che ne avrebbe giustificato, nelle sole fattispecie previste dal legislatore, l’inserimento fra gli atti di commercio, la cultura giuridica finiva con il privilegiare non già l’organizzazione, bensì lo scambio, l’interposizione, l’intermediazione nel lavoro. «Impresa», secondo Francesco Carnelutti (1879-1965), si aveva
per la combinazione di un acquisto e di una alienazione di lavoro a scopo di intermediazione: quando taluno acquista energia per alienar risultato di lavoro, come si compera merce per rivenderla, come si prende denaro a prestito per darlo a prestito.
Perciò «la figura della impresa» si sarebbe «armonicamente» fusa
nella quadruplice categoria dei veri e propri atti di commercio: intermediazione nello scambio (compera per rivendere), nel credito (operazioni di banca), nella collaborazione (impresa), nella assicurazione (assicurazione stricto sensu) (Carnelutti 1910, p. 758).
Fintantoché fosse rimasta agganciata alla prospettiva oggettiva degli atti di commercio, alla concezione mercantile del diritto commerciale e alla filosofia individualistica di un’economia proprietaria, l’impresa sarebbe stata costretta entro gli schemi dell’enumerazione codicistica, contemplata quale mero presupposto di commercialità di singoli atti predeterminati, dogmaticamente giustificata per la sua attitudine a realizzare non già la produzione, ma uno scambio. Quando Alfredo Rocco avrebbe cercato di raggiungere una classificazione e una definizione unitaria per l’atto di commercio, rifiutando la tradizionale distinzione fra «atti obiettivi» e «atti subiettivi», avrebbe senza esitazione colto «il fondamento della commercialità» nell’«attitudine» del singolo atto a realizzare una «intromissione fra produttori e consumatori», «una speculazione commerciale», «una funzione intermediaria», chiaramente riscontrabile nelle compre a scopo di rivendita e nelle operazioni di banca (credito), ma «meno semplice [...] rispetto a quel gruppo di atti che l’art. 3 qualifica come imprese (art. 3, nn. 6-10; 13 e 21)» (Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, «Rivista del diritto commerciale», 1916, 1, pp. 94-97).
Premesso, come già aveva fatto Scialoja, che «solo in questi ultimi anni l’attenzione degli studiosi» si era «rivolta verso» la nozione d’impresa, Rocco rifiutava sia l’opinione che, rifacendosi al concetto economico, si riferiva «all’organizzazione dei vari fattori della produzione», sia quella che vi ravvisava «una attività complessa, e quindi una ripetizione di atti singoli, che si rifletterebbe soggettivamente nell’intenzione di dedicarsi in modo stabile e continuativo ad una serie di affari dello stesso genere». La «commercialità» di tutte le «diverse categorie di atti, che la legge qualifica come imprese», stava invece nell’«impiego di lavoro altrui», nel farsi l’imprenditore «intermediario del lavoro» (pp. 97-98 e 100-02).
Non era l’organizzazione dei fattori di produzione, la combinazione spirituale di persone e beni, «l’elemento specifico, costitutivo dell’impresa, nel senso del codice», ma «il fatto della organizzazione del lavoro altrui». Si aveva «impresa», «secondo il codice», «e quindi si ha atto di commercio, solo quando la produzione è fatta mediante impiego di lavoro altrui, quando l’imprenditore, in altri termini, recluta il lavoro, lo organizza, lo invigila, lo retribuisce e lo dirige agli scopi della produzione», sicché mentre «le imprese del codice» erano «anche imprese economiche», «non tutte le imprese in senso economico» erano
anche imprese nel senso del codice, ma solo quelle, in cui l’elemento lavoro è dato, non già da chi cura la produzione, o almeno, non esclusivamente da lui, ma da collaboratori organizzati e pagati (pp. 105-06).
Alla luce di questo criterio, che consentiva di piegare anche le imprese previste dall’art. 3 alla logica atomistica e circolatoria del sistema oggettivo degli atti di commercio, Rocco poteva riepilogare, in qualche misura rifacendosi alla classificazione di Carnelutti, «le quattro categorie di atti intrinsecamente commerciali»:
1.° la compera di cose mobili per rivenderle o per locarle e le successive rivendite e locazioni: atti di interposizione nello scambio delle merci; nonché la compera per rivendere dei beni immobili e le successive rivendite: atti d’interposizione nello scambio degli immobili; 2.° le operazioni di banca: atti di interposizione nello scambio del denaro a credito; 3.° le imprese: atti di interposizione nello scambio del lavoro; 4.° le assicurazioni: atti d’interposizione nell’associazione, e quindi nello scambio del rischio (p. 111).
Poteva altresì aggiungere a questi «atti di commercio per loro intrinseca natura o atti di commercio costitutivi», gli «atti di commercio per connessione o accessori», divisi nei tre gruppi degli «atti dichiarati immediatamente commerciali dalla legge, per la loro normale connessione con un affare commerciale» (riporti, operazioni cambiarie, atti inerenti alla navigazione e depositi nei magazzini generali), «atti, la cui connessione con una attività commerciale è presunta» in ragione del fatto che sono compiuti da commercianti (art. 4) e «atti, la cui connessione con un affare commerciale deve essere dimostrata», come la compera e la vendita di quote o azioni, l’assicurazione di cose per l’assicurato, le operazioni di mediazione, i depositi, il conto corrente e l’assegno bancario, il mandato, la commissione. Poteva infine, desumendolo «non già, a priori, da più o meno vaghi criteri economici, ma a posteriori, dall’esame della legislazione positiva», elaborare un concetto unitario di atto di commercio come «ogni atto che realizza o facilita una interposizione nello scambio» (Ancora per una teoria degli atti di commercio, «Rivista del diritto commerciale», 1924, 1, pp. 124-25).
Grazie a questo processo argomentativo, basato sulla classificazione e sulla definizione, Rocco otteneva, pur mantenendosi all’interno del tradizionale impianto codicistico, la massima estensione possibile della sfera del diritto commerciale, perché sarebbe stato di commercio non solo ogni atto che avesse realizzato un’interposizione nello scambio, «qualunque sia lo scopo per cui la interposizione ha luogo, qualunque sia la persona che lo compie, e anche qualunque sia l’oggetto e la forma dello scambio», ma anche ogni altro atto accessorio o connesso, anche se non contemplato dal legislatore ma ricavato in via estensiva o analogica, come «la compera e la vendita di un’azienda commerciale» in analogia alla «compera e vendita di quote e di azioni» (pp. 125-16).
La realtà era che la collocazione dell’impresa al centro del sistema giuscommercialistico, preclusa da un impianto legislativo che discendeva dal primo Ottocento, era un fatto non più procrastinabile, conclamato del resto da quel complesso di leggi eccezionali, nate da un momento congiunturale ma destinate a diventare un elemento strutturale, che durante il primo conflitto mondiale avevano coniugato, all’insegna del diritto dell’economia, interessi privati, collettivi e pubblici. La grande industria implicava collegamenti dinamici e complessi, che trascendevano la statica e unilineare relazione tra proprietario e beni mobili; gravitava intorno a un’organizzazione unitaria, della quale gli atti, i contratti, i negozi e i rapporti erano semplici elementi, derivazioni fungibili, dipendenze logiche; retrocedeva lo scambio a momento secondario, conferendo al momento della produzione un ruolo di propedeutica prevalenza; risolveva in una cifra comunitaria la molteplicità degli interessi coinvolti nell’organizzazione produttiva.
Nei primi anni Venti, nelle riflessioni di Carlo Picchio (1888-1977) e di Leone Bolaffio (1848-1940), la nozione d’impresa, nonostante l’esplicita presa di distanza dal piano economico – «perché il punto di vista del diritto non è e non può essere lo stesso dell’economia» (C. Picchio, Contributo alla determinazione del concetto d’impresa secondo l’art. 3 del Codice di commercio, «Rivista del diritto commerciale», 1921, 1, p. 651) – sembra ormai definitivamente attestata sul concetto di «organizzazione, per lo scambio, dei fattori produttivi, col rischio inerente» (L. Bolaffio, Il diritto commerciale, 19222, p. 133), di
organizzazione sistematica di atti e di mezzi atta a determinare una serie notevole di rapporti giuridici ed aventi per scopo di fornire ad altri utilità di varia natura e nella quale l’imprenditore, assumendo ogni rischio sopra di sé, sostituisce ed elimina col rischio proprio quello che trarrebbe seco la ordinaria creazione o il diretto conseguimento delle utilità predette (C. Picchio, Contributo alla determinazione del concetto d’impresa secondo l’art. 3 del Codice di commercio, cit., pp. 663-64).
Eppure, ’diluita‘ fra gli atti di commercio, l’impresa sarebbe rimasta in una posizione di marginalità, relegata a mero presupposto di commercialità dei soli atti specificamente indicati dall’art. 3, senza «che un’impresa industriale, con oggetto assolutamente diverso dagli accennati, sia senz’altro, perché impresa, atto oggettivamente commerciale», con la conseguenza di non doversi considerare «commerciale l’impresa di fabbricare case per affittarle» o quella «dei proprietari di terra per vendere in comune i loro vini» (L. Bolaffio, Il diritto commerciale, cit., p. 135).
Sarebbero dunque servite, per infrangere le ultime misoneistiche resistenze, le dirompenti intuizioni di Lorenzo Mossa, il quale, forte della sua dimestichezza con la cultura germanica, della sua apertura alla dimensione economica e della sua disponibilità ad andare 'oltre' la «legge scritta» (I problemi fondamentali del diritto commerciale, «Rivista del diritto commerciale», 1926, 1, p. 238), avrebbe sostituito l’organizzazione ai singoli atti, la comunità all’individuo, l’impresa alla proprietà. L’impresa era l’asse portante della nuova economia, era organizzazione giuridicamente rilevante indipendentemente da ogni valutazione sul suo specifico oggetto, sul suo avere o no una funzione di intermediazione; legava capitale e lavoro, diritto del lavoro e diritto dell’impresa. Il diritto doveva volgersi a questa nuova realtà, abbandonare la «decrepita culla dell’atto di commercio» (L. Mossa, Contributo al diritto dell’impresa ed al diritto del lavoro, «Archivio di studi corporativi», 1941, p. 77), la prospettiva individualistica e dominicale, per dedicarsi alla teorizzazione dell’impresa, al momento organizzativo della produzione, all’organizzazione che «sta in primo piano nella successione e moltitudine degli atti, nel loro indirizzarsi allo scopo della produzione» (L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, 1° vol., Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, 1942, p. 178).
La concezione solidaristica e comunitaristica dell’impresa, la sua centralità quale fenomeno organizzativo complesso e collettivo, la cui paternità la scienza giuridica italiana avrebbe pacificamente riconosciuto a Mossa (F. Santoro-Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, «Rivista del diritto commerciale», 1942, 1a parte, p. 378; I. La Lumia, L’autonomia del nuovo diritto delle imprese commerciali, «Rivista del diritto commerciale», 1942, 1, p. 6), era in perfetta sintonia con l’ordinamento corporativo dello Stato fascista, nel quale «l’impresa assumeva gigantesca importanza» (L. Mossa, Contributo al diritto dell’impresa ed al diritto del lavoro, cit., p. 73), come nel 1927 confermava, proclamando «l’organizzazione privata della produzione [...] funzione di interesse nazionale», la VII dichiarazione della Carta del lavoro. Era una vera e propria «svolta storica del diritto commerciale», il riconoscimento del fatto che «l’organizzazione ad impresa» costituiva il tratto distintivo «dell’attività commerciale» (A. Asquini, Una svolta storica del diritto commerciale, «Rivista del diritto commerciale», 1940, 1, p. 510). Una svolta che il progetto di Codice di commercio del 1940 avrebbe fatto propria, sostituendo «al concetto di atto obiettivo di commercio quello soggettivo di attività organizzata (professionalmente) ad impresa» (A. Asquini, Codice di commercio in enciclopedia del diritto, in Enciclopedia del diritto, 7° vol., Milano 1960, p. 253), ma che sarebbe diventata diritto vigente solo con il Codice civile unificato del 1942, il cui libro V, intitolato «Del lavoro», recava in origine, a sottolineare l’intreccio fra categorie economiche e componenti sociali, il titolo «Dell’impresa e del lavoro».
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